Corte Costituzionale, sentenza 26 ottobre 2023, n. 192
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va considerato costituzionalmente illegittimo l’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988, n. 498, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 89 del 2023), il Giudice per le indagini preliminari [recte: Giudice dell’udienza preliminare] del Tribunale ordinario di Roma ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dall’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato», nonché dell’art. 420-bis, comma 3, dello stesso codice, «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato anche fuori dei casi di cui ai commi 1 e 2, quando ritiene provato che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento, dipende dalla mancata assistenza giudiziaria o dal rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato».
Impedendo di instaurare il processo per l’accertamento dei fatti di reato commessi in danno di Giulio Regeni, cittadino italiano, dottorando presso la Cambridge University, trovato senza vita il 3 febbraio 2016, in Egitto, lungo la Desert Road Cairo-Alessandria, le denunciate lacune normative violerebbero gli artt. 2, 3, 24, 111, 112 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura. […]
Circoscritte in rapporto alla fattispecie concreta e all’esigenza di contemperamento degli interessi ad essa sottesi, tali questioni sono fondate, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura.
7.– La tortura è un delitto contro la persona e un crimine contro l’umanità.
Essa è infatti proibita sia dal diritto internazionale penale, sia dalle norme internazionali sui diritti umani, con tale costanza e univocità da attribuire al divieto carattere inderogabile, ascrivendolo allo ius cogens di formazione consuetudinaria.
La Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, proclama, all’art. 5, che «[n]essun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani e degradanti».
Il Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, stabilisce, all’art. 7, che «[n]essuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico».
L’art. 3 CEDU afferma che «[n]essuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».
Lo Statuto della Corte penale internazionale, o Statuto di Roma, firmato il 17 luglio 1998, indica la tortura tra i crimini contro l’umanità (art. 7, paragrafo 1, lettera f), e, nonostante la dimensione collettiva che a questi crimini si addice, in quanto commessi nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, prevede la consumazione della tortura anche ai danni di una sola persona(«severe physical or mental pain or suffering upon one ormore persons»: Elements of Crimes, art. 7.1.f, punto 1).
7.1.– L’odierno rimettente richiama come parametro interposto, tramite l’art. 117, primo comma, Cost., la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984 (da ora in poi, anche: CAT, Convention Against Torture).
Ratificata sia dall’Italia, con la legge n. 498 del 1988, sia dall’Egitto, in data 25 giugno 1986, essa fornisce, al comma 1 dell’art. 1, la definizione di tortura: «[a]i fini della presente Convenzione, il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate».
Dal comma 2 dello stesso art. 1 si evince trattarsi di un minimum standard, che «non reca pregiudizio a qualsiasi strumento internazionale o a qualsiasi legge nazionale che contenga o possa contenere disposizioni di più vasta portata».
7.1.1.– Con l’indicazione quale soggetto attivo di «un agente della funzione pubblica» (cui è equiparata «ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito»), l’art. 1 CAT delimita la propria sfera applicativa alla cosiddetta tortura di Stato, verticale o propria, conformemente alla tradizione internazionalistica che reprime la tortura come abuso del potere pubblico.
Gli altri elementi costitutivi del crimine di tortura sono convenzionalmente specificati nella gravità delle sofferenze inflitte («forti») e nell’intenzionalità dell’inflizione, quest’ultima connotata nei termini del dolo specifico («al fine segnatamente di»), corrispondente alla nozione quadripartita di tortura “giudiziaria”, “punitiva”, “intimidatoria” e “discriminatoria”.
7.1.2.– Nell’ordinamento italiano il delitto di tortura, quale distinto titolo di reato, è stato introdotto dalla legge 14 luglio 2017, n. 110 (Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano), il cui art. 1, comma 1, ha inserito gli artt. 613-bis e 613-ter cod. pen., rispettivamente per la tortura e l’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.
Il legislatore nazionale ha inteso superare il minimum standard di cui all’art. 1 CAT, poiché l’art. 613-bis cod. pen. punisce anche la cosiddetta tortura privata, orizzontale o impropria (primo comma), stabilendo comunque un più severo trattamento sanzionatorio per la tortura commessa dal pubblico ufficiale (secondo comma), pur se quest’ultima non è rispetto all’altra reato circostanziato, ma reato autonomo (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 25 maggio-31 agosto 2021, n. 32380).
