Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza 12 ottobre 2023, n. 41570
PRINCIPIO DI DIRITTO
Nel delitto di furto, il fine di profitto che integra il dolo specifico del reato va inteso come qualunque vantaggio anche di natura non patrimoniale perseguito dall’autore.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
1. La questione di diritto sottoposta alle Sezioni Unite è stata formulata nei seguenti termini: “Se il fine di profitto del reato di furto, caratterizzante il dolo specifico dello stesso, sia circoscritto alla volontà di trarre dalla sottrazione del bene una utilità di natura esclusivamente patrimoniale, ovvero possa consistere anche in un fine di natura non patrimoniale“.
1.1. Secondo il primo, maggioritario orientamento, la nozione di profitto non si identifica necessariamente con un’utilità patrimoniale alla quale tenda l’agente: in altri termini, in tema di furto, il fine di profitto, che integra il dolo specifico del reato, non richiede la volontà di trarre un’utilità patrimoniale dal bene sottratto, ma può anche consistere nel soddisfacimento di un bisogno psichico e rispondere, quindi, a una finalità di dispetto, ritorsione o vendetta (tra le numerose, v. Sez. 4, n. 4144 del 06/10/2021, dep. 2022, Caltabiano, Rv. 282605-01; Sez. 5, n. 11225 del 16/01/2019, Dolce, Rv. 275906-01; Sez. 4, n. 30 del 18/09/2012, dep. 2013, Caleca, Rv. 254372-01; Sez. 2, n. 40631 del 09/10/2012, Sesta, Rv. 253593-01; Sez. 5, n. 19882 del 16/02/2012, Aglietta, Rv. 252679-01).
Nel quadro di tale cornice si è ritenuto che il fine di trarre profitto dal bene della vita illecitamente acquisito si identifica nell’intenzione di conseguire una qualsiasi utilità, anche di natura esclusivamente personale e non economica. Il fine può ben consistere nell’appropriarsi per un periodo apprezzabile di tempo della cosa mobile altrui, anche se solo a scopo emulativo.
La limitazione della punibilità delle condotte di volontaria sottrazione ed impossessamento di cose mobili altrui alle sole ipotesi di sottrazione dettata da finalità economiche priverebbe di tutela penale il possesso delle cose mobili in caso di lesioni dettate da motivazioni non economiche, laddove invece il possesso di tali cose, per via della sua agevole possibilità di aggressione determinata dalla natura “mobile” di tali beni, comporta la necessità di una tutela completa e non circoscritta alle sole sottrazioni dettate da fini di locupletazione.
Secondo tale ricostruzione (recepita, ad es., da Sez. 4, n. 13842 del 26/11/2019, dep. 2020, Saraceno, Rv. 278865-01), una diversa interpretazione determinerebbe un restringimento eccessivo della tutela penale, come dimostrato dall’analisi di numerose ipotesi esemplificative, da inquadrare secondo l’indirizzo in esame – nel delitto di furto: “a) la sottrazione di un bene per poi successivamente distruggerlo, in caso di impossessamento protrattosi per un periodo di tempo apprezzabile, dovendosi considerare il danneggiamento conseguente all’amotio della res quale fatto non punibile; b) il furto nell’interesse della vittima (sottrazione per impedire che il bene sia carpito o distrutto da terzi; sottrazione di cose allo scialacquatore per impedirgli di dissiparle; sottrazione di alcool all’alcolizzato), talora considerato come ipotesi di assenza del fine di profitto e quindi non punibile per carenza di dolo specifico, da risolvere invece verificando l’eventuale operatività di una causa di giustificazione; c) il furto determinato da motivazioni emulative o affettive; d) la sottrazione di beni non commerciabili”.
