Corte di Cassazione penale, Sezione III, sentenza 16 aprile 2024, n. 15637
PRINCIPI DI DIRITTO
Il principio di proporzionalità, applicabile anche alla fase esecutiva del sequestro impeditivo, non può spingersi, in assenza di impulso di parte, fino alla rivalutazione della sussistenza del presupposto del “periculum in mora”, realizzandosi, in tal caso, una indebita invasione da parte del giudice delle prerogative dell’organo requirente preposto all’esecuzione del provvedimento.
In tema di reati urbanistici, ai fini della valutazione del requisito della indispensabilità dell’ordine di sgombero, occorre tenere conto anche dell’aggravio in concreto del carico urbanistico dell’opera abusiva, ancorché ultimata, in quanto incidente sul regolare assetto del territorio.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso è fondato.
1.1. Preliminarmente il Collegio osserva come il ricorso non concerne l’esistenza o la validità del vincolo cautelare, ormai incontestato, bensì la sussistenza dei presupposti per disporre lo “sgombero” coattivo dello stesso da parte del pubblico ministero. Ciò determina l’impossibilità di sottoporre a nuova valutazione sia il profilo del fumus commissi delicti che quello del periculum in mora, ritenuti entrambi sussistenti all’atto dell’emissione del decreto di sequestro.
Ed infatti, per consolidata giurisprudenza della Corte, pur non essendo tipizzato, il provvedimento di “sgombero”, concernendo le modalità esecutive del provvedimento cautelare adottato, è attribuito alla competenza esclusiva del pubblico ministero, a norma dell’art. 655 cod. proc. pen.: a questi, e solo a questi, è quindi riservato il potere di disporre o meno lo sgombero di un immobile sottoposto a vincolo, mentre al giudice procedente è demandato il compito di verificare, su impulso di parte, la sussistenza dei presupposti, così come la permanenza degli stessi, in ordine alla misura reale in corso di esecuzione (Sez. 3, n. 43615 del 18/02/2015, Manconi, Rv. 265152 – 01, cit.).
Dopo l’emissione del titolo, pertanto, compete al giudice la sola valutazione dei presupposti per il mantenimento o la revoca della misura, rientrando nelle prerogative del pubblico ministero ogni questione concernente l’esecuzione del sequestro, salva la possibilità per gli incisi di sollecitare, con ricorso al giudice dell’esecuzione, il controllo di legittimità relativo alle modalità di esecuzione della misura (Sez. 3, n. 30405 del 08/04/2016, Murino, Rv. 267587 – 01).
In applicazione del principio, questa Corte – in un procedimento simile al presente – ha, ad esempio, ritenuto abnorme il provvedimento del GIP che, paralizzando l’efficacia del provvedimento emesso dal P.M., aveva autorizzato i detentori di un appartamento sito in un immobile sottoposto a sequestro preventivo a continuare ad abitarvi e a fruire dei servizi comuni (Sez. 3, n. 43615 del 18/02/2015, Manconi, Rv. 265152 – 01, cit.).
Si è, tuttavia, ritenuto che il provvedimento di sgombero emesso dal pubblico ministero è sindacabile, in sede esecutiva, sotto il duplice profilo della ” inesistenza del titolo” (profilo che qui non interessa) e della sua “concreta indispensabilità” al fine di dare esecuzione al provvedimento giurisdizionale (Sez. 3, n. 19476 del 30/01/2013, Notarianni, Rv. 255959 – lSez. 3, n. 45938 del 09/10/2013, Speranza, Rv. 258312 – 01).
In tale ipotesi, il giudice deve limitarsi ad accertare se le finalità cautelari del provvedimento di sequestro possano essere attuate con modalità diverse; tale accertamento, se motivato congruamente ed esente da vizi logici, non è censurabile in sede di legittimità (Sez. 3, n. 37592 del 01/07/2009, Zimbetto, Rv. 244895 – 01).
Resta comunque escluso che, con la procedura dell’incidente di esecuzione (quale quella in esame), possano contestarsi le ragioni stesse del sequestro (sussistenza del fumus delicti e del periculum in mora), in quanto in tal modo verrebbe posta non già una questione relativa al controllo delle modalità di attuazione del sequestro, propria della fase esecutiva, ma invece verrebbe sollevato un problema di rivalutazione della sussistenza dei presupposti di legittimità della misura di coercizione reale, che esula dalla sfera dell’esecuzione e per la cui risoluzione l’ordinamento appresta altri specifici rimedi (Sez. 3, n. 14187 del 13/12/2006, dep. 2007, Tortora, Rv. 236323 – 01).
