<p style="text-align: justify;"><strong>CORTE di Cassazione, SSUU civili, sentenza 8 marzo 2019 n. 6882</strong></p> <p style="text-align: justify;">La questione rimessa all'esame delle Sezioni Unite è se sia valida la clausola di un contratto di locazione che attribuisca al conduttore di farsi carico di ogni tassa, imposta ed onere relativo ai beni locati ed al contratto, tenendone conseguentemente manlevato il locatore; la soluzione della specifica questione rimessa all'esame di queste Sezioni Unite prospetta poi la più ampia problematica se l'obbligo costituzionalmente rilevante di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva abbia un significato esclusivamente oggettivo - nel senso di obbligo di adempiere a quanto è giustificato dalla capacità contributiva- oppure anche soggettivo -nel senso che l'adempimento debba essere compiuto non solo oggettivamente in modo completo, ma altresì dal soggetto che per legge ne ha l'obbligo-, escludendosi quindi il trasferimento dell'obbligo ad un soggetto diverso. Al riguardo, si pone in particolare l'esigenza di chiarire, tenendo ben in conto l'articolo 53 Cost. -la cui natura è stata da tempo riconosciuta come imperativa, e quindi come direttamente precettíva-, se, a parte le ipotesi in cui vi siano espressi divieti di traslazione da parte di specifiche norme tributarie, sulla individuazione del soggetto passivo dell'imposta possa incidere l'autonomia negoziale privata, neutralizzando così gli effetti della capacità contributiva.</p> <p style="text-align: justify;">Essendo stato nel caso di specie il pertinente contratto stipulato nel novembre del 2003, non viene in rilievo l’INVIM, istituita con D.P.R. n. 643 del 1972, (in particolare quella decennale D.P.R. n. 643 del 1972, ex art. 3, comma 1), il cui art. 27 prevedeva la nullità di "qualsiasi patto diretto a trasferire ad altri l’onere dell’imposta" (v. Cass., 31/3/2014, n. 7501, ove si è posto in rilievo come la nullità del patto di traslazione dell’imposta fosse comminata dal D.P.R. n. 643 del 1972, art. 27, non solo per il rapporto con l’amministrazione finanziaria ma anche per quello tra i contraenti, attesa l’inderogabilità del presupposto soggettivo del tributo, rappresentato dal godimento della plusvalenza immobiliare; Cass., 27/1/2010, n. 1660; Cass., 6/11/2006, n. 23615; Cass., 10/5/1994, n. 4556, ove si è sottolineato che la nullità prevista dal D.P.R. n. 643 del 1972, art. 27, di qualsiasi patto contrario al divieto di trasferire l’onere della imposta a soggetti diversi da quelli tenuti al pagamento della stessa, individuati dal D.P.R. n. 643 del 1972, art. 4, non è comminata unicamente a tutela del fisco, ma incide anche nei rapporti tra le parti contraenti, quale che sia lo strumento negoziale direttamente azionato al fine della traslazione della imposta, comportandone la nullità, senza che rilevi la finalità pratica che a suo mezzo le parti intendono conseguire; Cass., 14/9/1991, n. 9608; Cass., 1/2/1984, n. 780; Cass., 11/12/1974, n. 4181). È viceversa applicabile l’I.C.I., introdotta a decorrere dal 1993 (D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1), poi sostituita a decorrere dall’aprile 2012 dall’I.M.U. (D.Lgs. n. 23 del 2011), le cui relative discipline non contemplano invero norma analoga a quella di cui al sopra richiamato D.P.R. n. 643 del 1972, art. 27.</p> <p style="text-align: justify;">Deve porsi in rilievo che (come sottolineato già da Cass., Sez. Un., 5/1/1985, n. 5 e ripreso nell’ordinanza di rimessione) la questione del patto traslativo d’imposta non espressamente vietato da specifiche norme di legge (al riguardo, oltre alla disciplina dell’INVIM sopra richiamata, va fatto in particolare richiamo alla L. n. 246 del 1963, art. 40, prevedente la sanzione della nullità per i patti diretti a trasferire l’onere fiscale ad altri che non siano i soggetti del contributo di miglioria; al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 18, sull’I.V.A.; al D.P.R. n. 643 del 1972, art. 16, in tema di imposta sugli spettacoli; al D.P.R. n. 634 del 1972, art. 60, in tema di imposta di registro; al D.P.R. n. 642 del 1972, art. 23, in tema di imposta di bollo; al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 23, 24, 25, 25 bis, 26, 27 e 28, per le imposte dirette) rimane invero estranea alla normativa comunitaria, attenendo alla mera disciplina interna (come risulta confermato in particolare da Corte Giust., 16/1/2014, n. 226 (C - 226/12) e da Corte Giust., 6/11/2011, n. 398 (C - 398/09), ove appunto tale patto traslativo di imposta si è ritenuto di per sé non in contrasto con la normativa comunitaria, potendo assumere viceversa rilievo in caso di violazione di altri principi o norme, come ad esempio nell’ipotesi in cui esso determini un abusivo squilibrio nei contratti dei consumatori o integri l’abuso del diritto (in ordine al quale v. Corte Giust., 21/2/2006, C - 255/02)).