Corte Costituzionale, sentenza 24 novembre 2023, n. 209
Va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 103, commi 5 e 6, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, sollevata, in riferimento agli artt. 10, secondo comma, e 76 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, sezione prima, con l’ordinanza in epigrafe indicata.
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 4, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, sollevate, in riferimento agli articoli 3 e 35 Cost., dal TAR Umbria, sezione prima, con l’ordinanza in epigrafe indicata.
Vanno, inoltre, dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103, commi 5 e 6, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 97 e 113 Cost., dal TAR Umbria, sezione prima, con l’ordinanza in epigrafe indicata.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
1.– Con ordinanza del 1° febbraio 2023 (reg. ord. n. 21 del 2023), il TAR Umbria, sezione prima, dubita, in riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma, 35, 76, 97 e 113 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 103, commi 4, 5 e 6, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito.
1.1.– Il giudice rimettente espone di essere investito del ricorso proposto da un cittadino straniero, per l’annullamento del provvedimento con cui l’Ufficio territoriale del Governo di Perugia-Sportello unico per l’immigrazione ha rigettato la domanda di emersione, presentata in suo favore ai sensi dell’art. 103, comma 1, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, a causa della mancanza «di idonea capacità reddituale in capo al datore di lavoro [una società cooperativa] e [della] conseguente ritenuta inaccoglibilità della domanda di rilascio del permesso di soggiorno per attesa occupazione».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, il comma 4 del menzionato art. 103 si porrebbe in contrasto con i principi «di uguaglianza e di ragionevolezza» di cui all’art. 3 Cost. e con le «esigenze di tutela costituzionale del lavoro» di cui all’art. 35 Cost. La norma censurata infatti – non consentendo, nell’ipotesi di rigetto dell’istanza di emersione per difetto del requisito reddituale in capo al datore di lavoro, il rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione, «a differenza di quanto era accaduto per la c.d. “emersione del 2012”» – determinerebbe, pur «in presenza dell’avvio del rapporto di lavoro», un’«irragionevole pregiudizio per il lavoratore […] esclusivamente [per] fatti e condotte ascrivibili al datore di lavoro».
1.3.– I commi 5 e 6 del medesimo art. 103 lederebbero, invece, il principio di legalità sostanziale di cui agli artt. 97 e 113 Cost., in quanto il legislatore non avrebbe fissato alcun «criterio direttivo» per la definizione delle soglie minime di reddito del datore di lavoro ai fini dell’ammissione alla procedura di emersione, in materia coperta da riserva di legge relativa ex art. 10, secondo comma, Cost.
1.4.– Per le stesse ragioni, ad avviso del rimettente, le norme censurate sarebbero in contrasto con l’art. 76 Cost., perché, «laddove l’organo titolare del potere legislativo decida di delegare tale potere», al legislatore delegato, sia esso primario che secondario, «devono pur sempre essere imposti limiti all’esercizio della delega».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che, in via preliminare, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate, ritenendo che rientri nella discrezionalità del legislatore la scelta costituzionalmente non obbligata di subordinare a determinati requisiti la regolarizzazione dei rapporti di lavoro.
L’eccezione non è fondata, in quanto questa Corte è chiamata a rimuovere il denunciato vulnus costituzionale con una pronuncia che elimini il requisito di accesso alla procedura di emersione richiesto dalla norma censurata qualora ritenuto irragionevole, ovvero, in subordine, la disparità di trattamento rispetto alla disciplina dettata, per altra precedente procedura di emersione, dall’art. 5, comma 11-bis, del d.lgs. n. 109 del 2012, assunto a tertium comparationis dal giudice rimettente.
3.– Si è altresì costituito S. F., ricorrente nel giudizio principale, insistendo per la fondatezza delle questioni sollevate.
La costituzione della parte va dichiarata inammissibile, in quanto, essendo avvenuta con memoria depositata solamente il 13 ottobre 2023, è tardiva ai sensi dell’art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
4.– Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dall’ordinanza di rimessione riguardano una delle due procedure di regolarizzazione previste dall’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, la quale consente ai datori di lavoro di presentare domanda «per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri», soggiornanti in Italia prima dell’8 marzo 2020 e che non abbiano lasciato il territorio nazionale dopo quella data (comma 1).
