Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, sentenza 12 aprile 2024 n. 15403
PRINCIPIO DI DIRITTO
“Nel giudizio di appello cautelare, celebrato nelle forme e con l’osservanza dei termini previsti dall’art. 127 cod. proc. pen., possono essere prodotti dalle parti elementi probatori “nuovi” nel rispetto del contraddittorio e del principio di devoluzione, contrassegnato dalla contestazione, dalla richiesta originaria e dai motivi contenuti nell’atto d’appello”
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: “Se nel giudizio sull’appello ex art. 310 cod. proc. pen. proposto dall’imputato avverso provvedimenti in materia di misure cautelari personali, l’oggetto della cognizione sia delimitato dagli elementi sui quali era fondata la richiesta ai sensi dell’art. 299 cod. proc. pen. decisa con il provvedimento appellato.”
- La questione sulla quale il Collegio è chiamato a pronunziarsi è, in definitiva, quella dell’ampiezza dei poteri cognitivi del giudice dell’appello cautelare.
In proposito, si registra effettivamente nella giurisprudenza di legittimità un contrasto rivelatosi già nei primi anni successivi all’entrata in vigore del codice del 1988, e che, non avendo trovato esaustiva composizione a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite evocato nell’ordinanza di rimessione […], si è riproposto anche successivamente a tale pronunzia.
2.1 In origine il conflitto interpretativo si è formato prevalentemente con riferimento al caso dell’impugnazione del provvedimento reiettivo dell’istanza di revoca o sostituzione di una misura cautelare già disposta, manifestandosi, però, occasionalmente anche nell’eventualità dell’appello proposto dal pubblico ministero avverso il mancato accoglimento della richiesta di applicazione di una misura cautelare.
2.2 In tal senso, un primo orientamento, senza distinguere tra le due ipotesi, ha escluso la possibilità di utilizzare per la decisione elementi diversi da quelli conosciuti dal giudice che ha adottata il provvedimento impugnato.
Tale conclusione è ritenuta naturale conseguenza dell’applicazione all’appello cautelare del principio devolutivo e confermata dal fatto che l’art. 310 non richiama i commi 6 e 9 dell’art. 309 cod. proc. pen., i quali consentono di proporre motivi nuovi davanti al giudice del riesame e, a quest’ultimo, di annullare, riformare o confermare il provvedimento impugnato anche per ragioni diverse da quelle prospettate dall’imputato ovvero da quelle poste a fondamento dell’ordinanza genetica. E proprio il mancato rinvio alle disposizioni da ultime menzionate ha costituito, per le pronunce dell’orientamento in esame, l’evidente indice della finalizzazione dell’appello cautelare all’esclusivo controllo di una decisione precostituita, rimanendo alle parti la facoltà di far valere eventuali elementi inediti attraverso la reiterazione della sequenza procedimentale di cui all’art. 299 cod. proc. pen. ovvero, nel caso del pubblico ministero, mediante la proposizione di una nuova richiesta cautelare […].
Si è peraltro registrata anche una variante dell’indirizzo in esame, secondo cui, fermo restando in via generale il divieto alle parti di produrre nuovi atti o documenti nell’appello cautelare, dovrebbe farsi una eccezione per gli “atti interni del processo”, quali le sentenze e i provvedimenti resi nelle fasi pregresse dai giudici o dagli organi intervenuti nel corso del procedimento, poiché si tratta di atti o documenti sempre consultabili, dei quali il giudice deve tenere conto, onde evitare la pronuncia di provvedimenti abnormi o contraddittori, e che il giudice del gravame, proprio perché deve tenerne conto, può acquisire anche d’ufficio […].
2.3 Secondo altro ed opposto orientamento, sviluppatosi parallelamente a quelli illustrati in precedenza, la necessità del costante adeguamento del regime cautelare alla situazione reale impone, invece, di derogare ai limiti derivanti dalle regole della devoluzione, con la conseguenza che il giudice investito dell’appello deve poter conoscere gli elementi di valore probatorio eventualmente emersi successivamente alla pronunzia della decisione impugnata […]. Ed in tal senso numerose delle pronunzie riconducibili a tale indirizza hanno individuato nell’applicazione analogica delle disposizioni dettate dall’art. 503, commi 2 e 3, cod. proc. pen. in tema di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio d’appello ordinario lo strumento per veicolare i nova probatori in quello cautelare […].
2.4 Come accennato, l’originario conflitto interpretativo sulla possibilità del giudice dell’appello cautelare di acquisire ed utilizzare elementi probatori sopravvenuti all’adozione del provvedimento impugnato addotti dalle parti è infine approdato alle Sezioni Unite.
Il caso che ha determinato la rimessione al Supremo Collegio riguardava gli elementi indiziari inediti prodotti a sostegno dell’appello proposto dal pubblico ministero avverso il provvedimento di rigetto di una richiesta di applicazione di una misura cautelare personale.
La sentenza Donelli (Sez. U, n. 18339 del 31/03/2004, Donelli, cit.) ha deciso di circoscrivere il quesito interpretativo esclusivamente alla fattispecie oggetto del ricorso ed in tal senso ha ritenuto legittima la produzione nell’appello cautelare di documentazione relativa ad elementi probatori nuovi, preesistenti o sopravvenuti, purché effettuata nell’ambito dei confini segnati dal devolutum, nonché a condizione che quelli prodotti dal pubblico ministero riguardino lo stesso fatto contestato con l’originaria richiesta e quelli prodotti dall’indagato risultino idonei a contrastare i motivi di gravame dell’appellante ovvero a dimostrare che non sussistono le condizioni e i presupposti di applicabilità della misura cautelare di cui viene invocata l’applicazione.
- […] Successivamente a tale pronunzia, le Sezioni semplici non hanno più messo in discussione il potere del giudice investito dell’impugnazione del pubblico ministero di fondare la propria decisione anche sui nova prodotti dalle parti nel giudizio d’appello.
3.1 Il perimetro che la citata pronunzia ha inteso conferire al principio dalla stessa affermato è stato però interpretato in senso diametralmente opposto dalla giurisprudenza successiva. Conseguentemente, il contrasto interpretativo si è rapidamente riproposto, sebbene, come ricordato nell’ordinanza di rimessione, questa volta con specifico ed esclusivo riferimento alla diversa ipotesi relativa all’impugnazione dei provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 299 cod. proc. pen.
3.2 Anche nella sua nuova edizione il contrasto si è manifestato nella netta contrapposizione tra due orientamenti che non ammettono apparentemente mediazione alcuna e che sostanzialmente ripercorrono le linee interpretative già tracciate anteriormente all’intervento delle Sezioni Unite.
