Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza 16 febbraio 2024, n. 7029
PRINCIPIO DI DIRITTO
Ai sensi dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., il giudice dell’esecuzione deve considerare come “pena più grave inflitta”, che identifica la “violazione più grave”, quella concretamente irrogata dal giudice della cognizione siccome indicata nel dispositivo di sentenza.
Ai sensi degli artt. 671 cod. proc. pen. e 187 disp. att. cod. proc. pen., in caso di riconoscimento della continuazione tra reati giudicati separatamente con rito abbreviato, fra cui sia compreso un delitto punito con la pena dell’ergastolo per il quale il giudice della cognizione abbia applicato la pena di anni trenta di reclusione per effetto della diminuente di un terzo ex art. 442, comma 2, terzo periodo, cod. proc. pen. (nel testo vigente sino al 19 aprile 2019), il giudice dell’esecuzione deve considerare come “pena più grave inflitta” che identifica la “violazione più grave” quella conseguente alla riduzione per il giudizio abbreviato
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: “Se il riconoscimento della continuazione, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., tra reati giudicati separatamente con rito abbreviato, fra cui sia compreso un delitto punito con la pena dell’ergastolo per il quale il giudice della cognizione abbia applicato la pena di anni trenta di reclusione per effetto della diminuente di un terzo ex art. 442, comma 2, terzo periodo, cod. proc. pen. (nel testo vigente sino al 19 aprile 2019), comporti che, in sede esecutiva, per “pena più grave inflitta” che identifica la “violazione più grave”ai sensi dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., debba intendersi quella risultante dalla riduzione per il rito speciale ovvero quella antecedente alla suddetta riduzione”.
- Il tema centrale da affrontare, per la soluzione della questione, è certamente quello della corretta interpretazione dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., che, sotto la rubrica “Determinazione del reato più grave”, recita: “Per l’applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave, anche quando per alcuni reati si è proceduto con giudizio abbreviato”.
2.1. In via preliminare, occorre precisare che la disomogeneità delle interpretazioni in ordine alla norma in questione assume precipua rilevanza allorché vengano in considerazione reati puniti con la pena dell’ergastolo o per i quali trovi applicazione il criterio moderatore di cui all’art. 78 cod. pen. Solo per questi, infatti, ha incidenza l’individuazione della pena base sulla quale operare gli aumenti a titolo di continuazione, potendo solo in tal caso mutare il computo (così come la natura) della pena finale; viceversa, nessuna incidenza si determina per le pene temporanee, essendo sostanzialmente irrilevante, per la medesimezza del risultato finale, che la riduzione per il rito venga effettuata sui singoli addendi (le frazioni di pena da unificare) ovvero sulla pena finale.
- Ciò premesso, nel ripercorrere il tracciato dell’ordinanza di rimessione, va ricordato che, secondo l’orientamento cui ha aderito il giudice dell’esecuzione nel caso in esame, per “pena più grave inflitta”, che identifica la “violazione più grave” ai sensi dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., deve intendersi quella antecedente alla riduzione per il rito abbreviato (vengono annoverate tra le pronunce adesive a tale filone: Sez. U, n. 45583 del 25/10/2007, P.G. in proc. Volpe e altri, Rv. 237692 01; Sez. 1, n. 37168 del 19/07/2019, Ben Salam, Rv. 276838 – 01; Sez. 1, n. 31041 del 20/04/2018, Gatto, non mass.; Sez. 5, n. 43044 del 04/05/2015, Dedinca, Rv. 265867 – 01; Sez. 1, n. 20007 del 05/05/2010, Serafino, Rv. 247616 01; Sez. 1, n. 26758 del 29/05/2009, Signore, non mass.; Sez. 5, n. 18368 del 09/12/2003, dep. 2004, Bajrami, Rv. 229229 – 01; Sez. 1, n. 6217 del 07/04/1994, Pusceddu, Rv. 197840 – 01).
Nelle elencate decisioni si afferma che “il riconoscimento in sede esecutiva della continuazione tra i reati oggetto di condanne emesse all’esito di distinti giudizi abbreviati comporta, previa individuazione del reato più grave, la determinazione della pena base nella sua entità precedente all’applicazione della diminuente per il rito abbreviato, l’applicazione dell’aumento per continuazione su detta pena base e infine il computo sull’intero in tal modo ottenuto della diminuente per il rito abbreviato” (tra tutte, Sez. 1, n. 20007 del 2010, Serafino, cit.).
L’argomento valorizzato a sostegno dell’orientamento in esame rimanda, essenzialmente, alla considerazione della natura prettamente processuale della diminuente di cui all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., da cui scaturisce la riduzione di pena; consistendo, quest’ultima, in un’operazione puramente aritmetica conseguente alla scelta del rito da parte dell’imputato, essa, “logicamente e temporalmente, dev’essere eseguita dopo la determinazione della pena, effettuata secondo i criteri e nel rispetto delle norme sostanziali” (Sez. 1, n. 20007 del 2010, Serafino, cit.).