Le medesime conclusioni sono sorrette, altresì, dal rilievo che “il reato di furto è reato contro il patrimonio, e non a vantaggio del patrimonio dell’agente, onde non possono non soggiacere alla previsione di cui all’art. 624 c.p. illegittime aggressioni al patrimonio altrui, sol perché queste, per autonoma decisione del soggetto attivo, non si risolvono in un corrispondente arricchimento del patrimonio dell’agente” (Sez. 2, n. 4471 del 12/02/1985, Bazzani, Rv. 169109-01).
1.2. Come è stato già sottolineato, l’orientamento espresso da alcune pronunce della Corte in epoca più recente è favorevole invece a circoscrivere la nozione di profitto.
Si è osservato che il fine di profitto integrante il dolo specifico del reato deve essere interpretato in senso restrittivo, ossia come possibilità di fare uso della cosa sottratta in qualsiasi modo apprezzabile sotto il profilo dell’utilità intesa in senso economico – patrimoniale, laddove il contrario orientamento si presta alla critica di “trascurare il dato letterale e sistematico dell’inserimento del furto nei delitti contro il patrimonio, che costituisce il bene/interesse tutelato dalla norma” e di determinare “un’eccessiva espansione della nozione di profitto estesa fino a raggiungere qualsiasi utilità soggettivamente ritenuta apprezzabile, arrivando ad identificare lo scopo di lucro previsto nella fattispecie astratta con la generica volontà di tenere per sé la cosa”, il che “può comportare, in definitiva, l’annullamento della previsione normativa, che implica la necessità del dolo specifico” (v., in questo senso, Sez. 5, n. 30073 del 23/01/2018, Lettina, Rv. 273561-01, che ha concluso per la non configurabilità del dolo specifico in una vicenda nella quale l’imputato aveva sottratto la borsa alla persona offesa, solo per finalità “di dispetto, di reazione o come modalità per mantenere il contatto con lei”; Sez. 5, n. 25821 del 05/04/2019, EI Sheshtawi, Rv. 276516-01, in un caso nel quale l’imputato aveva asportato due fusibili dalla scatola di derivazione elettrica di una saracinesca del magazzino dell’azienda dove lavorava e svolgeva attività di rappresentante sindacale, al fine di consentire ai colleghi di uscir fuori per porre in essere atti di protesta contro il datore di lavoro).
Muovendo nella stessa direzione argomentativa, Sez. 5, n. 40438 del 01/07/2019, Stawicka, Rv. 277319-02 (che si occupava di un caso nel quale gli imputati, a meri fini dimostrativi, si erano appropriati di un rilevante numero di cani di razza per sottrarli al regime di segregazione di uno stabulario) ha aggiunto che la ratio dell’incriminazione va individuata “non solo nella necessità di evitare l’impoverimento altrui, ma anche nell’esigenza di scoraggiare l’arricchimento, o, comunque, l’avvantaggiarsi, dell’agente derivante dalla ruberia”. Pertanto, una “onnicomprensiva nozione di profitto oggetto del dolo specifico del delitto di furto, che abbraccia indistintamente sia il vantaggio economico, sia l’utilità, materiale o spirituale, sia il piacere o soddisfazione che l’agente si procuri, direttamente o indirettamente, attraverso l’azione criminosa, tradisce la funzione selettiva e garantistica della tipicità penale, ampliando a dismisura la sfera del furto a discapito di quella del danneggiamento o estendendola a fatti non meritevoli di sanzione penale, pervenendo, in definitiva, ad un’interpretatio abrogans del detto elemento essenziale, degradato ad un profitto in re ipsa, coincidente con il movente dell’azione: movente che sempre esiste, non potendo concepirsi che un uomo agisca se non sospinto da un motivo”.
Le medesime conclusioni sono state raggiunte da Sez. 5, n. 26421 del 17/05/2022, E., Rv. 283531-01, che si è occupata di un caso nel quale la sottrazione alla persona offesa del telefono cellulare e degli occhiali era avvenuta per evitare la richiesta di intervento delle forze dell’ordine.