La posteriorità della legge n. 110 del 2017 rispetto al tempo di commissione dei fatti oggetto delle imputazioni di che trattasi non solleva un problema di retroattività in peius, in quanto tali imputazioni risultano formulate senza alcun richiamo alla fattispecie legale sopravvenuta, bensì – come non implausibilmente deduce l’ordinanza di rimessione – con la descrizione di «fatti sussumibili nella nozione di tortura data dall’art. l della Convenzione», i quali «erano punibili già nel febbraio 2016 in base alle norme incriminatrici specificate nella richiesta di rinvio a giudizio» (sequestro di persona, lesioni personali e omicidio, aggravati da sevizie, crudeltà e abuso di pubblico potere).
7.1.3.– Per evitare aree di impunità, l’art. 5 CAT ammette la doppia o tripla giurisdizione nazionale sui reati di tortura, che devono essere perseguiti sia dallo Stato territoriale del commesso delitto (comma 1, lettera a), sia dallo Stato del presunto autore (comma 1, lettera b), mentre è rimesso allo Stato di appartenenza della vittima stabilire se esercitare o meno la propria giurisdizione (comma 1, lettera c).
Tale opzione discrezionale è stata esercitata dalla legge n. 498 del 1988, il cui art. 3, comma 1, lettera b), stabilisce che è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia, lo straniero che commette all’estero in danno di un cittadino italiano un fatto costituente reato qualificabile come atto di tortura ex art. 1 CAT.
Risulta così integrata la previsione dell’art. 7, primo comma, numero 5), cod. pen., per cui è punito secondo la legge italiana lo straniero che commette in territorio estero un reato per il quale una speciale disposizione di legge o una convenzione internazionale stabilisca l’applicabilità della legge italiana.
Per l’accertamento in Italia degli atti di tortura inflitti al cittadino Giulio Regeni, la richiesta del Ministro della giustizia è intervenuta in data in data 23 marzo 2016, come riferisce l’ordinanza di rimessione.
7.1.4.– Ai sensi dell’art. 9, comma 1, CAT, gli Stati parte si «prestano l’assistenza giudiziaria più vasta possibile» in ogni procedimento penale inerente ai reati di tortura, inclusa «la comunicazione di tutti gli elementi di prova di cui dispongono e che sono necessari ai fini della procedura».
La comunicazione degli indirizzi degli indagati, funzionale alla notifica degli atti processuali, rientra evidentemente nel perimetro dell’assistenza «più vasta possibile».
8.– Nella giurisprudenza sull’art. 3 CEDU, la Corte di Strasburgo ha più volte distinto un aspetto procedurale («procedural aspect») del divieto di tortura e un aspetto sostanziale («substantive aspect»), potendo tale divieto essere violato non soltanto dalla materiale inflizione di sevizie e crudeltà, ma anche dall’omesso svolgimento di un’indagine effettiva e completa sulla denuncia di tortura, giacché, quando l’indagine riguarda accuse di gravi violazioni dei diritti umani, il “diritto alla verità” («the right to the truth») sulle circostanze rilevanti del caso non appartiene esclusivamente alla vittima del reato e alla sua famiglia, ma anche alle altre vittime di violazioni simili e al pubblico in generale, che hanno il “diritto di sapere cosa è accaduto” (Corte europea dei diritti dellʼuomo, grande camera, sentenza 13 dicembre 2012, El-Masri contro ex Repubblica jugoslava di Macedonia; poi Corte EDU, sentenze 31 maggio 2018, Abu Zubaydah contro Lituania, e 24 luglio 2014, Al Nashiri contro Polonia).
In altri termini, l’art. 3 CEDU esige una «efficient criminal-law response», senza la quale esso è violato nel «procedural limb», ancor prima che nell’aspetto sostanziale (Corte EDU, sentenza 16 febbraio 2023, Ochigava contro Georgia).