Se si aderisse a tale interpretazione dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., si perverrebbe a risolvere il caso di specie determinando quale pena base per il reato di omicidio aggravato, giudicato con la sentenza sub B) (individuato come violazione più grave), quella dell’ergastolo, pena che, peraltro, coinciderebbe anche con quella finale, costituendo la sanzione conclusiva il risultato degli aumenti in continuazione, superiori ai cinque anni di reclusione, apportati ai sensi dell’art. 72, secondo comma, cod. pen. (ergastolo con isolamento diurno) e della riduzione per il rito abbreviato (ergastolo).
- Il secondo filone ermeneutico propone una diversa lettura della disposizione di attuazione oggetto di esame. Tale lettura è stata, fra le altre, proposta da Sez. 1, n. 48204 del 10/12/2008, Abello, Rv. 242660 – 01, così massimata: “ai fini dell’individuazione della violazione più grave nel reato continuato in sede esecutiva, il giudice deve tenere conto della sanzione più severa concretamente inflitta (nella specie, previa riduzione di un terzo nel caso di condanna pronunciata con rito abbreviato)”.
Nell’annullare l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva, in quel caso, determinato la pena base per il reato più grave “al lordo” della riduzione per il giudizio abbreviato, Sez. 1, Abello ha enunciato il predetto principio affermando che l’art. 187 disp. att. cod. proc. pen. deve essere interpretato nel senso che occorre avere riguardo alla pena risultante dall’applicazione della riduzione. A sostegno di tale interpretazione ha richiamato alcuni precedenti (Sez. 1, n. 12741 del 09/11/1995, Triolo, Rv. 203336 – 01 e Sez. 1, n. 3964 del 07/10/1993, Lo Giudice, Rv. 196342 – 01) che, in realtà, non hanno preso posizione in maniera precisa sul tema di interesse. La prima sentenza si è, infatti, limitata a ribadire pedissequamente il contenuto della norma di cui all’art. 187 cit., mentre la seconda ha soltanto richiamato i criteri di computo della pena, nel caso di reati unificati in continuazione, ai fini dell’applicazione dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Il principio sancito da Sez. 1, n. 48204 del 2008, Abello, cit., è stato ribadito in termini generici da successive decisioni, fra le quali si segnalano: Sez. 1, n. 36463 del 28/04/2021, Rullo, non mass.; Sez. 1, n. 58481 del 10/10/2018, Zarrillo, non mass.; Sez. n. 20206 del 27/03/2018, Tomarelli, non mass, (ove, espressamente, in motivazione, si fa riferimento alla necessità di considerare la pena più grave concretamente inflitta al netto della riduzione); Sez. 1, n. 8978 del 26/05/2016, dep. 2017, Valenti, non mass.; Sez. 1, n. 4135 del 27/01/2015, dep. 2016, Bassora, Rv. 267302 – 01 (in motivazione); Sez. 1, n. 7150 del 28/04/2015, Paoltroni, non mass, (ove si rinviene la chiara affermazione che la riduzione per il rito precede e non segue la determinazione degli addendi) e Sez. 1, n. 12585 del 12/03/2015, Piperis, non mass. Sez. 1, n. 13756 del 2020, Morelli, Rv. 278977 – 01, citata dalla difesa del ricorrente A.A. a supporto della propria tesi, ha avuto ad oggetto una fattispecie solo in parte sovrapponibile a quella presa in considerazione dall’ordinanza della Prima Sezione. Si trattava del riconoscimento della continuazione tra due omicidi volontari (e reati connessi) giudicati, in cognizione, con due sentenze di condanna alla stessa pena di anni trenta di reclusione, ciascuna emessa all’esito di giudizio abbreviato. In ognuno dei procedimenti la pena, “al lordo” della riduzione per il rito, era stata determinata in quella dell’ergastolo per il reato più grave e in misura inferiore ad anni cinque di reclusione per i reati satellite. La pena finale, quindi, in entrambi i casi, era stata individuata in quella di anni trenta di reclusione. In sede esecutiva, applicando il criterio di calcolo della pena indicato dalla sentenza Sez. 1, n. 20007 del
2010, Serafino, cit., la pena base per il reato più grave era stata determinata in quella dell’ergastolo e, pur senza che fosse indicato l’aumento di pena a titolo di continuazione, era stata quantificata la pena finale in quella dell’ergastolo con isolamento diurno di un anno che, ai sensi dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. (nella formulazione applicabile ratione temporis), era stata sostituita con l’ergastolo.
