Corte Costituzionale, sentenza 23 aprile 2024, n. 70
PRINCIPIO DI DIRITTO
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale – sollevate dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, in riferimento agli artt. 3 e 23 Cost. – dell’art. 1, comma 257, secondo periodo, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), nella parte in cui «prevede l’applicazione retroattiva dei nuovi criteri di determinazione dell’indennizzo per realizzazione abusiva, ovvero difforme, di opere inamovibili sul demanio marittimo, parametrati ai valori di mercato e non ai criteri legislativi espressi nel precedente D.L. n. 400 del 1993».
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.- La Corte di cassazione, sezione seconda civile, solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 257, secondo periodo, della legge n. 296 del 2006 (legge finanziaria 2007), nella parte in cui «prevede l’applicazione retroattiva dei nuovi criteri di determinazione dell’indennizzo per realizzazione abusiva, ovvero difforme, di opere inamovibili sul demanio marittimo, parametrati ai valori di mercato e non ai criteri legislativi espressi nel precedente D.L. n. 400 del 1993», in riferimento agli artt. 3, 23, 24, primo comma, 102, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.
Il suddetto comma 257, al primo periodo (non censurato), offre l’interpretazione autentica dell’art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito, che detta i criteri per la quantificazione – a decorrere dall’anno 1990 – degli indennizzi dovuti per le «utilizzazioni ivi contemplate» dei beni demaniali. In particolare, il citato art. 8 determina gli indennizzi in misura pari a quella dovuta a titolo di canone di concessione, «maggiorata rispettivamente del duecento per cento e del cento per cento», a seconda che ricorra la totale carenza di concessione oppure la sola difformità da essa. Tali utilizzazioni, per effetto dell’esegesi imposta dal medesimo legislatore al primo periodo del comma 257 devono ritenersi riferite «alla mera occupazione di beni demaniali marittimi e relative pertinenze».
Il secondo periodo del medesimo comma 257 – che è la disposizione sospettata d’illegittimità costituzionale – prevede che «[q]ualora, invece, l’occupazione consista nella realizzazione sui beni demaniali marittimi di opere inamovibili in difetto assoluto di titolo abilitativo o in presenza di titolo abilitativo che per il suo contenuto è incompatibile con la destinazione e disciplina del bene demaniale, l’indennizzo dovuto è commisurato ai valori di mercato, ferma restando l’applicazione delle misure sanzionatorie vigenti, ivi compreso il ripristino dello stato dei luoghi».
2.- La sentenza impugnata nel giudizio principale ha considerato legittima l’applicazione dei nuovi criteri di computo dell’indennizzo anche a un periodo di occupazione abusiva anteriore all’entrata in vigore della legge n. 296 del 2006. Proprio su tale statuizione si appuntano le doglianze del ricorrente nel giudizio a quo, che hanno indotto la Corte di cassazione a sollevare le questioni di legittimità costituzionale oggetto dell’odierno scrutinio.
3.- Il rimettente osserva che, ove i sospetti d’illegittimità costituzionale fossero dichiarati fondati, la causa dovrebbe essere definita senza fare applicazione della disposizione censurata, ma ricorrendo alla «precedente regola di giudizio».
Ciò è sufficiente a superare il controllo esterno che spetta a questa Corte quanto al profilo della rilevanza delle questioni sollevate.
4.- Quanto alla non manifesta infondatezza, ad avviso del Collegio a quo, il tenore testuale dell’intero comma 257 dell’art. 1 della legge finanziaria 2007 impedirebbe di considerare la disposizione censurata in termini di norma innovativa, come tale applicabile solo a decorrere dal 1° gennaio 2007, dovendosi piuttosto riconoscere a essa una chiara natura interpretativa.
La conseguente efficacia retroattiva della previsione di legge induce il giudice a quo a dubitare della sua compatibilità con i parametri costituzionali evocati.
In primo luogo, in violazione degli artt. 3 e 23 Cost., sotto il profilo della lesione del principio di affidamento, il legislatore non avrebbe effettuato un equo bilanciamento tra gli interessi contrapposti, anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU in materia di leggi retroattive.