9.– L’aporia processuale denunciata dal rimettente rivela una lacuna ordinamentale, che non tarda a manifestare i tratti del vulnus costituzionale, non appena la si relazioni con la peculiarità giuridica del crimine di tortura.
Ferma la presunzione di non colpevolezza che assiste i quattro funzionari egiziani, non può negarsi che si siano determinate obiettivamente le condizioni di una fattuale immunità extra ordinem, incompatibile con il diritto all’accertamento processuale, quale primaria espressione del divieto sovranazionale di tortura e dell’obbligo per gli Stati di perseguirla.
9.1.– A prescindere dalle ragioni che l’hanno ispirata, la mancata comunicazione da parte dello Stato egiziano degli indirizzi dei propri dipendenti ha impedito finora, ed è destinata a impedire sine die, la celebrazione di un processo viceversa imposto dalla Convenzione di New York contro la tortura, in linea con il diritto internazionale generale.
L’impossibilità di notificare personalmente agli imputati l’avviso di udienza preliminare e la richiesta di rinvio a giudizio, quindi di portare a loro conoscenza l’apertura del processo, comporta infatti, sulla base dell’attuale quadro normativo interno, la necessità di emettere nei confronti degli stessi la sentenza inappellabile di improcedibilità, che, a sua volta, non potrà mai verosimilmente assolvere alla funzione secondaria di vocatio in iudicium, pure ad essa istituzionalmente spettante, e che anzi è destinata a divenire, con il trascorrere del tempo, irrevocabile per tre dei quattro imputati, giacché chiamati a rispondere di un reato prescrittibile, qual è il sequestro di persona.
9.2.– Lo statuto universale del crimine di tortura – poc’anzi illustrato sulla base delle dichiarazioni sovranazionali e dei trattati – è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana, messa al centro del preambolo della Convenzione di New York contro la tortura.
La denunciata lacuna normativa, precludendo l’accertamento giudiziale della commissione dei reati di tortura, offende quindi la dignità della persona, e ne comprime il diritto fondamentale a non essere vittima di tali atti; con la precisazione che, a sensi della direttiva (UE) 2012/29 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI, «vittima» è anche il familiare della persona la cui morte sia stata dal reato stesso direttamente causata (art. 2, paragrafo 1, lettera a, punto ii).
9.3.– Pertanto, la lacuna normativa denunciata dal rimettente viola l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura; ma viola anche l’art. 2 Cost., in quanto, impedendo sine die la celebrazione del processo per l’accertamento del reato di tortura, annulla un diritto inviolabile della persona che di tale reato è stata vittima. Invero, nello statuto eccezionale del crimine in questione, il diritto all’accertamento giudiziale è il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità.
9.4.– E ancora, la lacuna normativa censurata dal rimettente viola il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
Tale lacuna apre infatti irragionevolmente uno spazio di immunità penale, quale si riscontra in un quadro normativo che impedisce di compiere quegli stessi accertamenti giudiziali che sono stati previsti in sede pattizia; accertamenti tanto più necessari in quanto lo Stato italiano, in sede di ratifica della CAT, ha optato per l’esercizio della giurisdizione penale sui reati di tortura commessi all’estero in danno dei propri cittadini.
10.– Il diritto dell’imputato di presenziare al processo ha natura di diritto fondamentale, garantito dagli artt. 111 Cost. e 6 CEDU, innanzitutto attraverso la pienezza del contraddittorio.
In particolare, il terzo comma dell’art. 111 Cost., in sintonia con il paragrafo 3 dell’art. 6 CEDU, stabilisce che «[n]el processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo».
Come da questa Corte ricordato nella sentenza n. 65 del 2023, il diritto partecipativo dell’imputato è d’altronde funzionale all’esercizio della cosiddetta autodifesa, che è distinta e ulteriore rispetto alla difesa tecnica.
Il vulnus costituzionale prodotto dalla lacuna normativa in questione deve essere dunque ridotto a legittimità per linee interne al sistema delle garanzie, senza alcun sacrificio, né condizionamento, delle facoltà partecipative dell’imputato, ma unicamente con una diversa scansione temporale del loro esercizio.
