<p style="text-align: justify;"><strong>CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 15 marzo 2019 n. 50</strong></p> <p style="text-align: justify;">La giurisprudenza costituzionale ha già chiarito che «entro i limiti consentiti dall’art. 11 della direttiva 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE (Direttiva del Consiglio relativa allo status di cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo), cui ha conferito attuazione il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 […], e comunque nel rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo assicurati dalla Costituzione e dalla normativa internazionale, il legislatore [può] riservare talune prestazioni assistenziali ai soli cittadini e alle persone ad essi equiparate soggiornanti in Italia, il cui status vale di per sé a generare un adeguato nesso tra la partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica, e l’erogazione della provvidenza» (sentenza n. 222 del 2013); ne segue che la Costituzione impone di preservare l’uguaglianza nell’accesso all’assistenza sociale tra cittadini italiani e comunitari da un lato, e cittadini extracomunitari dall’altro, soltanto con riguardo a servizi e prestazioni che, nella soddisfazione di «un bisogno primario dell’individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale» (sentenza n. 222 del 2013), riflettano il godimento dei diritti inviolabili della persona, per questa parte la prestazione non atteggiandosi tanto a componente dell’assistenza sociale (che l’art. 38, primo comma, Cost. riserva al «cittadino»), quanto un necessario strumento di garanzia di un diritto inviolabile della persona (art. 2 Cost.). Stante la limitatezza delle risorse disponibili, al di là del confine invalicabile appena indicato, rientra dunque nella discrezionalità del legislatore graduare con criteri restrittivi, o financo di esclusione, l’accesso dello straniero extracomunitario a provvidenze ulteriori: per esse, laddove è la cittadinanza stessa, italiana o comunitaria, a presupporre e giustificare l’erogazione della prestazione ai membri della comunità, viceversa ben può il legislatore esigere in capo al cittadino extracomunitario ulteriori requisiti, non manifestamente irragionevoli, che ne comprovino un inserimento stabile e attivo, in tal modo, le provvidenze divenendo il corollario dello stabile inserimento dello straniero in Italia, nel senso che la Repubblica con esse ne riconosce e valorizza il concorso al progresso della società, grazie alla partecipazione alla vita di essa in un apprezzabile arco di tempo.</p> <p style="text-align: justify;">La titolarità del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, diversamente dalla mera residenza legale in Italia, è subordinata a requisiti (la produzione di un reddito; la disponibilità di un alloggio; la conoscenza della lingua italiana: art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998) che sono in sé indici non irragionevoli di una simile partecipazione; essa perciò rappresenta l’attribuzione di un peculiare status che comporta diritti aggiuntivi rispetto al solo permesso di soggiorno, consentendo (art. 9, comma 12, del d.lgs. n. 286 del 1998) di entrare in Italia senza visto, di svolgervi qualsiasi attività lavorativa autonoma o subordinata, di accedere ai servizi e alle prestazioni della pubblica amministrazione in materia sanitaria, scolastica, sociale e previdenziale, e di partecipare alla vita pubblica locale; il permesso di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, che ha durata indeterminata, consente l’inclusione dello straniero nella comunità nazionale ben distinguendo il relativo status dalla provvisorietà in cui resta confinato il titolare di permesso di soggiorno di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 286 del 1998. Non è perciò né discriminatorio, né manifestamente irragionevole che il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo sia il presupposto per godere di una provvidenza economica, quale l’assegno sociale, che si rivolge a chi abbia compiuto 65 anni di età: tali persone ottengono infatti, alle soglie dell’uscita dal mondo del lavoro, un sostegno da parte della collettività nella quale hanno operato (non a caso il legislatore esige in capo al cittadino stesso una residenza almeno decennale in Italia), che è anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.).</p> <p style="text-align: justify;">Rientra nella discrezionalità del legislatore riconoscere una prestazione economica al solo straniero, indigente e privo di pensione, il cui stabile inserimento nella comunità lo ha reso meritevole dello stesso sussidio concesso al cittadino italiano, onde sotto nessun profilo può ritenersi violato l’art. 3 Cost. con riferimento a quegli stranieri che invece tale status non hanno.