I giudici di merito, in quel caso, avevano ritenuto applicabile l’art. 73, comma secondo, cod. pen. secondo cui “quando concorrono più delitti, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni, si applica l’ergastolo”, e avevano individuato la citata disposizione quale sbarramento all’applicazione della pena temporanea entro il limite di trent’ anni nel caso di delitti punti con l’ergastolo sostituito dalla reclusione per effetto del rito abbreviato. Sez. 1, n. 13756 del 2020, Morelli, cit., dopo aver analizzato il rapporto tra gli artt. 73 e 78 cod. pen. (che, nel caso sottoposto all’odierno vaglio, non viene in considerazione neppure in astratto, poiché nessuno dei reati satellite portati all’attenzione del giudice dell’esecuzione di Catanzaro è stato sanzionato, in cognizione, con pena “non inferiore a ventiquattro anni” di reclusione), ha affermato che i giudici di merito avevano violato l’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., che impone di tenere conto della “pena da espiare in concreto”, ossia di quella “al netto della riduzione per il rito”.
A tale conclusione la sentenza è pervenuta – come le altre riconducibili allo stesso orientamento – valorizzando il tenore letterale della disposizione di attuazione, “dove il participio “inflitta” rimanda alla pena da espiare in concreto e, quindi, alla pena al netto della riduzione per il rito”. Facendo applicazione, al caso di specie, del principio enunciato dalle pronunzie ora esaminate, andrebbe individuata come pena base quella di anni trenta di reclusione, risultante dalla riduzione per il rito apportata alla pena dell’ergastolo, inflitta per la violazione più grave, sulla quale gli aumenti per la continuazione, in quanto inferiori alla pena di anni ventiquattro di reclusione, non potrebbero mai condurre a una pena conclusiva superiore agli anni trenta, in forza dell’applicazione del criterio moderatore previsto dall’art. 78 cod. pen.
Appare netta, quindi, la differenza rilevabile nel trattamento sanzionatorio scaturente dall’adesione all’una o all’altra delle opzioni prospettate.
- Le Sezioni Unite ritengono di aderire al secondo degli orientamenti illustrati sulla base delle seguenti considerazioni di tipo letterale e logico-sistematico.
5.1. Soccorre, in primo luogo, il criterio d’interpretazione letterale di cui all’art. 12 delle preleggi, secondo il quale “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”: il significato dell’espressione legislativa va, cioè, determinato in base al suo valore semantico secondo l’uso linguistico generale (Sez. U civ., n. 23051 del 25/07/2022, A. contro S., Rv. 665453 – 01; Sez. U civ., n. 20181 del 25/07/2019, C. contro C., Rv. 654876 – 02; Sez. U civ., n. 4000 del 05/07/1982, non mass, sul punto).
In applicazione di tale criterio, l’uso del participio passato “inflitta“, contenuto nell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., con riferimento alla “pena più grave”, identificante, a sua volta, la “violazione più grave”, inequivocamente rimanda alla pena in concreto irrogata dal giudice della cognizione siccome indicata nel dispositivo di sentenza e, in caso di pena inflitta in sede di giudizio abbreviato, a quella risultante dalla riduzione di un terzo per il rito.
5.2. Tale soluzione si rivela pienamente coerente con la natura “derogatoria” della disposizione di attuazione rispetto alla norma generale di cui all’art. 81 cod. pen., come sottolineato da Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255347- 01. Nell’enunciare il principio per cui “in tema di reato continuato, la violazione più grave va individuata in astratto in base alla pena edittale prevista per il reato ritenuto dal giudice in rapporto alle singole circostanze in cui la fattispecie si è manifestata e all’eventuale giudizio di comparazione fra di esse” – facendo quindi riferimento, per la fase della cognizione, alla pena “applicabile” – la richiamata pronuncia ha osservato, fra l’altro, che “l’art. 187 disp. att. cod. proc. pen. è (…) espressamente e logicamente limitato alla fase dell’esecuzione, in cui si può solo prendere atto della valutazione effettuata dal giudice della cognizione, sicché, per esaminare sentenze o decreti irrevocabili ai fini del concorso formale o della continuazione, ci si deve necessariamente riferire alle pene più gravi che siano state concretamente inflitte“.
In termini analoghi si sono espresse le successive Sez. U, n. 28569 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270073 – 01, che, nel risolvere la questione ad esse demandata, attinente al rapporto tra l’art. 81 cod. pen. e l’art. 671 cod. proc. pen., hanno affermato che “nel riconoscimento del concorso formale o della continuazione in sede esecutiva il giudice, nella determinazione della pena, è tenuto al rispetto, oltre che del criterio indicato dall’art. 671, comma 2, cod. proc. pen., anche del limite del triplo della pena stabilita per la violazione più grave previsto dall’art. 81, commi primo e secondo, cod. pen.”.
