Corte Costituzionale, sentenza 16 giugno 2023, n. 123
Va dichiarato inammissibile l’intervento spiegato dal Procuratore generale della Corte dei conti.
Vanno inoltre dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche) e, in via consequenziale, dell’art. 51, comma 7, primo periodo, dell’Allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 54, 97, 103, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Toscana, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
1.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Toscana, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, della legge n. 97 del 2001, in riferimento agli artt. 3, 24, 54, 97, 103, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., «nella parte in cui dispone, anche nell’ipotesi di estinzione del reato, che il procuratore regionale della Corte dei conti possa promuovere entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale solo “nei confronti del condannato” e consequenzialmente, nella parte in cui non prevede che il procuratore regionale della Corte dei conti “promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale” anche nel caso di “sentenza di estinzione del reato”, oltre che nel caso di “sentenza irrevocabile di condanna”».
Ancora in via consequenziale la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale, in riferimento ai medesimi parametri, dell’art. 51, comma 7, primo periodo, cod. giust. contabile, «nella parte in cui non prevede che “la sentenza di estinzione del reato”, oltre alla “sentenza irrevocabile di condanna, pronunciata nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché degli organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi a danno delle stesse” sia “comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato”».
1.1.– Il giudice a quo era stato investito della cognizione di una domanda di risarcimento del danno all’immagine di ANAS spa, promossa dal Procuratore regionale della Corte dei conti nei confronti di un dipendente di detto ente, condannato per il reato di cui all’art. 314, secondo comma, cod. pen., e a carico del quale era stata emessa, in sede di gravame, sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato.
1.2.– Secondo la tesi del procuratore contabile, tale sentenza avrebbe comportato «l’avvenuta verifica dell’assenza di cause di proscioglimento, ai sensi dell’articolo 129 del codice di procedura penale» e l’adozione di un «provvedimento giurisdizionale irrevocabile contenente una statuizione sulla sussistenza del reato e sulla responsabilità dell’imputato», integrando, così, il presupposto processuale richiesto per la proponibilità dell’azione di cui si tratta dalla norma censurata, pur abrogata, e tuttavia richiamata dall’art. 17, comma 30-ter, secondo periodo, del d.l. n. 78 del 2009, come convertito, modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), numero 1), del d.l. n. 103 del 2009, come convertito, che disciplina la figura del danno all’immagine della PA.
1.3.– Il Collegio rimettente esclude di poter addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate a fronte della chiarezza del dato letterale e in adesione ai principi espressi dalla Corte di cassazione sulla diversità strutturale della sentenza di proscioglimento per estinzione del reato (art. 129, cod. proc. pen.) rispetto a quella di condanna (art. 533 cod. proc. pen.).
Ciò posto, esso rileva che la differenza strutturale tra la sentenza di condanna, fondata sul canone dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio» di cui all’art. 533 cod. proc. pen., e quella di estinzione del reato, da adottarsi ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. ove manchi l’evidenza che «il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato», lascia comunque fermo, con riguardo alla seconda, l’accertamento del fatto dannoso integrativo del presupposto processuale all’azione, rivelando la irragionevolezza di una scelta legislativa diversa.
1.4.– Sospetta, pertanto, il giudice a quo che l’art. 7, comma 1, della legge n. 97 del 2001, ritenuto ratione temporis applicabile in ragione dell’epoca dei fatti, come richiamato dall’art. 17, comma 30-ter, secondo periodo, del d.l. n. 78 del 2009, come convertito, sia costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non considera la sentenza estintiva del reato come integrante il presupposto processuale per l’accertamento del danno allorquando vi sia stato un accertamento del reato in sede penale nel primo grado di giudizio, ma, per motivi dovuti al decorso del tempo, nel successivo grado il giudice abbia riscontrato la sopravvenienza della causa estintiva per prescrizione.
Tale previsione normativa si porrebbe in contrasto con «il combinato disposto dei precetti costituzionali rappresentati dall’articolo 3 (interpretato sia alla luce del canone di uguaglianza che di quello di ragionevolezza della limitazione) e dall’articolo 54 della Costituzione», in quanto, pur a fronte di condotte di pari disvalore tenute da soggetti titolari di pubbliche funzioni, determinerebbe conseguenze differenti in ragione del mero decorso del tempo «afferente a un diverso (ma connesso) procedimento».