Non si tratta d’altronde di una prospettiva estranea allo statuto europeo dell’assenza processuale.
11.– La direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali stabilisce che «[g]li Stati membri garantiscono che gli indagati e imputati abbiano il diritto di presenziare al proprio processo» (art. 8, paragrafo 1).
Gli Stati membri – aggiunge la direttiva – «possono prevedere che un processo che può concludersi con una decisione di colpevolezza o innocenza dell’indagato o imputato possa svolgersi in assenza di quest’ultimo, a condizione che: a) l’indagato o imputato sia stato informato in un tempo adeguato del processo e delle conseguenze della mancata comparizione; oppure b) l’indagato o imputato, informato del processo, sia rappresentato da un difensore incaricato, nominato dall’indagato o imputato oppure dallo Stato» (art. 8, paragrafo 2).
Inoltre, «[q]ualora gli Stati membri prevedano la possibilità di svolgimento di processi in assenza dell’indagato o imputato, ma non sia possibile soddisfare le condizioni di cui al paragrafo 2 del presente articolo perché l’indagato o imputato non può essere rintracciato nonostante i ragionevoli sforzi profusi, gli Stati membri possono consentire comunque l’adozione di una decisione e l’esecuzione della stessa», e «[i]n tal caso, gli Stati membri garantiscono che gli indagati o imputati, una volta informati della decisione, in particolare quando siano arrestati, siano informati anche della possibilità di impugnare la decisione e del diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, in conformità dell’articolo 9» (art. 8, paragrafo 4).
Vi è infatti, nell’economia della direttiva 2016/343/UE, un nesso teleologico tra il «diritto di presenziare al processo», di cui all’art. 8, e il «diritto a un nuovo processo», di cui all’art. 9, il cui coordinato obiettivo è che – ex ante o ex post – l’imputato abbia a disposizione tutte le facoltà partecipative.
Per l’art. 9, invero, «[g]li Stati membri assicurano che, laddove gli indagati o imputati non siano stati presenti al processo e non siano state soddisfatte le condizioni di cui all’articolo 8, paragrafo 2, questi abbiano il diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, che consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria», e «[i]n tale contesto, gli Stati membri assicurano che tali indagati o imputati abbiano il diritto di presenziare, di partecipare in modo efficace, in conformità delle procedure previste dal diritto nazionale e di esercitare i diritti della difesa».
11.1.– La decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002 relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri prevede l’esecuzione del mandato per condanna in absentia ove l’imputato sia informato del «diritto a un nuovo processo», che consenta di «riesaminare il merito della causa» e possa «condurre alla riforma della decisione originaria» (art. 4-bis, paragrafo 1, lettera d, punto i).
11.2.– La Corte di giustizia dell’Unione europea ha precisato ratio e condizioni della procedibilità in assenza, nella dialettica con il diritto dell’imputato a un nuovo processo di merito.
Ha quindi chiarito che la ripetizione in presenza di attività processuali, quale un’assunzione testimoniale anteriormente svolta in assenza, ha carattere ripristinatorio, nella prospettiva del nuovo processo garantito dalla direttiva 2016/343/UE (sentenza 13 febbraio 2020, in causa C-688/18, TX e altro).
Nell’interpretazione dell’art. 4-bis della decisione quadro 2002/584/GAI, la Corte di giustizia ha inoltre escluso che possa essere addotta, quale motivo di rifiuto dell’esecuzione di un mandato d’arresto europeo per una condanna emessa in absentia, l’incertezza sul fatto che lo Stato consegnatario garantirà il diritto al nuovo processo ex artt. 8 e 9 della direttiva 2016/343/UE, potendo in ogni caso l’imputato esigere l’attuazione di quest’ultima presso quel medesimo Stato (sentenza 17 dicembre 2020, in causa C-416/20, TR).