Si è osservato che il dolo specifico nel delitto di furto esprime uno scopo ulteriore rispetto al momento volitivo del reato e si proietta sul terreno della tipicità del fatto, ossia verso lo “spostamento patrimoniale” collegato alla sostituzione dell’agente alla persona offesa nella “signoria del bene sottratto, intesa come piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva” (Sez. U, n. 52117 del 17/07/2014, Prevete, Rv. 261186-01). Da tale premessa discende la non riducibilità del dolo specifico al mero movente, che si correla alla genesi della volontà colpevole nella personalità individuale, identificandosi nei motivi di fatto avuti di mira dall’agente (Sez. 6, n. 35277 del 20/10/2020, Moretti, Rv. 28016601). Ma soprattutto, nella prospettiva ricostruttiva di Sez. 5, n. 26421 del 17/05/2022, E., va esaltata la funzione del dolo specifico colta, nel caso in esame, rispetto ad altre possibili prospettive rilevanti (il requisito, infatti, a volte, come nei reati associativi, è funzionale a un’anticipazione della soglia di tutela penale, mentre in altri casi, quali, ad es., il sequestro di persona e sequestro a scopo di estorsione, segna il confine tra figure di reato limitrofe), nella finalità di ridurre l’ambito applicativo della fattispecie incriminatrice.
L’esigenza di valorizzare la dimensione patrimoniale della nozione di dolo specifico del furto si alimenta, nel percorso argomentativo di Sez. 5, n. 26421 del 17/05/2022, E., cit., di alcuni rilievi sistematici. In particolare, si osserva che l’orientamento maggioritario conduce ad identificare la nozione di profitto in quella di “vantaggio”, che ha, invece, una portata più ampia, potendo rivestire natura economica o anche soltanto morale (così, con riferimento al reato ex art. 490 c.p., Sez. 5, n. 31061 del 03/04/2008, Spedicato, Rv. 241164-01) e che il legislatore, come dimostra il comma 3 dell’art. 416-bis c.p., tiene distinta dalla prima. Accanto a tali profili, Sez. 5, n. 26421 del 17/05/2022, E., cit., aggiunge che un ulteriore profilo di tensione sul piano sistematico provocato dal primo orientamento sopra ricordato è rappresentato dall’ingiustificata contrazione dell’ambito di operatività di altre fattispecie incriminatrici, quali, in particolare, la violenza privata o il danneggiamento.
In definitiva, l’orientamento minoritario sin qui riassunto, riecheggiando le conclusioni della dottrina, ritiene che, allo scopo di preservare la funzione delimitatrice della tipicità, assegnata al dolo specifico, quale requisito di fattispecie, dalla teoria generale del reato, occorre che nel delitto di furto esso s’identifichi nella finalità del soggetto agente di conseguire un incremento della propria sfera patrimoniale eventualmente anche per la capacità strumentale del bene di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale, che si profila come fine ulteriore dell’azione (v., Sez. 5, n. 40438 del 01/07/2019, Stawicka, cit.; nello stesso senso Sez. 5, n. 26421 del 17/05/2022, E., cit., che sottolinea l’esigenza di offrire dell’elemento in questione un’interpretazione tassativizzante, in linea con i principi costituzionali che governano il diritto penale).
2. Ritengono le Sezioni Unite di aderire al primo orientamento sopra indicato.
2.1. Nel caso di specie, non sono evidentemente in discussione il principio di stretta legalità del diritto penale e la finalità garantistica assicurata dal monopolio legislativo nella definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante (art. 25, comma 2, Cost.; art. 49 Carta di Nizza; art. 7 CEDU), con le conseguenti ricadute sulle regole che devono orientare l’attività interpretativa dei precetti in materia penale.