Viene denunciato altresì il vulnus all’art. 24 Cost., per la compromissione della possibilità per la procura erariale di agire in giudizio per un credito risarcitorio in conseguenza di una irragionevole scelta legislativa, a fortiori per effetto di una lettura combinata dello stesso art. 24 Cost. con il principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, ultimo periodo, Cost.), facendosi dipendere l’esito dell’azione erariale, a fronte di condotte lesive dell’immagine della PA, da «un dato processuale estrinseco» che sfugge alla governabilità della parte pubblica ed attribuisce ulteriori conseguenze all’indebita protrazione del giudizio penale per l’imputato che si avvantaggia, insieme alla prescrizione, della non proponibilità dell’azione contabile.
Sarebbe violato inoltre l’art. 97 Cost., che tutela il buon andamento, anche finanziario, della pubblica amministrazione e costituisce il fondamento della risarcibilità del danno all’immagine della PA.
La previsione normativa censurata si porrebbe, infine, in contrasto con l’art. 103, secondo comma, Cost., da cui discende il principio dell’effettività della giurisdizione contabile, riconosciuto dall’art. 2 cod. giust. contabile.
Precisa, peraltro, il giudice a quo che il sospetto di illegittimità costituzionale riguarda, oltre al caso, rilevante nella specie, della prescrizione del reato nel giudizio di appello, successivamente alla sentenza di condanna di primo grado, la totalità delle ipotesi di estinzione del reato, le quali tutte presentano il medesimo modo di operare.
2.– In via preliminare deve dichiararsi l’inammissibilità dell’intervento del Procuratore generale della Corte dei conti.
I principi evocati a sostegno dell’ammissibilità, affermati nella giurisprudenza di questa Corte nei giudizi per conflitto di attribuzione tra enti, rivelano la loro estraneità e la conseguente loro irrilevanza nell’ipotesi in esame, relativa ad intervento spiegato in un giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
2.1.– Con riferimento a tale giudizio, questa Corte ha più volte avuto occasione di affermare che «la costituzione del pubblico ministero […] deve ritenersi inammissibile: infatti, nonostante al pubblico ministero debba riconoscersi la qualità di parte nel processo a quo, da un lato la peculiarità della sua posizione ordinamentale e processuale, dall’altro l’attuale disciplina (articoli 20, 23 e 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87; articoli 3 e 17 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale), che tiene distinti il “pubblico ministero” e le “parti”, inducono ad escludere la costituzione in giudizio di tale soggetto» (sentenza n. 361 del 1998).
Né le recenti modifiche delle Norme integrative hanno mutato tale disciplina.
E nemmeno è ravvisabile un nesso tra lo specifico rapporto dedotto nel giudizio a quo e l’attività istituzionale svolta dal Procuratore generale della Corte dei conti, idoneo a legittimarne l’intervento nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, secondo quanto stabilito dall’art. 4, comma 3, delle Norme integrative.
L’intervento è pertanto inammissibile.
3.– Ancora in via preliminare, occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, per la ritenuta carenza di motivazione relativa alla pretesa violazione dei parametri fatti valere nell’ordinanza di rimessione a sostegno delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
3.1.– L’eccezione è priva di fondamento.
I termini delle questioni sollevate sono, infatti, indicati nell’ordinanza di rimessione con sufficiente precisione, risultando così soddisfatto l’onere di individuazione dei parametri evocati e delle ritenute ragioni delle violazioni denunciate, secondo quanto costantemente richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: sentenze n. 123 del 2021, n. 240 del 2017, n. 219 del 2016), salvo quanto sarà rilevato nel prosieguo con riguardo al carattere ancillare delle censure riferite agli artt. 24, 54, 97, 111, secondo comma, e 103, secondo comma, Cost., rispetto a quella relativa all’art. 3.
4.– Quale ulteriore profilo di carattere preliminare si pone quello relativo alla individuazione, da parte del Collegio rimettente, delle disposizioni oggetto delle censure, ai fini dell’apprezzamento della rilevanza della questione.