Di notevole importanza, in termini generali e per la fattispecie ora in scrutinio, è la sentenza della medesima Corte 19 maggio 2022, in causa C-569/20, IR, a tenore della quale gli artt. 8 e 9 della direttiva 2016/343/UE vanno interpretati nel senso che «un imputato che le autorità nazionali competenti, nonostante i loro ragionevoli sforzi, non riescono a rintracciare e al quale dette autorità non sono riuscite, per tale motivo, a comunicare le informazioni sul processo svolto nei suoi confronti, può essere oggetto di un processo e, se del caso, di una condanna in contumacia, ma deve in tale caso, in linea di principio, avere la possibilità, a seguito della notifica di tale condanna, di far valere direttamente il diritto, riconosciuto da tale direttiva, di ottenere la riapertura del processo o l’accesso a un mezzo di ricorso giurisdizionale equivalente che conduca ad un nuovo esame del merito della causa in sua presenza»; tale diritto può essere negato all’imputato solo «qualora da indizi precisi e oggettivi risulti che quest’ultimo ha ricevuto informazioni sufficienti per essere a conoscenza del fatto che si sarebbe svolto un processo nei suoi confronti e, con atti deliberati e al fine di sottrarsi all’azione della giustizia, ha impedito alle autorità di informarlo ufficialmente di tale processo» (punto 59).
Premesso quindi che il giudizio può celebrarsi in assenza solo se preceduto da «ragionevoli sforzi» delle autorità onde rintracciare l’imputato per le notifiche, tale decisione, invertendo l’onere della prova rispetto alla logica contumaciale, rimarca che l’imputato giudicato in assenza per impossibilità di rintraccio deve poter esercitare senza condizioni («in linea di principio») il diritto a un nuovo processo di merito, spettando alle autorità, che tale diritto intendano negare, addurre «indizi precisi e oggettivi» da cui risulti che l’imputato ha ricevuto sufficienti informazioni del processo.
È ben visibile la convergenza rispetto alla giurisprudenza di Strasburgo sul diritto dell’imputato alla «fresh determination of the merits of the charge», alla quale invero la sentenza della Corte di Lussemburgo fa esplicito riferimento (punti 51-53).
12.– In conclusione il vulnus costituzionale denunciato dal rimettente può e deve essere sanato mediante un riassetto delle garanzie partecipative dell’imputato, riassetto non qualitativo, né quantitativo, ma esclusivamente temporale, pur sempre all’interno del binario tracciato dalla disciplina dell’assenza, come sopra ricordata.
La fattispecie addizionale di assenza non impeditiva, che sia tale da evitare una paralisi processuale costituzionalmente e convenzionalmente intollerabile, deve essere comunque rispettosa del principio del giusto processo.
12.1.– Il rimettente censura i commi 2 e 3 dell’art. 420-bis cod. proc. pen., nel testo modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022, ma la sede propria dell’addizione che egli richiede, e che la Costituzione impone, va individuata specificamente nel comma 3, poiché questo disciplina, in funzione di chiusura del sistema («anche fuori dai casi di cui ai commi 1 e 2»), le ipotesi nelle quali l’assenza dell’imputato non è impeditiva pur in difetto di prova della sua «conoscenza della pendenza del processo».
Come già detto, le ipotesi attualmente indicate dal comma 3 dell’art. 420-bis riguardano la latitanza e ogni «altro modo» di volontaria sottrazione dell’imputato alla «conoscenza della pendenza del processo».
Si tratta di situazioni nelle quali l’ordinamento non considera impeditiva l’assenza malgrado la mancata «conoscenza della pendenza del processo», e che tuttavia postulano la conoscenza del procedimento, cioè dell’assunzione della qualità di indagato ex art. 335 cod. proc. pen.
Infatti, per sottrarsi «volontariamente» alla conoscenza della pendenza del «processo», e quindi alla notifica dell’atto di esercizio dell’azione penale, l’indagato sa di essere tale, pur ponendosi nelle condizioni di ignorare la vocatio in iudicium.
12.2.– Dalla vigente trama normativa emerge dunque che, in casi eccezionali, può procedersi nell’assenza di un imputato pur se non è provata la conoscenza da parte sua della pendenza del processo, ove sia certo che egli abbia conoscenza del procedimento.
Tra questi casi eccezionali deve trovare posto l’ipotesi oggetto delle questioni in scrutinio, perpetuandosi altrimenti, insieme alla lacuna normativa, il vulnus che essa infligge ai richiamati parametri costituzionali.