Tale pronuncia, nel descrivere il “parallelismo” tra la norma sostanziale e quella processuale, ha rilevato come la previsione dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen. sia ispirata all’esigenza di “adattamento” dell’istituto della continuazione “alle caratteristiche proprie dell’esecuzione”. Ha, inoltre, argomentato che “mentre nel processo di cognizione l’individuazione della violazione più grave è affidata alla valutazione discrezionale, per quanto vincolata, del giudice, nella fase esecutiva essa, pur a fronte alla cedevolezza, pro reo, del giudicato, non può che incontrare il limite della pena più grave già inflitta. Nell’uno come nell’altro caso, quindi, la pena-base è sempre quella per la violazione più grave, rispettivamente da determinare o già determinata”.
In sostanza, si tratta di diversità di disciplina che tiene opportunamente conto di come, nel primo caso, si parli di una mera ipotesi di pena applicabile, mentre, nel secondo, di pene già concretamente applicate.
5.3. Il tema in discussione è stato affrontato anche da Sez. U, n, 45583 del 27/10/2007, Volpe, Rv. 237692 – 01. Tale decisione ha consacrato il principio per cui “la riduzione di pena conseguente alla scelta del rito abbreviato si applica dopo che la pena è stata determinata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene stabilite dagli artt. 71 ss. cod. pen., fra le quali vi è anche la disposizione limitativa del cumulo materiale, in forza della quale la pena della reclusione non può essere superiore ad anni trenta”.
La pronuncia in commento è stata tralaticiamente richiamata a giustificazione delle decisioni, prima specificamente indicate, riconducibili al primo dei due orientamenti in contrasto, quello propugnatore della nozione di “pena più grave” (art. 187 disp. att. cod. proc. pen.) quale pena “al lordo” della riduzione per il rito.
Sul punto, è opportuno sgombrare il campo da un evidente fraintendimento. La sentenza Volpe del 2007, appena sopracitata, riguardava non già un caso di continuazione criminosa applicata ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., bensì un’ipotesi di continuazione ai sensi dell’art. 81, cpv., cod. pen. e in relazione ad essa ha enunciato il riportato principio. Con riferimento alla diversa ipotesi regolata dall’art. 671 cod. proc. pen., ha affermato il principio esattamente opposto, ossia che la riduzione di pena conseguente alla scelta del rito opera necessariamente prima del criterio moderatore del cumulo materiale previsto dall’art. 78 cod. pen.
Come efficacemente rimarcato da Sez. 1, n. 42316 del 11/11/2010, Cutaia, Rv. 249027 – 01, il richiamo al principio di diritto definito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 45583 del 2007, Volpe, cit., non può essere utilmente invocato in senso contrario, riguardando esclusivamente “l’applicazione della continuazione nella fase del giudizio, celebrato col rito abbreviato, e non (anche) il regime del riconoscimento del ridetto vincolo in executivis”. La medesima sentenza ha osservato che, “nel riaffermare il tradizionale orientamento circa la applicazione, in fase di giudizio, della diminuente del rito sul cumulo giuridico risultante dall’operato contenimento della pena in virtù del criterio moderatore, le Sezioni Unite, per confutare l’argomento apagogico della disparità di trattamento (tra la fase della esecuzione e quella del giudizio), sviluppato nella ordinanza di rimessione promotrice del conflitto virtuale, hanno espressamente dato atto che in executivis risulta “evidente che l’applicazione del criterio moderatore dell’art. 78 cod. pen. segue necessariamente la già disposta riduzione della pena ai sensi dell’art. 442 cod. proc. pen., comma 2”, e hanno motivato che la “obiettiva discrasia delle regole applicative nei distinti giudizi di cognizione e di esecuzione”, con la correlata “disparità dei moduli applicativi nelle sequenze procedurali di determinazione della pena (…) trova solida e razionale base giustificativa oltre che nell’oggettiva diversità (…) delle situazioni processuali (…) soprattutto nell’efficacia preclusiva derivante dal principio di intangibilità del giudicato”.
Va aggiunto che, in ordine alle modalità di computo della riduzione della pena, Sez. U, n. 45583 del 2007, Volpe, cit., hanno sottolineato come quella di cui all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. debba essere effettuata sulla pena determinata in concreto dal giudice e successivamente al giudizio di comparazione.
Sul punto è stata richiamata la Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, dove, a pag. 106, si legge che “questa diminuzione va apportata sulla pena determinata in concreto dal giudice, nel senso che essa si applica dopo che sia stato effettuato il giudizio di comparazione tra circostanze“.
Con riferimento, invece, all’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., di stretto interesse in questa sede, si evidenzia che le Sezioni Unite, con la decisione in commento, a proposito della individuazione della “pena più grave, anche quando per alcuni reati si è proceduto con giudizio abbreviato” hanno richiamato, definendole “univoche” sul punto, le Osservazioni del Governo al Progetto preliminare del D.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, secondo le quali “la prescrizione è stata ritenuta opportuna con specifico riferimento al giudizio abbreviato, dove la circostanza che la riduzione di un terzo dipende dalla scelta del rito e quindi da una scelta meramente processuale avrebbe potuto far argomentare che la pena in concreto era quella precedente rispetto a detta riduzione”.
