Cassazione civile, Sez. lav., ordinanza 30 gennaio 2024, n. 2761
PRINCIPIO DI DIRITTO
La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da errore in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo il ricorrente denuncia la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 11(1) Cost., art. 132 cpc e art. 118 disp. att. cpc in ordine alla mancata motivazione della omessa considerazione di controprova scritta (circa la sussistenza di normativa aziendale sugli orari giornalieri)”. Sottolinea “che la questione del rispetto della normativa aziendale, in tema di orario giornaliero, presentava un duplice aspetto: quello della esistenza di una supposta prassi derogatoria della normativa tradizionale (orari 9:00-13:00; 14:00-18:00, affermata dall’informatore sig. B.B., ma negata dall’altro informatore (signori C.C.@, D.D.@, E.E.@) e quello della riconferma esplicita dell’obbligo di rispettare un “registro uscite”, riconferma contenuta in una comunicazione-ordine di servizio del Direttore Risorse Umane, F.F. del 3 settembre 2015 (doc. 17 fascicolo parte ricorrente), di poco precedente, dunque, i fatti di causa”. Deduce che, nonostante fosse stata sottolineata in precedenza l’importanza di detto ordine di servizio, “nessun Giudice ha mai preso la sua replica nella minima considerazione, ripetendosi sempre l’assunto iniziale della caduta in desuetudine della normativa sull’orario giornaliero, smentita, invece da quella comunicazione-ordine di servizio del 3-9-2015”. 2. Con un secondo motivo denuncia “Ancora vizio di mancanza di motivazione circa l’effettuazione prevalentemente “da remoto” della prestazione lavorativa”. Secondo la ricorrente, la Corte di appello “non ha minimamente rilevato né giustificato, motivandola, la contraddizione esistente nelle affermazioni e attestazioni di circostanze diverse e tra loro incompatibili della signora A.A.”. Censura, in particolare, il punto a pag. 8 dell’impugnata sentenza in cui la Corte “ha ritenuto che non si potesse contestare alla lavoratrice A.A. il mancato svolgimento, almeno in misura maggioritaria della prestazione “ben potendo la lavoratrice aver tenuto i necessari contatti per via telematica in tutte le ore nelle quali risultava in luoghi diversi da quelli aziendali””. Secondo la ricorrente, “Questo è un classico esempio di motivazione “apparente” perché si sostituisce ad un accertamento di fatto una mera ipotesi”. 3. Con un terzo motivo denuncia Ancora violazione del “minimo costituzionale di motivazione”, in relazione alle contestazioni di impossibilità dell’esecuzione della prestazione di coordinatore “da remoto”. Secondo la ricorrente, a riguardo la sentenza della Corte d’appello non ha dato alcuna risposta a fondamentali questioni dalla stessa poste in sede di reclamo; e, “se nel primo grado si dice che il lavoratore operava per telefono, e nel gravame si contesta che ciò non è possibile per specifici motivi quantitativi e qualitativi, non può la sentenza di appello limitarsi a ripetere che il lavoratore … operava per telefono, e rigettare il gravame”; mancava appunto la motivazione ovvero il suo “minimo costituzionale”. 4. Tutti tali motivi, esaminabili congiuntamente per evidente connessione, sono infondati. Giova premettere che, affinché sia integrato il vizio di “mancanza della motivazione” agli effetti di cui all’art. 132 c.p.c. n. 4, occorre che la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero che essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscere come giustificazione del decisum. La mancanza di motivazione, quale causa di nullità per mancanza di un requisito indispensabile della sentenza, si configura “nei casi di radicale carenza di essa, ovvero del suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi (cosiddetta motivazione apparente), o fra di loro logicamente inconciliabili, o comunque perplesse od obiettivamente incomprensibili, e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, restando esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima in raffronto con le risultanze probatorie”. In tal senso, la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da errore in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (così, tra le altre, Cass., sez. lav., 25.6.2020, n. 12632). 6. Ebbene, i vizi di mancanza di motivazione o di motivazione apparente, lamentati dalla ricorrente, non sono assolutamente riscontrabili nell’impugnata sentenza. 7. La ricorrente anzitutto non considera, né censura quindi in qualsiasi modo, il punto in cui, come già accennato in narrativa, la Corte di merito ha inteso l’unico motivo di gravame dell’allora reclamante nel senso di un sostenuto “fraintendimento, da parte del giudice reclamato, del contenuto stesso della contestazione”, dando conto diffusamente conto delle argomentazioni in tal senso svolte dalla reclamante (v. in extensopagg. 3-5 della sua sentenza). La stessa Corte, inoltre, aveva riportato in nota 1 a pag. 4 dei “movimenti della A.A. non compatibili con le sedi (fisiche) di lavoro”, beninteso, secondo la contestazione disciplinare, e in nota 2 tra la pag. 4 e la pag. 5 di tutte le numerose attività secondo la società datrice di competenza della lavoratrice. 7.1. La Corte di merito, quindi, ha osservato che: “pare che se equivoco esiste, sia proprio nella lettura che la società reclamante dà alle ragioni di decisione”; ragioni che, secondo la stessa, “muovono dal presupposto che non vi fosse vincolo di orario lavorativo per lo svolgimento dei compiti assegnati” alla lavoratrice quale coordinatrice (cfr. pagg. 5-6). Nell’ambito di tale parte di motivazione, la Corte aveva, altresì, evidenziato che già: ” il giudice reclamato ha ritenuto, sulla base delle prove assunte, che la lavoratrice bene potesse lavorare da remoto, senza con questo far venire meno la diligenza dovuta”. 