Corte di Cassazione, Sez. II Civile, ordinanza interlocutoria, 26 aprile 2024, n. 11174
PRINICIPIO DI DIRITTO
Vanno sollevate le seguenti questioni di interpretazione del diritto dell’Unione:
«Se l’art. 6, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 1, della Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, e l’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea debbano essere interpretati:
(a) nel senso che ostino all’applicazione dei principi del procedimento giurisdizionale nazionale, in forza dei quali le questioni pregiudiziali, anche in ordine alla nullità del contratto, che non siano state dedotte o rilevate in sede di legittimità, e che siano logicamente incompatibili con la natura del dispositivo cassatorio, non possono essere esaminate nel procedimento di rinvio, né nel corso del controllo di legittimità a cui le parti sottopongono la sentenza del giudice di rinvio;
(b) anche alla luce della considerazione circa la completa passività imputabile ai consumatori, qualora non abbiano mai contestato la nullità/inefficacia delle clausole abusive, se non con il ricorso per cassazione all’esito del giudizio di rinvio;
(c) e ciò con particolare riferimento alla rilevazione della natura abusiva di una clausola penale manifestamente eccessiva, di cui sia stata disposta, in sede di legittimità, la rimodulazione della riduzione secondo criteri adeguati (quantum), anche in ragione del mancato rilievo della natura abusiva della clausola a cura dei consumatori (an), se non all’esito della pronuncia adottata in sede di rinvio.»
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1341 capoverso c.c., in relazione all’art. 33, secondo comma, lett. f), del d.lgs. n. 206/2005 (cod. cons.), in ordine alla clausola vessatoria priva di specifica doppia sottoscrizione nel contratto concluso tra professionista e consumatore, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 101 capoverso c.p.c. e dell’art. 36, primo e terzo comma, del d.lgs. n. 206/2005, in ordine all’omesso rilievo d’ufficio della nullità di protezione, per avere la Corte di merito mancato di dichiarare la nullità della clausola penale che imponeva il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento di importo manifestamente eccessivo, determinando così una presunzione di vessatorietà per il significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, secondo la normativa prevista a tutela del consumatore.
Al riguardo, gli istanti obiettano che l’art. 7 del preliminare prevedeva che, in caso di inadempimento dei promissari acquirenti, la promittente venditrice avrebbe potuto trattenere, a titolo di penale per il ritardo conseguente all’inadempimento parziale, fatto salvo il risarcimento del maggior danno, le somme versate a titolo di acconto sul prezzo finale di vendita, clausola non specificamente approvata per iscritto ed imposta dal professionista.
Aggiungono che la rilevazione d’ufficio del profilo di nullità non avrebbe potuto ritenersi preclusa dal giudicato implicito formatosi a seguito della pronuncia della Corte di legittimità sulla carenza di motivazione della riduzione della penale, in quanto il giudicato implicito, formandosi sulle questioni e sugli accertamenti che avessero costituito il presupposto logico indispensabile di una questione o di un accertamento su cui fosse intervenuto il giudicato esplicito, non avrebbe potuto configurarsi in relazione alle questioni pregiudiziali all’accertamento del merito.
2.– Con il secondo motivo i ricorrenti contestano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1384 c.c., in ordine alla riduzione della penale manifestamente eccessiva, per avere la Corte territoriale quantificato la penale dovuta, all’esito della disposta riduzione, in spregio alla previsione che impone di avere riguardo all’interesse del creditore all’adempimento al momento in cui il contratto è concluso ed in contrasto con le valutazioni che regolano la rideterminazione della penale in base ad elementi ex post dichiarati e non provati.
Osservano, sul punto, gli istanti che avrebbe dovuto essere valutato, in termini oggettivi, soltanto l’interesse patrimoniale del creditore all’integrale esecuzione del contratto, commisurando la penale alla posizione reciproca delle parti come individuata nel momento di costituzione del rapporto, escludendo qualsiasi apprezzamento circa il pregiudizio realmente subito e, quindi, essendo ininfluente l’interesse al risarcimento del danno dipendente dall’inadempimento, per difetto di rilevanza degli scopi ulteriori che il creditore abbia potuto avere di mira.