Sotto altra angolatura, e anche in tal caso con il supporto di giurisprudenza della Corte EDU, viene prospettata la violazione degli artt. 102, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU. Verrebbe in rilievo, in particolare, un intervento legislativo che, in quanto «destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso» al fine di influenzarne l’esito, lederebbe i principi del giusto processo e della parità delle armi tra le parti, nonché il diritto di difesa e, al contempo, le attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità giudiziaria.
5.- L’Avvocatura ha eccepito l’inammissibilità, «per irrilevanza e difetto di pertinenza», delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 24, 102, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, in ordine all’asserita lesione della sfera riservata alla giurisdizione per effetto della retroattività della disposizione censurata.
Secondo l’interveniente, la questione sollevata, sotto questo profilo, sarebbe astratta, perché già dalla stessa ordinanza di rimessione si evincerebbe che il processo di primo grado dinanzi al Tribunale di Roma è stato incardinato nell’anno 2009, ossia successivamente all’entrata in vigore della disposizione sospettata d’illegittimità costituzionale.
6.- In via preliminare – quanto alle questioni sollevate dal rimettente in riferimento agli artt. 24, primo comma, 102, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU – va accolta l’eccezione d’inammissibilità sollevata dall’Avvocatura, sia pure per ragioni diverse da quelle da quest’ultima addotte.
Sebbene, infatti, il giudizio principale sia stato introdotto solo successivamente alla data di entrata in vigore della disposizione censurata (1° gennaio 2007), il rimettente non ha escluso la possibile pendenza, nel momento in cui il legislatore ha deciso di intervenire, di altri giudizi aventi a oggetto la determinazione della misura degli indennizzi in parola.
Tuttavia, questo profilo è solo accennato, mentre l’argomento avrebbe dovuto essere illustrato con maggiore ampiezza, a fronte della costante giurisprudenza costituzionale (che, per tale parte, converge con quella elaborata dalla Corte EDU, ampiamente citata nell’ordinanza di rimessione), secondo cui la valutazione in termini di uso distorto del potere legislativo presuppone che «lo Stato o l’amministrazione pubblica» siano «parti di un processo già radicato», il cui esito possa essere influenzato (sentenze n. 4 del 2024 e n. 174 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 145 del 2022, n. 260 del 2015 e n. 303 del 2011).
7.- Passando allo scrutinio, nel merito, delle restanti questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 23 Cost., la Corte di cassazione ha circoscritto l’oggetto del dubbio di illegittimità costituzionale al solo secondo periodo del comma 257 dell’art. 1 della legge finanziaria 2007, al quale ha esteso la qualificazione in termini di interpretazione autentica fornita dallo stesso legislatore in apertura del precedente primo periodo. Da ciò ha fatto discendere l’efficacia retroattiva anche della disposizione censurata, per questo motivo esposta ai dubbi di compatibilità con i parametri costituzionali evocati.
Questa Corte non condivide tale presupposto ermeneutico, la cui erroneità, tuttavia, non esclude l’ammissibilità delle questioni sollevate, potendosi comunque attribuire alla disposizione in esame un’efficacia retroattiva, sebbene secondo un diverso itinerario esegetico.
7.1.- La disposizione interpretata dal legislatore – l’art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito – si limitava a distinguere tra utilizzazioni difformi dalla concessione e utilizzazioni totalmente prive di titolo e, per il calcolo del relativo indennizzo, utilizzava come parametro il solo canone di concessione, differenziando nelle due ipotesi le maggiorazioni in percentuale.
L’originaria disciplina non operava, invece, alcuna distinzione esplicita tra “mere occupazioni” di beni demaniali marittimi e abusi di maggiore gravità, consistenti nella realizzazione di opere inamovibili abusive sulle aree già illegittimamente occupate.
In questo contesto, è intervenuto, appunto, il primo periodo del comma 257 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, che ha voluto chiarire la portata della disposizione, prevedendo che il citato art. 8 si interpreta «nel senso che le utilizzazioni ivi contemplate fanno riferimento alla mera occupazione di beni demaniali marittimi e relative pertinenze».