</p> <p style="text-align: justify;">La tematica della traslazione dell’imposta è stata in particolare affrontata dalle Sezioni Unite in due pronunzie, emesse entrambe (in relazione a contratto di mutuo) nel 1985.</p> <p style="text-align: justify;">Con la prima di tali pronunzie si è in particolare affermato che è nulla - sia ai sensi dell’art. 1418 c.c., comma 1, che per contrasto con l’art. 53 Cost. -, la clausola con la quale - sia pure con effetti limitati al rapporto fra le parti - venga convenuta l’imposizione a carico del mutuatario di quanto il mutuante è tenuto a versare all’erario (nel caso, per IRPEG ed ILOR) in ragione dello stipulato contratto, stante l’immediato valore vincolante del principio del concorso di tutti alle spese pubbliche alla stregua della rispettiva capacità contributiva fissato dalla norma costituzionale, che si traduce nel divieto inderogabile per il debitore d’imposta - sia diretta che indiretta - di riversare il relativo onere su un altro soggetto, e quindi su un patrimonio diverso da quello rispetto al quale è contemplato il prelievo fiscale (v. Cass., Sez. Un., 5/1/1985, n. 5); nell’occasione le Sezioni Unite hanno argomentato dal rilievo che in base alla previsione di cui all’art. 53 Cost., tutti sono tenuti a concorrere alla spesa pubblica in ragione della rispettiva capacità contributiva, e secondo il criterio della progressività dell’imposta: il sacrificio economico derivante dal pagamento del tributo, e cioè la riduzione patrimoniale conseguente all’adempimento, deve - si è precisato - essere sopportato effettivamente e definitivamente dal soggetto alla cui capacità contributiva si riferisce l’obbligazione, e non già da altri, l’art. 53 Cost., esigendo che ad una determinata capacità contributiva faccia seguito l’adempimento del dovere di concorrere alla spesa pubblica, ed escludendo che tale obbligo possa sorgere in capo a soggetto privo di capacità contributiva; come pure che un soggetto possa accollarsi - anche di fatto - il carico contributivo altrui, essendo contrario all’interesse della collettività che il concorso alla spesa pubblica gravi - anche di fatto- su soggetto diverso da colui che vi è tenuto ex lege, in quanto ogni soggetto dotato di capacità contributiva deve in misura corrispondente contribuire personalmente al costo dei servizi e dei vantaggi sociali; si è ulteriormente avvertito che nelle imposte dirette (in particolare, IRPEG e ILOR) la correlazione con la capacità contributiva è immediata, sicché più pressante è l’esigenza che il tributo incida effettivamente sul soggetto obbligato per legge, e non su soggetti diversi; segnalandosi essere la rivalsa obbligatoria lo strumento idoneo a far concorrere alla spesa pubblica il titolare della capacità contributiva ogniqualvolta altri adempia alla correlata obbligazione tributaria (es., sostituto d’imposta). La nullità del patto volto a trasferire (sia pure senza efficacia nei confronti dello Stato) su altri il peso del proprio dovere di solidarietà sociale di concorrere alla spesa pubblica si è ravvisato trovare ragione nella circostanza che, pur giovandosi dei vantaggi e dei benefici della vita associata, il soggetto obbligato ex lege in tal modo sottrae la propria ricchezza alle limitazioni sociali di solidarietà e di perequazione. Nel considerare inammissibile il patto traslativo d’imposta, in quanto idoneo a consentire al soggetto tenutovi per legge di giovarsi "dei vantaggi e dei benefici della vita associata" sottraendo "la propria ricchezza alle limitazioni sociali di solidarietà e di perequazione", con la sentenza n. 5 del 1985 le Sezioni Unite hanno dunque considerato in termini generali "vietato e nullo (ai sensi dell’art. 1418 c.c., comma 1, e per contrasto con l’art. 53 Cost.”) qualunque patto "con il quale un soggetto, ancorché senza effetti nei confronti dell’erario, riversi su altro soggetto, pur se diverso dal sostituto, dal responsabile d’imposta e dal cosiddetto contribuente di fatto il peso della propria imposta, sia che si tratti d’imposta diretta che di imposta indiretta".