Con la citata decisione, è stata, quindi, espressa, sia pure incidentalmente, un’opzione netta a favore della tesi secondo cui l’operazione di ricalcolo della pena a norma dell’art. 187 cit. deve assumere come base la pena concretamente applicata, al netto della riduzione operata per effetto del giudizio abbreviato.
Si tratta, del resto, di opzione interpretativa che è stata, ancora prima, affermata negli stessi termini, anche in questo caso in via incidentale, da Sez. U, n. 8411 del 27/05/1998, Ishaka, Rv. 210980 – 01, avente ad oggetto l’individuazione dei criteri di computo della pena ai fini della sua determinazione in funzione dell’applicazione delle pene accessorie. Le Sezioni Unite, nel dare risposta al quesito se, ai fini dell’applicazione delle pene accessorie debba farsi riferimento, in caso di giudizio abbreviato, alla pena principale determinata prima dell’applicazione della diminuente del rito, ovvero a quella inflitta in concreto, hanno affermato che occorre fare riferimento alla pena concretamente inflitta, così come determinata dopo la riduzione per il rito abbreviato.
L’itinerario seguito consente di dimostrare, in definitiva, che, la corretta lettura dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen. richiede che, nella sequenza delle operazioni per la determinazione del trattamento sanzionatorio del reato continuato in fase esecutiva, la riduzione per il giudizio abbreviato assume rilievo in limine, dovendosi avere riguardo alla pena concretamente inflitta in esito all’applicazione della riduzione premiale del rito, e ciò con riferimento sia al reato base che ai reati satellite e prima, eventualmente, dell’applicazione del criterio moderatore di cui all’art. 78 cod. pen. (così, Sez. 1, n. 42316 del 2010, Cutaia, cit.).
5.4. Non vale a smentire tale conclusione la tesi (sulla quale è essenzialmente imperniato l’orientamento che qui si intende confutare) che, valorizzando la natura soltanto processuale della diminuente di cui all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., afferma che la riduzione per il rito abbreviato, risolvendosi in una mera operazione aritmetica, è priva di conseguenze sostanziali tanto da non incidere, in concreto, sulla individuazione della nozione giuridica di “pena”, anche ai fini previsti dall’art. 187 disp. att. cod. proc. pen. Si tratta, invero, di tesi che non coglie appieno la peculiarità della diminuente, poiché si limita a metterne a fuoco la natura processuale, trascurando, al contempo, di considerare che da essa scaturiscono, indefettibilmente, conseguenze di carattere sostanziale.
5.4.1. Sotto il primo profilo, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la riduzione di pena prevista dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. costituisce un’operazione sganciata da qualsiasi elemento discrezionale suscettibile di essere preso in considerazione ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio. In tal senso, ad esempio, si è chiaramente espressa Sez. U, n. 7707 del 21/05/1991, Volpe, Rv. 187851 – 01, che ha evidenziato (escludendone l’incidenza sui termini di prescrizione del reato) la non assimilabilità della diminuente agli elementi circostanziali del reato e la sua rispondenza, piuttosto, ad una “esigenza utilitaristica di sollecita definizione dei giudizi” attraverso la previsione di una riduzione della pena predeterminata e in misura fissa, sostanziantesi in un “patteggiamento sul rito” che assolve alla funzione di incentivare scelte processuali volte alla sollecita definizione dei procedimenti (si richiamano, nella citata pronuncia, Corte Cost., sent. n. 277 e n. 284 del 1990; Sez. U, n. 5 del 24/03/1990; Sez. 2, n. 2571 del29/11/1990, Balestrieri; Sez. 6, del 06/11/1990, Sforza).
Nel solco tracciato da Sez. U, n. 7707 del 1991,Volpe, cit., si collocano successive sentenze, in cui si è ribadito che l’operazione di riduzione della pena per effetto della scelta del rito alternativo si risolve in un’operazione meramente aritmetica di natura processuale (Sez. 2, n. 18558 del 20/02/2020, La Rosa, Rv. 279147 – 01; Sez. 1, n. 17951 del 30/03/2004, Canal, Rv. 228290 – 01; Sez. 5, n. 18368 del 09/12/2003, dep. 2004, Bajrami, Rv. 229229 – 01; Sez. 3, n. 11515 del 15/02/2002, Alibani, Rv. 221277 – 01; Sez. 5, n. 7200 del 12/05/1999, Dì Rocca, Rv. 213696 – 01).
5.4.2. Parallelamente ai profili processuali è stata, però, posta in risalto la portata anche sostanziale degli effetti della diminuente per il rito abbreviato.