Il carattere autenticamente interpretativo, e dunque retroattivo, del primo periodo del suddetto comma 257 è pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, in termini condivisi da questa Corte: in tal senso, tra le ultime, si sono espresse Corte di cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 8 maggio 2023, n. 12154 e sezione terza civile, ordinanza 5 luglio 2017, n. 16491.
In conseguenza di tale intervento legislativo, e con l’effetto retroattivo che naturalmente pertiene alle norme di interpretazione autentica, le occupazioni di beni demaniali che, oltre a essere sine titulo o non conformi alla concessione rilasciata, fossero anche caratterizzate dalla realizzazione, sulle aree occupate, di opere inamovibili abusive sono state espunte dall’ambito applicativo degli illustrati criteri di quantificazione dell’indennizzo richiamati dall’interpretato art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito.
A quest’ultima tipologia di occupazioni illegittime, all’evidenza più gravi perché caratterizzate anche dalla non assentita trasformazione irreversibile dell’area demaniale, si riferisce il secondo periodo del citato comma 257 ove è previsto un indennizzo più oneroso, al fine di scoraggiare il fenomeno dell’abusivismo.
Questione centrale, come ben evidenziato dall’ordinanza di rimessione, è allora quella di stabilire se la previsione contenuta in tale secondo periodo condivida – come sostiene il giudice a quo – la natura di norma d’interpretazione autentica pacificamente riconosciuta al precedente primo periodo, oppure sia una disposizione innovativa, di cui occorre accertare l’efficacia nel tempo, come sostenuto, invece, dalla parte costituita nel presente giudizio.
7.2.- A ben vedere, l’autoqualificazione in termini di norma d’interpretazione autentica è compiuta dal legislatore solo con espresso riferimento alla attribuzione di significato – operata dal primo periodo del più volte citato comma 257 – al termine «utilizzazioni» contenuto nell’art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito. Tale termine, per effetto dell’esegesi imposta per legge, va riferito solo alla “mera” occupazione di beni demaniali marittimi e relative pertinenze, con esclusione dal suo perimetro delle occupazioni con opere inamovibili.
In questo si sostanzia – e si esaurisce – l’operazione ermeneutica compiuta dal legislatore.
Non è dunque la lettera della legge a ostacolare il riconoscimento di un carattere innovativo alla diversa disposizione censurata.
Né appare plausibile, del resto, attribuire al legislatore l’intenzione di estendere l’autoqualificazione anche al secondo periodo del comma 257, soprattutto alla luce del contenuto precettivo di tale ultima previsione normativa.
Secondo gli ordinari criteri dell’interpretazione della legge, infatti, requisito essenziale affinché una disposizione possa essere considerata di interpretazione autentica è che essa esprima uno dei significati già appartenenti a quelli riconducibili alla previsione interpretata (da ultimo, sentenza n. 4 del 2024; nello stesso senso, sentenze n. 73 del 2017, n. 132 del 2016 e n. 314 del 2013).
Nel caso di specie, per le occupazioni del demanio marittimo caratterizzate dalla compromissione irreversibile dell’area, il legislatore ha introdotto un sistema indennitario basato su un criterio – la commisurazione ai valori di mercato – del tutto diverso da quelli che si potrebbero definire “tabellari” (in quanto basati sulla maggiorazione in misura percentuale fissa dei canoni dovuti per le concessioni demaniali) previsti dall’art. 8, ossia dalla disposizione interpretata.
La regola che impone il riferimento al valore di mercato, quindi, non rientra in alcuna delle possibili varianti di senso già evincibili dall’art. 8, che rinvia a criteri governati da logiche affatto differenti.
Questa evidente incompatibilità con il tenore testuale dell’art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito, esclude la possibilità di considerare parte integrante dell’operazione di interpretazione autentica anche il secondo periodo del comma 257 dell’art. 1 della legge finanziaria 2007.
È lo stesso legislatore, d’altra parte, a chiarire, con l’utilizzo dell’avverbio «invece», la portata da attribuire a quest’ultima disposizione.