4.1.– In particolare, va sottolineato che il denunciato art. 7, comma 1, della legge n. 97 del 2001, il quale prevedeva che «la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato», è stato abrogato dall’art. 4, comma 1, lettera g), dell’Allegato 3 al codice di giustizia contabile, a decorrere dal 7 ottobre 2016, e sostituito dall’art. 51, comma 7, dell’Allegato 1 allo stesso codice. Tale disposizione modifica il catalogo dei reati che costituiscono il presupposto sostanziale della proponibilità dell’azione di responsabilità per danno erariale, sostituendo ai reati propri commessi dai pubblici funzionari di cui agli articoli da 314 a 335 cod. pen. «i delitti commessi ai danni» delle pubbliche amministrazioni.
4.2.– Ciò posto, la valutazione prognostica del giudice a quo circa l’applicabilità della disposizione in questione alla fattispecie sottoposta al suo esame è adeguatamente motivata e quindi idonea a superare lo scrutinio “esterno” demandato a questa Corte (tra le molte, sentenze n. 189, n. 59 e n. 32 del 2021).
Essa è, infatti, plausibilmente ritenuta dal giudice a quo con riguardo all’epoca dei fatti e nella considerazione della natura “fissa”, o “statica”, del rinvio operato alla disposizione di cui si tratta dall’art. 17, comma 30-ter, secondo periodo, del d.l. n. 78 del 2009, come convertito, a mente del quale «le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97».
4.3.– D’altra parte, la circostanza che il richiamato art. 7, comma 1, sia stato sostituito dall’art. 51, comma 7, dell’Allegato 1 al codice di giustizia contabile non vale a qualificare in termini di non rilevanza la questione posta in ragione dei differenti contenuti delle due disposizioni destinate ad integrare il presupposto processuale di cui si tratta, individuato, come si è appena, chiarito, dalla prima di esse nella sentenza irrevocabile di condanna emessa in relazione ad uno dei reati propri di cui al Libro II, Titolo II, Capo I, cod. pen. e, dalla seconda, in quella emessa per i reati “a danno” della pubblica amministrazione.
Nella fattispecie in esame, invero, il dubbio è se, ai fini dell’integrazione del presupposto di azionabilità del danno all’immagine pubblica, insieme alla sentenza irrevocabile di condanna penale, valga anche quella di estinzione del reato, mentre non viene in rilievo il diverso estremo del “catalogo dei reati” diretto a circoscrivere, soggettivamente, la portata del primo.
La censura riferita alla norma investe, in particolare, le modalità attraverso le quali l’opzione legislativa di fondo di restringere quell’azionabilità – che come tale non viene messa in discussione – è stata «in concreto disciplinata» in fattispecie in cui «per il diverso assetto normativo ovvero per situazioni oggettivamente non dominabili, la durata del processo determini l’estinzione del medesimo».
5.– Nel merito, le questioni non sono fondate.
5.1.– Come già ricordato da questa Corte, la giurisprudenza contabile aveva inizialmente elaborato un modello di danno all’immagine della PA come danno erariale tutelabile con il rimedio risarcitorio, proponibile senza alcun limite particolare, né in riferimento al fatto generatore di responsabilità, né, tantomeno, con riguardo alla necessità di un preventivo accertamento del fatto in sede penale (Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Basilicata, sentenza 10 febbraio 1998, n. 28; sezione prima giurisdizionale centrale di appello, sentenza 28 giugno 1999, n. 209).
5.1.1.– Sulla premessa che il danno erariale all’immagine non è ricompreso nella materia della contabilità pubblica, per la quale soltanto vi è riserva costituzionale di giurisdizione della Corte dei conti (art. 103, secondo comma, Cost.), il legislatore è intervenuto con il già richiamato art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78 del 2009, come convertito, modificato, nella stessa data della legge di conversione, dall’art. 1, comma 1, lettera c), numero 1), del d.l. n. 103 del 2009, come convertito, contenendo la relativa nuova area di tale giurisdizione. La ricordata disciplina è stata poi ulteriormente modificata per effetto della successiva entrata in vigore del codice di giustizia contabile.
5.1.2.– Al riguardo, questa Corte ha avuto occasione di richiamare la peculiare connotazione che presenta la responsabilità amministrativa per danno erariale, in cui si inserisce quella da danno all’immagine della pubblica amministrazione, rispetto alle altre forme di responsabilità previste dall’ordinamento, connotazione che «deriva dalla accentuazione dei profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori (sentenze n. 453 e n. 371 del 1998)» (sentenza n. 355 del 2010).
