Corte costituzionale, sentenza 12 febbraio 2024 n.15
PRINCIPIO DI DIRITTO
“Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, nella parte in cui prevede che l’ivi prevista documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel Paese di origine e nel Paese di provenienza – documentazione richiesta per dimostrare l’impossidenza di altri alloggi, ai sensi dell’art. 29, comma 1, lettera d), della medesima legge regionale – debba essere presentata dai cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo con modalità diverse rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e UE.”
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, con il ricorso iscritto al n. 2 reg. confl. tra enti 2023, propone conflitto di attribuzione chiedendo che sia dichiarato che non spettava allo Stato, e per esso al Tribunale di Udine, in funzione di giudice del lavoro, adottare l’ordinanza con la quale, nell’ambito di un’azione civile contro la discriminazione per motivi di nazionalità ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, ha ordinato a essa Regione autonoma […] di modificare il regolamento regionale n. 0144 del 2016 «nella parte che prevede per i cittadini extracomunitari soggiornanti di lungo periodo requisiti o modalità diverse rispetto a quelli previsti per i cittadini comunitari per attestare l’impossidenza di alloggi in Italia e all’estero e garantendo invece che i cittadini comunitari e quelli extracomunitari soggiornanti di lungo periodo possano documentare allo stesso modo l’impossidenza di cui all’art. 9, comma 2 lett. C)” dello stesso regolamento».
A fondamento delle doglianze, la Regione ricorrente pone la violazione degli artt. 4, 5 e 6 dello statuto speciale, degli artt. 97, 101, 113, 117, terzo, quarto, quinto e sesto comma, 120, secondo comma, 134 e 136 Cost., nonché dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001.
L’ordinanza oggetto del conflitto è stata adottata previo accertamento del comportamento discriminatorio della Regione autonoma all’origine del giudizio – instaurato da un cittadino italiano e dalla coniuge albanese titolare di permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo, nell’ambito del quale ASGI ha spiegato un intervento in forma adesiva autonoma – e previa non applicazione, per contrasto con l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE, dell’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016 e dell’art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016.
[…]
In subordine, la ricorrente richiede che si dichiari che non spettava al Tribunale di Udine adottare l’impugnata ordinanza, della quale si richiede l’annullamento, «senza aver prima chiesto ed ottenuto da codesta Corte costituzionale la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, della legge regionale n. 1 del 2016».
- In analogo giudizio antidiscriminatorio ex art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, altro giudice del medesimo Tribunale di Udine, con ordinanza iscritta al n. 97 reg. ord. 2023, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. – quest’ultimo in relazione all’art. 11 della direttiva 2003/109/CE – dell’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016.
Il giudice rimettente lamenta che detta disposizione prevede che i cittadini extra UE, ai fini della dimostrazione del requisito dell’impossidenza di altri alloggi di cui all’art. 29, comma 1, lettera d), della medesima legge regionale, devono presentare la documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel Paese di origine e nel Paese di provenienza con modalità diverse rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e UE.
Con la medesima ordinanza, qualora tali questioni siano ritenute non fondate, il giudice a quo ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, ancora in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., anche dell’art. 29, comma 1, lettera d), della medesima legge regionale, «nella parte in cui tra i requisiti minimi per l’accesso al contributo per il sostegno alle locazioni previsto dall’art. 19 della medesima legge, indica “il non essere proprietari neppure della nuda proprietà di altri alloggi, all’interno del territorio nazionale o all’estero, purché non dichiarati inagibili, con esclusione delle quote di proprietà non riconducibili all’unità, ricevuti per successione ereditaria, della nuda proprietà di alloggi il cui usufrutto è in capo a parenti entro il secondo grado e degli alloggi, o quote degli stessi, assegnati in sede di separazione personale o divorzio al coniuge o convivente.”».
Anche nell’ambito di questo giudizio – […] – il Tribunale di Udine, prima di adottare l’ordinanza di rimessione e parzialmente accogliendo le domande dei ricorrenti, ha innanzitutto accertato il carattere discriminatorio del comportamento della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia (e del pari convenuto Comune di Udine) all’origine del ricorso e, poi, ha ritenuto di poter non applicare, perché in contrasto con l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE, l’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, e le relative disposizioni regolamentari (art. 9, commi 3 e 3-bis, del regolamento regionale n. 066 del 2020).
Il giudice a quo, però, ha escluso di poter ordinare alla Regione autonoma la modifica delle disposizioni regolamentari causa dell’accertato comportamento discriminatorio, in quanto sostanzialmente riproduttive della disposizione legislativa.
Di qui, la decisione di sollevare le odierne questioni di legittimità costituzionale riferite, per l’appunto, alla norma di legge.
- In via preliminare, deve disporsi la riunione dei giudizi.
Sotteso a entrambi, infatti, è il tema concernente la possibilità per il giudice ordinario, nell’ambito del giudizio antidiscriminatorio di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, di ordinare la modifica di norme regolamentari delle quali è stato accertato il carattere discriminatorio.
Nel giudizio per conflitto tra enti, la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia contesta in radice tale possibilità, ammettendo soltanto, ma in subordine, che un ordine del genere possa essere adottato, eventualmente, dopo che sia stata sollevata e accolta una questione di legittimità costituzionale sulla norma di legge sostanzialmente riprodotta dalla norma regolamentare.
Nel giudizio in via incidentale, il Tribunale di Udine segue esattamente questa seconda prospettiva, sollevando questione di legittimità costituzionale sulla norma legislativa presupposta e sostanzialmente riprodotta dalla norma regolamentare della quale, nel giudizio a quo, le parti hanno chiesto sia ordinata la modifica.
In ragione della connessione che viene così a determinarsi tra i due giudizi in esame, essi devono essere congiuntamente trattati e decisi con un’unica pronuncia.
- […] Va ribadita l’ammissibilità dell’intervento di ASGI spiegato nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti.
Di regola, in tale sede non è ammesso l’intervento di soggetti diversi da quelli legittimati a promuovere il conflitto o a resistervi […].
La giurisprudenza di questa Corte, tuttavia, ha in più occasioni precisato che non può escludersi la possibilità che l’oggetto del conflitto sia tale da coinvolgere, in modo immediato e diretto, situazioni soggettive di terzi, il cui pregiudizio o la cui salvaguardia dipendono dall’esito del conflitto: in casi del genere, l’intervento di terzi non può, allora, che essere ammissibile, in modo da consentire a tali soggetti di far valere le proprie ragioni nel giudizio di fronte a questa Corte […].
Nel caso di specie, per un verso ASGI riveste la qualità di parte nel giudizio definito con l’ordinanza del Tribunale di Udine oggetto del conflitto di attribuzione proposto dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia; per un altro, detto conflitto verte sulla spettanza allo Stato e, per esso, al predetto Tribunale di Udine del potere di ordinare alla ricorrente la rimozione di una norma dal regolamento regionale n. 0144 del 2016: potere, questo, che nel giudizio ex art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 definito con l’ordinanza impugnata è stato esercitato dal Tribunale di Udine anche su domanda di ASGI.
Ne deriva che la risoluzione del promosso conflitto è suscettibile di incidere in maniera immediata e diretta sulla situazione soggettiva dell’associazione interveniente, la cui domanda è stata accolta con il provvedimento giurisdizionale che la Regione autonoma impugna dinanzi a questa Corte.
- In entrambi i giudizi, le parti e l’interveniente hanno proposto eccezioni di inammissibilità o portato all’attenzione di questa Corte altre questioni preliminari che impedirebbero l’esame nel merito tanto del conflitto di attribuzione quanto del giudizio di legittimità costituzionale.