Si registra pertanto un primo indirizzo per cui deve escludersi la possibilità che nel giudizio d’appello cautelare vengano acquisiti elementi probatori inediti, dovendo questi essere oggetto di una nuova ed ulteriormente documentata richiesta al giudice procedente ai sensi dell’art. 299 cod. proc. pen. […].
L’affermazione del suddetto principio si fonda anzitutto sul rilievo per cui il thema decidendum del giudizio d’appello deve ritenersi inderogabilmente delimitato dai motivi e dagli elementi sottoposti a quello di prima istanza, sicché i poteri cognitivi del giudice dell’impugnazione non possono estendersi oltre tali limiti. In secondo luogo viene posto l’accento sul fatto che, in forza del principio devolutivo, la cognizione del giudice d’appello, a differenza di quello del riesame, è delimitata dai motivi di impugnazione, sicché essa non può avere ad oggetto punti della decisione diversi, né elementi differenti da quelli dedotti.
Ulteriore argomento a sostegno della tesi negativa viene poi tratto, come in passato, dalla comparazione tra la disciplina dell’appello cautelare e quella del giudizio di riesame, sottolineandosi in tal senso come il rinvio operato dall’art. 310 ad alcune delle disposizioni dell’art. 309 cod. proc. pen. non comprenda quella di cui al nono comma di quest’ultimo articolo e, dunque, la facoltà dallo stesso attribuita alle parti di presentare elementi probatori inediti all’udienza di trattazione ed il dovere del giudice del riesame di valutarli.
Dialogando con l’orientamento di segno opposto, alcune delle sentenze menzionate contestano inoltre che l’ampliamento dei poteri cognitivi del giudice dell’appello cautelare possa fondarsi sull’applicazione in via analogica delle disposizioni di cui all’art. 603 commi 2 e 3, cod. proc. pen., ricordando in proposito come la praticabilità di tale soluzione interpretativa sia stata esclusa proprio dalla più volte citata sentenza Donelli delle Sezioni Unite.
E, sempre facendo riferimento ai principi affermati da tale pronunzia, viene sottolineato come nell’occasione il Supremo Collegio abbia ritenuto possibile la produzione dei nova soltanto nell’ipotesi di appello proposto dal pubblico ministero avverso il rigetto della richiesta di applicazione di una misura cautelare esclusivamente perché in tal caso la devoluzione al giudice dell’impugnazione non è limitata ai singoli punti oggetto di censura, ma si estende a tutti i profili della domanda cautelare, cui deve corrispondere una pari ampiezza del materiale cognitivo.
3.3. La consapevolezza che nell’appello cautelare trova applicazione il principio devolutivo è alla base anche delle pronunce che hanno rivitalizzato, successivamente al pronunciamento delle Sezioni Unite, l’orientamento di segno opposto, e ritengono tuttavia che detto principio non precluda affatto la possibilità di proporre al giudice dell’appello cautelare elementi di prova inediti, ma ne determini soltanto il limite […].
A sostegno della tesi affermativa viene evidenziato anzitutto come l’appello de libertate attribuisca al giudice investito dell’impugnazione tutti i poteri ab origine rientranti nella competenza funzionale del primo giudice e comporti una valutazione globale della prognosi cautelare da esprimere, pur nei limiti dei motivi che definiscono il devolutum e nel rispetto del contraddittorio delle parti, anche in relazione a circostanze sopravvenute o preesistenti – ma comunque inedite – alla decisione appellata, nel rispetto del principio generale, ricavabile dall’art. 299, commi 1 e 3, cod. proc. pen., del necessario e costante adeguamento dello status libertatis dell’imputato alle risultanze del procedimento. Ed, in tal senso, è stato altresì precisato come il potere cognitivo del giudice dell’appello, oltre che ai motivi di impugnazione, rimanga comunque circoscritto all’ambito della cognizione di quello a cui è stata proposta l’istanza ex art. 299 cod. proc. pen., rimanendo dunque escluso che, mediante le nuove produzioni, possano essere dedotte censure che non abbiano già costituito oggetto di specifica deduzione al primo giudice […].
In alcune pronunzie viene poi sottolineato che, qualora dovesse escludersi la possibilità di produrre i nova probatori, il sistema difetterebbe di coerenza ed efficienza, costringendo l’interessato ad avviare, in assenza di una valida ragione, un nuovo sub procedimento ex art. 299 cod. proc. pen. al solo fine di valorizzare quegli elementi invece già disponibili al momento della decisione del giudice dell’appello, con conseguente violazione del principio di ragionevole durata […].
Il mancato richiamo dell’art. 309, comma 9, da parte dell’art. 310 cod. proc. pen. non viene considerato argomento dirimente al fine di escludere l’acquisibilità dei nova probatori […], mentre, in alcuni casi, è evidenziato come al giudice dell’appello cautelare debbano essere riconosciuti i medesimi poteri di integrazione della piattaforma cognitiva attribuiti dall’art. 503, commi 2 e 3, cod. proc. pen. a quello dell’appello del processo di merito […].
Infine, a sostegno dell’orientamento in esame, sono state talvolta evocate le Sezioni Unite Donelli, rilevando come il principio affermato dalle stesse riveli l’intenzione del Supremo Collegio di statuire in via generale la possibilità di modificare il corredo cognitivo del giudice dell’appello cautelare […].
- Le Sezioni Unite ritengono che il contrasto interpretativo debba essere ricomposto aderendo alla soluzione prospettata dal secondo degli orientamenti esaminati, pur con alcune precisazioni.
- Va anzitutto ricordato che nell’art. 310 cod. proc. pen. è configurato uno dei mezzi individuati dal codice di rito per l’impugnazione dei provvedimenti adottati nell’incidente cautelare.
5.1. La sua qualificazione come “appello”, sia nella rubrica dell’articolo, che nel testo dei commi di cui si compone, rivela immediatamente l’intenzione dei codificatori di individuare uno strumento tipico di impugnazione, ossia quello disciplinato nel Titolo I del Libro XI del codice di rito, al cui statuto, dunque, deve ritenersi implicito il rinvio per quanto non diversamente regolamentato dalla disposizione citata […].
Ed in tal senso le Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare la continuità strutturale del modello configurato dall’art. 310 cod. proc. pen. con quello generale, sostenendo che “l’appello nel processo di merito e l’appello nel procedimento incidentale in materia di libertà personale partecipano […] della stessa natura, poiché integrano lo stesso strumento di verifica del provvedimento del primo giudice” […].