Va ricordata, in primo luogo, Sez. U, n. 2977 del 06/03/1992, Piccillo, Rv. 189399 – 01, con la quale venne affermato il seguente principio: “la sentenza della Corte Costituzionale n. 176 del 23 aprile 1991, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui ammetteva al giudizio abbreviato l’imputato cui fosse addebitato un reato punibile con l’ergastolo, non può determinare effetti svantaggiosi per gli imputati di reati punibili con l’ergastolo che abbiano richiesto il giudizio abbreviato prima della dichiarazione dell’illegittimità costituzionale del detto art. 442, comma 2, cod. proc. pen.”.
Ai fini che qui interessano, è utile riportare i passaggi argomentativi sottesi al principio enunciato, in quanto costituenti la trama di ragionamento ribadita in tutte le successive decisioni che a quella in commento si sono richiamate: “La diminuzione di un terzo della pena e la sostituzione dell’ergastolo con la reclusione di trenta anni costituiscono trattamenti penali di favore con caratteristiche peculiari, perché si ricollegano ad un comportamento dell’imputato successivo al reato e di natura processuale, ma secondo queste Sezioni unite la peculiarità dei trattamenti non rende inoperante il limite di cui si è detto.
È vero che, nonostante autorevoli opinioni dottrinali in senso diverso, la giurisprudenza di questa Corte e della Corte costituzionale tende ad escludere la riferibilità dell’art. 25, comma 2, Cost. alle norme processuali, ma nella specie gli aspetti processuali sono strettamente collegati con aspetti sostanziali, perché tali certamente sono quelli relativi alla diminuzione o alla sostituzione della pena e tali sono stati considerati anche dalla Corte costituzionale, da ultimo nella sentenza n. 23 del 1992 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di varie disposizioni concernenti il giudizio abbreviato, nella parte in cui non consentivano al giudice del dibattimento di verificare se il processo avrebbe potuto essere definito allo stato degli atti e di applicare in caso affermativo la riduzione di pena.
Sottrarre al giudice del dibattimento il controllo sulla definibilità allo stato degli atti avrebbe infatti limitato secondo la Corte costituzionale “in modo irragionevole il diritto di difesa dell’imputato, nell’ulteriore svolgimento del processo, su di un aspetto che ha conseguenze sul piano sostanziale”.
Non importa stabilire la natura della diminuzione o della sostituzione della pena, importa piuttosto rilevare che essa si risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore e che ai fini della presente decisione rilevano gli aspetti sostanziali della disposizione concernente tale trattamento, aspetti che sarebbe difficile contestare avendo presente un caso come quello oggetto del presente ricorso nel quale l’adozione del giudizio abbreviato ha determinato una diminuzione di pena di otto anni e sei mesi di reclusione.
Né secondo queste Sezioni unite può rilevare in senso negativo il fatto che il trattamento penale di favore dipenda da un comportamento successivo alla commissione del reato perché la garanzia dell’art. 25, comma 2, Cost. deve essere intesa nel senso che se la legge ricollega ad una condotta, anche successiva al reato, un trattamento penale non può un’eventuale pronuncia di incostituzionalità di quella legge comportare un trattamento svantaggioso per chi ha tenuto quella condotta.
Se si pensa, ad esempio, alle disposizioni che, in relazione a condotte di collaborazione o di dissociazione tenute dopo la commissione dei reati, hanno introdotto casi di non punibilità ed attenuanti per i terroristi “pentiti” o “dissociati”, ci si convince agevolmente che la garanzia della “irretroattività” delle pronunce di incostituzionalità relative a norme penali di favore non può non riguardare anche il trattamento penale stabilito per condotte successive alla commissione del reato e che quindi il dato rilevante è costituito dal collegamento tra una condotta e il suo trattamento penale sostanziale, di modo che non può applicarsi ad un imputato una normativa meno vantaggiosa di quella che regolava la sua condotta nel momento in cui l’ha posta in essere.
Posti questi principi, deve concludersi che la sentenza n. 176/91 non può determinare effetti svantaggiosi per gli imputati di reati punibili con l’ergastolo che hanno richiesto il giudizio abbreviato prima della dichiarazione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 442 comma 2 c.p.p. Per questi imputati deve rimanere fermo il trattamento penale di favore di cui hanno goduto in collegamento con il procedimento speciale adottato e di conseguenza deve essere rigettato il ricorso del Procuratore generale diretto a fare invalidare gli atti del giudizio abbreviato e fare cadere il correlativo trattamento di favore”.
I riflessi significativi sul trattamento sanzionatorio sono stati messi, in seguito, in evidenza da Sez. U, n. 45583 del 2007, Volpe, cit., che ha sottolineato come l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. “realizzi una commistione assolutamente originale tra condotte processuali ed effetti indiretti, ma automatici, sul trattamento sanzionatorio dell’imputato in caso di condanna, ispirata al fine pratico di assicurare, nel sinallagma tra beneficio premiale e disincentivazione del dibattimento, una deflazione e una migliore efficienza del sistema processuale”.