Tuttavia, come ribadito dalla Corte costituzionale, sia pure nella prospettiva della verifica del principio di determinatezza della fattispecie incriminatrice (si veda, ad es., Corte Cost., sent. n. 172 del 2014), è ben possibile il ricorso ad una interpretazione integrata, sistematica e teleologica, per pervenire all’individuazione di un significato chiaro, intelligibile e preciso dell’enunciato normativo. In altri termini, secondo quanto osservato dalla dottrina che si è occupata dell’ermeneutica (in generale e di quella giuridica, in particolare), oggetto dell’interpretazione, per l’inevitabile vaghezza o ambiguità di senso delle singole parole, è l’enunciato (nella specie, normativo) considerato nel suo insieme e non la somma dei singoli termini che lo compongono. E, infatti, l’art. 12 preleggi chiarisce che, nell’applicare la legge, non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore. Ne discende, sul piano metodologico, che la connessione delle singole parole orienta l’interpretazione, al pari della finalità perseguita dal legislatore, nei limiti in cui, s’intende, essa si sia obiettivata nella formula normativa.
Certamente, come ribadito da Sez. U, n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020, Genco, Rv. 278054, non mass. sul punto, l’interpretazione non deve varcare la “linea di rottura” col dato positivo ed evadere da questo: solo in questi limiti, essa assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima. Sul tema la Corte costituzionale ha sottolineato (vedi, ad es., Corte Cost., ord. n. 243 del 2018) che il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, comma 2, Cost., assume una duplice direzione, perché non si limita a garantire, nei riguardi del giudice, la conformità alla legge dell’attività giurisdizionale mediante la produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate, ma assicura a chiunque “una percezione sufficientemente chiara ed immediata” dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta. D’altra parte, come si è sopra puntualizzato, l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del principio di determinatezza, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato, permettendo, al contempo, al destinatario della norma, di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo (v. anche Corte Cost., sent. n. 278 del 2019).
2.2. Ciò posto, si osserva che la scelta di circoscrivere la nozione di profitto all’ambito strettamente patrimoniale non può trovare fondamento in un significato univoco della parola “profitto” nel linguaggio comune; quest’ultima ricorre infatti in espressioni prive di qualunque correlazione con la sfera del lucro economico, finendo per identificarsi, come attestato nei dizionari di lingua italiana, in un giovamento o vantaggio, sia fisico che intellettuale o morale o pratico (si pensi, al trar profitto da una lezione o da una cura).
Correlativamente, sul piano strettamente giuridico è ricorrente nelle trattazioni dottrinali la consapevolezza di quanto incerte siano le nozioni di patrimonio, di danno e di profitto, che inducono ad estrema cautela nel valorizzare considerazioni meramente letterali.
D’altra parte, proprio la voce dottrinale alla quale si deve la nozione di profitto recepita dall’orientamento minoritario sopra menzionato, nel tracciare la nozione di patrimonio, dopo avere ripercorso le varie tesi prospettate dagli autori, indica la propria soluzione in una concezione giuridico – funzionale, personalistica ed economica che finisce per includere il complesso dei rapporti giuridici facenti capo ad una persona e aventi per oggetto cose dotate di funzione strumentale in quanto idonee a soddisfare bisogni umani, materiali o spirituali.
In definitiva, l’assenza, nella ricostruzione dei tratti caratteristici dei delitti contro il patrimonio, di profili semantici univocamente riconducibili ad utilità suscettibili di diretto apprezzamento economico, spiega per quale ragione il legislatore, nel costruire le fattispecie incriminatrici, avverta talora l’esigenza di ribadire con formule sovrabbondanti la finalità perseguita per non lasciare, in un cono d’ombra di incertezza interpretativa, talune condotte che intende sanzionare. In questo senso, si comprende l’assenza di reale portata euristica della formula dell’art. 416-bis, comma 3, c.p., che accomuna nella prospettiva incriminatrice i profitti e i vantaggi ingiusti. Nè, d’altra parte, il richiamo in altre fattispecie alla sola nozione di “vantaggio” (v., ad es., l’art. 490, comma 1, c.p.) è univocamente indicativa di una scelta, sia pure in ambito giuridico, di circoscrivere la nozione di profitto all’ambito lucrativo, una volta, si ripete, che nessun dato obiettivo vale a giustificare quest’ultima limitazione.