Il perimetro del giudizio rimesso a questa Corte è pertanto limitato a verificare la tenuta della motivazione fornita dal GIP di Torre Annunziata in ordine alla “non indispensabilità” dello sgombero.
1.2. Altrettanto preliminarmente, in riferimento alla osservazione contenuta nella memoria depositata nell’interesse dei terzi interessati dall’Avv. Spagnuolo, il Collegio osserva quanto segue. In primo luogo, va esclusa l’inammissibilità del ricorso per “disparità di trattamento”, posto che la scelta di “quali” provvedimenti impugnare e nei confronti di chi è rimessa discrezionalmente alla parte che coltiva l’impugnazione, soluzione che discende dalla natura stessa del processo accusatorio quale processo “di parti”.
Inoltre, il Collegio evidenzia che al vaglio della Corte è stata posta l’impugnazione dell’ordinanza n. 166/23 Mod. 32 – SIGE (l’ulteriore annotazione “143/2022 R. Es.” è stata interlineata a penna) del 10/10/2023, depositata in pari data, concernente il ricorso proposto dal pubblico ministero avverso l’ordinanza GIP del 27/07/2022 nel procedimento in epigrafe indicato, qualificato come opposizione da questa Corte con ordinanza del 24/01/2023 di questa Corte.
Nel provvedimento impugnato non si chiarisce nei confronti di chi tale provvedimento sia stato emesso, posto che l’ordinanza impugnata ha assunto un numero di ruolo diverso da quello originario.
La memoria difensiva, tuttavia, che neppure allega l’originario ricorso del pubblico ministero, introduce un elemento di valutazione del tutto nuovo, ma non consente al Collegio di avere contezza dell’ambito dei destinatari del provvedimento impugnato, di talché essa non può costituire oggetto di valutazione da parte della Corte.
- Ciò debitamente premesso, il primo profilo di censura concerne un asserito vizio di contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui, da un lato non sussisterebbe alcun obbligo motivazionale previsto dalla legge, dall’altro radica, contraddittoriamente, un obbligo di motivazione in capo al pubblico ministero stesso.
La doglianza è parzialmente fondata.
L’articolo 111 Cost. impone un obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali.
L’articolo 125, comma 3, cod. proc. pen., stabilisce, con riferimento al giudice, l’obbligo di motivazione delle sole sentenze e delle ordinanze, mentre i decreti debbono essere motivati solo quando tale onere è previsto espressamente dalla legge.
Per quanto concerne il pubblico ministero, è stato osservato durante i lavori parlamentari che hanno preceduto l’approvazione del codice di procedura penale che un obbligo generalizzato di motivazione dei provvedimenti del pubblico ministero non sarebbe stato conforme alla natura dell’attività di tale soggetto, dal momento che gli atti del pubblico ministero non sono provvedimenti giurisdizionali, ma atti preprocessuali o processuali che esplicano la funzione inquirente, per cui la scelta del legislatore è stata quella di indicare tassativamente gli atti del pubblico ministero soggetti ad obbligo di motivazione.
E’ pertanto ovvio che la mancata tipizzazione dell’ordine di sgombero determina l’assenza di un obbligo di motivazione la cui violazione potrebbe determinare la nullità del relativo provvedimento.
E, tuttavia, considerata l’indubbia valenza del bene giuridico in argomento, ossia il diritto alla abitazione, il quale assume preminente rilievo sotto il profilo: a) della “copertura” costituzionale, posto che la Corte Costituzionale ha incluso il diritto all’abitazione nel catalogo dei diritti inviolabili della persona, che “rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione” (v. sentenze nn. 217/1988, 44/2020 e 128/2021); b) della rilevanza Euro-unionale, posto che l’articolo 34.3 della Carta dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione europea stabilisce che “con l’obiettivo di combattere povertà e esclusione sociale, l’Unione riconosce e rispetta il diritto alla casa e all’housing sociale, al fine di assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non siano in possesso delle risorse minime, in accordo alle regole stabilite dalla legislazione Comunitaria e dalla legislazione e pratiche internazionali; c) del riconoscimento “convenzionale”, posto che, da un lato, la Carta sociale europea (CSE), nel testo in vigore dal 1999, sancisce all’art. 31 che “tutte le persone hanno diritto all’abitazione”, e, d’altro canto, la Corte EDU, attraverso un’interpretazione estensiva dell’art. 8 della CEDU (che garantisce la tutela della vita privata e familiare e del domicilio), ha riconosciuto l’esistenza di un diritto all’abitazione, la tenuta logica del provvedimento, sotto il summenzionato profilo della ” indispensabilità”, in caso di difetto di motivazione o di motivazione operata con mere formule di stile può risultare difficilmente difendibile.