Le argomentazioni in proposito svolte dalle parti e dall’interveniente non sono, peraltro, condivisibili […].
5.1. Quanto al conflitto intersoggettivo, nell’atto di intervento ASGI riferisce che nel marzo 2023 – e dunque già prima della proposizione del ricorso – la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia aveva abrogato le diverse norme regolamentari che disponevano la differenza di trattamento documentale tra cittadini UE e cittadini extra UE, tra cui quella d’interesse nel giudizio deciso con l’impugnata ordinanza […].
A parere dell’interveniente, ciò dimostrerebbe la carenza di interesse al ricorso: quale che sia l’esito del conflitto, così come degli altri giudizi pendenti dinanzi al giudice ordinario concernenti l’onere documentale previsto dalla normativa regionale, la Regione autonoma potrebbe solo varare un nuovo regolamento con valenza pro futuro, insuscettibile di far venir meno i diritti acquisiti dai cittadini stranieri sulla base dei vigenti regolamenti.
5.1.1. A escludere la fondatezza di tale rilievo sta la circostanza – secondo quanto sottolineato anche dalla ricorrente nella propria memoria – che nel preambolo di detto regolamento, che per l’appunto abroga la norma regolamentare concernente l’onere documentale ritenuto discriminatorio dall’ordinanza impugnata, la Regione autonoma ha espressamente affermato che detta modifica «costituisce mero adempimento delle disposizioni dell’Autorità giudiziaria di Udine, ma non [è] da intendersi come acquiescenza» alle suddette disposizioni, essendo stata disposta «al solo scopo di evitare il pagamento delle astreintes ex art. 614-bis c.p.c. e dunque senza acquiescenza».
Non può, dunque, dubitarsi della sussistenza dell’interesse al ricorso da parte della Regione autonoma, la quale quindi chiede a questa Corte di stabilire se spettasse o non allo Stato, e per esso al Tribunale di Udine, ordinare la modifica dell’art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016.
5.2. La Regione autonoma, dal canto suo, riferisce che la Corte d’appello di Trieste, con sentenza dell’8 giugno 2023, n. 99 «ha annullato le statuizioni del Tribunale di Udine impugnate con il presente conflitto».
Le ragioni d’annullamento, riferisce la ricorrente, «corrispondono, nella sostanza, a quelle fatte valere dalla Regione nel proprio ricorso».
ASGI, nella propria memoria, ritiene sia cessata la materia del contendere, in quanto a seguito della decisione della Corte d’appello di Trieste lo Stato converrebbe «con la Regione sul fatto che “non spetta” [al tribunale di Udine] adottare detta ordinanza».
5.2.1. Questa Corte ritiene doversi escludere che ricorrano i presupposti per dichiarare cessata la materia del contendere.
In punto di fatto, va ricordato che la richiamata sentenza della Corte d’appello di Trieste ha, per un verso, confermato la natura discriminatoria delle norme legislative e regolamentari della Regione autonoma che prevedono l’onere documentale in capo ai cittadini extra UE, ma, per un altro, ha annullato l’ordinanza nelle parti oggetto del conflitto (punti 2, 3, 7 e 8 del relativo dispositivo).
La Corte d’appello, infatti, ha ritenuto che l’ordine di modificare il regolamento sarebbe esorbitante rispetto ai limiti ordinamentali della giurisdizione ordinaria.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la cessazione della materia del contendere ricorre quando l’atto impugnato risulti annullato con efficacia ex tunc, con conseguente venir meno delle affermazioni di competenza determinative del conflitto» (così la sentenza n. 224 del 2019).
Il mero annullamento dell’atto impugnato, tuttavia, non è di per sé sufficiente a determinare la cessazione della materia del contendere, laddove persista «l’interesse del ricorrente a ottenere una decisione sull’appartenenza del potere contestato» (ancora sentenza n. 224 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 183 del 2017) e, dunque, resti «inalterato l’oggetto del contendere che permea di sé l’intero ricorso […] vale a dire la verifica circa la spettanza del potere» (sentenza n. 260 del 2016).
Il giudizio per conflitto di attribuzione tra enti, infatti, «è diretto a definire l’ambito delle sfere di attribuzione dei poteri confliggenti al momento della sua insorgenza, restando di regola insensibile agli sviluppi successivi delle vicende che al conflitto abbiano dato origine» (sentenza n. 106 del 2009), al punto che «sussiste comunque – anche dopo l’esaurimento degli effetti dell’atto impugnato – un interesse all’accertamento, il quale trae origine dall’esigenza di porre fine – secondo quanto disposto dall’art. 38 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) – ad una situazione di incertezza in ordine al riparto costituzionale delle attribuzioni» (sentenza n. 9 del 2013).
5.2.2. Alla luce dei richiamati princìpi, deve ritenersi che persista l’interesse della Regione autonoma all’accertamento del riparto costituzionale delle attribuzioni.
Depone in tal senso, innanzitutto, la circostanza che la ricorrente, nella propria memoria e in udienza pubblica, si è limitata a dar conto della pronuncia della Corte d’appello di Trieste, chiedendo a questa Corte di valutare se, nonostante tale pronuncia, sia possibile una decisione nel merito «circa la spettanza del potere in una controversia che riguarda la definizione della condizione della legge regionale asseritamente contrastante con il diritto dell’Unione europea e il potere del giudice di determinarne esso il contenuto, o il potere del giudice di ordinare alla Regione la modifica di atti regolamentari, e in particolare di atti regolamentari riproduttivi della medesima legge».
D’altro canto, che vi sia un interesse alla risoluzione della controversia in ordine alla spettanza o al corretto esercizio dell’attribuzione costituzionale è dato anche dall’esistenza – più volte sottolineata in atti dalla ricorrente e dall’interveniente, oltre che dimostrata per tabulas dall’odierno giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale riunito al conflitto di attribuzione – di un nutrito contenzioso presso la giurisdizione ordinaria nella Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia in ordine all’accesso alle misure di sostegno all’edilizia residenziale pubblica, contenzioso nell’ambito del quale viene sovente in discussione proprio il potere del giudice ordinario di imporre la modifica di regolamenti regionali ritenuti discriminatori.
5.3. Sin dall’atto d’intervento, ASGI ha eccepito l’inammissibilità del conflitto di attribuzione in quanto la Regione autonoma pretenderebbe di far valere dinanzi a questa Corte meri errores in iudicando in cui sarebbe incorso il Tribunale di Udine.
La ricorrente, infatti, si dorrebbe del fatto che il predetto Tribunale abbia considerato l’art. 29 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016 come privo di effetti, in quanto in contrasto con il diritto dell’Unione europea. Se sia o meno corretta la scelta di non applicare tale normativa regionale, così come la praticabilità di altre strade decisorie da parte del giudice, sono questioni che, a parere dell’interveniente, dovrebbero essere valutate in altre sedi e non, invece, nel giudizio per conflitto di attribuzione, pena la messa in discussione del primato stesso del diritto dell’UE.
La Regione autonoma, del resto, non contesterebbe la possibilità del giudice amministrativo di annullare una norma regolamentare, ma il fatto che il medesimo potere sia stato esercitato, «pur nelle forme diverse dell’ordine di modifica e non dell’annullamento dell’atto», dal giudice ordinario: ciò che non sarebbe materia da conflitto intersoggettivo, ma da regolamento di giurisdizione.
Secondo ASGI, pertanto, a seguire la prospettiva della ricorrente o il potere di ordinare la modifica della normativa regolamentare è stato mal esercitato – il che sarebbe però un error in iudicando, non contestabile nella sede del conflitto – o esso è stato esercitato in conformità a una legge costituzionalmente illegittima, senza però che la Regione autonoma abbia eccepito tale vizio dinanzi al Tribunale di Udine.