Per un verso, il comune significato dell’avverbio, in termini di opposizione o contrarietà rispetto a precedenti affermazioni, conferma il carattere innovativo del precetto dettato. Sotto altra visuale, il termine impiegato evidenzia comunque lo stretto collegamento esistente con il periodo precedente e la conseguente necessità di considerare in un’ottica unitaria l’efficacia temporale del complessivo intervento legislativo.
È del tutto comprensibile, del resto, che, una volta ristretto, con effetto retroattivo a far data dal 1990, il raggio d’azione delle «utilizzazioni» contemplate dalla disposizione interpretata (e dei connessi indennizzi parametrati ai canoni di concessione), il legislatore abbia voluto disciplinare, con la medesima decorrenza, il diverso fenomeno delle “occupazioni con opere”, applicando a esso l’innovativa (rispetto al criterio in precedenza applicato) regola del «valor[e] di mercato».
Anche una norma innovativa può, peraltro, avere carattere retroattivo (ex plurimis, sentenza n. 73 del 2017), in quanto, nonostante il divieto di retroattività della legge costituisca fondamentale valore di civiltà giuridica dell’ordinamento (sentenza n. 4 del 2024), esso, in forza dell’art. 25 Cost., riceve tutela privilegiata esclusivamente in materia penale (sentenze n. 132 del 2016, n. 170 del 2013, n. 264 e n. 78 del 2012).
Il legislatore, in altre parole, ha voluto fissare la modalità di calcolo degli indennizzi dovuti, sin dall’origine, anche per le più gravi condotte di occupazione, consistenti «nella realizzazione sui beni demaniali marittimi di opere inamovibili in difetto assoluto di titolo abilitativo o in presenza di titolo abilitativo che per il suo contenuto è incompatibile con la destinazione e disciplina del bene demaniale».
In tal modo, ha evitato che, per il passato, potessero sorgere dubbi sull’individuazione del criterio utilizzabile, così prevenendo il rischio di contrasti interpretativi. Che si trattasse di un rischio concreto è, del resto, plasticamente dimostrato dalla stessa diversità di opinioni espresse nel presente giudizio circa gli esiti dell’eventuale accoglimento delle questioni sollevate: da un lato, la parte costituita, convinta – in consonanza con l’auspicio espresso dalla stessa ordinanza di rimessione – dell’applicazione della «precedente regola di giudizio»; dall’altro, l’Avvocatura generale dello Stato, persuasa della riespansione dello statuto normativo generale del risarcimento del danno da fatto illecito.
8.- Chiarita, dunque, la portata retroattiva anche della disposizione censurata, sebbene secondo una lettura divergente da quella offerta dal giudice rimettente, occorre ora passare a scrutinare nel merito le sollevate questioni di legittimità costituzionale. La retroattività di una legge, infatti, deve sempre trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza, attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata (così la sentenza n. 73 del 2017, richiamando la sentenza n. 170 del 2013, che riassume, sul tema, le costanti indicazioni di principio espresse da questa Corte e ribadite, successivamente, dalle sentenze n. 104 del 2022, n. 70 del 2020, n. 174 e n. 108 del 2019).
Con specifico riguardo al principio della tutela dell’affidamento, la giurisprudenza di questa Corte, ribadita anche di recente (sentenze n. 216 del 2023 e n. 210 del 2021), ritiene che esso costituisca «ricaduta e declinazione “soggettiva”» della certezza del diritto (sentenza n. 108 del 2019), la quale, a propria volta, integra un «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto» (sentenza n. 16 del 2017), connaturato sia all’ordinamento nazionale, sia al sistema giuridico sovranazionale (sentenze n. 267 e n. 154 del 2017).
Nondimeno, tale principio non esclude che il legislatore possa adottare disposizioni che modificano in senso sfavorevole agli interessati la disciplina di rapporti giuridici, anche in relazione a diritti soggettivi perfetti. Ciò può avvenire, tuttavia, a condizione «che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica» (sentenza n. 216 del 2023; nello stesso senso, sentenze n. 145 del 2022 e n. 54 del 2019).