5.2. Corollario della qualificazione dell’appello cautelare come ipotesi speciale di appello è per la pronunzia citata […] il principio per cui allo stesso devono essere estese le regole di quello di merito e, prima fra tutte, quella relativa all’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione posta dall’art. 597, comma 1, cod. proc. pen., con la inevitabile conseguenza che la cognizione del giudice di appello, anche nel procedimento incidentale sulla libertà, viene limitata ai punti della decisione impugnata attinti dai motivi di gravame, nonché a quelli con essi strettamente connessi e da essi dipendenti.
Ma nei menzionati arresti delle Sezioni Unite viene altresì precisato come la predetta regola trovi applicazione al procedimento di cui all’art. 310 cod. proc. pen. con tutte le sue implicazioni, compresa quella della libertà di autonoma valutazione e motivazione attribuita al giudice del gravame, i cui poteri cognitivi sono sì limitati ai punti attinti dai motivi d’appello, ma non altrettanto condizionati, all’interno del perimetro tracciato da questi ultimi, dalle deduzioni in fatto e dalle argomentazioni in diritto poste a base della decisione impugnata, esattamente come lo stesso Supremo Collegio ha ripetutamente ritenuto con riferimento all’appello cognitivo […].
5.3. Quello della devoluzione come limite della cognizione del giudice dell’appello de libertate è dunque principio consolidato nella giurisprudenza della Corte, né le pronunce che hanno dato vita ai due orientamenti illustrati hanno inteso metterlo in discussione, vertendo semmai il contrasto sulle effettive implicazioni di tale principio.
È peraltro approdo altrettanto consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello per cui la cognizione del giudice dell’appello cautelare è perimetrata non solo dai motivi dedotti con l’impugnazione, ma altresì dal thema decidendum sottoposto al giudice che ha adottato il provvedimento impugnato, con la conseguenza che non possono con l’appello essere proposti motivi nuovi rispetto a quelli articolati con l’istanza proposta al giudice che procede […]. Affermazione che è stata efficacemente sintetizzata nella formula per cui la domanda stabilisce una litispendenza oggettiva delimitata tra il chiesto e il pronunciato che circoscrive anche l’ambito del sindacato del giudizio di impugnazione […].
Anche questo principio deve essere ribadito, atteso che il limite della “doppia devoluzione” è implicito nella regola posta dall’art. 597, comma 1, cod. 11 proc. pen., nella misura in cui tale disposizione, nel perimetrare la cognizione del giudice dell’appello “ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti”, logicamente presuppone che questi siano stati affrontati (ovvero avrebbero dovuto essere affrontati) dal provvedimento impugnato in quanto oggetto dell’istanza introduttiva dell’incidente cautelare.
5.4. Sebbene non sempre esplicitamente, entrambi gli orientamenti in esame hanno dimostrato di voler recepire anche tale implicazione dell’applicazione del principio devolutivo all’appello cautelare, posto che nemmeno le pronunce riconducibili all’indirizzo cui si intende dare continuità hanno mai messo in dubbio che alle parti sia preclusa la facoltà di introdurre nel giudizio di impugnazione temi diversi da quelli proposti al giudice che ha assunto la decisione impugnata. Deve, anzi, rilevarsi come alcune delle pronunzie tradizionalmente ricondotte al primo indirizzo esaminato […], a ben vedere, hanno inteso ispirarsi proprio al principio di doppia devoluzione, posto che le stesse hanno ritenuto inammissibile la proposizione con i motivi d’appello di eccezioni o questioni di fatto non precedentemente dedotte nell’istanza ex art. 299 cod. proc. pen.
- Se i due orientamenti sostanzialmente concordano nel ritenere che sia il principio devolutivo a definire l’oggetto della cognizione del giudice dell’appello cautelare, è, dunque, indubbio che l’effettivo punto di attrito tra i medesimi, come già accennato, riguardi esclusivamente le implicazioni di tale principio sulla determinazione dell’ampiezza del materiale cognitivo in riferimento al quale a quel giudice è consentito decidere l’impugnazione.
6.1 Per le pronunce iscrivibili nel primo degli orientamenti illustrati è, anzitutto, proprio il carattere parzialmente devolutivo che contrassegna l’appello ad impedire la valutazione di elementi diversi da quelli che hanno formato lo stato degli atti in riferimento al quale è stata adottata la decisione impugnata.
Tali pronunce assumono pertanto esistere una necessaria simmetria tra i punti di quest’ultima, di cui il giudice può legittimamente conoscere nei limiti dei motivi dedotti, e i dati che egli può utilizzare per rispondere a tali motivi.
È questa, però, affermazione che rischia di trasformarsi in una petizione di principio, nella misura in cui presuppone, come logica implicazione della regola posta dall’art. 597, comma 1, cod. proc. pen., la sussistenza di una relazione di diretta proporzionalità tra area del devoluto e materiale probatorio fruibile da parte del giudice dell’appello in grado di innestare una sorta di preclusione inerente allo stato degli atti originario.
6.2 In realtà già le Sezioni Unite Donelli hanno evidenziato il carattere “ibrido” dell’appello “quanto agli spazi cognitivi del controllo nel merito e della revisione critica della decisione” impugnata. Hanno ritenuto, ad esempio, sintomatico in tal senso il potere riconosciuto al giudice di decidere “ex novo su tutte le questioni astrattamente ipotizzabili in ordine ai punti cui si riferiscono i motivi proposti” e senza essere vincolato alle singole alternative decisorie prospettate dall’appellante […]
6.3. Ma nello stesso senso la citata pronunzia ha in particolare evocato il disposto dell’art. 603, comma 2, cod. proc. pen., che, con riguardo alle prove nuove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia di primo grado, “prevede debba comunque essere assicurata la riespansione del diritto delle parti alla prova”, consentendo dunque di intendere il giudizio d’appello come tendenzialmente aperto ad accogliere nuove risultanze.
Si è così inteso, condivisibilmente, affermare che la modifica della base conoscitiva del giudice non è di per sé incompatibile con la struttura e la funzione tipiche dell’appello, con la precisazione per cui tale carattere deve ritenersi comune alle varie tipologie di gravame riconducibili al suo paradigma e configurate nei diversi contesti procedurali dal codice di rito, riflettendosi pertanto “in qualche misura, anche nella definizione dell’area del sindacato sulla libertà, proprio dell’appello cautelare”.
Soprattutto, le Sezioni Unite hanno sottolineato come riconoscere tale facoltà alle parti non è di per sé incompatibile con il carattere parzialmente devolutivo dell’appello, poiché gli elementi che le stesse possono sottoporre al giudice dell’impugnazione sono solo quelli che riguardano i punti della decisione impugnata attinti dai motivi di censura.