5.3.1. L’eccezione non è fondata.
La Regione autonoma sottolinea ripetutamente nel proprio ricorso che non intende discutere – come in effetti non discute – la decisione del giudice di non applicare le norme regionali, legislative e regolamentari, ritenute in contrasto con il diritto UE e, conseguentemente, «di attribuire il bene della vita al soggetto che è ritenuto discriminato».
Contesta, invece, la pretesa del Tribunale di Udine di ordinare a essa Regione l’adozione di «specifiche norme generali ed astratte», e cioè «di esercitare i propri poteri normativi secondo contenuti decisi da esso giudice, ed in particolare – nel caso specifico – di esercitarli in modo contrario a quan[t]o precisamente disposto dalla legge regionale».
In questa prospettiva, la ricorrente afferma che non esiste alcuna norma che attribuisca al giudice il potere di ordinare l’esercizio, in un determinato modo, della potestà regolamentare, sicché il Tribunale di Udine con l’ordinanza impugnata avrebbe esorbitato dai limiti della giurisdizione.
L’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, sul quale fa leva la pronuncia oggetto del conflitto, andrebbe letto invece alla luce di quanto l’art. 113 Cost. dispone in merito ai poteri del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione e, dunque, nei sensi della mera disapplicazione della normativa regolamentare illegittima.
La Regione autonoma torna ancora sul punto nella memoria, sottolineando come i «punti focali» del ricorso siano «se il giudice comune abbia il potere di ordinare ad un’amministrazione regionale di modificare un proprio regolamento» e se un ordine del genere possa essere emesso quando determinerebbe l’adozione di un regolamento «in frontale contrapposizione con il disposto di una norma di legge regionale vigente», anche se non applicata per contrasto con il diritto UE.
Del resto, il conflitto costituirebbe «proprio lo strumento chiamato a correggere quel particolare tipo di error in iudicando che consiste nell’affermare e nel praticare un potere giurisdizionale inesistente, contrario alle garanzie costituzionali dei poteri normativi regionali e statali, e in particolare del potere legislativo».
Tutto ciò considerato, deve allora rilevarsi che la Regione autonoma intende negare in radice – se a torto o a ragione è questione che attiene al merito – «la riconducibilità dell’atto che ha determinato il conflitto alla funzione giurisdizionale» (sentenza n. 137 del 2023), in quanto lamenta che il Tribunale di Udine ha ritenuto di avere un potere – quello di ordinare la modifica di un atto regolamentare – che non gli spetta e il cui esercizio ha leso diverse attribuzioni costituzionali di essa Regione.
Il promosso conflitto, dunque, si palesa non quale mero controllo dell’attività giurisdizionale – il che lo renderebbe inammissibile – ma come «garanzia di sfere di attribuzioni che si vogliono costituzionalmente protette da interferenze da parte di organi della giurisdizione o che si vogliono riservare al controllo di altra istanza costituzionale» (sentenza n. 27 del 1999).
5.4. Vanno ora esaminati i profili preliminari del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale.
Va innanzitutto escluso che l’abrogazione dell’art. 9, commi 3 e 3-bis, del regolamento regionale n. 066 del 2020 – disposizioni che il Tribunale di Udine ha accertato essere discriminatorie e che vorrebbe ordinare alla Regione autonoma di rimuovere – determini l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, come sostenuto nella memoria dalle parti private, o imponga la restituzione degli atti al giudice a quo, come suggerito dalla difesa regionale.
Quanto alla dedotta inammissibilità, va considerato che l’abrogazione delle norme regolamentari è intervenuta successivamente all’adozione dell’ordinanza di rimessione: tanto basterebbe a escludere un vizio di quest’ultima che valga a impedire lo scrutinio nel merito.
Va del pari esclusa la restituzione degli atti al giudice a quo, in quanto l’avvenuta abrogazione del citato art. 9, commi 3 e 3-bis, non incide sul nucleo delle questioni di legittimità costituzionale, in quanto non influisce in alcun modo sull’oggetto dei dubbi di costituzionalità – costituito dalla disposizione di rango legislativo dettata dall’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, ancora vigente nell’ordinamento regionale – né sulle norme parametro o sugli argomenti utilizzati dal giudice a quo.
Detto altrimenti, l’abrogazione della norma regolamentare lascia inalterato il significato normativo delle disposizioni legislative censurate in relazione ai profili di illegittimità costituzionale e, dunque, non scalfisce né l’ordito logico alla base delle censure né il meccanismo contestato dal giudice rimettente […].
5.5. La Regione autonoma ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate per contraddittorietà.
Le questioni sollevate in via principale sull’onere di documentazione posto dall’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, infatti, potrebbero «giuridicamente e praticamente porsi soltanto se si presuppone l’applicazione della disposizione relativa all’impossidenza».
Il giudice rimettente, che in via subordinata ha sollevato questioni anche sul requisito dell’impossidenza, previsto dall’art. 29, comma 1, lettera d), della medesima legge regionale, avrebbe invertito la priorità logica delle questioni: quelle sulle modalità di dimostrazione dell’impossidenza potrebbero considerarsi rilevanti solo se il requisito stesso fosse considerato costituzionalmente legittimo.
Da ciò, la difesa regionale desume il carattere «perplesso o ancipite» dei dubbi di legittimità costituzionale prospettati dal Tribunale di Udine.
La difesa delle parti private, dal canto suo, ritiene «pregiudiziale e assorbente» il dubbio di legittimità costituzionale, prospettato in via subordinata, in relazione al requisito dell’impossidenza.
Pur osservando che nel ricorso introduttivo del giudizio a quo è stato richiesto un piano di rimozione delle modalità discriminatorie attraverso cui si richiede ai cittadini extra UE di attestare l’impossidenza, le parti private affermano che se è «incostituzionale “a monte” la previsione dello stesso requisito da documentare» l’illegittimità costituzionale di quest’ultimo «condurrebbe in ogni caso all’accoglimento sostanziale della domanda», volta a ottenere un trattamento paritario tra cittadini UE e extra UE.
5.5.1. L’eccezione d’inammissibilità non è fondata. Del pari, non possono essere condivise le osservazioni della difesa delle parti private sull’ordine delle questioni.
Il Tribunale di Udine ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale sulla disposizione che impone ai cittadini extra UE un onere documentale diverso rispetto a quello gravante sui cittadini italiani e UE.
Si tratta di questioni indubbiamente rilevanti nel giudizio a quo, in quanto i ricorrenti, per un verso, hanno chiesto si accerti la natura discriminatoria della condotta e degli atti delle pubbliche amministrazioni convenute che richiedono ai cittadini extra UE oneri documentali diversi, e, per un altro, hanno richiesto al giudice di ordinare alla Regione autonoma, ai fini della rimozione dell’accertata discriminazione, di modificare la norma regolamentare all’origine della condotta per cui si agisce in giudizio, sostanzialmente riproduttiva di quella legislativa oggetto delle questioni di legittimità costituzionale.
Il giudice rimettente prospetta i dubbi di legittimità costituzionale sulla disposizione che prevede il requisito dell’impossidenza per il solo caso in cui «si ritenesse costituzionalmente legittima la previsione dell’art. 29 comma 1-bis della L.R. 1/2016». Il Tribunale di Udine, pertanto, ha espressamente posto le questioni di legittimità costituzionale sull’art. 29, comma 1, lettera d), della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016 in via subordinata, scrutinabili nel merito solo ove questa Corte ritenesse non fondate quelle prospettate in via principale: tanto basta a escludere il carattere «perplesso o ancipite» che la difesa regionale attribuisce all’ordinanza di rimessione e a negare la fondatezza delle argomentazioni delle parti private in relazione all’ordine delle questioni.