13.– Muovendo per linee interne al sistema, come preannunciato, la fattispecie addizionale di assenza non impeditiva deve replicare questa duplicità di piani, non potendo prescindere dalla conoscenza che l’imputato abbia del procedimento, e limitandosi a incidere sul piano ulteriore della conoscenza della chiamata a giudizio.
La fattispecie astratta si attaglia al caso concreto, come risulta dalla verifica esterna sulla motivazione dell’ordinanza di rimessione in punto di rilevanza.
L’ordinanza riferisce infatti che il provvedimento con il quale la Corte di assise di Roma ha annullato la dichiarazione di assenza dei quattro funzionari egiziani ha riconosciuto «la generica conoscenza, da parte degli imputati, dell’esistenza di un procedimento penale nei loro confronti per gravi reati in danno del ricercatore Giulio Regeni», pur «senza la dimostrazione con ragionevole grado di certezza di una conoscenza sufficiente dell’azione penale e delle accuse».
Tale valutazione della Corte di assise, in uno alla conseguente ordinanza di sospensione del GUP del Tribunale di Roma, è stata ritenuta immune da vizi nella ricordata sentenza della Corte di cassazione n. 5675 del 2023, la quale, essa pure, ha messo a tema la conoscenza non del procedimento, ma della vocatio in iudicium, in particolare enfatizzando che alcuni indizi di consapevolezza degli imputati fossero «precedenti all’esercizio dell’azione penale in Italia», quindi inidonei a garantire loro la conoscenza delle «precise cadenze del processo».
13.1.– È ben chiaro che l’ordinamento italiano ha registrato un progressivo spostamento del fuoco degli accertamenti di assenza dalla conoscenza del «procedimento» alla conoscenza del «processo».
Già con una prima sentenza, la Corte di cassazione aveva stabilito che non ostasse alla rimessione nel termine di impugnazione della sentenza contumaciale ex art. 175, comma 2, cod. proc. pen. la conoscenza dell’accusa evincibile dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari, viceversa esigendosi la conoscenza del processo tratta da un atto formale di vocatio in iudicium (sezioni unite penali, sentenza 28 febbraio-3 luglio 2019, n. 28912).
Ancora più incisivamente, una successiva pronuncia, relativa al valore indiziario dell’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio ai fini della dichiarazione di assenza ex art. 420-bis cod. proc. pen., vecchio testo, ha escluso la configurabilità di presunzioni di conoscenza del processo, giacché «[i]l fondamento del sistema è che la parte sia personalmente informata del contenuto dell’accusa e del giorno e luogo della udienza», ed è infatti questa – proseguiva la Corte riguardo alla modifica dell’art. 175 cod. proc. pen. – «la ragione per la quale il sistema, introducendo la regola di certezza della conoscenza del processo, ha escluso il diritto “incondizionato” al nuovo giudizio di merito in favore del soggetto giudicato in assenza» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 novembre 2019-17 agosto 2020, n. 23948).
Infine, dal raffronto tra il testo dell’art. 420-bis cod. proc. pen. anteriore al d.lgs. n. 150 del 2022 e quello dal decreto stesso modificato risulta evidente la traslazione del parametro della dichiarazione di assenza dalla «conoscenza del procedimento» alla «conoscenza della pendenza del processo».
13.2.– È tuttavia palese che l’estensione di tale avanzamento dei requisiti di procedibilità anche alla fattispecie ora in scrutinio determina la paralisi del processo fin dall’esordio, poiché la mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato rende impossibile notificare personalmente all’imputato stesso gli atti formali della vocatio in iudicium, lasciando all’irrilevanza che egli sia a conoscenza del procedimento penale.
Tale epilogo di radicale frustrazione del processo non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale, quando si risolve nella creazione di un’immunità de facto ostativa all’accertamento dei crimini di tortura.
Una simile immunità – come si è già detto – sarebbe infatti, ad un sol tempo, lesiva dei diritti inviolabili della vittima rispetto a un crimine estremo contro la dignità della persona (art. 2 Cost.); irragionevole a fronte del diritto-dovere rivendicato e assunto dalla Repubblica di perseguire tali misfatti (art. 3 Cost.); inosservante degli standard internazionali di tutela dei diritti umani, recepiti e promossi dalla CAT (art. 117, primo comma, Cost.).