Ed è, coerentemente a tali premesse, che la sentenza Donelli ha poi precisato come, nel caso dell’appello proposto dal pubblico ministero avverso il provvedimento di rigetto della richiesta cautelare, la facoltà di produrre elementi inediti trascende l’oggetto dei motivi di gravame solo perché, in tale ipotesi, l’impugnazione produce un effetto integralmente devolutivo, imponendo al giudice la necessaria verifica di tutti i presupposti richiesti per l’applicazione della misura cautelare, analogamente a quanto avviene nel giudizio di cognizione nel caso in cui ad essere appellata dalla pubblica accusa sia la sentenza di assoluzione o quella di non luogo a procedere.
6.4 Ed, in proposito, va conseguentemente confutato il rilievo per cui la sentenza Donelli, circoscrivendo la legittimità della produzione dei nova probatori esclusivamente all’ipotesi dell’appello del pubblico ministero avverso l’ordinanza di rigetto della richiesta cautelare, avrebbe implicitamente escluso che ciò sia consentito anche nel caso di impugnazione di provvedimenti diversi […]
Va, infatti, ribadito che, nell’occasione, le Sezioni Unite non hanno inteso delimitare nel senso ipotizzato il principio affermato, esulando il tema dall’economia della decisione sulla fattispecie concreta in riferimento alla quale sono state chiamate ad esprimersi ed in relazione alla cui specificità hanno poi definito il percorso argomentativo che ne ha costituito la base giustificativa, senza in tal modo negare che, per ragioni diverse, lo stesso principio possa estendersi all’ipotesi dell’appello di provvedimenti diversi da quelli espressamente considerati.
Deve, invece, sottolinearsi che le considerazioni svolte dalla sentenza sulla compatibilità delle regole della devoluzione con la modifica dell’assetto probatorio dell’appello assumono valenza più generale, rappresentando l’esito di una valutazione della struttura di tale mezzo di impugnazione che esula dalla specifica fattispecie cui poi è stato riferito il principio affermato.
- Anche l’ulteriore argomento sviluppato dall’orientamento negativo, ossia quello fondato sul mancato rinvio da parte dell’art. 310 al nono comma dell’art. 309 cod. proc. pen., è già stato ritenuto non decisivo dalla citata pronunzia delle Sezioni Unite.
7.1. A conferma di tale affermazione, va osservato che indubbiamente l’art. 310, comma 2, rinvia solo ad alcune delle disposizioni del citato art. 309 – ed in particolare a quelle contenute nei commi 1, 2, 3, 4 e 7 – ma, altresì, che tale rinvio riguarda, sostanzialmente, soltanto la disciplina dei termini e delle modalità di presentazione dell’impugnazione, nonché l’individuazione del giudice funzionalmente competente a deciderla ed è, all’evidenza, ispirato ad una mera esigenza di semplificazione nella redazione del testo normativo.
La selezione operata dal legislatore non attinge, infatti, alcuno dei profili strutturali del giudizio di riesame, ma solo alcuni meccanismi procedurali sufficientemente neutri da poter essere replicati nella disciplina dell’appello cautelare, senza in tal modo mettere in discussione l’autonomia dei due strumenti impugnatori.
7.2. Appare, dunque, improprio desumere la volontà legislativa di inibire la modifica del patrimonio cognitivo nell’appello de libertate dal mancato inserimento tra le norme richiamate anche della disposizione contenuta nel citato comma dell’art. 309. Anche perché la configurazione del riesame come mezzo di impugnazione eccezionale ha richiesto di configurare in maniera autonoma ed esaustiva all’interno dello stesso articolo la disciplina del relativo procedimento, non potendo tale disposizione mutuarne altrove il contenuto, come, invece, si è visto accade per l’appello, che trova nello statuto generale di tale mezzo di impugnazione il naturale completamento della sua disciplina.
7.3. La peculiarità della disposizione di cui all’art. 309, comma 9, si apprezza […] per la possibilità che i nuovi elementi vengano presentati direttamente all’udienza in cui deve essere decisa l’istanza di riesame, in deroga alle ordinarie regole del rito camerale partecipato, alle cui forme pure lo stesso art. 309 rinvia. Deroga che trova la sua ratio, per l’appunto, nella particolare struttura del giudizio di riesame e nella specifica funzione che gli è assegnata, entrambe non assimilabili a quelle dell’appello cautelare.
Infatti, i ristretti e perentori termini entro i quali tale giudizio deve essere celebrato, unitamente al fatto che oggetto di riesame è esclusivamente l’ordinanza applicativa di una misura cautelare adottata inaudita altera parte, giustificano la deroga alle regole del rito camerale in funzione dell’effettivo dispiegamento del diritto di difesa.
7.4. Non di meno va rilevato come l’obiezione in esame finisca per risultare in contraddizione con un altro argomento talvolta opposto alla produzione nell’appello cautelare di elementi inediti, ossia quello relativo all’asserita incompatibilità dei limiti temporali entro cui deve svolgersi il giudizio d’appello cautelare con l’acquisizione degli stessi nel rispetto del contraddittorio tra le parti […].
[…] Le cadenze indicate per il suo svolgimento dall’art. 310, comma 2, assumono un carattere solo ordinatorio, al contrario dei termini imposti dall’art. 309 dello stesso codice per la celebrazione e la decisione del giudizio di riesame […], nel quale, come ricordato, è ciononostante consentito alle parti presentare elementi di prova anche nel corso dell’udienza di trattazione.
- L’evocazione da parte dell’orientamento negativo del mancato recepimento della disposizione che autorizza la presentazione di elementi inediti nel giudizio di riesame, invero, sottende implicitamente l’obiezione per cui il potere del giudice dell’appello cautelare di acquisire i nova probatori richiederebbe una espressa previsione normativa, invece non rinvenibile né nell’art. 310 cod. proc. pen., né in altre disposizioni.
8.1. Ed in tal senso alcune delle pronunzie che si riconoscono nel primo indirizzo […] contestano il tentativo operato dall’orientamento opposto di rinvenire il fondamento positivo di tale potere nelle disposizioni che disciplinano la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale contenute nell’art. 603 cod. proc. pen., ricordando come la praticabilità di tale opzione interpretativa sia già stata esclusa dalle Sezioni Unite Donelli.
8.2. è questa una obiezione solo in parte fondata. In proposito, va preliminarmente evidenziato come sia improprio il riferimento talvolta operato all’applicazione analogica delle suddette disposizioni […], posto che, come già si è ricordato, quello cautelare si configura come un tipo speciale e non già come eccezionale di appello, alla cui disciplina generale attinge, pertanto, non ni forza di analogia, bensì mediante rinvio.