5.6. A parere della Regione autonoma, le questioni sarebbero inammissibili anche perché il giudice rimettente non avrebbe motivato in ordine alla giurisdizione sulla domanda di modifica del regolamento regionale.
La difesa regionale, con argomenti sostanzialmente coincidenti a quelli adoperati nel conflitto di attribuzione tra enti, ritiene ci sia una «impossibilità legale per il giudice comune di ordinare alla Regione di adottare o modificare atti normativi secondari».
Nel giudizio a quo, pertanto, mancherebbe o sarebbe «massimamente discutibile» la sussistenza della giurisdizione sulla domanda volta a ottenere «un ordine di modifica di norme secondarie».
5.6.1. L’eccezione non è fondata.
Nell’ordinanza di rimessione, il Tribunale di Udine dà diffusamente conto, richiamandone ampi stralci, di una propria precedente ordinanza con la quale, in analogo giudizio, aveva già ordinato la modifica del regolamento regionale ritenuto discriminatorio; rileva, inoltre, che la Regione autonoma ha modificato detto regolamento, ma prevedendo una norma che, a suo dire, lascia inalterato il carattere discriminatorio; in punto di motivazione sulla rilevanza, riferisce di volere esercitare il potere di ordinare la modifica del regolamento regionale, nel caso in cui questa Corte dichiari l’illegittimità costituzionale della disposizione legislativa censurata.
Il giudice a quo ha ritenuto, con motivazione non implausibile, sussistere la propria giurisdizione e il relativo potere, ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, di ordinare la rimozione della norma regolamentare discriminatoria.
5.7. La difesa della Regione autonoma, poi, eccepisce l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, sollevata in riferimento all’art. 14 CEDU.
La norma convenzionale, infatti, circoscriverebbe il divieto di discriminazione sulla base della nazionalità al godimento dei diritti e delle libertà garantite dalla Convenzione, ma il Tribunale di Udine non avrebbe allegato «quale sarebbe la disposizione materiale della CEDU violata».
5.7.1. L’eccezione si basa su un’erronea lettura dell’ordinanza di rimessione.
Il Tribunale di Udine, infatti, non ha sollevato alcuna autonoma questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU. Tale disposizione convenzionale è incidentalmente adoperata dal giudice a quo a soli fini argomentativi, a ulteriore sostegno della lamentata discriminazione fondata sulla nazionalità, costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 3 Cost.
5.8. La Regione autonoma, infine, reputa inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli Venezia Giulia n. 1 del 2016, concernente l’onere documentale in capo ai cittadini extra UE, perché sarebbero disomogenee le censure in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.
La difesa regionale, infatti, rileva che l’art. 11, paragrafo 1, della direttiva 2003/109/CE, la cui violazione determinerebbe il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., impone la parità di trattamento tra cittadini stranieri soggiornanti di lungo periodo e cittadini UE; nel dubitare della violazione dell’art. 3 Cost., invece, il giudice a quo prospetterebbe, in senso più ampio, «una disparità di trattamento tra cittadini [italiani] e cittadini extracomunitari».
Ne consegue, secondo la prospettazione della Regione autonoma, che la censura in riferimento al diritto UE è volta «ad aggiungere un’altra fattispecie di esclusione» dagli oneri di documentazione, mentre quella in riferimento all’art. 3 Cost. è diretta a una caducazione dell’intera disposizione regionale, «con effetti eccedenti il perimetro della rilevanza», essendo i ricorrenti cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo.
[…] Il giudice a quo avrebbe in tal modo sollevato le questioni tanto sulla sussistenza in sé dell’onere documentale, che implicherebbe la caducazione dell’intera disposizione, quanto sulla sua applicabilità agli stranieri soggiornanti di lungo periodo, che soli andrebbero sottratti dall’ambito applicativo della disposizione censurata.
5.8.1. Anche questa eccezione si basa su un’erronea lettura del senso complessivo dell’ordinanza di rimessione, il cui dispositivo deve essere interpretato alla luce della motivazione.
Il Tribunale di Udine dà immediatamente conto, sin dalla ricostruzione in fatto della controversia che è chiamato a conoscere, di essere adìto da cittadini extra UE titolari di permessi di soggiorno di lungo periodo.
Al contempo, il giudice rimettente riferisce di avere già dato immediata soddisfazione al diritto dei ricorrenti di essere inseriti nelle graduatorie per la concessione del contributo per l’abbattimento del canone di locazione «senza che agli stessi venga richiesta documentazione ulteriore rispetto a quanto previsto per i cittadini italiani e UE»: e ciò perché non ha applicato l’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016 e l’art. 9, commi 3 e 3-bis, del regolamento regionale n. 066 del 2020, ritenuti entrambi in contrasto con l’art. 11, paragrafo 1, della direttiva 2003/109/CE relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, che sancisce, alla lettera d), il principio di parità di trattamento dei soggiornanti di lungo periodo rispetto ai cittadini per quanto riguarda, tra le altre, «le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale».
Va altresì considerato che l’art. 29, comma 1, lettera a), della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016 prevede, tra i requisiti minimi per accedere alle misure di sostegno in materia di politiche abitative, «l’essere cittadini italiani; cittadini di Stati appartenenti all’Unione europea regolarmente soggiornanti in Italia e loro familiari, ai sensi del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri); titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo ai sensi del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo); soggetti di cui all’articolo 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero)».
La disciplina regionale, pertanto, consente di accedere alle misure di sostegno non a qualsiasi cittadino extra UE, ma a quelli titolari di permessi di soggiorno di lungo periodo o degli altri permessi di soggiorno di cui all’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998.
Si deve ritenere, allora, che il Tribunale di Udine non richieda la caducazione dell’intero art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016. Le censure sono invece volte a ottenere la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di tale disposizione – per la violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della richiamata direttiva 2003/109/CE – nella parte in cui prevede che l’ivi prevista documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel Paese di origine e nel Paese di provenienza – documentazione richiesta per dimostrare l’impossidenza di altri alloggi, ai sensi dell’art. 29, comma 1, lettera d), della medesima legge regionale – debba essere presentata dai cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo con modalità diverse rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e UE.
Così delimitato, del resto, il thema decidendum è coerente con la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale nel giudizio a quo, nell’ambito del quale, come detto, agiscono cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo.
- Venendo al merito, giova premettere che sotteso a entrambi i giudizi è il tema concernente i poteri del giudice ordinario ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011.
È necessario, dunque, delineare innanzitutto i tratti essenziali del giudizio antidiscriminatorio ivi previsto.
6.1. L’azione civile contro la discriminazione è prevista sin dal decreto legislativo n. 286 del 1998, il cui art. 44, al comma 1, recita: «Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione».
Il vigente comma 2, come sostituito dall’art. 34, comma 32, lettera b), del d.lgs. n. 150 del 2011, stabilisce che alle relative controversie si applica l’art. 28 del medesimo decreto. Per quel che qui rileva, il comma 5 di detto art. 28 dispone: «Con la sentenza che definisce il giudizio il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, il piano è adottato sentito l’ente collettivo ricorrente».
Il legislatore, in tal modo, ha predisposto una normativa che, per garantire incisivamente la parità di trattamento e sanzionare discriminazioni ingiustificate e intollerabili alla luce del principio di eguaglianza scolpito nell’art. 3 Cost., affida al giudice ordinario «strumenti processuali speciali per la loro repressione» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 30 marzo 2011, n. 7186).