Peraltro, il sistema codicistico restituisce dati ermeneutici anche di segno contrario, come dimostra l’espressa menzione dello scopo di lucro in altre previsioni (art. 62, n. 4 c.p.; art. 481, comma 2, c.p.; art. 707 c.p.).
La riprova delle superiori considerazioni si trae da una risalente tradizione che, nel quadro dell’interpretazione dell’ambito applicativo dei delitti contro il patrimonio, contrappone la nozione di profitto a quella di lucro. Di tale tradizione si fa carico anche la relazione al progetto definitivo di un nuovo codice penale, nella quale si legge che “la esattezza della soluzione adottata discende dal concetto di profitto accolto dal Progetto, in conformità dei risultati della elaborazione dottrinale e giurisprudenziale relativi al contenuto di tale obbiettività del reato considerato dall’art. 402 del codice in vigore. “Trarre profitto”, si insegna, è procurarsi un vantaggio, a cui non si ha diritto (…).
2.3. Escluso, pertanto, che l’interpretazione raccolta dall’orientamento minoritario possa trovare fondamento in considerazioni di natura letterale, occorre confrontarsi con il rilievo secondo il quale una onnicomprensiva nozione di profitto oggetto del dolo specifico del delitto di furto, che vada ad abbracciare indistintamente sia il vantaggio economico, sia l’utilità, materiale o spirituale, sia il piacere o soddisfazione che l’agente si procuri, direttamente o indirettamente, attraverso l’azione criminosa, tradirebbe la funzione selettiva e garantistica della tipicità penale, ampliando a dismisura la sfera del furto a discapito di quella del danneggiamento o estendendola a fatti non meritevoli di sanzione penale, pervenendo, in definitiva, ad un’interpretatio abrogans del detto elemento essenziale, degradato ad un profitto in re ipsa, coincidente con il movente dell’azione: movente che sempre esiste, non potendo concepirsi che un uomo agisca se non sospinto da un motivo.
Infatti, l’orientamento maggioritario non elide affatto la funzione selettiva del dolo specifico, sol perché assume che il profitto perseguibile dall’autore della condotta non possiede necessariamente un connotato lucrativo.
In questo caso, posto che l’interpretazione del significato del dolo specifico deve necessariamente essere condotta, in assenza di indici letterali univoci, nel quadro del sistema dei delitti contro il patrimonio, appare evidente che la nozione di profitto non può che essere calibrata sul vantaggio che l’autore intende trarre dall’impossessamento. In altri termini, il profitto rilevante, quale connotato della specifica direzione della volontà che va a svolgere un’ulteriore funzione delimitatrice rispetto al mero profilo oggettivo della condotta di sottrazione e di impossessamento, è quello che, indipendentemente dalla sua idoneità ad essere apprezzato in termini monetari, viene tratto immediatamente dalla costituzione dell’autonoma signoria sulla res e non quello che può derivare attraverso ulteriori passaggi dall’illecito.
In questa prospettiva – e volendo esemplificare la portata della superiore precisazione in vista della delimitazione della portata applicativa del delitto del quale si tratta – si intende come appaia condivisibile l’approdo di Sez. 1, n. 4966 del 10/01/2017, Carnemolla, non mass., che ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna perché il fatto non costituisce reato in un caso nel quale l’imputato aveva spostato delle biciclette da un hangar in altro luogo della caserma all’esclusivo fine di dimostrare la superficialità delle modalità di custodia dei beni.