Ad avviso dei ricorrenti, sarebbe stato indebitamente ricostruito l’interesse del creditore, non già come finalizzato alla mera compravendita dell’immobile, bensì anche ad un diverso utilizzo, con “messa a frutto” dello stesso bene, presupponendo così che la Soledil avesse un interesse alternativo teso a ricavare dal cespite un canone locatizio, deduzione, questa, ultronea e apodittica.
Né la riconduzione ad equità della penale, attraverso il riferimento al parametro del valore locatizio intermedio, rispetto a quelli indicati dalle parti, avrebbe assicurato il congruo e motivato esercizio della discrezionalità giudiziale, essendo il mero precipitato della stima dei pretesi danni ex post e non già ex ante, peraltro senza alcuna specifica dimostrazione di tale pregiudizio, neanche in via presuntiva
3.– Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., della violazione e falsa applicazione degli artt. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c. e 111, sesto comma, Cost., per avere la Corte distrettuale adottato una motivazione anomala per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, con relativo vulnus arrecato al minimo costituzionale della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.
E tanto per il fatto che la pronuncia impugnata, dopo aver ribadito che la promittente alienante non aveva provato né l’ammontare del canone locatizio dell’immobile, né il presupposto indispensabile della volontà concreta di concederlo in affitto, avrebbe ricondotto ad equità la clausola penale in base ad elementi da essa stessa riconosciuti come spuri, non provati, non suffragati nemmeno da valenza indiziaria di presunzione semplice, come la concreta intenzione locativa della ditta proprietaria e l’effettivo congruo ammontare ipotetico del canone locatizio.
4.– In ordine al primo motivo, il Collegio evidenzia, anzitutto, che la normativa a tutela del consumatore (secondo la versione vigente ratione temporis) è applicabile anche ad un contratto preliminare di compravendita di bene immobile, allorquando venga concluso tra un professionista, che stipuli nell’esercizio dell’attività imprenditoriale – ovvero con un professionista intellettuale –, ed altro soggetto, che contragga per esigenze estranee all’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale (Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 497 del 14/01/2021).
Nella fattispecie, emerge ex actis (come dedotto sin dall’origine del giudizio e mai contestato dalle parti) che la ha promesso la cessione dell’immobile sito in San Benedetto del Tronto, ad uso di civile abitazione, nella sua qualità di professionista (costruttrice e venditrice), in favore dei coniugi Di Giovanni Mario e Bruni Simona, in qualità di consumatori, che avrebbero dovuto destinare il cespite a prima casa, come riportato nella sentenza impugnata.
4.1.– All’esito, si rileva che, sebbene in materia contrattuale le caparre, le clausole penali ed altre simili, con le quali le parti abbiano determinato in via convenzionale anticipata la misura del ristoro economico dovuto all’altra in caso di recesso o inadempimento, non abbiano natura vessatoria, non rientrando tra quelle di cui all’art. 1341 c.c. e non necessitando, pertanto, di specifica approvazione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18550 del 30/06/2021; Sez. 2, Sentenza n. 6558 del 18/03/2010; Sez. 3, Sentenza n. 23965 del 23/12/2004; Sez. 3, Sentenza n. 20744 del 26/10/2004; Sez. 3, Sentenza n. 9295 del 26/06/2002), allorché il rapporto sia intrattenuto tra professionista e consumatore, per effetto della disciplina introdotta dall’art. 1469 bis, terzo comma, n. 6, c.c. vigente ratione temporis (ora, art. 33, secondo comma, lett. f, cod. cons.), ai sensi della legge 6 febbraio 1996, n. 52 – le cui disposizioni sarebbero in astratto applicabili al negozio di specie, concluso in data 9 settembre 1998 –, sussiste una presunzione di vessatorietà delle clausole che, in caso di inadempimento, prevedano il pagamento di una somma manifestamente eccessiva.