14.– L’ordinanza di rimessione sollecita una pronuncia additiva non circoscritta per il titolo di reato.
La decisione di accoglimento va tuttavia delimitata in coerenza sia con i presupposti di rilevanza delle questioni come sopra individuati, sia con gli obblighi internazionali, che per il crimine di tortura giustificano una composizione delle garanzie partecipative nei termini di seguito precisati.
L’illegittimità costituzionale della denunciata lacuna normativa, e la necessità di emendarla tramite la richiesta pronuncia additiva, non concerne quindi ogni ipotetica fattispecie nella quale la notifica personale della vocatio all’imputato sia resa impossibile dalla mancata assistenza dello Stato di appartenenza, ma inerisce esclusivamente alle imputazioni di tortura, rispetto alle quali soltanto l’improcedibilità, nelle riferite condizioni, si traduce nella violazione degli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura.
La fattispecie addizionale costituzionalmente adeguata è dunque limitata al processo per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, CAT.
14.1.– Alla delimitazione oggettiva per il titolo di reato corrisponde una delimitazione soggettiva per la qualità dell’autore, che, ai sensi dell’art. 1, comma 1, CAT, è soltanto l’«agente della funzione pubblica», cui viene equiparata «ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito».
Tale delimitazione soggettiva assume una speciale valenza rispetto all’ipotesi in questione – cioè alla mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato –, atteso il vincolo che lega l’apparato pubblico ai propri funzionari.
15.– Come anticipato (supra, punto 12), il rilevato vulnus costituzionale può e deve essere sanato mediante un riassetto delle garanzie partecipative che risulti comunque rispettoso dei diritti fondamentali protetti dagli artt. 111 Cost. e 6 CEDU.
Con la formula sintetica enunciata dall’art. 9 della direttiva 2016/343/UE, occorre dunque fare salvo il «diritto a un nuovo processo», che, svolgendosi in presenza dell’imputato e a sua richiesta, «consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria» (supra, punto 11).
Nei termini stabiliti dalla giurisprudenza di Strasburgo, deve essere garantito all’imputato l’accesso incondizionato a «una nuova valutazione del merito dell’accusa» (punto 4 del Considerato in diritto).
Questo risultato, che sarà compito del giudice comune attuare nella concretezza dei singoli casi, è raggiungibile per effetto della riapertura del processo, cui l’imputato, nell’ipotesi in esame, ha diritto di pervenire in ragione dei presupposti stessi della sua assenza.
15.1.– La fattispecie addizionale di procedibilità in assenza, oggetto della presente decisione, consente infatti all’imputato di accedere senza limiti, né condizioni, al sistema rimediale congegnato dal d.lgs. n. 150 del 2022.
Si è evidenziato che questo ha una connotazione binaria, in quanto all’assenza erroneamente dichiarata dal giudice corrisponde un rimedio incondizionato di retrocessione del processo al momento in cui si è verificata la nullità, mentre all’assenza “ben dichiarata” è associato un rimedio condizionato per la restituzione nelle facoltà processuali la decadenza dalle quali l’imputato possa provare essere a lui non imputabile (supra, punto 4.4.4.).
Orbene, quella che viene qui in rilievo, che cioè non sia stata possibile la notificazione personale degli atti di vocatio in iudicium a causa dell’inerzia cooperativa dello Stato di appartenenza, è un’ipotesi in cui la prova di incolpevolezza dell’imputato deve ritenersi in re ipsa, risultando dagli stessi elementi costitutivi della fattispecie di assenza procedibile.
Tenuto all’oscuro della vicenda processuale da un factum principis (la condotta non cooperativa del proprio Stato di appartenenza), l’imputato, pur a conoscenza del procedimento, deve presumersi senza sua colpa ignaro delle cadenze del processo, e ha quindi libero accesso alla reintegrazione nelle facoltà processuali che ritenga di esercitare.