L’azione civile può essere esercitata per ottenere dal giudice l’ordine di cessazione non solo di comportamenti o condotte, ma anche (la rimozione) di atti discriminatori pregiudizievoli; ordine che può essere accompagnato, anche nei confronti della pubblica amministrazione, da ogni altro provvedimento che il giudice, a sua discrezione, reputi idoneo a rimuovere gli effetti della discriminazione; al fine di impedire che la discriminazione possa nuovamente prodursi, il legislatore ha, infine, attribuito al giudice l’ulteriore potere di ordinare l’adozione di un piano volto a rimuoverla.
6.2. Si è dinanzi, come si vede, a un giudizio tutto funzionalizzato alla rimozione delle discriminazioni, che finisce per configurare, «a tutela del soggetto potenziale vittima delle discriminazioni, una specifica posizione di diritto soggettivo, e specificamente un diritto qualificabile come “diritto assoluto” in quanto posto a presidio di una area di libertà e potenzialità del soggetto, rispetto a qualsiasi tipo di violazione della stessa» (ancora Cass., sez. un., ord. n. 7186 del 2011).
Ed è proprio in ragione del fondamentale diritto da tutelare che il «contenuto e l’estensione delle tutele conseguibili in giudizio present[a]no aspetti di atipicità e di variabilità in dipendenza del tipo di condotta lesiva che è stata messa in essere» (di nuovo, Cass., sez. un., ord. n. 7186 del 2011).
La pienezza della tutela speciale così costruita dal legislatore si estende sino a consentire al giudice ordinario – pur senza tratteggiare l’attribuzione, ai sensi dell’art. 113, terzo comma, Cost., di un eccezionale potere di annullamento degli atti amministrativi – di pronunciare sentenze di condanna nei confronti della pubblica amministrazione per avere adottato atti discriminatori, dei quali può ordinare la rimozione.
La scelta legislativa è, dunque, quella di accordare una tutela particolarmente incisiva, che consenta un efficace e immediato controllo sull’esercizio del potere anche da parte del giudice ordinario, senza che ciò impedisca al giudice amministrativo, ove venga a conoscere dei medesimi atti, di procedere all’annullamento degli stessi, con l’efficacia erga omnes che gli è propria (si veda, per esempio, Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 6 marzo 2023, n. 2290).
Deve particolarmente sottolinearsi – […] – che quello delineato dall’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 è uno speciale giudizio che si articola in un concorso di rimedi che possono svolgersi anche in più momenti successivi.
In un primo momento, il giudice ordinario è chiamato ad accertare il carattere discriminatorio o meno del comportamento, della condotta o dell’atto all’origine della discriminazione, cui può conseguire la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale, oltre che l’ordine di cessazione della medesima discriminazione e l’adozione di provvedimenti tesi a rimuoverne gli effetti.
In aggiunta a tali rimedi, che riguardano precipuamente la lesione attuale e immediata del fatto discriminatorio, il giudice può ordinare l’adozione di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, volto a impedire in futuro il ripetersi e il rinnovarsi di quelle stesse discriminazioni non solo nei confronti dei soggetti che hanno agito in giudizio, ma anche di qualsiasi altro soggetto che potrebbe potenzialmente esserne vittima.
Non a caso, il legislatore ha previsto che siano legittimati ad agire per il riconoscimento della sussistenza di una discriminazione, come dimostrano peraltro le stesse vicende all’origine degli odierni giudizi costituzionali, anche «le associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione» (art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 215 del 2003).
Il giudice ordinario è chiamato, così, ad agire anche in ottica preventiva, incidendo sul fattore – sia esso un comportamento o un atto – generativo delle discriminazioni che, ove non rimosso, potrebbe ingenerarne altre eguali, parimenti ingiustificate.
- Tutto ciò premesso e considerato, conviene esaminare dapprima il merito del conflitto di attribuzione proposto dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia.
7.1. Nel giudizio da cui trae origine il conflitto, il Tribunale di Udine ha parzialmente accolto l’azione civile contro la discriminazione per motivi di nazionalità promossa da un cittadino italiano e dalla coniuge albanese, titolare di permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo, i quali si sono visti rifiutare l’erogazione del contributo per l’acquisto dell’alloggio da destinare a prima casa previsto dalla legislazione regionale, in ragione della mancata produzione della documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel Paese di origine e nel Paese di provenienza.
L’adìto giudice civile ha accertato che le norme legislative e regolamentari alla base dell’opposto rifiuto all’erogazione del contributo sono discriminatorie, in quanto non consentono ai cittadini extra UE di avvalersi, per attestare l’impossidenza, di una dichiarazione sostitutiva ai sensi del d.P.R. n. 445 del 2000, come invece possono fare i cittadini italiani e i cittadini UE.
Ritenendo che dette norme siano in contrasto con l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE, il Tribunale di Udine ha ritenuto di non dare loro applicazione e, conseguentemente, per un verso ha disposto che la domanda dei ricorrenti sia valutata «come se la documentazione attestante l’impossidenza di altri immobili fosse stata regolarmente prodotta in base agli stessi criteri valevoli per i cittadini comunitari» e, per un altro, ha ordinato alla Regione autonoma, al fine di evitare la ripetizione della discriminazione, di modificare il regolamento regionale e ha previsto un apparato coercitivo sanzionatorio conseguente a tale ordine di modifica.
7.2. Oggetto del conflitto è precisamente questo secondo versante dell’ordinanza impugnata. La Regione autonoma, infatti, contesta non già la decisione nella parte in cui non applica le norme regionali ritenute in contrasto con il diritto UE, bensì la pretesa del Tribunale di Udine di ordinare alla Regione la modifica dell’art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016; pretesa che, priva di fondamento normativo ed esorbitando dalla funzione giurisdizionale, avrebbe menomato plurime attribuzioni regionali.
7.2.1. Il conflitto, nei termini anzidetti, non è fondato.
7.2.2. Si è già detto di come, nell’ambito del giudizio ex art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011, il giudice ordinario possa disporre «la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti» (comma 5): in una così ampia dizione, volta a efficacemente reprimere condotte discriminatorie lesive del principio d’eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., rientra anche, come emerge pure dalla giurisprudenza di merito sul punto, il potere di ordinare la rimozione di norme regolamentari quando esse siano discriminatorie e, tanto più, quando esse siano causa di ulteriori atti o condotte discriminatorie.
Non a caso […] la disposizione legislativa prevede che il giudice, oltre a ordinare la cessazione della discriminazione e adottare ogni provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti, possa ordinare l’adozione di un piano che impedisca il ripetersi della discriminazione. Quando la condotta discriminatoria della pubblica amministrazione sia originata non da un puntuale provvedimento amministrativo, ma da un atto regolamentare destinato a essere applicato un numero indefinito di volte, l’unico modo per efficacemente impedire la ripetizione della discriminazione non può che essere quello di ordinare la rimozione della norma regolamentare. Ove così non fosse, il giudice ordinario potrebbe di volta in volta ordinare alla pubblica amministrazione la cessazione di singole condotte discriminatorie, senza però nulla poter disporre in ordine alla norma regolamentare che è origine e causa delle discriminazioni accertate e che alimenta il contenzioso.
La logica sottesa alla scelta compiuta dal legislatore con l’art. 28, comma 5, del d.lgs. n. 150 del 2011 è, invece, del tutto opposta: consentire al giudice ordinario, accertato il carattere discriminatorio della norma regolamentare, di ordinarne la rimozione, poiché altrimenti essa, per la sua naturale capacità di condizionare l’esercizio dell’attività amministrativa, potrà determinare l’insorgere di ulteriori e indefinite discriminazioni identiche o analoghe a quelle sanzionate in giudizio.