Ai sensi dell’art. 1469-quinquies c.c. vigente ratione temporis, l’inefficacia delle clausole vessatorie opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
4.2.– Tanto premesso, occorre chiedersi se sulla nullità (recte inefficacia) della clausola penale – quale questione nuova sollevata dai promissari acquirenti solo in sede di legittimità (all’esito del rinvio disposto da una precedente sentenza di questa Corte) attraverso l’articolazione di una specifica doglianza – si sia formato il giudicato implicito interno, presupponendo la decisione sulla riduzione, come invocata dagli stessi promissari acquirenti nel corso dei gradi di merito del giudizio, la validità ed efficacia della clausola, con la conseguente preclusione della rilevazione dell’abusività della clausola stessa, oppure se – alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia – tale inefficacia possa essere comunque rilevata d’ufficio anche in sede di legittimità, pure all’esito di un precedente rinvio (nella fattispecie, nessuna censura inerente alla validità/efficacia della clausola penale è stata a monte sollevata dai ricorrenti incidentali all’esito del primo ricorso principale in cassazione, con cui si contestava il difetto di motivazione sui termini della disposta riduzione).
La disposizione della rimodulazione della clausola penale manifestamente eccessiva postula, invero, implicitamente la validità ed efficacia della clausola oggetto di riduzione.
E la stessa Corte di merito, in sede di rinvio, ha puntualizzato in premessa che avrebbe dovuto intendersi coperto dal giudicato interno il fatto che si fossero verificate le condizioni perché la Soledil potesse pretendere la penale ex art. 7 del preliminare risolto, secondo cui, a tale titolo, la promittente alienante avrebbe potuto trattenere le somme versate quale anticipo dai promissari acquirenti.
E ciò in adesione all’orientamento secondo cui nel giudizio di rinvio, il quale è un procedimento chiuso, preordinato a una nuova pronuncia in sostituzione di quella cassata, non solo è inibito alle parti di ampliare il thema decidendum, mediante la formulazione di domande ed eccezioni nuove, ma operano anche le preclusioni derivanti dal giudicato implicito formatosi con la sentenza rescindente, onde neppure le questioni rilevabili d’ufficio che non siano state considerate dalla Corte Suprema possono essere dedotte o comunque esaminate, giacché, diversamente, si finirebbe per porre nel nulla o limitare gli effetti della stessa sentenza di cassazione, in contrasto con il principio della sua intangibilità (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 24357 del 10/08/2023; Sez. 1, Sentenza n. 13759 del 31/05/2017; Sez. L, Sentenza n. 3320 del 19/02/2015; Sez. 6-5, Ordinanza n. 7656 del 04/04/2011; Sez. L, Sentenza n. 9278 del 10/06/2003; Sez. L, Sentenza n. 10046 del 10/07/2002).
4.3.– Espressamente questa Corte ha già statuito sull’aspetto emarginato, con precipuo riferimento al procedimento monitorio per decreto ingiuntivo, secondo cui tale preclusione implicita non opera, in osservanza del principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti riconosciuti al consumatore dalla direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive dei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore, come interpretata dalle sentenze della CGUE del 17 maggio 2022, quando il titolo azionato sia appunto un decreto ingiuntivo non opposto e non motivato sul carattere non abusivo delle clausole del contratto che è fonte del credito ingiunto, ferma restando la rilevabilità d’ufficio della nullità di protezione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 9479 del 06/04/2023).
Per converso, in questa sede l’interrogativo verte sulla preclusione al giudice dell’impugnazione (e segnatamente al giudice di legittimità nuovamente adito all’esito del rinvio già disposto) del rilievo d’ufficio della nullità (inefficacia) del contratto (o di una sua clausola), a protezione del consumatore, laddove nel giudizio di merito sia stata disposta la riduzione della clausola penale manifestamente eccessiva e senza che le parti interessate abbiano mai sollevato il tema se non con l’odierno ricorso in cassazione.
4.4.– Si richiamano, in proposito, le quattro sentenze gemelle, pronunciate il 17 maggio 2022 dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, la quale ha affrontato la questione relativa alla compatibilità, con i principi posti dagli artt. 6, § 1, e 7, § 1, della direttiva 93/13/CEE e dall’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea, delle norme processuali del diritto degli Stati membri (rispettivamente spagnolo, rumeno e italiano) che, in caso di intervenuta formazione del giudicato, impediscono al giudice dell’esecuzione (ovvero dell’appello) di esaminare, d’ufficio, la natura abusiva delle clausole contenute nei contratti posti a fondamento del provvedimento passato in giudicato.