Pertanto, il provvedimento impugnato non appare censurabile sotto il profilo della valutazione della motivazione del provvedimento, posto che rientra nello spettro dello scrutinio del giudice la verifica della indispensabilità dello sgombero, che può essere dedotta solo dalla motivazione del provvedimento.
Il motivo è, invece, fondato, nella parte in cui si impugnava l’originario provvedimento adottato dal GIP in sede di incidente di esecuzione (allegato alla memoria dei terzi interessati), il quale, nell’accogliere l’istanza dei terzi interessati, motivava il provvedimento di sospensione (anche) sulla base di “carenza di sufficiente motivazione” sull’indispensabilità dello sgombero, carenza che non può costituire un vizio dell’atto posto che – come visto – la legge non impone un generale obbligo di motivazione dei provvedimenti del pubblico ministero.
- Fondato è il profilo di ricorso relativo al cattivo uso del bilanciamento della funzione preventiva del sequestro con le esigenze di vita del terzo possessore.
Il provvedimento, infatti, a sostegno della necessità di sospendere l’esecuzione dell’ordine di sgombero, fa esplicito riferimento (pag. 9) alla necessità di considerare il c.d. “principio di proporzionalità”.
Sul punto, il Collegio evidenzia che è sicuramente vero che le Sezioni Unite della Corte hanno statuito (Sez. U, n. 36959 del 24/06/2021, Eliade, IRv. 281848 – 01; Sez. U. n. 48126 del 20/07/2017, Muscari, Rv. 270938 – 01, che peraltro concerne il caso – diverso dal presente -del terzo che non abbia partecipato al procedimento di cognizione) che il provvedimento di sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., finalizzato alla confisca di cui all’art. 240 cod. pen., deve contenere la concisa motivazione anche del periculum in mora, da rapportare alle ragioni che rendono necessaria l’anticipazione dell’effetto ablativo della confisca rispetto alla definizione del giudizio, e che tale motivazione è necessaria anche nell’ottica del “rispetto dei criteri di proporzionalità la cui necessaria valenza, con riferimento proprio alle misure cautelari reali, e in consonanza con le affermazioni della giurisprudenza sovranazionale, questa Corte ha ritenuto di dovere a più riprese rimarcare al fine di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata”.
La giurisprudenza delle Sezioni semplici ha poi ritenuto (Sez. 5, n. 17586 del 22/03/2021, Onorati, Rv. 281104 – 01) che, anche in tema di sequestro preventivo c.d. ” impeditivo”, il principio di proporzionalità impone al giudice cautelare di motivare sull’impossibilità di fronteggiare il pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di agevolazione della commissione di altri reati ricorrendo a misure cautelari meno invasive oppure limitando l’oggetto del sequestro o il vincolo posto dallo stesso in termini tali da ridurne l’incidenza sui diritti del destinatario della misura reale.
La citata sentenza (Omissis) ha sottolineato che anche le modalità di attuazione del provvedimento” devono essere le meno gravose tra quelle possibili ed adeguate a salvaguardare gli effetti del sequestro, ” in ossequio al principio di proporzionalità applicabile – sia nella fase genetica, sia in quella funzionale – anche alle misure cautelari reali”.
Tuttavia, il rispetto del principio di proporzionalità non può spingersi – in sede esecutiva -nella rivalutazione della sussistenza del presupposto del periculum in mora, che il giudice deve effettuare al momento in cui viene sottoposta al suo vaglio la sussistenza dei presupposti per l’emanazione del vincolo reale.
Il provvedimento impugnato, considerando il diritto all’abitazione dei terzi come assolutamente prevalente rispetto agli altri profili (sul carico urbanistico v. infra), senza alcun bilanciamento con le opposte esigenze cautelari, fa’ rientrare dalla finestra un profilo, quello del periculum in mora, che era uscito dalla porta nel momento in cui il provvedimento di sequestro aveva assunto la sua stabilità e che non poteva costituire oggetto di rivalutazione in assenza di impulso di parte.
- Tale affermazione conduce il Collegio direttamente nella valutazione degli altri profili di censura, strettamente connessi a quello testé analizzato.