Tale affidamento non è dunque tutelato in termini assoluti e inderogabili (sentenze n. 89 del 2018 e n. 56 del 2015), bensì «sottoposto al normale bilanciamento proprio di tutti i diritti e valori costituzionali» (sentenze n. 108 del 2019 e n. 149 del 2017; nello stesso senso, sentenze n. 16 del 2017 e n. 203 del 2016), da operarsi facendo riferimento ad alcuni parametri che questa Corte ha identificato con chiarezza.
In primo luogo, va considerato il grado di consolidamento della situazione soggettiva originariamente riconosciuta e poi travolta dall’intervento retroattivo (sentenze n. 89 del 2018, n. 250 del 2017, n. 108 del 2016, n. 216 e n. 56 del 2015).
Viene poi in rilievo la prevedibilità della modifica retroattiva (sentenze n. 169 del 2022, n. 16 del 2017 e n. 160 del 2013), cosicché viene tutelato solo l’affidamento generato da una situazione normativa «sorta in un contesto giuridico sostanziale atto a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento», di modo che la modifica intervenuta con effetto retroattivo giunga del tutto inaspettata (sentenza n. 89 del 2018).
Ancora, interessi pubblici sopravvenuti possono comunque esigere interventi normativi che incidano su posizioni consolidate, purché nei limiti della proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi perseguiti (sentenze n. 169 del 2022, n. 210 del 2021 e n. 108 del 2019).
La valutazione, infine, deve essere sempre condotta tenendo in debita considerazione le «circostanze di fatto e di contesto entro cui l’intervento legislativo è maturato» (sentenza n. 108 del 2019). In particolare, secondo questa Corte, pertiene al prudente apprezzamento del legislatore la possibilità di modificare l’assetto di rapporti già definiti da precedenti leggi, quando risulti in concreto che queste ultime abbiano prodotto risultati non rispondenti a criteri di equità (sentenza n. 56 del 1989 e ordinanza n. 432 del 1989).
9.- Così fissate le coordinate dello scrutinio demandato a questa Corte, le questioni si rivelano non fondate.
Come evidenziato dall’Avvocatura generale dello Stato e riconosciuto dalla stessa ordinanza di rimessione, non può essere sottovalutato il fatto che i soggetti destinatari della disposizione censurata sono «fruitori di manufatti abusivi ovvero difformi rispetto all’originaria concessione».
Non si tratta certo di escludere in assoluto che, in capo a un trasgressore di un divieto, possa sorgere un affidamento salvaguardabile, poiché tale tutela deve quantomeno essere riconosciuta in ordine alla prospettiva di permanenza nel tempo di un determinato assetto regolatorio concernente proprio gli effetti della violazione, in base alla legge del tempo in cui la condotta viene tenuta.
Piuttosto, il «grado di meritevolezza dell’affidamento», sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 108 del 2016), può influenzare il risultato dell’operazione di bilanciamento con gli interessi antagonisti pure costituzionalmente protetti.
Da quest’angolo visuale, l’affidamento maturato in capo ai fruitori abusivi di beni pubblici – sui quali siano stati realizzati manufatti che incidono irreversibilmente sulle aree del demanio marittimo – può essere considerata recessiva rispetto ad altri interessi in gioco, che sono legati non solo alla valorizzazione dei beni demaniali, al fine di ricavare da essi una maggiore redditività (in tesi corrispondente a quella ritraibile sul libero mercato), ma anche alla tutela di tali beni pubblici, in ambiti che incrociano altri delicati interessi di rilievo costituzionale, quali la tutela del paesaggio e dell’ambiente marino.
Rafforza questa conclusione la constatazione che, tra le occupazioni illegittime del demanio marittimo, le uniche situazioni interessate dall’intervento retroattivo peggiorativo, in punto di computo degli indennizzi dovuti, sono proprio e solo quelle caratterizzate dal più alto grado di lesione del bene protetto.
Contrariamente a quanto ritenuto dal Collegio rimettente, peraltro, la scelta legislativa ha eliminato un’evidente sperequazione.