A differenza di quanto accade per la responsabilità civile, quella amministrativa per danno erariale ha carattere strettamente personale; il relativo debito risarcitorio non è trasmissibile agli eredi salvo il caso dell’illecito arricchimento del dante causa e, conseguentemente, dell’indebito arricchimento anche degli stessi eredi (sentenza n. 371 del 1998). Ancora, la responsabilità di cui si tratta, come dianzi chiarito, è connotata da una funzione non esclusivamente ripristinatoria del patrimonio dell’ente pubblico, «nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza» (sentenze n. 203 del 2022 e n. 371 del 1998); il risarcimento che ne consegue è parziario e non solidale, assoggettato al potere riduttivo del giudice contabile ed integrato, quanto all’elemento soggettivo, dal dolo o dalla colpa grave (ancora sentenze n. 203 del 2022 e n. 371 del 1998).
5.1.3.– Questa Corte ha ritenuto la scelta che presiede alla configurazione della responsabilità erariale «costituzionalmente legittima proprio evidenziando che, per i pubblici dipendenti, la responsabilità per il danno ingiusto può essere oggetto di discipline differenziate rispetto ai principi comuni in materia (sentenza n. 453 del 1998)» (ancora sentenza n. 203 del 2022).
Il danno all’immagine trae origine dalla condotta del dipendente infedele che genera discredito nella collettività, determinando un pregiudizio che compromette il rapporto di fiducia e affidamento nelle istituzioni, nella percezione amplificata dal cosiddetto clamor fori o “diffusione mediatica” da parte dei mezzi di comunicazione, frequentemente connesso a tali condotte.
Il fondamento normativo della tutela dell’immagine della pubblica amministrazione si identifica, pertanto, nell’art. 97 Cost., cui i dipendenti pubblici e coloro che si trovano in un rapporto di servizio con l’amministrazione devono attenersi, elevando a rango costituzionale il valore dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa e quindi del prestigio dell’immagine della PA (sentenza n. 172 del 2005), da realizzarsi nell’adempimento dei doveri che gravano sul pubblico dipendente (art. 54 Cost.).
In questa prospettiva è pertanto «non […] manifestamente irragionevole ipotizzare differenziazioni di tutele, che si possono attuare a livello legislativo, anche mediante forme di protezione dell’immagine dell’amministrazione pubblica a fronte di condotte dei dipendenti, specificamente tipizzate, meno pregnanti rispetto a quelle assicurate alla persona fisica» (ancora, sentenza n. 355 del 2010).
5.2.– È nella cornice delle suesposte conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza costituzionale che vanno esaminate le odierne censure, riferite a norme dirette a porre limiti all’azionabilità del diritto al risarcimento del danno per lesione all’immagine della pubblica amministrazione, secondo la prospettazione del giudice rimettente.
5.3.– Dei plurimi parametri evocati a sostegno del sollevato dubbio di legittimità costituzionale, assume carattere centrale la dedotta irragionevolezza della previsione normativa in questione, che comprende, quale presupposto processuale di azionabilità da parte del PM contabile davanti alla Corte dei conti della domanda di danno pubblico all’immagine, le sole sentenze penali irrevocabili di condanna, con esclusione di quelle di estinzione del reato, precedute da sentenza di condanna in primo grado.
Le censure riferite agli ulteriori parametri in relazione ai quali si fa valere dal rimettente la violazione del diritto di difesa, dei doveri di disciplina ricadenti sui pubblici funzionari, della regola di governo dell’azione amministrativa, dell’effettività della giurisdizione contabile e della ragionevole durata del processo (artt. 24, 54, 97, 111, secondo comma, e 103, secondo comma, Cost.), si palesano prive di autonomia funzionale, e, dunque, parte integrante del dedotto vulnus all’art. 3 Cost., di cui seguono le sorti. Esse, infatti, non fanno che sostanzialmente riproporre sotto altra veste le doglianze riferite all’art. 3 Cost. nel duplice aspetto della disparità di trattamento e della irragionevolezza della scelta del legislatore, e, pertanto, ne seguono le sorti.
5.4.– Sotto il primo profilo, la Corte rimettente sottolinea come egualmente «disdicevoli» siano la condotta del dipendente cui sia conseguita una condanna penale e quella non perseguita per maturata prescrizione del reato, con la conseguente incoerenza del differente trattamento loro riservato in punto di proponibilità dell’azione erariale di danno all’immagine.