È erroneo, dunque, il presupposto da cui muove la Regione ricorrente, secondo cui il giudice ordinario non potrebbe ordinare, nell’ambito del giudizio antidiscriminatorio di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, la rimozione di norme regolamentari discriminatorie: di qui, la non fondatezza del ricorso, nella sua prospettazione principale.
7.3. La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia osserva che, anche ad ammettere che il giudice ordinario possa imporre la rimozione di una norma regolamentare, tale potere verrebbe a mancare quando, come nel caso di specie, la norma regolamentare in questione sia sostanzialmente riproduttiva di una norma legislativa.
Il Tribunale di Udine, secondo questa parzialmente diversa prospettazione, avrebbe allora esorbitato dalla funzione giurisdizionale in quanto avrebbe ordinato alla Regione autonoma di esercitare i propri poteri normativi regolamentari in violazione della legge, in contrasto, in particolare, con quanto previsto dal principio di legalità di cui all’art. 97 Cost. e dal principio di supremazia della legge regionale sul regolamento regionale (art. 117, sesto comma, Cost.).
Il ricorrente chiede pertanto, in via subordinata, che si dichiari che non spettava al Tribunale di Udine adottare l’impugnata ordinanza «senza aver prima chiesto ed ottenuto da codesta Corte costituzionale la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, della legge regionale n. 1 del 2016».
7.3.1. In questi diversi termini, il conflitto di attribuzione è fondato.
7.3.2. Con la predisposizione del giudizio antidiscriminatorio di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, il legislatore […] ha inteso fornire protezione al fondamentale diritto a non subire discriminazioni per tutte le volte che, in ragione di condotte, comportamenti o atti posti in essere da privati o dalla pubblica amministrazione, tale diritto venga leso.
Il presupposto su cui si fonda il giudizio antidiscriminatorio – e il correlato potere del giudice ordinario di disporre, nei vari modi possibili, la cessazione della discriminazione – è dunque che la condotta discriminatoria sia direttamente imputabile al privato o, ed è il profilo che qui rileva, alla pubblica amministrazione.
Nel caso in cui, invece, la discriminazione compiuta dalla pubblica amministrazione trovi origine nella legge, in quanto è quest’ultima a imporre, senza alternative, quella specifica condotta, allora l’attività discriminatoria è ascrivibile alla pubblica amministrazione soltanto in via mediata, in quanto alla radice delle scelte amministrative che si è accertato essere discriminatorie sta, appunto, la legge: è quanto accade nel caso di specie, ove l’art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016 è sostanzialmente riproduttivo dell’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016.
In evenienze del genere, il giudice ordinario non può allora ordinare la modifica di norme regolamentari che siano riproduttive di norme legislative, in quanto ordinerebbe alla pubblica amministrazione di adottare atti regolamentari confliggenti con la legge non rimossa.
L’esercizio di un siffatto potere è, dunque, subordinato all’accoglimento da parte di questa Corte della questione di legittimità costituzionale sulla norma legislativa che il giudice ritenga essere causa della natura discriminatoria dell’atto regolamentare.
7.3.3. Il peculiare carattere del giudizio antidiscriminatorio fa sì che i termini non cambino significativamente quando, come accaduto nel caso di specie, il giudice ordinario ritenga che le norme legislative e regolamentari siano in contrasto (anche) con norme del diritto dell’Unione europea dotate di efficacia diretta, cui è tenuto a dare immediata applicazione.
La primazia del diritto UE – costantemente riconosciuta da questa Corte quale «architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali» (sentenza n. 67 del 2022) – richiede che il giudice nazionale, quando ritenga la normativa interna incompatibile con normativa dell’Unione europea a efficacia diretta, provveda immediatamente all’applicazione di quest’ultima, senza che la sua sfera di efficacia possa essere intaccata dalla prima (sentenza n. 170 del 1984).
Ciò, ovviamente, sempre che non ritenga di sollevare questione di legittimità costituzionale, nel caso in cui ne ricorrano i presupposti che questa Corte ha precisato a partire dalla sentenza n. 269 del 2017 […].
In particolare, nell’ambito del giudizio ex art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, la primauté è garantita dal giudice ordinario innanzitutto allorché è chiamato ad accertare l’esistenza dell’asserita discriminazione. È in questo momento del giudizio che egli, ove accerti che la condotta per cui è causa trova fondamento in atti normativi incompatibili con normativa dell’Unione europea a efficacia diretta, dà immediata applicazione a quest’ultima e ordina la cessazione della discriminazione.
Nel giudizio dinanzi al Tribunale di Udine, il giudice ha ritenuto, per l’appunto, che fosse discriminatoria e in contrasto con l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE l’impossibilità per i ricorrenti di avvalersi, per attestare l’impossidenza di immobili, di una dichiarazione sostitutiva ai sensi del d.P.R. n. 445 del 2000.
Conseguentemente, e correttamente, non ha applicato la normativa legislativa e regolamentare che prevede detta impossibilità e, in diretta applicazione della richiamata normativa europea, ha ordinato di valutare la domanda dei ricorrenti – volta a ottenere il contributo per l’acquisto dell’alloggio da destinare a prima casa – «come se la documentazione attestante l’impossidenza di altri immobili fosse stata regolarmente prodotta in base agli stessi criteri valevoli per i cittadini comunitari».
È in questo momento del giudizio che il Tribunale di Udine, adottando il predetto ordine, ha a pieno garantito i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea.
L’impartito ordine di rimuovere l’art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016, che sostanzialmente riproduce l’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, costituisce, invece, il piano di rimozione delle discriminazioni accertate che il Tribunale di Udine ha ritenuto di dover adottare.
Una volta attribuito il bene della vita ai ricorrenti, dando piena e immediata attuazione al diritto dell’Unione europea, il giudice ha inteso poi impedire il ripetersi di discriminazioni identiche o analoghe che possano coinvolgere non tanto i ricorrenti, ma qualsiasi altro soggetto che si trovi nelle medesime condizioni.
In quest’ambito del giudizio non viene più in rilievo l’esigenza che il diritto dell’Unione europea dotato di efficacia diretta trovi immediata applicazione (Corte di giustizia, sentenza 22 giugno 2010, in cause C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli), perché tale esigenza è stata, appunto, già pienamente soddisfatta.
Qui viene in gioco, invece, una logica interna all’ordinamento nazionale che, con una forma rimediale peculiare e aggiuntiva, è funzionale a garantire un’efficace rimozione, anche pro futuro, della discriminazione: il che peraltro, quando sia stata rilevata un’incompatibilità con il diritto dell’Unione europea, fa dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 uno strumento che garantisce anche l’uniforme applicazione di tale diritto e che contribuisce alla «costruzione di tutele sempre più integrate» (sentenza n. 67 del 2022).
In quest’ottica, laddove la norma regolamentare sia sostanzialmente riproduttiva di norma legislativa, ordinarne la rimozione implica che sia sollevata questione di legittimità costituzionale sulla seconda.
La non applicazione per contrasto con il diritto dell’Unione europea a efficacia diretta – necessaria per l’attribuzione immediata del bene della vita negato sulla base dell’accertata discriminazione – non rimuove, infatti, la legge dall’ordinamento con immediata efficacia erga omnes, ma impedisce soltanto «che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale» (sentenza n. 170 del 1984).