Nella stessa linea di pensiero si colgono gli esempi indicati dalla dottrina di colui che rubi per farsi espellere dal corpo militare nel quale era stato arruolato o per farsi mantenere in carcere, in cui il vantaggio non proviene immediatamente dall’impossessamento della cosa, ma dall’illecito commesso.
Peraltro, il profitto discende dall’impossessamento quando si correli alla conservazione, all’uso (e in tal senso è significativo che il legislatore configuri una species di furto correlato al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa: art. 626, comma 1, n. 1, c.p.), al godimento o al compimento di un qualunque atto dispositivo.
Invero, l’orientamento minoritario assume come centrale, dal punto di vista dell’accertamento del vantaggio perseguito dall’autore, una nozione di arricchimento patrimoniale o di spostamento patrimoniale, oggetto della volontà dell’autore, che, però, non definisce, nel senso che non indica quali siano i rapporti oggetto del patrimonio, ai fini che qui rilevano, nè quale sia il contenuto dello spostamento patrimoniale.
Sotto il primo profilo, infatti, occorre chiarire se il patrimonio comprenda o non anche rapporti aventi ad oggetto cose prive di un valore puramente economico (e la risposta tradizionalmente offerta dalla giurisprudenza è positiva e risalente: v., ad es., Sez. 1, n. 5818 del 10/04/1981, Marocco, Rv. 149332-01; Sez. 2, n. 2667 del 08/07/1980, Corucci, Rv. 146348-01, a proposito del furto di fogli per ricetta da un ospedale). Ora, se la risposta positiva vale per il titolare del bene aggredito non si riesce ad intendere per quale ragione – e specularmente – la nozione di patrimonio deva essere circoscritta, quando venga in rilievo l’incremento perseguito dall’autore della condotta, ai soli vantaggi che quest’ultimo pretenda di trarre dallo scambio del bene sottratto per un controvalore economico.
Venendo quindi al secondo profilo, ossia al significato dello spostamento patrimoniale, occorre verificare se sia rilevante, da parte dell’autore della condotta di impossessamento, il fine di trarre vantaggio anche dal mero uso del bene. Coerente con la superiore nozione di patrimonio, come insieme di rapporti giuridici aventi ad oggetto beni idonei a soddisfare bisogni umani non necessariamente materiali, appare, in questa prospettiva, la conclusione per la quale l’utilizzazione autonoma del bene, per qualunque fine, da parte dell’autore dello spossessamento, cui si accompagna l’impossibilità per il “detentore” di farne uso, vale a concretare un tipico atto espressivo di un diritto esclusivo, personale o reale, di godimento, la cui pertinenza al patrimonio dell’autore della condotta è incontestabile.
In sintesi, il profitto rilevante è quello che deriva dal possesso penalisticamente inteso, ossia dalla conservazione e dal godimento del bene. Ora chi distrugge, disperde, deteriora, rende in tutto o in parte inservibile un bene esercita senz’altro atti di dominio, ma ove questi siano fini a se stessi, il profitto che l’autore si ripromette discende da condotte che il legislatore tipizza rispetto ad altra fattispecie incriminatrice e non dal possesso della cosa.
È ben vero che la funzione delimitatrice del dolo specifico ne risulta in tal modo più ridotta, ma si tratta di un risultato pienamente coerente con la volontà del legislatore. La frammentarietà del diritto penale, invero, non può che essere ricostruita in base a valutazioni che devono essere saldamente ancorate all’interpretazione sistematica del complesso delle disposizioni incriminatrici e alla verifica dell’offensività delle fattispecie, quale ricostruita attraverso una analisi globale degli enunciati normativi.
D’altra parte, la completezza sistematica della ricostruzione accolta va apprezzata, al fine di evitare una risposta sanzionatoria sproporzionata, con la considerazione dell’istituto della particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis c.p., come riformulato dall’art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, D.Lgs. n. 10 ottobre 2022, n. 150, che fa rientrare nel perimetro di valutazione dell’istituto anche il furto monoaggravato. Si tratta di uno strumento importante con il quale il giudizio di equità ha fatto ingresso nel territorio dell’an della responsabilità; il legislatore ha infatti demandato alla discrezionalità del giudice il giudizio sulla “qualità” della responsabilità dell’imputato, consentendo di escludere l’applicazione della sanzione anche in ragione dell’innovativa previsione che assegna rilievo alla condotta susseguente al reato.