8.3. Ma anche a prescindere da tale questione, deve comunque escludersi l’applicabilità all’appello cautelare dell’art. 603, commi 1 e 3, cod. proc. pen., rimanendo condivisibile quanto osservato in proposito dalla citata sentenza Donelli in merito al carattere derogatorio delle disposizioni che disciplinano la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nell’appello cognitivo rispetto alla presunzione di completezza del materiale probatorio raccolto nel giudizio di primo grado nel contraddittorio delle parti.
È, infatti, la struttura stessa del giudizio di cognizione e la “logica di non regressione” che ne contrassegna lo sviluppo negli ulteriori gradi a giustificare l’attribuzione al giudice dell’appello di poteri istruttori, la cui funzione primaria è quella di fornirgli gli strumenti idonei al superamento di eventuali situazioni di stallo decisorio. Il che impedisce di esportare una disciplina configurata per soddisfare le esigenze proprie dell’appello cognitivo nel diverso contesto dell’incidente cautelare, nel quale, come sottolineato dal giudice delle leggi, in analoghe situazioni deve in ogni caso prevalere il “principio del favor libertatis in una linea direttiva che, nell’alternativa tra l’accoglimento e il rigetto delle richieste delle parti, fa prevalere in definitiva le ragioni della libertà sulle esigenze cautelari” (Corte cost., ord. n. 321 del 2001) e in cui alle parti è comunque sempre consentito di attivare nuovamente la sequenza procedimentale di cui all’art. 299 cod. proc. pen. e, quindi, di sottoporre al vaglio giudiziario elementi diversi da quelli prospettati in una precedente occasione.
8.4. Se la critica mossa alle pronunzie che hanno evocato le disposizioni che attribuiscono al giudice dell’appello cognitivo poteri istruttori è, come detto, fondata, non è altrettanto esatto l’assunto per cui la sentenza Donelli avrebbe tout court escluso la rilevanza di tutte le disposizioni contenute nell’art. 603 cod. proc. pen.
In tal senso, non si è inteso affermare che la disposizione in questione trovi diretta applicazione nell’appello cautelare quale norma di disciplina, quanto, piuttosto, sottolineare che l’apertura della piattaforma cognitiva al recepimento di prove nuove è un carattere originario del mezzo di impugnazione di cui si tratta e, come tale, comune “alle varie tipologie di gravame denominate “appello”», fermo restando che lo stesso carattere deve manifestarsi in modo coerente con lo specifico contesto processuale nel quale lo strumento impugnatorio viene configurato, assumendo, quindi, connotati di disciplina anche diversificati.
- In definitiva deve riconoscersi che la scarna disciplina configurata nell’art. 310 cod. proc. pen. non consente di ricostruire in maniera autonoma i contorni dei poteri cognitivi attribuiti al giudice dell’appello, imponendo, dunque, di rivolgersi a tal fine ai principi che governano la materia cautelare, secondo un approccio esegetico di carattere sistematico già sperimentato dalle Sezioni Unite nella sentenza Donelli e che le pronunzie riconducibili al secondo degli orientamenti in conflitto hanno ripreso e sviluppato, a differenza di quelle dell’indirizzo opposto, che lo hanno sostanzialmente pretermesso.
9.1. Come noto, i limiti di legittimità costituzionale del sistema cautelare, a fronte del principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.), sono espressi anche e soprattutto, per quanto qui rileva, dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), in forza della quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
L’antinomia tra tale presunzione e l’espressa previsione, da parte della stessa Carta fondamentale, di una restrizione della libertà personale ante iudicium è peraltro solo apparente. È infatti proprio la prima a segnare, in negativo, i confini di ammissibilità della seconda impedendo che essa assuma connotazioni sovrapponibili a quelle della pena, irrogabile solo dopo l’accertamento definitivo della responsabilità. Come ricordato dalla Corte costituzionale, il principio enunciato dall’art. 27, secondo comma, Cost. «rappresenta, in altre parole, uno sbarramento insuperabile ad ogni ipotesi di assimilazione della coercizione processuale penale alla coercizione propria del diritto penale sostanziale, malgrado gli elementi che le accomunano» […].
Ed in tal senso discende dalle stesse norme costituzionali che fondano la legittimità del sistema cautelare (art. 13, secondo e quinto comma, Cost.) il principio per cui la sua tenuta è inscindibilmente connessa alla precaria stabilità dei provvedimenti restrittivi di cui consente l’adozione, posto che questi vengono emanati in base ad una cognizione solo sommaria e allo stato degli atti, nonché ad un giudizio solo probabilistico di colpevolezza.
9.2. La provvisorietà dei provvedimenti cautelari è, dunque, carattere tipico che il contrassegna a garanzia dell’irrinunciabile bilanciamento con la presunzione di non colpevolezza.
Trattandosi, come detto, di interventi restrittivi della libertà personale che trovano la loro esclusiva base di legittimazione nell’urgenza di soddisfare finalità di prevenzione di specifiche esigenze processuali o extraprocessuali distinte dalle finalità proprie della sanzione penale e che vengono adottati prescindendo da un accertamento pieno ed in contradditorio degli elementi che li giustificano, è, infatti, evidente, come ricordato da autorevole dottrina, che la funzione di garanzia assolta dalla menzionata presunzione verrebbe irrimediabilmente compromessa dalla previsione di meccanismi di fissità e non revocabilità delle cautele qualora, nel corso della loro esecuzione, dovessero mutare le condizioni che ne hanno legittimato l’adozione.
Indefettibile corollario dei principi costituzionali di riferimento è, infine, che la disciplina della materia debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”, il che significa che la compressione della libertà personale dell’indagato o dell’imputato va contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto […].
Il criterio impegna, dunque, il legislatore «da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma alternativa di misure, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dall’altra, a prefigurare meccanismi “individualizzati” di selezione del trattamento cautelare, parametrati sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete» […].
9.3. è stato ancora il giudice delle leggi a sottolineare come il sistema cautelare debba, dunque, corrispondere alla logica del costante adeguamento dello status libertatis dell’imputato alle risultanze del procedimento e che alla medesima logica debba ispirarsi anche l’interprete nel ricostruire la relativa disciplina […].
E nello stesso senso le Sezioni Unite hanno ripetutamente ricordato come sia stata proprio l’immanente esigenza di evitare che possa registrarsi nel corso dell’esecuzione della misura uno scollamento della situazione cautelare da quella reale ad aver ispirato la previsione, nell’art. 299, commi 1, 2 e 3, cod. proc. pen., di strumenti procedurali funzionali alla verifica della perdurante sussistenza delle condizioni di applicabilità della misura stessa e della sua idoneità a fronteggiare, nell’ottica della minore compressione possibile della libertà personale, le esigenze che concretamente permangono o residuano […].