In particolare, con due ordinanze di rinvio preliminare, il Giudice italiano, premessa la descrizione e l’operatività delle disposizioni di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c. e all’art. 2909 c.c., in materia di passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo non tempestivamente opposto e di giudicato implicito, che copre le questioni dedotte e deducibili, ha chiesto: “Se ed a quali condizioni gli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13 e l’art. 47 della Carta ostino ad un ordinamento nazionale, come quello delineato, che preclude al giudice dell’esecuzione di effettuare un sindacato intrinseco di un titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato e che preclude allo stesso giudice, in caso di manifestazione di volontà del consumatore di volersi avvalere della abusività della clausola contenuta nel contratto in forza del quale è stato formato il titolo esecutivo, di superare gli effetti del giudicato implicito”. La CGUE, riunite le cause C-693/19, SPV Project, e C 831/19, Banco di Desio e della Brianza, ha sancito, con la sentenza del 17 maggio 2022: “65. Orbene, una normativa nazionale secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata, anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo, può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali. 66. Ne consegue che, in un caso del genere, l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell’esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione.
L’art. 6, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa – per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità – successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole”.
Il contenuto precettivo di tale sentenza è pienamente in linea con le pronunce rese nello stesso giorno, in relazione a quesiti consimili – tutti relativi alla compatibilità o meno del diritto nazionale con quello europeo, nella parte in cui non consente di superare il giudicato implicito formatosi in relazione a clausole abusive non espressamente esaminate dal giudice di primo grado –, formulati da giudici dell’esecuzione e, nella sentenza CGUE C 869/19, Unicaja Banco, dal giudice d’appello.
In particolare, in quest’ultima causa, la CGUE ha statuito: “L’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretato nel senso che esso osta all’applicazione di principi del procedimento giurisdizionale nazionale, in forza dei quali il giudice nazionale, adito in appello avverso una sentenza che limita nel tempo la restituzione delle somme indebitamente corrisposte dal consumatore in base a una clausola dichiarata abusiva, non può sollevare d’ufficio un motivo relativo alla violazione della disposizione in parola e disporre la restituzione integrale di dette somme, laddove la mancata contestazione di tale limitazione nel tempo da parte del consumatore interessato non possa essere imputata a una completa passività di quest’ultimo”.
Nella sentenza resa nella causa C-600/19, Ibercaja Banco, la CGUE ha invece sancito: “L’art. 6, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che, a causa degli effetti dell’autorità di cosa giudicata e della decadenza, non consente né al giudice di esaminare d’ufficio il carattere abusivo di clausole contrattuali nell’ambito del procedimento di esecuzione ipotecaria, né al consumatore, dopo la scadenza del termine per proporre opposizione, di far valere il carattere abusivo di tali clausole nel procedimento in parola o in un successivo procedimento dichiarativo, quando dette clausole siano già state oggetto, al momento dell’avvio del procedimento di esecuzione ipotecaria, di un esame d’ufficio da parte del giudice quanto al loro eventuale carattere abusivo, ma la decisione giurisdizionale che autorizza l’esecuzione ipotecaria non comporti alcun punto della motivazione, nemmeno sommario, che dia atto della sussistenza dell’esame in parola né indichi che la valutazione effettuata dal giudice di cui trattasi in esito a tale esame non potrà più essere rimessa in discussione in assenza di opposizione nel termine citato”.
Nella sentenza gemella resa nella causa C-725/19, Impuls Leasing Romania, la CGUE ha quindi affermato: “L’art. 6, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che non consente al giudice dell’esecuzione di un credito, investito di un’opposizione a tale esecuzione, di valutare, d’ufficio o su domanda del consumatore, il carattere abusivo delle clausole di un contratto stipulato tra un consumatore e un professionista che costituisce titolo esecutivo, dal momento che il giudice di merito, che può essere investito di un’azione distinta di diritto comune al fine di fare esaminare il carattere eventualmente abusivo delle clausole di un siffatto contratto, può sospendere il procedimento di esecuzione fino a che si pronunci sul merito solo dietro versamento di una cauzione di un’entità che è idonea a scoraggiare il consumatore dall’introdurre e dal mantenere un siffatto ricorso”.