L’instaurazione o la regolarizzazione del rapporto di lavoro è consentita, ai sensi del comma 6 del censurato art. 103, in presenza di determinati «limiti di reddito del datore di lavoro», la cui fissazione è demandata, dal medesimo comma 6, ad un decreto che il Ministro dell’interno deve adottare, in forza del precedente comma 5, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali ed il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali.
A tal fine, l’art. 9 del suddetto decreto, adottato il 27 maggio 2020, prevede, al comma 1, che l’ammissione alla procedura di emersione è condizionata all’attestazione del possesso, da parte del datore di lavoro, che può essere una persona fisica, un ente o una società, di un reddito imponibile o di un fatturato non inferiore a 30.000,00 euro annui.
Ai fini dell’«emersione di un lavoratore addetto al lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare o all’assistenza alla persona» – fattispecie che qui non viene in rilievo, vertendosi nel settore dell’«agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse» (art. 103, comma 3, lettera a) – è prescritto, invece, dal comma 2 del citato art. 9 il diverso limite di reddito non inferiore a «20.000,00 euro annui in caso di nucleo familiare composto da un solo soggetto percettore di reddito, ovvero [a] 27.000,00 euro annui in caso di nucleo familiare [composto] da più soggetti conviventi».
La mancanza del requisito reddituale in capo al datore di lavoro – che impedisce la positiva definizione della procedura di emersione – non consente neanche il rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione ai sensi dell’art. 22, comma 11, t.u. immigrazione; in quanto, ai sensi del comma 4 del censurato art. 103, ciò è possibile solamente «se il rapporto di lavoro cessa, anche nel caso di contratto a carattere stagionale».
5.– Con un primo gruppo di questioni, il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 103, commi 5 e 6, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, laddove demanda la fissazione dei «limiti di reddito del datore di lavoro richiesti per l’instaurazione del rapporto di lavoro» ad un decreto del Ministro dell’interno, da adottare di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali ed il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali.
5.1.– Ad avviso del TAR Umbria, la norma censurata violerebbe, in primo luogo, l’art. 76 Cost.
La questione è inammissibile perché il giudice a quo ha evocato un parametro manifestamente inconferente. Nella specie, infatti, non viene in rilievo alcuna delega legislativa, avendo la norma censurata rinviato, per la sua attuazione, a un decreto ministeriale (da ultimo, sentenza n. 150 del 2023).
5.2.– I commi 5 e 6 del menzionato art. 103 si porrebbero, altresì, in contrasto con il principio di legalità sostanziale di cui agli artt. 97 e 113 Cost., in quanto, in materia coperta da riserva di legge relativa ex art. 10, secondo comma, Cost., il legislatore non avrebbe fissato alcun «criterio direttivo» per la definizione delle soglie minime di reddito del datore di lavoro ai fini dell’ammissione alla procedura di emersione.
5.2.1.– In via preliminare, osserva questa Corte che, nella specie, non si verte in materia coperta dalla riserva di legge di cui all’art. 10, secondo comma, Cost., perché il procedimento per l’emersione dei rapporti di lavoro irregolari, previsto dal comma 1 del censurato art. 103, non regola la condizione giuridica dello straniero, ma pone una disciplina applicabile a prescindere dalla cittadinanza.
La questione sollevata in riferimento al menzionato art. 10, secondo comma, Cost. è, quindi, inammissibile in ragione dell’inconferenza del parametro invocato.
5.2.2.– Deve ora esaminarsi la censura di violazione degli artt. 97 e 113 Cost.
Va premesso che, nel nostro ordinamento, vige «il principio di legalità dell’azione amministrativa» (sentenza n. 195 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 45 del 2019, n. 69 del 2018, n. 115 del 2011, n. 32 del 2009 e n. 307 del 2003), desumibile dall’art. 97 Cost. (in tal senso, sentenze n. 195 del 2019 e n. 69 del 2018; la sentenza n. 45 del 2019 ne ravvisa il fondamento costituzionale, oltre che nell’art. 97 Cost., anche negli artt. 23, 103 e 113 Cost.).