Prima della modifica apportata dalla legge finanziaria 2007, infatti, l’art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito, non operava alcuna distinzione tra l’occupazione “mera” di aree demaniali marittime e l’occupazione “aggravata” dalla trasformazione irreversibile e non assentita delle medesime superfici; sicché gli autori di tali più gravi condotte erano chiamati a corrispondere gli indennizzi dovuti nella medesima misura prevista per i trasgressori che si fossero, quantomeno, astenuti dal realizzare opere inamovibili.
L’art. 1, comma 257, della legge n. 296 del 2006 interviene proprio per differenziare posizioni caratterizzate da un’oggettiva diversa gravità delle condotte; tanto che la stessa ordinanza di rimessione riconosce la ragionevolezza, in astratto, del criterio di quantificazione dell’indennizzo commisurato, nei casi più gravi di “occupazioni con opere”, al valore di mercato dei beni.
L’affidamento generatosi in capo agli artefici di opere abusive su aree demaniali illegittimamente occupate, declinato nell’aspettativa di continuare a pagare gli stessi indennizzi previsti per condotte oggettivamente meno gravi, è stato dunque legittimamente sacrificato dal legislatore, in quanto connesso a posizioni «acquisite sulla base di leggi che, a un più approfondito esame o a seguito dell’esperienza derivante dalla loro applicazione», hanno generato risultati iniqui (sentenza n. 56 del 1989 e ordinanza n. 432 del 1989).
Del resto, la norma retroattiva non può neppure considerarsi assolutamente imprevedibile.
Il criterio di computo degli indennizzi utilizzato in precedenza, infatti, era pur sempre legato a un parametro, quello dei canoni di concessione, rispetto al quale la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto l’esistenza di una «precisa linea evolutiva» (sentenza n. 302 del 2010), caratterizzata dalla tendenza alla variazione in aumento, in particolare con riferimento all’utilizzazione dei beni appartenenti al demanio marittimo.
Si tratta, d’altra parte, di un processo «in corso da diversi decenni» (ancora sentenza n. 302 del 2010), poiché, come ricordato anche dalla sentenza n. 29 del 2017, una consistente maggiorazione dei canoni in questione era già stata disposta dall’art. 32, commi 21, 22 e 23, del decreto-legge 30 settembre 2003 n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, in legge 24 novembre 2003, n. 326, anche se poi la concreta applicazione degli aumenti così disposti era stata successivamente rinviata, sino a quando proprio l’art. 1, comma 256, della legge n. 296 del 2006 ha previsto la loro abrogazione, introducendo contestualmente i nuovi criteri di calcolo.
Tutto ciò mostra che un aumento degli indennizzi – anche in base al sistema di computo legato ai canoni – non poteva certo considerarsi inaspettato, anche (ed anzi, proprio) negli anni presi in considerazione nel giudizio principale, rispetto ai quali la disposizione qui censurata ha inteso intervenire in modo retroattivo, sostituendosi «ad un precedente aumento, di notevole entità, non applicato per effetto di successive proroghe, ma rimasto tuttavia in vigore sino ad essere rimosso, a favore di quello vigente, dalla norma oggetto di censura» (sentenze n. 29 del 2017 e n. 302 del 2010).
Ciò basta a escludere il carattere improvviso della scelta del legislatore.
Quest’ultima, peraltro, non può considerarsi neppure sproporzionata rispetto agli obiettivi perseguiti (sentenze n. 169 del 2022, n. 210 del 2021 e n. 108 del 2019), dal momento che la giurisprudenza di questa Corte ha già affermato che la tendenza all’aumento dei canoni demaniali – e, di conseguenza, dei relativi indennizzi per le occupazioni illegittime delle aree – segue una direttrice conforme agli artt. 3 e 97 Cost. (sentenze n. 49 del 2021, n. 29 del 2017 e n. 302 del 2010), volta a consentire allo Stato una maggiorazione delle entrate e a rendere i canoni più equilibrati rispetto a quelli (appunto di mercato) pagati in favore di locatori privati.
Per il complesso di queste ragioni, le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 23 Cost. devono essere dichiarate non fondate.