I menzionati principi risultano in continuità con quanto più volte già sostenuto dalla CGUE in tema di rispetto del principio di effettività della tutela consumeristica apprestata dalla direttiva 93/13/CEE, in conformità all’art. 47 della Carta (CGUE 4 giugno 2009, in C-243/08, Pannon GSM, punti 31 e 32 della motivazione; 6 ottobre 2009, in C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones, punti 35 e 36 della motivazione; 17 dicembre 2009, in C-227/08, Eva Martin Martin, punti 18 e 20 della motivazione; 9 novembre 2010, in C-137/08, VB Pénzügyi Lízing, punto 56 della motivazione; 18 febbraio 2016, in C-49/14, Finmadrid, punto 77 della motivazione; 26 gennaio 2017, in C-421/14, Banco Primus, punto 47 della motivazione; 7 novembre 2019, in C-419/18 e C-483/18 riunite, Profi Credit Polska, punto 66 della motivazione; 11 marzo 2020, in C-511/17, Lintner, punti 26, 36 e 37 della motivazione; 4 giugno 2020, in C-495/19, Kancelaria Medius, punto 37 della motivazione).
In particolare, nella sentenza da ultimo citata la Corte di Lussemburgo ha sostenuto: “37. Quindi, in primo luogo e per giurisprudenza costante, il giudice nazionale è tenuto ad esaminare d’ufficio, non appena disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, il carattere abusivo di una clausola contrattuale rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13 e, in tal modo, ad ovviare allo squilibrio che esiste tra il consumatore e il professionista … 51. I giudici nazionali, ove non possano interpretare e applicare la normativa nazionale in modo conforme alle disposizioni della direttiva 93/13, hanno l’obbligo di esaminare d’ufficio se le clausole convenute tra le parti abbiano natura abusiva e, a tal fine, di adottare le misure istruttorie necessarie, disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione o giurisprudenza nazionali che ostino a tale esame … L’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, dev’essere interpretato nel senso che esso osta all’interpretazione di una disposizione nazionale la quale impedisca a un giudice, che sia investito di un ricorso proposto da un professionista nei confronti di un consumatore e rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva stessa e che statuisca in contumacia per mancata comparizione del consumatore all’udienza cui era stato convocato, di adottare i mezzi istruttori necessari per valutare d’ufficio il carattere abusivo delle clausole contrattuali sulle quali il professionista ha fondato la propria domanda, qualora detto giudice nutra dubbi in merito al carattere abusivo di tali clausole, ai sensi della citata direttiva”.
4.5.– Ora, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, le sentenze interpretative del diritto dell’Unione europea rese dalla CGUE hanno effetto di ius superveniens e i principi esposti dalla CGUE sono dunque immediatamente applicabili nell’ordinamento nazionale. Sicché, in tema di giudizio di rinvio, rientrano nell’ambito dello ius superveniens, che travalica il principio di diritto enunciato nella sentenza di annullamento, anche i mutamenti normativi prodotti dalle sentenze della Corte di giustizia UE, che hanno efficacia immediata nell’ordinamento nazionale (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 14624 del 25/05/2023; Sez. 5, Sentenza n. 9375 del 05/04/2023; Sez. 3, Ordinanza n. 25414 del 26/08/2022; Sez. L, Sentenza n. 19301 del 12/09/2014; Sez. 5, Sentenza n. 15032 del 02/07/2014; Sez. 5, Sentenza n. 10939 del 24/05/2005), con l’unico limite dei rapporti esauriti. Segnatamente, allorché il ricorso di legittimità attenga allo ius superveniens costituito da una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la quale ha efficacia immediata nell’ordinamento nazionale e ha valenza retroattiva, esso deve essere trattato, purché non siano necessari nuovi accertamenti di fatto, salvo il limite dei rapporti esauriti (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 25278 del 09/10/2019; Sez. U, Sentenza n. 13676 del 16/06/2014).
Inoltre, in tema di nullità di protezione, questa Corte ha avuto modo di sostenere che le indicazioni provenienti dalla stessa Corte di giustizia in tema di rilievo officioso (nella specie, delle clausole abusive nei contratti relativi alle ipotesi di cd. commercio business-to-consumer) consentono di desumere un chiaro rafforzamento del potere-dovere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità. Con la conseguenza che la omessa rilevazione officiosa della nullità finirebbe per ridurre la tutela di quel bene primario consistente nella deterrenza di ogni abuso in danno del contraente debole.