Come ormai chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, peraltro, il principio di legalità «caratterizza, qualifica e limita tutti i poteri amministrativi» (sentenza n. 45 del 2019) e va letto non solo in senso formale, come attribuzione legislativa del potere, ma anche in senso sostanziale, «come determinazione del suo ambito, e cioè dei fini, del contenuto e delle modalità del suo esercizio» (sentenza n. 45 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 195 del 2019). Esso trova fondamento, come si è detto, nell’art. 97 Cost., laddove istituisce «una riserva di legge relativa, allo scopo di assicurare l’imparzialità della pubblica amministrazione, la quale può soltanto dare attuazione, anche con determinazioni normative ulteriori, a quanto in via generale è previsto dalla legge» (sentenza n. 115 del 2011).
Tuttavia, il principio di legalità sostanziale può ritenersi violato solamente qualora sia assente, o eccessivamente generica, la determinazione del presupposto di esercizio e del contenuto del potere conferito, in modo da dover escludere qualsiasi, «pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa» (sentenza n. 195 del 2019).
5.2.3.– Nel caso di specie – ancorché l’art. 103, comma 6, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, non indichi, espressamente e specificamente, i criteri per la fissazione dei limiti di reddito del datore di lavoro – detti criteri possono agevolmente desumersi dall’impianto complessivo dello stesso art. 103 e dalla disciplina dettata per le procedure di emersione da esso previste.
Dal citato art. 103 emerge, infatti, l’esigenza che venga data prova della «capacità economica del datore di lavoro» e della «congruità delle condizioni di lavoro applicate», a tutela sia dell’interesse pubblico ad evitare istanze di emersione elusive o fittizie, sia dell’interesse del singolo lavoratore assunto al rispetto del corretto trattamento retributivo e contributivo (comma 15). In tal senso depongono anche le disposizioni dettate dai commi 4 e 6 del medesimo articolo che fanno riferimento, la prima, alla retribuzione «prevista dal contratto collettivo di lavoro di riferimento stipulato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» e, la seconda, alla necessaria dimostrazione dell’attività lavorativa realmente svolta.
Il censurato art. 103 complessivamente considerato, dunque, non solo costituisce la base legale del potere interministeriale di determinare i limiti di reddito che devono sussistere in capo al datore di lavoro per l’accesso alla procedura di emersione e per la sua positiva definizione, ma lo delimita adeguatamente, indicando, in modo ragionevolmente sufficiente, i parametri a cui l’esercizio di detto potere deve conformarsi.
Il requisito reddituale deve, infatti, essere idoneo a garantire che il datore di lavoro abbia la capacità economica per instaurare, o regolarizzare, il rapporto di lavoro, assicurando al lavoratore assunto il corretto trattamento retributivo e contributivo.
Sottolinea inoltre questa Corte che il comma 6 dell’art. 103 demanda ad un decreto interministeriale la fissazione di un requisito che solamente l’autorità amministrativa può determinare, avvalendosi di dati tecnico-economici, come il costo del lavoro sotto il profilo retributivo, contributivo e fiscale.
Non si ha quindi, nella specie, il conferimento di un potere “in bianco”, indeterminato nel contenuto e nelle modalità, bensì l’attribuzione all’amministrazione del compito di dettare, in termini uniformi e generali per tutte le procedure di emersione, un requisito di carattere meramente tecnico, sulla base di ben specifici obiettivi da perseguire e di parametri a cui conformarsi.
Del resto, l’eventuale irragionevolezza dei limiti di reddito in concreto stabiliti, rispetto alle indicazioni legislative, può ben essere sindacata dal giudice amministrativo, mediante l’annullamento del decreto interministeriale stesso.
5.2.4.– Le questioni sollevate in riferimento agli artt. 97 e 113 Cost. non sono, dunque, fondate.