La natura anche sostanziale assolta dalla diminuente in parola è, poi, emersa, con ancora maggiore nettezza, nelle fondamentali pronunce giurisprudenziali occasionate dalle vicende modificative della normativa disciplinante l’accesso al rito abbreviato succedutesi tra il 1999 e il 2000 e attinenti a casi di imputati che, ammessi al rito speciale in base alla legge vigente al momento della richiesta (I. 16 dicembre 1999 n.479, entrata in vigore il 2 gennaio 2000), con l’aspettativa di essere condannati alla pena di anni trenta di reclusione, vennero condannati all’ergastolo in virtù del sopravvenuto art. 7 d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, in vigore al momento della decisione.
Si intende fare riferimento alle seguenti pronunce: – sentenza Corte EDU, 17/09/2009, Scoppola c. Italia, secondo la quale la specificazione introdotta dal d.l. n. 341 del 2000 alla modifica apportata dalla legge n. 479 del 1999 all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. deve essere considerata non l’interpretazione autentica della suddetta norma, ma una nuova disposizione che stabiliva la riduzione di pena da applicare, per la scelta del rito abbreviato, in caso di condanna alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno; norma che, avendo natura sostanziale e non processuale, non poteva essere applicata retroattivamente, in quanto meno favorevole all’imputato;
– sentenza n. 210 del 2013, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’articolo 7 CEDU, come riscontrata dalla sentenza Corte EDU, 17/09/2009, Scoppola c. Italia – l’art. 7, comma 1, del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4;
– sentenza Sez. U, n. 34233 del 19/04/2012, Giannone, Rv. 252932 – 01, con la quale si è, tra l’altro, precisato che tra le diverse leggi succedutesi nel tempo che prevedono la specie e l’entità della pena da infliggere all’imputato in caso di condanna all’esito del giudizio abbreviato per i reati astrattamente punibili con l’ergastolo, la legge intermedia più favorevole non trova applicazione quando la richiesta di accesso al rito speciale non sia avvenuta durante la vigenza di quest’ultima, ma soltanto successivamente, nel vigore della legge posteriore che modifica quella precedente;
– sentenza Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258649 – 01, con la quale è stato formulato il principio di diritto secondo cui “non può essere ulteriormente eseguita, ma deve essere sostituita con quella di anni trenta di reclusione, la pena dell’ergastolo inflitta in applicazione dell’art. 7, comma primo, d.l. n. 341 del 2000 all’esito di giudizio abbreviato richiesto dall’interessato nella vigenza dell’art. 30, comma primo, lett. b), legge n. 479 del 1999 – il quale disponeva, per il caso di accesso al rito speciale, la sostituzione della sanzione detentiva perpetua con quella temporanea nella misura precisata – anche se la condanna è divenuta irrevocabile prima della dichiarazione di illegittimità della disposizione più rigorosa, pronunciata per violazione dell’art. 117 Cost. in riferimento all’art. 7, par. 1, della Convenzione Edu, laddove riconosce il diritto dell’interessato a beneficiare del trattamento “intermedio” più favorevole, in quanto il divieto di dare esecuzione ad una sanzione penale contemplata da una norma dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi esprime un valore che prevale su quello della intangibilità del giudicato e trova attuazione nell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87″.
Tutte le elencate decisioni hanno concordemente riconosciuto che gli aspetti processuali propri del giudizio abbreviato sono strettamente collegati con aspetti sostanziali, dovendosi ritenere tali quelli relativi alla diminuzione o alla sostituzione della pena.
Vale la pena di trascrivere, per tutte, i seguenti chiarissimi passaggi di Sez. U, Ercolano (par. 4.4. pag. 9): “La disposizione di cui all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nelle varie versioni succedutesi nel tempo, pur disciplinando aspetti processuali connessi, in caso di condanna, all’esito sanzionatorio del giudizio abbreviato, coniuga tali aspetti con una indubbia portata sostanziale, quale deve ritenersi quella relativa alla diminuzione o alla sostituzione della pena, che integra un trattamento penale di favore, sia pure con caratteristiche peculiari, perché ricollegabili alla condotta dell’imputato successiva al reato e connotata dalla scelta processuale di accesso al rito alternativo.
Tali affermazioni si collocano nel solco di quanto argomentato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 2977 del 06/03/1992, Piccillo. (…) L’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., quindi, disciplinando la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato, è norma di diritto penale sostanziale e, tenuto conto che la stessa – con specifico riferimento ai reati punibili con la pena dell’ergastolo – ha subito, nel tempo, varie modifiche per interventi della Corte costituzionale e del legislatore, deve soggiacere al principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7, par 1, CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, vale a dire irretroattività della previsione più severa (principio già contenuto nell’art. 25, comma secondo, Cost.), ma anche, e implicitamente, retroattività o ultrattività della previsione meno severa”.