La rilevabilità officiosa, pertanto, sembra costituire il proprium anche delle nullità speciali, incluse quelle denominate “di protezione virtuale”.
Il potere del giudice di rilevarle tout court appare essenziale al perseguimento di interessi pur sempre generali sottesi alla tutela di una data classe di contraenti (consumatori, risparmiatori, investitori), interessi che possono addirittura coincidere con valori costituzionalmente rilevanti – quali il corretto funzionamento del mercato, ex art. 41 Cost., e l’uguaglianza non solo formale tra contraenti in posizione asimmetrica – (Cass. Sez. U, Sentenza n. 26242 del 12/12/2014).
4.6.– Ancora, è opportuno puntualizzare che il giudicato implicito richiede, per la sua formazione, che tra la questione decisa in modo espresso e quella che si deduce essere stata risolta implicitamente sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, tale da determinare l’assoluta inutilità di una decisione sulla seconda questione e che la questione decisa in modo espresso non sia stata impugnata (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 12131 del 08/05/2023; Sez. 1, Ordinanza n. 7115 del 12/03/2020; Sez. 1, Sentenza n. 16824 del 05/07/2013; Sez. L, Sentenza n. 5581 del 06/04/2012; Sez. 2, Sentenza n. 22416 del 27/10/2011; Sez. U, Sentenza n. 6632 del 29/04/2003). In specie, è configurabile la decisione implicita di una questione (connessa a una prospettata tesi difensiva) o di un’eccezione di nullità (ritualmente sollevata o rilevabile d’ufficio), quando queste risultino superate e travolte, benché non espressamente trattate, dalla incompatibile soluzione di un’altra questione, il cui solo esame presupponga e comporti, come necessario antecedente logico-giuridico, la loro irrilevanza o infondatezza.
Nel caso in disputa, come innanzi esposto, la disposizione della riduzione della clausola penale manifestamente eccessiva postula implicitamente la sua validità/efficacia.
5.– Orbene, alla luce dei principi fissati dalla CGUE nelle citate sentenze, entro la cornice delineata dagli arresti di questa Corte, si ritiene che si giustifichi il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia della questione relativa alla possibilità del Giudice di legittimità, adito all’esito del già disposto rinvio, di verificare – e a quali condizioni –, ove emerga ex actis, l’esistenza di una clausola che appaia abusiva in contratto concluso con un consumatore, anche a fronte della sollecitazione pervenuta dal consumatore, rilevandone d’ufficio l’inefficacia.
E ciò tenuto conto, nella fattispecie, del precedente rinvio disposto da questa Corte, affinché fosse adeguatamente motivata la riduzione di una penale reputata manifestamente eccessiva, vincolando nei termini anzidetti il potere del giudice di rinvio, quale giudizio a carattere chiuso ex art. 394 c.p.c. (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 29879 del 27/10/2023; Sez. 6-3, Ordinanza n. 27736 del 22/09/2022; Sez. 6-5, Ordinanza n. 26108 del 18/10/2018; Sez. L, Ordinanza n. 19436 del 20/07/2018; Sez. 6 5, Ordinanza n. 9768 del 18/04/2017; Sez. 6-3, Ordinanza n. 7506 del 23/03/2017; Sez. 2, Sentenza n. 6292 del 31/03/2016).
In sede di rinvio, alcuna nullità è stata rilevata e si è invece provveduto a rimodulare i termini quantitativi della riduzione della clausola penale reputata manifestamente eccessiva, in attuazione del disposto della Corte di legittimità. Fa, infatti, da contraltare al rilievo d’ufficio della natura abusiva della clausola il principio di stabilità-intangibilità delle sentenze emesse in sede di legittimità. Infatti, all’esito del rinvio, è stato affermato un principio di diritto cui il giudice di merito doveva attenersi in ordine alla adeguata motivazione della riduzione della clausola penale manifestamente eccessiva, consumandosi così il potere di rilevazione d’ufficio di un’eventuale nullità della clausola (in quanto tale rilevazione si sarebbe posta in contrasto con il principio di diritto sancito).