9.4. Il soddisfacimento dell’esigenza di costante rivedibilità della situazione cautelare garantisce altresì il rispetto del principio di ragionevole durata della restrizione della libertà personale sancito dall’art. 5§3 CEDU, la cui attuazione non si esaurisce nella sola predeterminazione dei limiti temporali massimi di esecuzione delle misure, la cui previsione pure è imposta dall’art. 13, quinto comma, Cost.
Infatti, nell’interpretazione che della citata disposizione convenzionale ha fornito la giurisprudenza sovranazionale, il giudizio di ragionevolezza deve poter essere parametrato alla molteplicità dei fattori che influiscono sulla peculiarità del caso concreto, per cui il protrarsi della detenzione ante iudicium si giustifica solo laddove sussistano e continuino a sussistere nel tempo elementi concreti e oggettivi in grado di rivelare una necessità di interesse pubblico idoneo a prevalere, nonostante la presunzione di innocenza, sulla regola dell’inviolabilità della libertà individuale […] e sempre che venga costantemente rispettato il principio del minore sacrificio necessario di tale libertà […].
9.5 È dunque pacifico, tanto per la giurisprudenza costituzionale, quanto per quella di legittimità, che le disposizioni contenute nei citati commi dell’art. 299 cod. proc. pen. siano espressione dei principi generali sui quali si regge l’intero sistema cautelare, definendone le condizioni di legittimazione all’interno dell’ordinamento costituzionale e di quello convenzionale.
Trattandosi, per l’appunto, di principi di sistema, non può dubitarsi che gli stessi contribuiscano a modellare anche la disciplina dell’appello cautelare, come, peraltro, condivisibilmente già aveva affermato la più volte evocata sentenza Donelli.
Nella logica tracciata dai suddetti principi, appare, quindi, irragionevole ritenere che al giudice dell’appello cautelare sia preclusa la possibilità di acquisire gli elementi probatori eventualmente prodotti dalle parti ad integrazione della piattaforma cognitiva sulla base della quale è stato emesso il provvedimento impugnato.
L’esigenza di garantire la sintonia tra l’intervento cautelare e la realtà sottostante, nell’ottica del costante adeguamento del primo alla seconda e della ragionevole durata della restrizione della libertà personale, risulta incompatibile con la preclusione ipotizzata dal primo dei due orientamenti in conflitto, che si traduce nell’illogica imposizione di riattivare in ogni caso la sequenza procedimentale prevista dall’art. 299 cod. proc. pen, al fine di sottoporre a valutazione giudiziale i nova probatori anche quando le parti già ne dispongono al momento della celebrazione dell’appello proposto avverso un provvedimento già adottato.
9.6. Già si è detto […] come tale preclusione non sia imposta dalla natura solo parzialmente devolutiva dell’appello, che, invece, determina esclusivamente i limiti entro cui le parti possono esercitare la facoltà di produrre elementi nuovi perché la stessa risulti compatibile con la struttura e la funzione del procedimento d’impugnazione.
Per converso, […] è immanente all’appello la possibilità che la base cognitiva del giudice venga integrata con elementi inediti. Ed una volta riconosciuto che tale possibilità non confligge con la struttura e la funzione del mezzo di impugnazione, appare allora coerente con i principi che governano il sistema cautelare affermare che, nell’appello ex art. 310 cod. proc. pen., il giudice sia messo nelle condizioni di disporre di elementi potenzialmente utili alla decisione, ancorché diversi da quelli valutati ai fini dell’adozione del provvedimento impugnato. Utilità che va misurata in riferimento all’esigenza di garantire l’effettiva corrispondenza della posizione cautelare con la realtà sottostante e di evitare che il sindacato sulla libertà proprio del giudizio d’appello giunga ad esiti incoerenti o risulti addirittura inutile.
- Ulteriore argomento a favore dell’integrabilità della piattaforma cognitiva del giudice dell’appello cautelare deve poi essere tratto dalla disciplina dell’impugnazione dei provvedimenti applicativi delle misure cautelari interdittive, avverso i quali, come agevolmente si desume dal combinato disposto degli artt. 309, comma 1, e 310, comma 1, cod. proc. pen., non è consentito all’imputato o all’indagato proporre istanza di riesame, ma soltanto appello ai sensi della seconda delle disposizioni citate […].
10.1. Al di là della condivisibilità o meno della scelta legislativa di differenziare il regime di impugnazione delle misure interdittive, la stessa risulta difficilmente conciliabile con il principio di ragionevolezza se si ritiene che i destinatari delle medesime non possano sottoporre al giudice: dell’impugnazione elementi diversi da quelli valutati ai fini dell’emissione del provvedimento genetico solo perché, a differenza di quanto stabilito dall’art. 309, comma 9 per il giudizio di riesame, l’art. 310 non prevede espressamente tale facoltà. Posto che anche le cautele interdittive incidono sulla libertà personale, risulta, infatti, evidente l’ingiustificata disparità di trattamento che si verrebbe a determinare, tanto più se si considera che al destinatario di un provvedimento di sequestro, il quale subisce la compressione di un bene di rango inferiore alla libertà personale, quale è il diritto di proprietà, è invece consentito, ai sensi dell’art. 322 cod. proc. pen., proporre istanza di riesame e dunque integrare in quella sede la base conoscitiva del giudice dell’impugnazione.
Né, ancora una volta, risulta compatibile con i principi che informano la materia cautelare ipotizzare che possa costituire un rimedio sufficiente ad ovviare all’evidenziata disparità la possibilità di attivare, una volta esaurito l’appello, la sequenza prevista dall’art 299 cod. proc. pen., al fine di sottoporre al giudice che procede gli elementi inediti.
Una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni che regolamentano l’impugnazione delle misure interdittive porta, dunque, a concludere che, una volta proposto appello avverso il provvedimento con il quale sono state applicate, all’imputato o all’indagato sia consentito produrre nel relativo giudizio dei nova probatori, conclusione che. Invero, è stata incidentalmente accolta anche dalla sentenza Donelli. Ne discende una ulteriore conferma della compatibilità di tale mezzo di impugnazione, anche nel contesto cautelare, con la possibilità di estendere l’orizzonte cognitivo del giudice oltre i confini del corredo probatorio messo a disposizione di quello che ha emesso il provvedimento appellato.