Fondato è il profilo relativo alla omessa valutazione della sussistenza di un aumento del “carico urbanistico”. Le Sezioni Unite della Corte (Sez. U, n. 12878 del 29/01/2003, Innocenti, Rv. 223722 – 01) hanno stabilito che, in tema di reati edilizi o urbanistici, la valutazione che il giudice di merito ha il dovere di compiere in ordine al pericolo che la libera disponibilità della cosa pertinente al reato possa agevolare o protrarre le conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri reati, va diretta in particolare ad accertare se esista un reale pregiudizio degli interessi attinenti al territorio o una ulteriore lesione del bene giuridico protetto (anche con riferimento ad eventuali interventi di competenza della p.a. in relazione a costruzioni non assistite da concessione edilizia, ma tuttavia conformi agli strumenti urbanistici), ovvero se la persistente disponibilità del bene costituisca un elemento neutro sotto il profilo dell’offensività.
In tal senso, la giurisprudenza assolutamente prevalente della Corte è nel senso di ritenere la sussistenza del potere del giudice di disporre il sequestro preventivo di un immobile abusivamente costruito anche nell’ipotesi in cui l’edificazione risulti già ultimata.
E’ stato così affermato che le conseguenze che il legislatore intende neutralizzare mediante il sequestro preventivo non sono identificabili con l’evento del reato in senso naturalistico e neppure con l’evento in senso giuridico (cioè, la lesione del bene penalmente tutelato), cosicché esse possono essere aggravate o protratte anche dopo la consumazione del reato medesimo.
La Corte ha in proposito evidenziato come vanno distinte nettamente la “consumazione” del reato (che nei reati edilizi tendenzialmente coincide con la ultimazione dell’immobile), dalle specifiche “conseguenze” (indicate dall’art. 321 c.p.p.) che possono determinarsi a causa del mancato impedimento della libera disponibilità della cosa pertinente al reato in capo all’autore di esso ovvero di terzi.
Dette conseguenze diverse, necessariamente antigiuridiche, sono sicuramente ipotizzabili nel caso in cui il reato siasi consumato ed in particolare l’edificio sia stato portato a termine. Si è in particolare specificato che libero uso dell’immobile abusivo, anche dopo il suo completamento, può determinare conseguenze negative sul regolare assetto del territorio, aggravando i c.d. “carichi urbanistici”.
L’istituto del “carico urbanistico” (v. Sez. 3, n. 36104 del 22/09/2011, Armelani, Rv. 251251 – 01) deriva dall’osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c.d. “primario” (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno “secondario” di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas), che deve essere proporzionato all’insediamento primario, ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell’attività da costoro svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l’effetto che viene prodotto dall’insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio.
Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione in vari istituti di diritto urbanistico, ampiamente richiamati delle sentenze citate.
Pertanto, ove dall’esecuzione di opere costruite abusivamente, anche nell’ipotesi in cui l’edificazione sia ultimata, sia derivato un aumento del carico urbanistico, è consentito il sequestro preventivo (Sez. 3, n. 52051 del 20/10/2016, Giudici, Rv. 268812 – 01), fermo restando l’obbligo di motivazione del giudice.
Ancora, si è ritenuto (Sez. 3, n. 42717 del 10/09/2015, Buono, Rv. 265195 – 01) che “è legittimo il sequestro preventivo di un immobile abusivo ultimato anche nel caso di utilizzo dell’opera in conformità alle destinazioni di zona, allorquando il manufatto presenti una consistenza volumetrica tale da determinare comunque un’incidenza negativa concretamente individuabile sul carico urbanistico, sotto il profilo dell’aumentata esigenza di infrastrutture e di opere collettive correlate“.
4.3. Che l’aggravio urbanistico nel caso di specie sia assolutamente rilevante sembrerebbe attestato dall’insediamento di trentotto nuclei familiari nell’immobile occupato; la relativa valutazione costituisce elemento di fatto sottratto a censure in sede di legittimità ove sorretto da idonea motivazione.
Nel caso di specie, tuttavia, il provvedimento omette qualsivoglia motivazione sul punto, non ritenendosi a tal fine calibrata sullo specifico aspetto l’affermazione (contenuta a pag. 13) secondo cui la nomina di un amministratore giudiziario, con ” il compito di sorvegliare e monitorare il rispetto del vincolo, impedire qualsiasi modifica alla struttura dell’immobile e custodire giudizialmente le somme pagate dagli occupanti a garanzia dei costi pubblici di occupazione”, costituirebbe garanzia di contemperamento delle opposte esigenze.