L’ordine di rimozione della norma regolamentare – che proietta i suoi effetti, per espressa scelta del legislatore compiuta con l’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, oltre il caso che ha originato il giudizio antidiscriminatorio – richiede, allora, che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della legge, la quale, ancorché non applicata nel caso concreto, è ancora vigente, efficace e, sia pure in ipotesi erroneamente, suscettibile di applicazione da parte della pubblica amministrazione o anche di altri giudici che ne valutino diversamente la compatibilità con il diritto dell’Unione europea.
Sono, dunque, tanto l’ordinato funzionamento del sistema delle fonti interne – e, nello specifico, i rapporti tra legge e regolamento regionali, anche in relazione al diritto dell’Unione europea – quanto l’esigenza che i piani di rimozione della discriminazione siano efficaci a richiedere che il giudice ordinario, se correttamente intenda ordinare la rimozione di una norma regolamentare al fine di evitare il riprodursi della discriminazione de futuro, sollevi questione di legittimità costituzionale sulla norma legislativa sostanzialmente riprodotta dall’atto regolamentare, anche dopo che si sia accertata l’incompatibilità di dette norme interne con norme di diritto dell’Unione europea aventi efficacia diretta.
In relazione al conflitto di attribuzione tra enti deve concludersi, pertanto, che non spettava al Tribunale di Udine ordinare la rimozione dell’art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016 […], senza prima aver sollevato questione di legittimità costituzionale sull’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016; né, conseguentemente, spettava al medesimo Tribunale adottare l’apparato coercitivo sanzionatorio conseguente al suddetto ordine di rimozione […].
Il provvedimento del Tribunale di Udine, nelle parti impugnate, va pertanto annullato.
7.4. L’accoglimento del ricorso in relazione al principio di legalità (art. 97 Cost.) e al criterio gerarchico che informa i rapporti tra legge e regolamento regionali (art. 117, sesto comma, Cost.) comporta l’assorbimento dei motivi proposti con riferimento agli artt. 4, 5 e 6 dello statuto speciale, agli artt. 101, 113, 117, commi terzo, quarto e quinto, 120, secondo comma, 134 e 136 Cost., nonché all’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001.
- Il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale introdotto dall’ordinanza in epigrafe del Tribunale di Udine risponde precisamente a quanto si è sinora affermato in merito al conflitto di attribuzione.
Vanno ulteriormente illustrate, peraltro, le ragioni per cui non possono nutrirsi dubbi sull’ammissibilità delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, nonostante il giudice a quo espressamente affermi che la direttiva 2003/109/CE «sia dotata di tutti i requisiti che la giurisprudenza della Corte di Giustizia ritiene necessari per ammettere la produzione di effetti diretti da parte di tale fonte del diritto comunitario, ovvero i requisiti di sufficiente precisione ed incondizionatezza».
8.1. A tale direttiva – e, in particolare, al suo art. 11 – il giudice rimettente, infatti, ha già assicurato attuazione con l’accordare ai ricorrenti il bene della vita, a tal fine non applicando, perché appunto incompatibili con la direttiva, il censurato art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, nonché l’art. 9, commi 3 e 3-bis, del regolamento regionale n. 066 del 2020.
Tutto ciò, al fine di condannare la resistente pubblica amministrazione alla cessazione della condotta discriminatoria contestata in giudizio e di adottare la connessa disposizione che i ricorrenti cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo, al fine del loro inserimento nelle graduatorie relative alla concessione del contributo per l’abbattimento del canone di locazione corrisposto nel 2021, potessero presentare la stessa documentazione che possono presentare cittadini italiani e UE.
Il Tribunale di Udine, pertanto, ha già dato piena e immediata attuazione al diritto dell’Unione europea, apprestando tutela immediata ai diritti dei ricorrenti, sul piano del conseguimento del bene della vita.
8.2. La questione di legittimità costituzionale nasce in relazione alla domanda con cui le parti hanno chiesto di ordinare alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia – al fine di impedire in futuro la ripetizione delle discriminazioni accertate – la rimozione dell’art. 9, commi 3 e 3-bis, del regolamento regionale n. 066 del 2020.
È in relazione a tale domanda, sulla quale deve ancora pronunciarsi, che il Tribunale di Udine solleva le odierne questioni di legittimità costituzionale: volendo avvalersi del potere di rimuovere il fattore genetico della discriminazione, nel caso di specie individuato non solo nelle richiamate norme regolamentari, ma anche – e prima ancora – nella norma legislativa, il giudice a quo correttamente censura l’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, che il citato art. 9, commi 3 e 3- bis, del regolamento regionale n. 066 del 2020 sostanzialmente riproduce, in quanto la dichiarazione d’illegittimità costituzionale consentirà che sia emesso «un ordine di modifica del Regolamento che eviti anche pro futuro un contenzioso ormai nutrito» nel distretto giudiziario.
Al primato del diritto dell’Unione europea, fatto immediatamente valere allorché è stata accertata la discriminazione, viene dunque ad aggiungersi, come già si è rilevato, uno strumento rimediale interno volto a impedire il rinnovarsi di detta discriminazione.
Le peculiari caratteristiche del giudizio ex art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 consentono, così, la convivenza tra il meccanismo della non applicazione della normativa interna incompatibile con il diritto dell’Unione europea e lo strumento del controllo accentrato di legittimità costituzionale, in relazione a parametri interni o sovranazionali, sulla medesima normativa interna, che ne consente l’eliminazione dall’ordinamento con effetti erga omnes (sentenza n. 63 del 2019), in attuazione «del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)» (sentenza n. 269 del 2017): ciò a dimostrazione, una volta di più, di come il controllo di compatibilità con il diritto dell’Unione europea e lo scrutinio di legittimità costituzionale non siano in contrapposizione tra loro, ma costituiscano «un concorso di rimedi giurisdizionali, [il quale] arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione» (sentenza n. 20 del 2019).
E ciò in un contesto «che vede tanto il giudice comune quanto questa Corte impegnati a dare attuazione al diritto dell’Unione europea nell’ordinamento italiano, ciascuno con i propri strumenti e ciascuno nell’ambito delle rispettive competenze» (sentenza n. 149 del 2022).
La dichiarazione d’illegittimità costituzionale della normativa interna, del resto, offre un surplus di garanzia al primato del diritto dell’Unione europea, sotto il profilo della certezza e della sua uniforme applicazione.
Fermo restando, infatti, che all’obbligo di applicare le disposizioni dotate di effetti diretti sono soggetti non solo tutti i giudici, ma anche la stessa pubblica amministrazione – sicché ove vi sia una normativa interna incompatibile con dette disposizioni essa non deve trovare applicazione – può altresì verificarsi che, per mancata contezza della predetta incompatibilità o in ragione di approdi ermeneutici che la ritengano insussistente, le norme interne continuino a essere utilizzate e applicate.
Proprio per evitare tale evenienza, e fermi restando ovviamente gli altri rimedi che l’ordinamento conosce per l’uniforme applicazione del diritto quando ciò accada, la questione di legittimità costituzionale offre la possibilità, ove ne ricorrano i presupposti, di addivenire alla rimozione dall’ordinamento, con l’efficacia vincolante propria delle sentenze di accoglimento, di quelle norme che siano in contrasto con il diritto dell’Unione europea.
8.3. Va da sé che, prima di dare attuazione al diritto dell’Unione europea, il giudice ordinario deve adeguatamente interrogarsi sul significato normativo del diritto UE e sulla compatibilità con il medesimo del diritto interno.