6.– Con un secondo gruppo di questioni, il rimettente dubita della legittimità costituzionale, in riferimento ai principi «di uguaglianza e di ragionevolezza» di cui all’art. 3 Cost. e alle «esigenze di tutela costituzionale del lavoro» di cui all’art. 35 Cost., dell’art. 103, comma 4, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, nella parte in cui non consente, nell’ipotesi di rigetto dell’istanza di emersione per difetto del requisito reddituale in capo al datore di lavoro, il rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione, «a differenza di quanto era accaduto per la c.d. “emersione del 2012”».
6.1.– La questione sollevata in riferimento all’art. 35 Cost. non è fondata.
Come già osservato da questa Corte, «qualora “i lavoratori extracomunitari siano autorizzati al lavoro subordinato stabile in Italia, godendo di un permesso rilasciato a tale scopo […] e siano posti a tal fine in condizioni di parità con i cittadini italiani […] essi godono di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori italiani” (sentenza n. 454 del 1998, relativa al caso di un extracomunitario aspirante al collocamento obbligatorio)» (sentenza n. 206 del 2006); il che non significa che il legislatore non possa subordinare la configurabilità stessa di un rapporto di lavoro con uno straniero, o la sua regolarizzazione, alla sussistenza di determinati requisiti, preposti alla tutela di ben precisi interessi pubblici e finalizzati a prevenire elusioni del sistema di ingresso e soggiorno per ragioni di lavoro degli stranieri sul territorio nazionale (in tal senso, da ultimo, sentenza n. 149 del 2023).
Il requisito di un limite minimo di reddito in capo al datore di lavoro è volto a garantire l’effettiva capacità economica dello stesso e la conseguente sostenibilità, da parte sua, del costo del lavoro, così tutelando proprio l’interesse del singolo lavoratore assunto, o regolarizzato, al rispetto del corretto trattamento retributivo e contributivo.
6.2.– Anche la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. non è fondata.
Il giudice rimettente lamenta che la mancata previsione, nel censurato art. 103 – a differenza di quanto previsto per la precedente procedura di regolarizzazione del 2012 – della possibilità per il lavoratore di conseguire il permesso di soggiorno per attesa occupazione, in caso di diniego del provvedimento di emersione per difetto del requisito reddituale da parte del datore di lavoro, sarebbe lesiva anche dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza e della violazione del principio di uguaglianza.
6.2.1.– Osserva questa Corte che l’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, «prevede un articolato procedimento per l’emersione dei rapporti di lavoro irregolari, anche con cittadini stranieri, nei settori dell’agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse, dell’assistenza alla persona e del lavoro domestico» (ordinanza n. 76 del 2022). Questo e, in genere, tutti i procedimenti per la legalizzazione del lavoro irregolare degli stranieri sono caratterizzati ciascuno dalla propria specificità e, nel dettare la loro disciplina, il legislatore gode di ampia discrezionalità, salvo il limite della manifesta arbitrarietà (sentenza n. 172 del 2012; nel senso della natura “speciale” della disciplina dell’emersione del lavoro irregolare e del relativo procedimento, anche sentenza n. 88 del 2023).
Aver limitato il rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione alle sole ipotesi in cui, per fatti sopravvenuti rispetto all’avvio della procedura di regolarizzazione, sia cessato il rapporto di lavoro e averlo, di conseguenza, escluso nei casi di difetto dei requisiti normativamente prescritti per conseguire la regolarizzazione stessa, e in particolare di quelli reddituali, non valica il limite della manifesta irragionevolezza. Il rilascio di un titolo di soggiorno temporaneo in caso di cessazione del rapporto di lavoro dopo l’emersione, infatti, consente, parallelamente a quanto accade nella procedura ordinaria, la concessione al lavoratore straniero, ormai regolarmente presente sul territorio nazionale, di un certo periodo di tempo per la ricerca di una nuova attività lavorativa (art. 22, comma 11, t.u. immigrazione). Tale rilascio presuppone, perciò, che si sia accertata la sussistenza, ab origine, dei requisiti di emersione, in assenza dei quali permane, per lo straniero, la condizione di irregolare.