2.4. Le conclusioni appena raggiunte trovano ulteriore conferma in considerazioni di carattere sistematico, che traggono alimento dal consolidato e indiscusso orientamento di questa Corte, quanto alla nozione di profitto rilevante ai fini della configurabilità di altri delitti contro il patrimonio: e ciò a conferma della razionale correlazione del profitto con l’ampia nozione di patrimonio (in questo caso riguardato nella prospettiva dell’autore della condotta che si giova della sua azione). Si è così ritenuto che nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in ogni utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (tra le più recenti, si vedano Sez. 2, n. 23177 del 16/04/2019, Gelit Mugdat, Rv. 276104-01; Sez. 2, n. 11467 del 10/03/2015, Carbone, Rv. 263163-01; Sez. 2, n. 12800 del 06/03/2009, Vivian, Rv. 243953-01). Ad identiche conclusioni si è giunti in tema di ricettazione (Sez. 2, n. 45071 del 14/10/2021, Zaniolo, Rv. 282508-01).
2.5. Infine, la paventata confusione tra movente e dolo specifico rappresenta una questione non decisiva. Invero, essa tende a sovrapporre profili logicamente e giuridicamente distinti, posto che la componente naturalistica attiene in entrambi alla direzione psicologica della volontà, laddove ciò che caratterizza il dolo specifico è la selezione normativa di alcune finalità, in vista degli obiettivi di politica legislativa sopra ricordati. Ne discende che il dolo specifico non è che un movente normativamente qualificato, che si colloca al di là della coscienza e volontà del fatto.
2.6. Da ultimo, va rilevato che l’orientamento minoritario, sulla scia dell’opinione dottrinale cui si ispira, finisce per introdurre un elemento di scarsa linearità ricostruttiva. Esso, infatti, afferma che nel delitto di furto il dolo specifico s’identifica nella finalità del soggetto agente di conseguire un incremento della propria sfera patrimoniale eventualmente anche per la capacità strumentale del bene di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale, che si profila come fine ulteriore dell’azione.
La puntualizzazione finale, che, nell’impostazione dottrinale ispiratrice dell’orientamento disatteso, intende esaltare l’impostazione personalistica accolta e superare i difetti di tutela che scaturiscono dalla rilevanza assegnata ai soli vantaggi economici, in realtà, non delinea un elemento necessario del principio di diritto affermato. Infatti, una volta che si muova da una nozione restrittiva di profitto, sostanzialmente identificato nel lucro patrimoniale, gli ulteriori vantaggi eventualmente non patrimoniali perseguiti dall’autore restano confinati nell’area dei moventi irrilevanti, ai fini del perfezionamento della fattispecie incriminatrice. Da tale valutazione discende un’aporia che conduce a incerte soluzioni operative, proprio perché, per un verso, esclude la sussistenza del profitto in caso di vantaggi non patrimoniali (come l’avere agito per intento di vendetta, dileggio, disprezzo e così via) e, per altro verso, non riesce a spiegare quale utilità euristica assuma l’indicazione dei bisogni personali che l’impossessamento dovrebbe soddisfare.
3. Deve dunque essere enunciato il seguente principio di diritto: “Nel delitto di furto, il fine di profitto che integra il dolo specifico del reato va inteso come qualunque vantaggio anche di natura non patrimoniale perseguito dall’autore”.
4. Alla luce del principio di diritto appena enunciato, può procedersi all’esame del primo motivo di ricorso.
Esso è infondato.