8. Del resto, l’affermazione, attribuita dalla ricorrente alla Corte di merito ed asseritamente immotivata, che la lavoratrice avesse effettuato “prevalentemente “da remoto”” la prestazione lavorativa neanche è riscontrabile nell’impugnata sentenza. Dopo il passo testé riportato, infatti, circa quanto ritenuto dal primo giudice in sentenza, la Corte ha piuttosto osservato che: “Lo stesso elenco di mansioni consente di evincere che alcune di esse prescindono completamente dalla presenza fisica in un determinato luogo; basti pensare a quelle così sintetizzate nell’elenco offerto dalla stessa società reclamante: … “(segue un elenco di 9 attività, a sua volta estrapolato da quello completo riportato in nota 2). 9. Nota, quindi, il Collegio che già prima del singolo passo a pag. 8 dell’impugnata sentenza, specificamente censurato dalla ricorrente nel secondo motivo, la Corte territoriale, sulla scorta delle precipue attività di competenza della lavoratrice che, secondo la sua valutazione, non richiedevano la sua “presenza fisica in un determinato luogo”, aveva ritenuto che: “Non si può dunque escludere che nei giorni o nelle ore che la società datrice indica come “assenza dal servizio” la A.A. abbia invece compiuto questo tipo di attività”. E, a sua volta, detto apprezzamento non è affatto immotivato. In tal senso, la Corte distrettuale ha fatto soprattutto (ma non solo) riferimento alla deposizione del teste B.B., a suo tempo responsabile della produzione nella regione Lazio e supervisore dell’attività dei coordinatori, tra i quali coordinatori vi era la lavoratrice. E, in disparte la più ampia trascrizione delle dichiarazioni di questo testimone qualificato, riportata dalla Corte, il B.B. aveva, tra l’altro, dichiarato che: “A volte la ricorrente lavorava da casa perché aveva la scheda sim aziendale per lavorare dove e quando ritenuto opportuno. La scheda l’avevano solo i coordinatori e l’avevo pure io. C’era una rete aziendale. Talvolta la resistente si faceva dare i fogli presenza fuori dall’orario di lavoro per poter fare il lavoro a casa se non poteva uscire ad esempio per malattia” (cfr. pag. 7 dell’impugnata sentenza). 10. Da quanto precede risulta l’infondatezza anche del terzo motivo di ricorso. 10.1. Secondo la ricorrente, essa, nei suoi motivi di appello (rectius, di reclamo), aveva sostenuto “che per la massima parte dei 26 incarichi previsti dal mansionario dei coordinatori, i più importanti non potevano essere in concreto, essere assolti tramite un contatto telefonico con un lavoratore impiegato nel singolo appalto, invece che di persona dal coordinatore”. Ma la risposta meramente assertiva che la stessa assume di aver ottenuto in proposito dalla Corte di merito, la quale si sarebbe limitata a ripetere che la lavoratrice “operava per telefono”, non si riscontra affatto nella decisione di secondo grado. Come si è già visto, la Corte di merito non ha affermato che la dipendente svolgesse tutta la sua attività per via telefonica, ma ha ritenuto, in ragione del particolare ruolo di coordinatrice dalla stessa rivestito, con non pochi (come asserito dalla ricorrente, ma plurimi) compiti che, secondo il giudizio della stessa, prescindevano “completamente dalla presenza fisica in un determinato luogo”, abbia potuto svolgere dette attività (non tutte) “nei giorni e nelle ore che la società datrice di lavoro indica come “assenza dal servizio”” e che abbia potuto tenere ” i necessari contatti per via telefonica in tutte le ore nelle quali la stessa risultava in luoghi diversi da quelli “aziendali””. 11. Infine, quanto alla pretesa pretermissione della comunicazione-ordine di servizio in data 3.9.2015, non risulta affatto che la Corte abbia ripetuto “sempre l’assunto iniziale della caduta in desuetudine della normativa sull’orario giornaliero, smentita, invece” da detta comunicazione, a detta della ricorrente. Piuttosto, come si è già notato, a fronte di un unico motivo di gravame che si fondava sul sostenuto fraintendimento del contenuto della contestazione disciplinare da parte del giudice dell’opposizione, la Corte di merito ha ritenuto che piuttosto tale impostazione della censura non avesse correttamente messo a fuoco l’effettiva ratio decidendi della sentenza oggetto di reclamo. In effetti anche il primo giudice non aveva parlato di desuetudine in generale circa l’osservanza dell’orario giornaliero di lavoro nell’impresa datrice di lavoro, bensì aveva “ritenuto che l’istruttoria orale avesse dimostrato “… l’assenza di vincolo di orario lavorativo in capo ai coordinatori come la A.A., rientrando nei compiti di gestione dei cantieri anche la tenuta in autonomia dei contatti con clienti e personali ed acquisti”” (cfr. pag. 2 e pagg. 5-6- dell’impugnata sentenza). E la Corte di merito, nel confermare tale valutazione nei termini su precisati, ha concluso “che l’addebito contestato sarebbe stato fondato solo laddove la A.A. avesse fatto mancare il proprio apporto di risultato ovvero laddove fosse stato possibile dimostrare che il suo tempo fosse stato dedicato ad altre attività, non compatibili con quelle lavorative, in misura tale da escludere la prestazione oraria”; il che ha escluso in via di fatto. 12. La ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.