In altri termini, egli, conformemente ai canoni stabiliti dalla sentenza IR (supra, punto 11.2.), poiché irrintracciabile dalle autorità procedenti nonostante i loro «ragionevoli sforzi», può essere oggetto di un processo in assenza, ma può far valere «direttamente» il diritto a un nuovo processo che conduca al riesame del merito della causa in presenza, mentre è onere delle autorità stesse, che intendano negare la riapertura del processo, allegare «indizi precisi e oggettivi» dai quali risulti che l’imputato, nonostante l’atteggiamento non cooperativo del proprio Stato di appartenenza, «ha ricevuto informazioni sufficienti per essere a conoscenza del fatto che si sarebbe svolto un processo nei suoi confronti e, con atti deliberati e al fine di sottrarsi all’azione della giustizia, ha impedito alle autorità di informarlo ufficialmente di tale processo».
15.2.– Pertanto, anche qualora l’assenza oggetto dell’odierna additiva sia stata “ben dichiarata”, l’imputato può ottenere la restituzione nelle facoltà processuali, e ciò in ogni momento, semplicemente comparendo, anche prima della pronuncia di un’eventuale condanna, e quindi anche senza ricorrere a un’impugnazione.
Tale conclusione è comprovata dall’applicabilità, nell’ipotesi in esame, dei rimedi restitutori previsti dalle disposizioni del codice di procedura penale, le quali, con riferimento ai diversi stati e gradi del processo, implicano variamente che l’imputato dimostri di non aver avuto conoscenza del processo e di non essere potuto intervenire senza sua colpa per esercitare le relative facoltà.
Il richiamo va, in particolare, all’art. 420-bis, comma 6, in relazione alla possibilità di revoca dell’ordinanza dichiarativa dell’assenza; all’art. 489, comma 2-bis, lettera b), in relazione allo svolgimento dell’udienza preliminare; all’art. 604, comma 5-ter, lettera b), per il giudizio di appello; nonché all’art. 623, comma 1, lettera b-bis), con riguardo al giudizio di cassazione.
Ai medesimi presupposti, inoltre, è subordinata dall’art. 175, comma 2.1., cod. proc. pen. la restituzione nel termine di impugnazione della sentenza pronunciata in assenza, con l’ulteriore precisazione che, ai sensi del comma 2-bis del medesimo articolo, il termine di presentazione della relativa istanza dell’imputato decorre soltanto dalla conoscenza personale che egli abbia avuto della sentenza («effettiva conoscenza del provvedimento») ovvero, in caso di estradizione dall’estero, «dalla consegna del condannato» (la quale a sua volta presuppone la conoscenza personale della sentenza in esecuzione).
16.– La fattispecie di assenza in questione non comporta dunque alcun intervento sul quadro delle garanzie delineato dal d.lgs. n. 150 del 2022, viceversa ad essa applicabile tal quale, se non per la relevatio ab onere probandi di cui l’imputato si avvantaggia in ragione dell’oggettiva conformazione della fattispecie medesima.
D’altronde, attesa la manifesta violazione che ai principi costituzionali e sovranazionali viene da un’immunità per crimini di tortura, non può dirsi ostativa la riserva di discrezionalità del legislatore in ambito processuale, che pure questa Corte ha avuto modo di affermare anche riguardo ai meccanismi di notifica della vocatio e di svolgimento del processo in absentia (sentenza n. 31 del 2017).
17.– L’amplissima possibilità di riapertura e rinnovazione del processo spettante agli imputati nella fattispecie in esame, necessaria per la conformità alle prescrizioni degli artt. 111 Cost. e 6 CEDU, non riduce tuttavia il processo stesso a un simulacro.
L’accertamento dei crimini di tortura nelle forme pubbliche del dibattimento penale corrisponde a un obbligo costituzionale e sovranazionale, e già solo per questo non è mai inutile, ove anche circostanze esterne lo privino del contraddittorio dell’imputato.
All’imputato stesso, d’altronde, resta garantita ogni facoltà di far sentire la sua voce.
18.– Per tutto quanto esposto, deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, cod. proc. pen., per violazione degli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione medesima, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.
Restano assorbite le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 24, 111 e 112 Cost. […]