</p> <p style="text-align: justify;">Non si palesa convincente il rilievo, secondo il quale sarebbe manifestamente irragionevole subordinare il conseguimento dell’assegno sociale al possesso del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, posto che quest’ultimo viene ottenuto solo se si ha un reddito di importo pari all’assegno sociale stesso: non è infatti detto che lo straniero, una volta conseguito il permesso di soggiorno di lunga durata, che è di regola permanente (art. 8 della direttiva 2003/109/CE), sia poi in grado di preservare le condizioni economiche che glielo hanno consentito; in tali casi, la vocazione solidaristica dell’assegno sociale torna a manifestarsi, in quanto esso soccorre chi, nonostante l’ingresso stabile nella collettività nazionale, sia poi incorso in difficoltà che ne hanno determinato l’indigenza; è di tutta evidenza che l’assegno sociale, in questi casi, presuppone la perdita di quel reddito la cui esistenza aveva concorso al perfezionamento dei requisiti per l’ottenimento del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.</p> <p style="text-align: justify;">Un obbligo costituzionale di attribuire l’assegno sociale allo straniero privo della (ex) carta di soggiorno non può assumersi derivare dall’art. 12 della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, che, ai fini della equiparazione dei cittadini stranieri extracomunitari ai cittadini italiani, richiama il regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, che impone la parità di trattamento tra i lavoratori stranieri e i cittadini dello Stato europeo che li ospita per quanto riguarda il settore della sicurezza sociale, non venendo qui in considerazione la posizione di lavoratori.</p> <p style="text-align: justify;">La questione relativa all’art. 38 Cost., che sarebbe violato perché la norma impugnata subordina il godimento del diritto all’assegno sociale al «possesso di una certificazione di tipo amministrativo», è da assumersi infondata, essendosi già posto in luce che la titolarità del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo comporta la ricorrenza di requisiti ai quali non è manifestamente irragionevole legare il riconoscimento della prestazione assistenziale.</p> <p style="text-align: justify;">Sono infondate le ulteriori censure, riferite agli artt. 10, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, e sviluppate sulla base dell’erronea premessa che la cittadinanza italiana ed europea non costituisca un elemento idoneo per selezionare gli aventi diritto alla prestazione, escludendone gli stranieri privi del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo; in particolare, non risulta violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, essendo non discriminatorio, per le ragioni enunciate, il criterio adottato quanto alla parificazione dei cittadini stranieri a quelli italiani in una prestazione di welfare sganciata dallo status lavorativo: l’assegno sociale per chi abbia 65 anni (che dal 1° gennaio 2019 spetta a coloro che abbiano raggiunto l’età di 67 anni) è una prestazione sociale riservata a coloro che, privi di reddito adeguato e di pensione, abbiano raggiunto un’età in linea di massima non più idonea alla ricerca di un’attività lavorativa e che mantengano comunque la effettiva residenza in Italia; tale prestazione è pertanto legittimamente riservata ai cittadini italiani, ai cittadini europei e ai cittadini extracomunitari solo se titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Nella giurisprudenza della Corte l’elemento di discrimine basato sulla cittadinanza è stato ritenuto in contrasto con l’art. 3 Cost. e con lo stesso divieto di discriminazione formulato dall’art. 14 CEDU, solo con riguardo a prestazioni destinate al soddisfacimento di bisogni primari e volte alla «garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto» (sentenza n. 187 del 2010) o comunque destinate alla tutela della salute e al sostentamento connesso all’invalidità (sentenza n. 230 del 2015), di volta in volta con specifico riguardo alla pensione di inabilità, all’assegno di invalidità, all’indennità per ciechi e per sordi e all’indennità di accompagnamento (sentenze n. 230 e n. 22 del 2015, n. 40 del 2013, n. 329 del 2011, n. 187 del 2010, n. 11 del 2009 e n. 306 del 2008); tuttavia, come si è visto, l’assegno sociale non è equiparabile a tali prestazioni.</p> <p style="text-align: justify;">Il legislatore può legittimamente prevedere specifiche condizioni per il godimento delle prestazioni assistenziali eccedenti i bisogni primari della persona, purché tali condizioni non siano manifestamente irragionevoli né intrinsecamente discriminatorie, com’è appunto nella specie la considerazione dell’inserimento socio-giuridico del cittadino extracomunitario nel contesto nazionale, come certificata dal permesso di soggiorno UE di lungo periodo, al quale l’ordinamento fa conseguire il riconoscimento di peculiari situazioni giuridiche che equiparano il cittadino extracomunitario – a determinati fini – ai cittadini italiani e comunitari. Va allora dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, e 38 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torino; e va del pari dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU, dal Tribunale ordinario di Bergamo.</p>