Secondo l’accertamento operato dai giudici di merito, l’imputato ebbe a sottrarre il telefono cellulare alla persona offesa, dopo che quest’ultima aveva richiesto, utilizzando lo stesso apparecchio, l’intervento dei carabinieri. La Corte territoriale, sollecitata dall’atto di appello, ha osservato che la prospettazione difensiva, secondo la quale la condotta posta in essere era funzionale ad impedire alla donna di richiedere ai carabinieri di interrompere le intemperanze dell’uomo, era smentita in radice dal fatto che l’intervento era stato richiesto e che l’uomo si era anche allontanato portando con sé l’apparecchio. In questa cornice, la Corte territoriale ha ritenuto che la finalità perseguita dall’autore fosse di ritorsione e di dispetto: ciò che esclude il tema della riconducibilità del fatto alla fattispecie incriminatrice della violenza privata.
Ora, con riguardo alla ricostruzione del fatto, le critiche del ricorso, anche con riguardo all’esercizio della violenza attraverso la quale il telefono era stato sottratto dalle mani della vittima, sono di assoluta assertività e, in definitiva, aspirano ad una rivalutazione delle risultanze istruttorie preclusa in questa sede. Al riguardo, va ribadito (v., di recente, Sez. 5, n. 17568 del 22/03/2021, non mass.) che è estraneo all’ambito applicativo dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. ogni discorso confutativo sul significato della prova, ovvero di mera contrapposizione dimostrativa, considerato che nessun elemento di prova, per quanto significativo, può essere interpretato per “brani” nè fuori dal contesto in cui è inserito, sicché gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa. Sono, pertanto, inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio (Sez. 5, n. 8094 del 11/01/2007, Ienco, Rv. 236540-01; conf. ex plurimis, Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011, Carone, Rv. 250168-01). Così come sono estranei al sindacato della Corte di cassazione i rilievi in merito al significato della prova ed alla sua capacità dimostrativa (Sez. 5, n. 36764 del 24/05/2006, Bevilacqua, Rv. 234605-01; conf., ex plurimis, Sez. 6, n. 36546 del 03/10/2006, Bruzzese, Rv. 235510-01).
Alla stregua delle superiori considerazioni, una volta accertato che l’imputato mirava ad ottenere la disponibilità esclusiva del telefono cellulare, ossia di ampliare la propria sfera di potenzialità giuridica, correlativamente menomando quella della vittima, il carattere non direttamente lucrativo dell’obiettivo avuto di mira non vale ad escludere il fine di profitto richiesto dalla fattispecie incriminatrice.
5. Inammissibile è, invece, il secondo motivo, in quanto manifestamente infondato e, per alcuni profili, generico.
Al riguardo, va premesso che, in tema di furto, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del danno di particolare tenuità, l’entità del danno cagionato alla persona offesa deve essere verificata al momento della consumazione del reato costituendo la restituzione della refurtiva solo un post factum non valutabile a tale fine (Sez. 5, n. 19728 del 11/04/2019, Ingenito, Rv. 275922-01, in un caso nel quale il bene oggetto di furto era stato sottratto per breve tempo poiché recuperato, subito dopo la commissione del reato, dalle forze dell’ordine; nello stesso senso, v. anche Sez. 5, n. 13817 del 25/01/2017, Puggillo, Rv. 269731-01).
Posto, pertanto, che l’immediato intervento delle forze dell’ordine non incide sulla valutazione dell’entità del pregiudizio provocato, si osserva che del tutto assertivamente il ricorrente deduce il carattere obsoleto del telefono, in tal modo non riuscendo a scardinare la tenuta argomentativa della sentenza impugnata, nella parte in cui ha escluso che il pregiudizio cagionato sia stato lievissimo, ossia di valore economico pressoché irrisorio (Sez. 2, n. 5049 del 22/12/2020, dep. 2021, Sicu, Rv. 280615-01).
6. Alla pronuncia di rigetto consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.