</p> <p style="text-align: justify;">Con la sentenza n. 6445 del 1985 le Sezioni Unite hanno diversamente affermato che il patto traslativo d’imposta “è nullo per illiceità della causa contraria all’ordine pubblico solo quando esso comporti che effettivamente l’imposta non venga corrisposta al fisco dal percettore del reddito”, ipotesi che si verifica "nelle ipotesi di rivalsa facoltativa, quando il sostituto viene a perdere la qualità tipica di mero anticipatore del tributo, non corrisposto al fisco, né recuperato dal sostituto medesimo, sicché effettivamente il dovere tributario non viene adempiuto, pur verificandosi un aumento di ricchezza del contribuente". Non anche, nell’ipotesi in cui "l’imposta è stata regolarmente e puntualmente pagata dal contribuente al fisco, allorquando cioè l’obbligazione di cui si stipula l’accollo non ha per oggetto direttamente il tributo, né mira a stabilire che esso debba essere pagato da soggetto diverso dal contribuente", ma "riguarda... una somma di importo pari al tributo dovuto ed ha la funzione di integrare il "prezzo" della prestazione negoziale". Pur pervenendo a soluzione opposta a quella raggiunta nella sentenza n. 5 del 1985, in quest’ultima pronunzia le Sezioni Unite hanno posto a relativo fondamento gli stessi presupposti argomentativi della precedente, ribadendone la validità. In particolare, hanno confermato "il carattere di centralità che il dovere tributario è venuto assumendo nella Costituzione repubblicana", il cui art. 53, "si pone come fonte immediata ed imperativa la cui violazione può comportare la sanzione della nullità delle manifestazioni di autonomia negoziale con esso confliggenti”; hanno sottolineato che l’"autonomia privata non può alterare i connotati dei tributi diretti, strutturati in modo che "ad ogni capacità contributiva debba corrispondere inderogabilmente una riduzione del patrimonio del titolare della capacità contributiva stessa" (per mutuare l’espressione alla sentenza n. 5 del 1985, cit.), poiché, alla stregua dei principi scaturenti dal coordinamento degli artt. 2 e 53 Cost., esige che quel concorso, imposto al contribuente, incida sul suo patrimonio"; hanno ulteriormente posto in rilievo che nel vigente sistema costituzionale tributario non basta oggettivamente che sia soddisfatta l’obbligazione verso il fisco, ma occorre altresì che tale obbligazione sia adempiuta dal soggetto tenuto a corrisponderla a cui carico gli artt. 53 e 2 Cost., pongono un dovere ribadito dall’art. 1, della legge della legge sul contenzioso tributario; la prestazione imposta di carattere tributario postula infatti che "una quota di ricchezza sia sottratta a quel determinato soggetto" individuato dalla legge come "soggetto passivo del tributo", con "correlativo sacrificio personale". Avvertendo la necessità di mantenere "fermo il discorso di fondo sulla portata dell’art. 53 Cost., e sulla relativa attitudine a porsi come norma imperativa preclusiva di atti negoziali che ne comportino l’elusione", le Sezioni Unite hanno nell’occasione evidenziato come sia la rivalsa a rendere invero "neutrale" la tassazione in testa al sostituto, "presentandosi come un credito del... medesimo verso il contribuente pari alla somma di cui egli è debitore verso il fisco (e che ha già corrisposto)", pervenendo quindi a concludere che "una pattuizione di esonero dalla rivalsa, se consentita, comporterebbe l’effetto di alterare immediatamente e direttamente il carico tributario perché il patrimonio del contribuente non verrebbe inciso, non verificandosi da parte sua quell’esborso verso il fisco che realizza il doveroso carico tributario e non presentandosi qui con effetto compensativo l’incremento tassabile che ne consegue poiché tale ulteriore tassazione non vale a ripristinare il vuoto contributivo da cui è conseguito l’aumento di reddito, non essendo omologhe le situazioni in raffronto". Hanno quindi ritenuto che "con il contratto di locazione qui in esame le parti, sia pure con due distinte clausole contrattuali, hanno voluto determinare il canone locativo in due diverse componenti, rappresentate l’una dalla parte espressamente qualificata come tale ed oggetto della pattuizione contenuta nell’art. 4, e l’altra come componente integrante tale misura, costituita dalla pattuizione specificamente oggetto della domanda di nullità qui azionata …”.</p> <p style="text-align: justify;">Va ribadito ed ulteriormente confermato il principio delineato da Cass., Sez. Un., n. 6445 del 1985, siccome condiviso dalla dottrina maggioritaria, e che ha successivamente ricevuto costante conferma da parte della Corte, venendo a costituire principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (v. Cass., 3/6/1991, n. 6232, con riferimento al contratto di mutuo; Cass., 25/3/1995, n. 3577, relativamente all’imposta sulla pubblicità; Cass., 27/11/1999, n. 13261, in tema di intestazione fiduciaria di azioni; Cass., 29/11/2004, n. 22369, in ordine a contratto di locazione di immobile ad uso diverso da abitazione contemplante canone comprensivo anche degli oneri accessori; Cass., 18/11/2009, n. 24307, in tema di imposta sulla pubblicità; Cass., 25/2/2015, n. 3770, relativamente contratto di mutuo; Cass., 8/2/2016, n. 2412, in ordine a rapporto concessorio inerente alla gestione dei parchimetri di Roma); solamente in qualche pronunzia, in tema di imposte dirette, si è affermata la nullità