Sul punto, il Collegio evidenzia come la Corte (Sez. 3, n. 24662 del 15/04/2009, Improta, n.m.), in un caso simile al presente, ha affermato che la mera apposizione dei sigilli ex art. 260 c.p.p., con eventuale nomina di un custode giudiziario (unica figura all’epoca esistente), costituisce misura del tutto inidonea a salvaguardare le finalità cautelari del sequestro: essa può tutelare le finalità del sequestro probatorio (assicurare le cose necessarie per l’accertamento dei fatti), ma “la nomina del custode e l’apposizione dei sigilli, senza lo sgombero dell’immobile da coloro che lo occupano, non impedirebbe di certo il determinarsi dell’aggravio del carico urbanistico (che deriva appunto dalla persistenza della occupazione)”.
- E’ del pari fondata la doglianza che censura la ritenuta irrilevanza dell’assenza del requisito dell’agibilità dell’immobile. Evidenziano sul punto le citate Sezioni Unite Innocenti come deve qualificarsi in termini di antigiuridicità l’implicazione proveniente dalla perpetrazione dell’illecito amministrativo ex art. 221 T.U. delle leggi sanitarie, non più inquadrato “nell’agevolazione di commissione di altri reati”, ma certamente costituente una situazione illecita ulteriore prodotta dalla condotta (la libera utilizzazione della cosa) che il provvedimento cautelare è finalizzato ad inibire.
Tale principio è coerente con i principi espressi dalla Corte costituzionale, la quale (sent. n. 256/1996), ha escluso “una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni sanitarie e quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica”; permangono, quindi, ” in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l’abitabilità degli edifici, con l’unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari”.
Il principio è stato confermato dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, n. 2575 del 26/03/2021), la quale ha espresso il principio secondo cui il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato, conseguente al condono edilizio, può legittimamente avvenire in deroga solo ad autonome e autosufficienti disposizioni regolamentari e non anche quando siano carenti condizioni di salubrità richieste invece da fonti normative di livello primario, poiché la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere eccezionale e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute.
Va quindi affermata da un lato l’autonomia del certificato di abitabilità, dall’altro la rilevanza della sua assenza sotto il profilo cautelare. Il provvedimento, che omette di confrontarsi con il quadro normativo, così come interpretato dalla Corte nella sua massima composizione, è pertanto viziato da violazione di legge.
- Il Collegio evidenzia inoltre come il provvedimento impugnato, nell’incipit, dia conto della esistenza di un “tavolo tecnico” predisposto presso la Procura della Repubblica con il precipuo fine di organizzare le operazioni in modo da non arrecare eccessivo pregiudizio alle ragioni dei terzi. Di tale istituto, tuttavia, non dà cenno alcuno nella parte motiva, omettendo di precisare per quale motivo la scelta di un amministratore giudiziario sarebbe in grado di meglio contemperare gli opposti interessi, rispetto alla coltivazione di uno strumento di confronto quale quello istituito dall’Ufficio preposto all’esecuzione del provvedimento, in tal modo realizzando una indebita invasione delle prerogative dell’organo requirente.
- Da ultimo si evidenzia, in riferimento al profilo di doglianza che censura la stessa qualifica degli occupanti come terzi in buona fede, che l’insussistenza di un titolo traslativo della società (il ricorrente definisce i terzi come meri “promissari acquirenti”) e l’epoca dell’insediamento dei nuclei familiari nell’immobile abusivo (il ricorrente evidenzia che essa sarebbe avvenuta dopo l’emanazione del decreto di sequestro preventivo), sono circostanze sconosciute alla Corte, in quanto non risultano dagli atti a sua disposizione.
Il ricorso, su tali aspetti, risulta pertanto inammissibile, fermo restando che, laddove le allegazioni del ricorrente fossero corrette, tali circostanze – su cui il provvedimento non si sofferma – non potrebbero non riversare i loro effetti nella valutazione relativa alla sussistenza del requisito della “buona fede”.
- Il Collegio esprime quindi i seguenti principi di diritto: – ” il principio di proporzionalità, applicabile anche alla fase esecutiva del sequestro impeditivo, non può spingersi, in assenza di impulso di parte, fino alla rivalutazione della sussistenza del presupposto del “periculum in mora”, realizzandosi, in tal caso, una indebita invasione da parte del giudice delle prerogative dell’organo requirente preposto all’esecuzione del provvedimento“;
– “in tema di reati urbanistici, ai fini della valutazione del requisito della indispensabilità dell’ordine di sgombero, occorre tenere conto anche dell’aggravio in concreto del carico urbanistico dell’opera abusiva, ancorché ultimata, in quanto incidente sul regolare assetto del territorio“.