10.2. Se, però, alle parti, per come statuito dalle Sezioni Unite Donelli, è certamente consentito produrre elementi inediti in caso di appello proposto dal pubblico ministero avverso l’ordinanza di rigetto della richiesta cautelare e se si ammette che tale facoltà sussiste anche nell’ipotesi in cui l’impugnazione riguarda il provvedimento applicativo di una misura interdittiva, non comprende quale sarebbe la ratio che governa il sistema qualora, come propugnato dal primo dei due orientamenti esaminati, dovesse escludersi che analoga facoltà spetti in tutti gli altri casi di appello cautelare. Soprattutto, non sarebbe comprensibile quale sarebbe la ragione di una tale frammentazione della disciplina dell’istituto, né, si ribadisce, la sua compatibilità con il principio di ragionevole durata delle cautele.
10.1. In forza di quanto illustrato, è dunque opinione delle Sezioni Unite che, anche in assenza di una espressa previsione normativa in tal senso, nel procedimento conseguente all’appello proposto avverso un provvedimento adottato ai sensi dell’art. 299 cod. proc. pen., sia legittima la produzione di documentazione relativa ad elementi probatori “nuovi” nei limiti e con le modalità che derivano dalla struttura e dalla funzione del mezzo di impugnazione di cui si tratta.
11.1. In tal senso è anzitutto necessario, dunque, che i nova prodotti non esorbitino dai confini segnati dal devolutum, ossia dal perimetro tracciato dai motivi d’impugnazione e dall’oggetto della comanda originariamente proposta al giudice che procede.
Già si è ricordato, infatti, come, anche nel procedimento cautelare, l’appello conservi il tipico carattere generale di mezzo d’impugnazione solo parzialmente devolutivo. Parimenti, si è già ampiamente illustrato come sia la domanda proposta al giudice che procede a definire l’oggetto della sua cognizione, circoscrivendo sin dall’origine il thema decidendum in riferimento al quale possono poi essere articolati gli stessi motivi posti a fondamento dell’appello. Ciò significa che gli elementi di cui è ammissibile la produzione devono risultare pertinenti al tema originariamente proposto al giudice che procede ed ai punti della sua decisione effettivamente devoluti con i motivi d’impugnazione. Così, ad esempio, non potrà ritenersi ammissibile la produzione di nova tesi a mettere in dubbio la gravità del quadro indiziario qualora l’originaria istanza o i motivi d’appello abbiano avuto ad oggetto esclusivamente il tema della persistenza delle esigenze cautelari o quello dell’adeguatezza della misura in corso di esecuzione.
11.2. Entro i limiti evidenziati non vi è ragione alcuna, invece, per circoscrivere la facoltà di integrare la piattaforma cognitiva del giudice dell’appello ai soli elementi probatori sopravvenuti alla decisione impugnata o a quelli scoperti successivamente alla sua adozione, risultando coerente con i principi del sistema cautelare la conclusione per cui, oggetto di produzione, possano essere anche quelli preesistenti non precedentemente sottoposti alla valutazione giudiziale per scelta delle parti. Sostenendo il contrario, infatti, si finirebbe per riproporre surrettiziamente una preclusione fondata sul presupposto per cui la stabilità dei provvedimenti cautelari dipenderebbe non solo dal dedotto, ma anche dal deducibile, interpretazione la cui validità è stata, invece, ripetutamente smentita dalle Sezioni Unite […].
11.3. In secondo luogo va ribadito quanto già precisato dalle Sezioni Unite Donelli sulla natura del materiale probatorio di cui può essere ammessa la produzione e sulle modalità della sua presentazione e acquisizione.
L’art. 310, comma .2 cod, proc. pen., prevede infatti che il procedimento d’appello si svolga in camera di consiglio nelle forme previste dall’art. 127 dello stesso codice […].
Ne consegue che, coerentemente alla disciplina del modello richiamato, la decisione viene adottata sulla base degli elementi addotti dalle parti, non prevedendo tale modello l’attribuzione al giudice di autonomi poteri istruttori, salvo che in casi eccezionali, tassativamente ed espressamente configurati dalla legge processuale.
È dunque escluso che al giudice dell’appello cautelare siano attribuiti poteri istruttori in senso stretto intesi, ossia funzionali allo svolgimento di attività finalizzata alla formazione e acquisizione da parte dello stesso giudice di elementi nuovi da utilizzare per li giudizio.
Tanto più che, come ricordato, non trovano applicazione nell’incidente cautelare le disposizioni dell’art. 603 cod. proc. pen. che assegnano al giudice della cognizione poteri istruttori di tal genere. Quello che gli è, invece, consentito entro i limiti precedentemente precisati, è il potere di acquisire la documentazione fornita dalle parti relativa agli elementi informativi “precostituiti” che intendono sottoporre alla sua valutazione.
A riprova di tali conclusioni va poi richiamato il disposto dell’art. 299, comma 4-ter, cod. proc. pen., che attribuisce al giudice che è investito di una istanza in materia cautelare il potere di disporre, anche d’ufficio, «accertamenti sulle condizioni di salute o su altre condizioni o qualità personali dell’imputato». Norma questa che si applica, per sua stessa previsione, «in ogni stato e grado del procedimento» e che, pertanto, secondo il consolidato e qui condiviso orientamento della Corte, opera anche nell’appello cautelare […], il che conferma come il giudice dell’impugnazione sia eccezionalmente titolare di poteri istruttori solo nei limitati casi in cui la legge processuale espressamente lo prevede.
Né, infine, escludere che il giudice dell’appello sia titolare di autonomi poteri istruttori si pone in contraddizione con il principio per cui egli, come qualsiasi altro giudice comunque investito della competenza funzionale da una richiesta dell’imputato in materia cautelare, può decidere anche d’ufficio pro libertate anche ultra od extra petitum, secondo la lettura estensiva e costituzionalmente orientata del terzo comma dell’art. 299 cod. proc. pen. operata dal giudice delle leggi (C. Cost., sent., n. 89 del 1998, cit.) e già recepita dalle Sezioni Unite con la sentenza Donelli.
Ed infatti, il favor libertatis cui si ispira il potere di intervenire in bonam partem oltre i limiti derivanti dal petitum non implica necessariamente anche l’esercizio (per di più d’ufficio) di poteri istruttori tesi ad integrare la piattaforma cognitiva.
11.4. La possibilità di modificare su iniziativa unilaterale la piattaforma cognitiva del giudice dell’impugnazione presuppone, poi, che sia debitamente garantito sul punto il contraddittorio.