dell’accollo delle imposte dovute sul reddito (v. Cass., Sez. Un., 23/4/1987, n. 3935 e Cass., Sez. Un., 26/6/1987, n. 5652, con riferimento ad accordi che esentino il lavoratore dipendente dalle ritenute del datore di lavoro a titolo di IRPEF. Cfr. altresì Cass., 29/5/1993, n. 6037, ove si è peraltro precisato che la clausola che obblighi il mutuatario a rimborsare al mutuante le imposte dell’I.R.P.E.G. ed I.L.O.R., gravanti sul secondo, in relazione agli interessi percepiti sulla somma mutuata, è nulla per violazione di norme imperative di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 26 e 64, nel caso in cui il mutuatario (nell’ipotesi, società cooperativa) rientri tra i soggetti che, quali "sostituti" d’imposta sono obbligati ad effettuare una ritenuta, a titolo di acconto e con obbligo di rivalsa, sui redditi da capitale corrisposti (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 23, comma 1), atteso che l’obbligo di rivalsa è espressione del principio che tutta l’imposta deve restare a carico del percettore del reddito ("sostituto" d’imposta) - principio applicabile, altresì, in tema di pagamento dell’I.L.O.R., trattandosi di imposta diretta, che non può ricadere su soggetto diverso dal possessore del patrimonio rappresentante la base per la determinazione della capacità contributiva -, e non può essere aggirato con la detta clausola, la quale obbliga il mutuatario a corrispondere al mutuante, sotto forma di rimborso dei tributi, un ulteriore reddito (a sua volta imponibile, ma ignoto al fisco)).</p> <p style="text-align: justify;">Va ribadito, in tema di interpretazione contrattuale, il principio affermato dalla Corte in base al quale, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale strumento rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate va invero verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, le singole clausole dovendo essere considerate in correlazione tra loro procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell’art. 1363 c.c., giacché per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v. Cass., 28/8/2007, n. 828; Cass., 22/12/2005, n. 28479; 16/6/2003, n. 9626); in proposito, la Corte ha già avuto più volte modo di sottolineare, superando il c.d. principio del gradualismo, come nella ricerca della reale o effettiva volontà delle parti il criterio letterale vada invero riguardato alla stregua degli ulteriori criteri legali d’interpretazione, e in particolare dei criteri (quali primari criteri d’interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto: v. Cass., 6/12/2018, n. 31574; Cass., 13/11/2018, n. 29016; Cass., 30/10/2018, n. 27444; Cass., 12/6/2018, n. 15186; Cass., 19/3/2018, n. 6675. V. altresì Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 27/6/2011, n. 14079; Cass., 23/5/2011, n. 11295; Cass., 19/5/2011, n. 10998; con riferimento agli atti unilaterali v. Cass., 6/5/2015, n. 9006) dell’interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c., (che consente di accertare il significato dell’accordo in coerenza appunto con la relativa ragione pratica o causa concreta: cfr. Cass., 13/11/2018, n. 29016) e dell’interpretazione secondo buona fede o correttezza ex art. 1366 c.c. (che quale criterio d’interpretazione del contratto - fondato sull’esigenza definita in dottrina di "solidarietà contrattuale" - si specifica in particolare nel significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte (v. Cass., 6/5/2015, n. 9006; Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 25/5/2007, n. 12235; Cass., 20/5/2004, n. 9628), non consentendo di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte (v. Cass., 23/5/2011, n. 11295) e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale (cfr., con riferimento alla causa concreta del contratto autonomo di garanzia, Cass., Sez. Un., 18/2/2010, n. 3947)). Nel caso di specie, correttamente la corte di merito ha nell’impugnata sentenza interpretato la clausola contrattuale in argomento alla luce della ragione pratica dell’accordo e del contratto, in coerenza con gli interessi che le parti hanno cioè nel caso specificamente inteso tutelare mediante lo stipulato contratto (v. Cass., 22/11/2016, n. 23701), convenzionalmente determinando la regola volta a disciplinare il loro rapporto negoziale (art. 1372 c.c.); trattandosi peraltro di canone di locazione ab origine realmente pattuito, risulta poi nel caso di specie non integrata la violazione del divieto posto all’art. 79 L. loc., (anche) alla stregua dell’interpretazione offertane dalla recente pronunzia delle Sezioni Unite ove si è affermato essere insanabilmente nullo il patto con il quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato, a prescindere dall’avvenuta registrazione (v. Cass., Sez. Un., 9/10/2017, n. 23601).</p>