In perfetta coerenza con la giurisprudenza appena ricordata si pongono le più recenti decisioni emesse dalle Sezioni semplici di questa Corte in tema di sottoposizione alla disciplina di cui all’art. 2 cod. pen. Anche dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nella parte novellata dalla legge 23 giugno 2017 n. 103 che, in caso di condanna all’esito di giudizio abbreviato per reati contravvenzionali, ha ampliato la riduzione della pena da un terzo alla metà.
Esse ribadiscono la natura sostanziale degli effetti prodotti dalla riduzione della pena per il rito alternativo, sebbene in conseguenza dell’applicazione di una norma processuale (Sez. 4, n. 24897 del 18/5/2021, Bara, Rv. 281488 – 01; Sez. 1, n. 39087 del 24/05/2019, Mersini, Rv. 276869 – 01; Sez. 4, n. 5034 del 15/01/2019, Lazzara, Rv. 275218 – 01; Sez. 4, n. 832 del 15/12/2017, dep. 2018, Del Prete, Rv. 271752 – 01).
Per concludere sul punto, può ritenersi, ormai, condivisa la prospettiva secondo la quale è innegabile la natura sostanziale delle ricadute sul trattamento sanzionatorio derivanti dall’accesso al rito abbreviato, dal che consegue, necessariamente, la loro sottoposizione alla disciplina prevista dagli artt. 2 cod. pen. e 25 Cost.
Di contro, deve considerarsi, per quanto detto, non corretta, sul piano giuridico, la tesi che propugna la natura esclusivamente processuale della diminuente di cui all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen.
- Proprio il richiamo all’art. 25 Cost. consente di svolgere brevi considerazioni conclusive a sostegno del principio che qui si intende affermare.
L’odierno ricorrente, nel giudizio poi definito con la sentenza indicata sub B) nel provvedimento impugnato, scelse il rito abbreviato nell’aspettativa, sicura, di veder sanzionata, in caso di condanna, la propria condotta omicidiaria con la pena temporanea di anni trenta di reclusione, in sostituzione di quella dell’ergastolo, quale effetto previsto dalla riduzione di cui all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen.
Viceversa, come già esposto, il giudice dell’esecuzione, ha individuato come pena più grave inflitta che identifica la violazione più grave, ai sensi dell’art. 187, disp. att. cod. proc. pen., non quella temporanea effettivamente disposta nei confronti di A.A. con la sentenza emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro il 3 marzo 2014, ma – in base all’adesione all’orientamento che qui si disattende – quella dell’ergastolo, antecedente alla riduzione per il rito, ossia proprio quella pena perpetua che, attraverso la scelta del rito alternativo, l’imputato aveva voluto evitare.
Trattasi di un’opzione che, evidentemente, collide (anche) con l’art. 25 Cost., a proposito del quale va ricordato, come costantemente affermato dalla Corte costituzionale, che “il principio di legalità, prevedibilità e accessibilità della condotta sanzionabile e della sanzione aventi carattere punitivo-afflittivo, qualunque sia il nomen ad essa attribuito dall’ordinamento (…) non può, ormai, non considerarsi patrimonio derivato non soltanto dai principi costituzionali, ma anche da quelli del diritto convenzionale e sovranazionale europeo, in base ai quali è illegittimo sanzionare comportamenti posti in essere da soggetti che non siano stati messi in condizione di “conoscere“, in tutte le sue dimensioni tipizzate, la illiceità della condotta omissiva o commissiva concretamente realizzata” (tra le più recenti, Corte cost., sent. n. 134 del 2019 e n. 121 del 2018).
- Alla stregua delle esposte considerazioni, possono, quindi, essere enunciati i seguenti principi di diritto:
1) ai sensi dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., il giudice dell’esecuzione deve considerare come “pena più grave inflitta”, che identifica la “violazione più grave”, quella concretamente irrogata dal giudice della cognizione siccome indicata nel dispositivo di sentenza;
2) ai sensi degli artt. 671 cod. proc. pen. e 187 disp. att. cod. proc. pen., in caso di riconoscimento della continuazione tra reati giudicati separatamente con rito abbreviato, fra cui sia compreso un delitto punito con la pena dell’ergastolo per il quale il giudice della cognizione abbia applicato la pena di anni trenta di reclusione per effetto della diminuente di un terzo ex art. 442, comma 2, terzo periodo, cod. proc. pen. (nel testo vigente sino al 19 aprile 2019), il giudice dell’esecuzione deve considerare come “pena più grave inflitta” che identifica la “violazione più grave” quella conseguente alla riduzione per il giudizio abbreviato“.
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