Tenuto conto della natura non perentoria dei termini dettati per lo svolgimento dell’appello cautelare, spetta, dunque, al giudice richiesto dell’acquisizione delle nuove prove modularne in concreto i tempi e le modalità, al fine di consentire alla parte che non ha prodotto i nova di esaminarli e confutarli.
11.5. Peraltro, il già menzionato rinvio operato dall’art. 310, comma 2, alle “forme” previste dall’art. 127 cod. proc. pen. comporta, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità […], quantomeno il recepimento delle regole dettate da tale ultima disposizione per la celebrazione dell’udienza camerale.
Conseguentemente, il suddetto rinvio riguarda senza dubbio anche la regola posta dal comma 2 dell’articolo citato, secondo la quale le parti possono presentare memorie fino a cinque giorni prima dell’udienza […]. Regola che, proprio nell’ottica della garanzia dell’effettività del contraddittorio camerale, intende assicurare alle parti il diritto di partecipare all’udienza e formulare le proprie conclusioni in riferimento ad uno stato degli atti del quale abbiano potuto prendere previamente conoscenza.
È dunque alla luce di tale ratio che la norma deve essere interpretata nel senso per cui ogni integrazione di quello stato degli atti su cui si fonda il corretto svolgimento del contraddittorio camerale deve necessariamente avvenire nei termini fissati dal legislatore, dovendo altrimenti il giudice non tenerne conto.
Infatti, il termine “memorie” utilizzato nell’art. 127, comma 2, cod. proc. pen., individua lo strumento attraverso cui le parti veicolano nel procedimento camerale non soltanto le proprie argomentazioni, ma qualsiasi elemento informativo che intendono sottoporre alla valutazione del giudice e, dunque, anche eventuali documenti rappresentativi delle inedite prove precostituite […].
11.6. Non ignora il Collegio che nella giurisprudenza di legittimità esiste un orientamento teso ad interpretare in termini riduttivi il termine “memorie”, al fine di affermare che la produzione di “documenti” sarebbe invero svincolata dai limiti temporali fissati per la presentazione delle prime […].
Va però evidenziato che tale indirizzo, oltre a non essere incontrastato […], si è, invero, formato con esclusivo riferimento al giudizio di esecuzione e in riferimento alla previsione di cui all’art. 666, comma 3, cod. proc. pen., che certamente riproduce quella generale dettata dal comma 2 dell’art. 127 dello stesso codice, ma deve essere inquadrata nello specifico contesto del procedimento di esecuzione, nel quale al giudice, ai sensi del comma 5 del citato art. 666, sono conferiti espressamente anche autonomi poteri istruttori finalizzati all’acquisizione di «tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno».
È, dunque, evidente la diversità e specificità del contesto normativo nel quale la previsione di un termine per la presentazione delle memorie è stato autonomamente configurato e come, conseguentemente, le conclusioni assunte dalle pronunzie che si riconoscono nell’indirizzo menzionato siano irrilevanti ai fini dell’interpretazione della disciplina generale dettata dall’art. 127 cod. proc. pen.
11.7. Va infine precisato che la facoltà di produrre elementi probatori inediti deve essere riconosciuta non solo all’imputato, ma anche al pubblico ministero.
È sì vero […] che i principi di costante adeguamento e di ragionevole durata delle cautele, per come evocati a fondamento di tale facoltà dall’orientamento cui si intende dare seguito, sono ispirati al favor libertatis e dunque all’esigenza di evitare ingiustificate compressioni della libertà personale in ragione della sopravvenuta modificazione delle condizioni applicative della misura. Ma ciò non è sufficiente per inibire alla parte pubblica la possibilità di produrre i nova probatori.
Anzitutto va detto che anche il pubblico ministero potrebbe produrre elementi pro libertate, eventualità tutt’altro che astratta nell’ipotesi in cui sia l’imputato o l’indagato ad aver proposto appello avverso il provvedimento adottato ex art. 299 cod. proc. pen.
In secondo luogo, deve riconoscersi che è nella sua valutazione giudiziale che l’elemento probatorio assume una effettiva valenza positiva o negativa nell’ottica della conferma ovvero della revoca o della modifica della cautela.
Risulta, dunque, difficilmente giustificabile precludere al giudice dell’appello la conoscenza di dati probatori inediti e potenzialmente utili ad un compiuto esercizio della funzione di controllo critico del provvedimento impugnato, solo perché provenienti dalla parte pubblica.
Come già osservato dalle Sezioni Unite nella sentenza Donelli, appare poi irragionevole configurare un contraddittorio camerale “dimezzato”, nel quale solo l’accusa risulti «vincolata all’immutabilità dello ‘stato degli atti’ preesistenti». Ipotesi che si rivela ancor meno ragionevole solo che si pensi al fatto che al pubblico ministero, nello svolgimento del contraddittorio, non può essere negato il diritto di presentare materiale informativo inedito a confutazione dei nova prodotti dalla difesa e che, allo stesso pubblico ministero, proprio la menzionata sentenza Donelli ha riconosciuto il diritto di sottoporre a sua volta al giudice i nuovi elementi di prova a sostegno dell’appello da lui proposto avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di applicazione di una misura cautelare.
- In conclusione deve quindi essere affermato il seguente principio: “Nel giudizio di appello cautelare, celebrato nelle forme e con l’osservanza dei termini previsti dall’art. 127 cod. proc. pen., possono essere prodotti dalle parti elementi probatori “nuovi” nel rispetto del contraddittorio e del principio di devoluzione, contrassegnato dalla contestazione, dalla richiesta originaria e dai motivi contenuti nell’atto d’appello”.
- Alla luce delle conclusioni rassegnate il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
13.1. La motivazione con la quale il Tribunale ha respinto la richiesta della difesa di produrre nuovi elementi di prova, come eccepito dal ricorrente, si pone indubbiamente in contrasto con il principio testé affermato, ma ciò non può ritenersi decisivo.
Infatti, come risulta dal provvedimento impugnato e dallo stesso ricorso, i nova probatori di cui la difesa lamenta la mancata ricezione sono stati prodotti con memoria depositata all’udienza fissata per la trattazione dell’impugnazione e, quindi, senza rispettare il termine posto dall’art. 127, comma 2, cod. proc. pen., a presidio della garanzia dell’effettività del contraddittorio camerale, con la conseguenza che il giudice dell’appello non avrebbe potuto in ogni caso acquisirli ed utilizzarli legittimamente per la decisione.
13.2. La soluzione adottata dal Tribunale in punto di diritto deve ritenersi quindi corretta, rimanendo, invece, irrilevanti le argomentazioni sviluppate a sostegno della stessa, ancorché errate, come le Sezioni Unite hanno più volte ribadito in passato […].