Opererebbe dunque – in base al diritto processuale interno – la preclusione verso il giudice di legittimità, adito successivamente alla celebrazione del giudizio di rinvio, in ordine al rilievo d’ufficio (su impulso di parte, che mai prima dell’odierno ricorso aveva sollevato la questione, rimanendo sul punto del tutto inerte) della nullità/inefficacia di una clausola del preliminare di vendita a protezione del consumatore, nel caso in cui il giudizio rimesso al giudice del rinvio sia circoscritto all’applicazione della penale e alla sua riduzione.
Con la conseguenza che dovrebbe ritenersi coperto dal giudicato interno (implicito) il fatto che la penale ex art. 7 del preliminare di vendita immobiliare concluso tra le parti il 9 settembre 1998 (di cui è stata pronunciata la risoluzione per inadempimento dei promissari acquirenti) dovesse essere applicata, previa valutazione, da parte del giudice del rinvio, delle circostanze concrete inerenti alla sua possibile eccessività.
Il principio di stabilità-intangibilità delle pronunce del giudice di ultima istanza dovrebbe impedire, pertanto, di rilevare in questa sede la nullità/inefficacia della clausola abusiva a salvaguardia dell’unità dell’interpretazione giurisprudenziale rimessa alla Corte di legittimità, quale garante dell’uniforme interpretazione delle norme giuridiche e dell’unità del diritto oggettivo (ex art. 65, primo comma, dell’ordinamento giudiziario di cui al r.d. n. 12/1941).
Rispetto a tale ricostruzione si pone il nodo relativo alla possibilità che il diritto euro-unitario costituisca fonte di ius superveniens allorché il giudizio di merito sia stato chiuso con la precedente pronuncia di questa Corte relativamente alle questioni non oggetto di dispositivo cassatorio, pur avendo avuto, in quella sede, la Corte di legittimità il potere rilevare d’ufficio tali questioni (e, anzi, avendo annullato la pronuncia impugnata solo in ordine alla carenza di adeguate argomentazioni atte a pervenire alla riduzione, nella misura indicata, della clausola penale manifestamente eccessiva, ai sensi dell’art. 1384 c.c.).
E tanto tenuto conto altresì della completa e prolungata passività imputabile ai consumatori, che mai hanno tale inefficacia, se non con il secondo ricorso in cassazione, dopo il giudizio di rinvio.
6.– Pertanto, a fronte del quadro normativo interno e giurisprudenziale delineato, si ritiene opportuna la rimessione della questione interpretativa alla Corte di giustizia UE, alla quale va sottoposto il seguente quesito, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’UE: “Se l’art. 6, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 1, della Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, e l’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea debbano essere interpretati: (a) nel senso che ostino all’applicazione dei principi del procedimento giurisdizionale nazionale, in forza dei quali le questioni pregiudiziali, anche in ordine alla nullità del contratto, che non siano state dedotte o rilevate in sede di legittimità, e che siano logicamente incompatibili con la natura del dispositivo cassatorio, non possono essere esaminate nel procedimento di rinvio, né nel corso del controllo di legittimità a cui le parti sottopongono la sentenza del giudice di rinvio; (b) anche alla luce della considerazione circa la completa passività imputabile ai consumatori, qualora non abbiano mai contestato la nullità/inefficacia delle clausole abusive, se non con il ricorso per cassazione all’esito del giudizio di rinvio; (c) e ciò con particolare riferimento alla rilevazione della natura abusiva di una clausola penale manifestamente eccessiva, di cui sia stata disposta, in sede di legittimità, la rimodulazione della riduzione secondo criteri adeguati (quantum), anche in ragione del mancato rilievo della natura abusiva della clausola a cura dei consumatori (an), se non all’esito della pronuncia adottata in sede di rinvio”.
- Q. M. La Corte Suprema di Cassazione rimette alla Corte di giustizia dell’Unione europea la questione pregiudiziale d’interpretazione della Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, e dell’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea, nei sensi di cui in motivazione.
Dispone la sospensione del processo e la trasmissione di copia degli atti alla cancelleria della Corte di giustizia. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in data 9 aprile 2024.