Il principio del primato del diritto dell’Unione discende dal principio dell’eguaglianza degli Stati membri davanti ai Trattati (art. 4 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), che esclude la possibilità di fare prevalere, contro l’ordine giuridico dell’Unione, una misura unilaterale di uno Stato membro (Corte di giustizia, sentenza 22 febbraio 2022, in causa C-430/21, RS).
L’obbligo di dare applicazione al diritto dell’Unione, quando ne ricorrono i presupposti, implica che esso sia interpretato in modo uniforme in tutti gli Stati membri.
La corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto UE sono garantiti dalla Corte di giustizia, cui i giudici nazionali possono rivolgersi attraverso il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, così cooperando direttamente con la funzione affidata dai Trattati alla Corte (Corte di giustizia, parere 1/09 dell’8 marzo 2011, recante «Accordo relativo alla creazione di un sistema unico di risoluzione delle controversie in materia di brevetti»). È nell’ambito di questo confronto che la Corte di giustizia instaura con i giudici nazionali, in quanto incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, che essa fornisce l’interpretazione di tale diritto, allorché la sua applicazione sia necessaria per dirimere la controversia sottoposta al loro esame (Corte di giustizia, sentenza 9 settembre 2015, in causa C-160/14, Ferreira da Silva e Brito e altri; sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, M.A.S. e M. B.).
La necessità di rivolgersi alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE, che costituisce un obbligo in capo ai giudici nazionali di ultima istanza, viene tuttavia meno, secondo la giurisprudenza della stessa Corte, non solo quando la questione non sia rilevante o quando la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi sia stata già oggetto di interpretazione da parte della Corte, ma anche in tutti i casi in cui la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi (Corte di giustizia, sentenze 6 ottobre 2021, in causa C-561/19, Consorzio Italian Management e altri; 6 ottobre 1982, in causa C-283/81, Cilfit e altri).
- Tutto ciò premesso, la questione di legittimità costituzionale sollevata sull’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE, è fondata.
Il Tribunale di Udine, […], ritiene la disposizione censurata costituzionalmente illegittima nella parte in cui stabilisce che l’ivi prevista documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel Paese di origine e nel Paese di provenienza – documentazione richiesta per dimostrare l’impossidenza di altri alloggi, ai sensi dell’art. 29, comma 1, lettera d), della medesima legge regionale – debba essere presentata dai cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo con modalità diverse rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e UE.
9.1. Questa Corte, in relazione a norma analoga a quella oggetto dell’odierna questione di legittimità costituzionale, ha già avuto modo di osservare che un siffatto onere documentale «risulta in radice irragionevole innanzitutto per la palese irrilevanza e per la pretestuosità del requisito che mira a dimostrare» (sentenza n. 9 del 2021).
Quando, come nel caso di specie, obiettivo del legislatore regionale è riconoscere «il valore primario del diritto all’abitazione quale fattore fondamentale di inclusione, di coesione sociale e di qualità della vita» (art. 1, comma 1, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016) e a tal fine sostiene «l’accesso a un alloggio adeguato, in locazione o in proprietà come prima casa ai cittadini della Regione, in particolare alle fasce deboli della popolazione» (art. 1, comma 2, della medesima legge regionale), «il possesso da parte di uno dei componenti del nucleo familiare del richiedente di un alloggio adeguato nel Paese di origine o di provenienza non appare sotto alcun profilo rilevante. Non lo è sotto il profilo dell’indicazione del bisogno, giacché, intesa l’espressione “alloggio adeguato” come alloggio idoneo a ospitare il richiedente e il suo nucleo familiare, è evidente che la circostanza che qualcuno del medesimo nucleo familiare possegga, nel Paese di provenienza, un alloggio siffatto non dimostra nulla circa l’effettivo bisogno di un alloggio in Italia» (sentenza n. 9 del 2021). Non è, inoltre, neppure un indicatore della situazione patrimoniale del richiedente, peraltro già considerata, ai sensi dell’art. 29, comma 1, lettera b, della legge regionale n. 1 del 2016, dal necessario «possesso di determinati indicatori della situazione economica» di cui al d.P.C.m. n. 159 del 2013.
Nella medesima occasione, si è altresì rilevato che una norma del genere è anche discriminatoria «solo che si consideri il fatto che le asserite difficoltà di verifica del possesso di alloggi in Paesi extraeuropei possono riguardare anche cittadini italiani o di altri Paesi dell’Unione europea» (sentenza n. 9 del 2021). Essa, pertanto, pone in essere «un aggravio procedimentale che si risolve in uno di quegli “ostacoli di ordine pratico e burocratico” che questa Corte ha ripetutamente censurato, ritenendo che in questo modo il legislatore (statale o regionale) discrimini alcune categorie di individui (sentenze n. 186 del 2020 e n. 254 del 2019)» (ancora sentenza n. 9 del 2021; in termini analoghi, in riferimento ad altro onere documentale, sentenza n. 157 del 2021).
9.2. L’onere documentale di cui alla disposizione censurata è, d’altra parte, manifestamente in contrasto anche con l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE, nell’ambito della cui attuazione «gli Stati membri devono rispettare i diritti e osservare i principi previsti dalla Carta, segnatamente quelli enunciati dall’articolo 34 di quest’ultima. Conformemente a quest’ultimo articolo, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa destinate a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti» (Corte di giustizia, sentenza 10 giugno 2021, in causa C-94/20, Land Oberösterreich).
A tale direttiva l’Italia ha dato attuazione con il decreto legislativo n. 3 del 2007, senza avvalersi della possibilità, prevista dall’art. 11, paragrafo 4, della direttiva indicata, di limitare la parità di trattamento alle prestazioni essenziali: deroga, questa, cui può ricorrersi, secondo la Corte di giustizia, unicamente quando lo Stato membro esprima chiaramente la relativa intenzione (Corte di giustizia, sentenza 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj).
L’art. 1, comma 1, lettera a), di tale decreto ha sostituito l’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, che detta la disciplina concernente il «Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo». Il comma 12 di detto art. 9 prevede, in particolare, che il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo può «c) usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, di quelle relative ad erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative all’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, compreso l’accesso alla procedura per l’ottenimento di alloggi di edilizia residenziale pubblica, salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale».
La legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, nel prevedere, tra le altre azioni attuative del programma di politiche abitative, quella di sostegno alle locazioni (art. 19), offre una prestazione essenziale ai sensi dell’art. 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109/CE, in quanto essa è «destinata a consentire a persone che non dispongono di risorse sufficienti di far fronte alle proprie esigenze abitative, in modo da garantire loro un’esistenza dignitosa» (Corte di giustizia UE, in causa C-94/20).
Non v’è dubbio, allora, che si tratti di prestazione che deve essere assicurata ai cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo «consentendo loro di alloggiare adeguatamente, senza impegnare nella casa una parte eccessiva dei loro redditi, a scapito, eventualmente, del soddisfacimento di altre necessità elementari» (ancora Corte di giustizia UE, in causa C-94/20).
La disposizione censurata, ponendo in capo ai cittadini di paesi terzi titolari di permesso di lungo soggiorno oneri documentali diversi rispetto a quelli previsti per cittadini italiani e UE, impedisce allora a tali soggetti di «ricevere le prestazioni sociali alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro» (sentenza n. 67 del 2022), come imposto invece dall’art. 11 della direttiva 2003/109/CE.
9.3. In ragione di quanto detto, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, nella parte in cui prevede che l’ivi prevista documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel Paese di origine e nel Paese di provenienza – documentazione richiesta per dimostrare l’impossidenza di altri alloggi, ai sensi dell’art. 29, comma 1, lettera d), della medesima legge regionale – debba essere presentata dai cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo con modalità diverse rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e UE.