Vengono in valutazione gli argomenti portati a sostegno della assimilazione tra la sentenza di condanna (art. 533 cod. proc. pen.) e quella con cui il giudice penale si trovi a dichiarare l’estinzione del reato (art. 129 cod. proc. pen.), nel rilievo che, in via presupposta, il “fatto dannoso” sottostante all’azione erariale non sia destinato a venir meno “ontologicamente” per via della prescrizione del reato, effetto che sortirebbe invece all’adozione di una sentenza di assoluzione che escluda la sussistenza del fatto integrativo, anche, del danno contabile.
5.4.1.– La censura non è fondata.
5.4.1.1.– Il giudizio proprio del proscioglimento adottato ex art. 129, 2 comma, cod. proc. pen. – il quale prevede che, quando ricorra una causa di estinzione del reato, ma dagli atti risulti evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta – presuppone, come emerge dal tenore testuale della norma codicistica appena riportata, l’evidenza della prova della non colpevolezza dell’imputato, che deve emergere dagli atti, in modo a tal punto incontestabile che la valutazione del giudice finisca per appartenere più al concetto di “constatazione”, ossia della percezione ictu oculi, che a quello dell’“apprezzamento”, nella incompatibilità con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 maggio-15 settembre 2009, n. 35490).
La pronuncia di estinzione del reato presuppone, invece, soltanto la mancanza di cause evidenti per pronunciare la formula di merito, ma risulta del tutto priva di un accertamento della effettiva colpevolezza dell’imputato. La pronuncia di estinzione non risulta, dunque, idonea a superare la presunzione di innocenza dalla quale quegli è assistito.
5.4.1.2.– Non fondato è altresì l’ulteriore profilo di violazione del parametro dedotto, per il quale si censura il diverso trattamento riservato alla giurisdizione contabile rispetto a quella civile nei rapporti con l’accertamento proprio del giudice penale, per una pregiudizialità che si atteggerebbe come «fortissima» rispetto alla prima e che venuta meno, per il resto, lascia invece al giudice civile il potere di statuire sul risarcimento anche in caso di estinzione del reato.
Il principio dell’autonomia e del parallelismo che ispira nel vigente codice di procedura penale il rapporto tra giurisdizione civile e penale – di cui è chiara traccia, tra l’altro, nell’inefficacia del giudicato penale di assoluzione nel giudizio civile se il danneggiato ha esercitato azione civile ex art. 75, comma 2, cod. proc. pen., o nella irrilevanza delle cause estintive del reato agli effetti civili – e la diversa azionabilità cui risponde nella giurisdizione contabile l’illecito erariale sono espressione di sottese differenti rationes.
L’eterogeneità delle situazioni a confronto esclude la fondatezza della censura.
5.4.1.3.– Il parametro di cui all’art. 3 Cost. è ancora evocato a sostegno della denunciata irragionevolezza della scelta legislativa nella parte in cui il citato art. 17, comma 30-ter, non ricomprende la sentenza di estinzione del reato, per il correlato accertamento, tra il novero degli elementi di integrazione del discusso presupposto processuale.
La questione scrutinata ripropone sotto altra veste la medesima evidenza già vagliata da questa Corte, sicché resta identico l’esito di non fondatezza.
6.– Né rispetto alle questioni esaminate assume incidenza la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Rigolio contro Italia, del 9 marzo 2023, originata dal ricorso di un soggetto condannato in sede contabile per danno all’immagine della PA, nonostante il giudizio penale si fosse concluso in grado di appello con una sentenza di non doversi procedere per prescrizione, peraltro accompagnata da una condanna generica al risarcimento dei danni, dopo che in primo grado era stata pronunciata sentenza di condanna.
Tale pronuncia postula l’autonomia, dal punto di vista delle condizioni dell’azione, del giudizio innanzi alla Corte dei conti per responsabilità da danno alla immagine rispetto all’esito del processo penale all’interno di un quadro normativo nazionale in cui non figurava ancora la condizione di procedibilità che è oggetto della questione di legittimità costituzionale all’odierno esame, introdotta solo con l’art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78 del 2009, come convertito.
7.– Conclusivamente, le questioni devono essere dichiarate non fondate.