La previsione di un reddito minimo del datore di lavoro, inoltre, assolve alla funzione di prevenire elusioni del sistema di emersione del lavoro irregolare, assicurando la sostenibilità del costo del lavoro per garantire il rispetto dei diritti del lavoratore sotto il profilo retributivo e contributivo, nonché per evitare domande strumentali alla regolarizzazione di rapporti lavorativi “fittizi”, volti solamente a far conseguire allo straniero un titolo di soggiorno. Non deve trascurarsi, infatti, che l’emersione del lavoro “nero”, nel caso di cittadini stranieri, si intreccia alla regolarizzazione della loro presenza in Italia, come chiarito nella recente sentenza n. 149 del 2023.
Nella medesima sentenza, questa Corte ha sottolineato come l’emersione del lavoro svolto “in nero” «persegue uno scopo socialmente apprezzabile, a tutela, oltre che delle parti del singolo rapporto di lavoro, dell’interesse pubblico generale, in particolare della regolarità e trasparenza del mercato del lavoro». Ciò non esclude, però, che sia necessario «prevenire eventuali elusioni del sistema di emersione del lavoro irregolare»; a tal fine il legislatore può porre dei «requisiti, oggettivi e soggettivi, […] per accedere alla procedura di regolarizzazione», tra cui rientra indubbiamente il possesso di un requisito reddituale.
In conclusione, non è ravvisabile alcuna intrinseca contraddittorietà tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore – che attiene «tanto alla tutela del singolo lavoratore quanto alla funzionalità del mercato del lavoro in un contesto d’inedita difficoltà» (sentenza n. 149 del 2023) – e la norma censurata, la quale dunque non lede il principio di ragionevolezza.
6.2.2.– Ad avviso del TAR rimettente, quest’ultima determinerebbe altresì un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina dettata, per altra procedura di emersione, dal già menzionato art. 5, comma 11-bis, del d.lgs. n. 109 del 2012, sul presupposto che questa disposizione consentisse il rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione anche nel caso in cui il datore di lavoro fosse privo del requisito reddituale.
In disparte la correttezza del presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo – presupposto «controverso e, anzi, contestato dalla giurisprudenza amministrativa maggioritaria» (sentenza n. 150 del 2023) – questa Corte ricorda che i procedimenti per la legalizzazione del lavoro irregolare degli stranieri, attesa la loro natura eccezionale, sono caratterizzati ciascuno dalla propria specificità e dalla propria disciplina, discrezionalmente stabilita dal legislatore (sentenze n. 88 del 2023 e n. 172 del 2012).
Nella specie, inoltre, le due procedure di emersione messe a confronto dal giudice a quo sono ben distinte sia con riferimento all’ambito applicativo, sia con riferimento alle finalità specificamente perseguite. La procedura del 2020, infatti, riguarda due forme di regolarizzazione – l’assunzione di lavoratori stranieri o la dichiarazione di sussistenza di rapporti lavorativi irregolari, da un lato, e la concessione di permessi di soggiorno temporaneo per gli stranieri il cui titolo di soggiorno è scaduto, dall’altro – e la sua ratio «andava ravvisata nella necessità di rendere più efficaci le azioni di contenimento e contrasto alla diffusione del COVID-19, salvaguardando la salute pubblica e, contemporaneamente, sostenendo le famiglie e i settori produttivi gravemente colpiti dalla carenza di lavoratori disponibili a causa dell’emergenza pandemica» (sentenza n. 150 del 2023).
Le procedure di emersione del 2012 e del 2020 sono, quindi, differenti per presupposti applicativi e finalità perseguite; proprio la non omogeneità delle situazioni normative messe a confronto esclude che la lamentata diversità di disciplina per esse dettate, in tema di rigetto della dichiarazione di emersione per difetto del requisito reddituale in capo al datore di lavoro, integri una lesione dell’art. 3 Cost.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, infatti, si è in presenza di una violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento solamente qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis, sentenze n. 171 del 2022, n. 172 e n. 71 del 2021, n. 85 del 2020, n. 13 del 2018 e n. 71 del 2015).
7.– Per le ragioni sopra esposte, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 103, commi 5 e 6, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. va dichiarata inammissibile; le questioni di legittimità costituzionale del medesimo 103, commi 4, 5 e 6, sollevate in riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma, 35, 97 e 113 Cost., vanno dichiarate non fondate.