Corte Costituzionale, Sentenza 6 maggio 2024, n. 77
QUESTIONE DI DIRITTO
Il Consiglio di Stato, sezione quarta, nell’ambito di un giudizio risarcitorio da provvedimento illegittimo, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 36, commi 1, 2 e 3, della legge n. 449 del 1997, in riferimento all’art. 3 Cost., in quanto, con la dichiarata finalità di fornire un’interpretazione autentica dell’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993, attribuirebbe effetto retroattivo ad una deliberazione del CIPE annullata in sede giurisdizionale, al solo effetto di sterilizzare gli effetti della sentenza definitiva di annullamento, peraltro adottando parametri di regolazione dei prezzi dei farmaci del tutto difformi da quelli disposti per il futuro, evidenziando così la propria intrinseca irragionevolezza.
Viene, inoltre, ravvisato il contrasto con gli artt. 24,111,113,117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, in quanto, intervenendo in pendenza di un giudizio in cui lo Stato è parte, in modo da influenzarne l’esito, le disposizioni censurate comporterebbero un’ingerenza nella garanzia del diritto a un processo equo e violerebbero «un principio dello stato di diritto garantito dall’art. 6 della Convenzione».
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va dichiarata fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, commi 1 e 2, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, sollevata dal Consiglio di Stato, sezione quarta, in riferimento agli artt. 3, 24, 111, 113 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in quanto l’art. 36, commi 1 e 2, della legge n. 449 del 1997, avendo introdotto una norma ad efficacia retroattiva, al fine specifico di incidere su giudizi di cui era parte la stessa amministrazione pubblica, e in assenza di ragioni imperative di interesse generale, ha violato i princìpi del giusto processo e della parità delle parti in giudizio, sanciti dagli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., e per mezzo di quest’ultimo dall’art. 6 CEDU, nonché il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. Restano assorbite le ulteriori questioni sollevate in riferimento agli artt. 24 e 113 Cost.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
1.– Il Consiglio di Stato, sezione quarta, nell’ambito di un giudizio risarcitorio da provvedimento illegittimo, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 36, commi 1, 2 e 3, della legge n. 449 del 1997, in riferimento all’art. 3 Cost., in quanto, con la dichiarata finalità di fornire un’interpretazione autentica dell’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993, attribuirebbe effetto retroattivo ad una deliberazione del CIPE annullata in sede giurisdizionale, al solo effetto di sterilizzare gli effetti della sentenza definitiva di annullamento, peraltro adottando parametri di regolazione dei prezzi dei farmaci del tutto difformi da quelli disposti per il futuro, evidenziando così la propria intrinseca irragionevolezza.
Viene, inoltre, ravvisato il contrasto con gli artt. 24,111,113,117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, in quanto, intervenendo in pendenza di un giudizio in cui lo Stato è parte, in modo da influenzarne l’esito, le disposizioni censurate comporterebbero un’ingerenza nella garanzia del diritto a un processo equo e violerebbero «un principio dello stato di diritto garantito dall’art. 6 della Convenzione».
2.– Occorre prendere preliminarmente in esame l’eccezione di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza formulata dall’Avvocatura generale dello Stato. Assume la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri che il giudice a quo, anziché soffermarsi unicamente sull’elemento oggettivo dell’illecito, avrebbe dovuto esaminare, ai fini della rilevanza, la sussistenza di tutti gli altri elementi costitutivi della responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione.
La tesi non può essere condivisa. Il Consiglio di Stato argomenta, in punto di rilevanza, che, qualora le censurate disposizioni fossero dichiarate costituzionalmente illegittime, risulterebbe sussistente l’elemento oggettivo della domanda risarcitoria avanzata dalla società appellante per il venir meno dell’effetto sanante del censurato art. 36 sulla deliberazione del CIPE annullata in sede giurisdizionale.
Quanto alla necessaria verifica degli ulteriori elementi costitutivi dell’illecito, il giudice a quo chiarisce espressamente che l’accertamento della loro sussistenza è «logicamente succedane[o] al riscontro di un’azione amministrativa illegittima, che è allo stato esclusa dalle disposizioni sospette di incostituzionalità».
Il Consiglio di Stato ritiene, infatti, che (solo) «qualora tali disposizioni fossero dichiarate incostituzionali, rimarrebbe accertata la sussistenza dell’elemento oggettivo della domanda risarcitoria, in relazione all’illegittimo esercizio di una funzione pubblica, con la conseguente necessità di procedere all’accertamento degli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie, rappresentati dall’effettività e ingiustizia del danno, dall’esistenza del nesso di causalità, nonché dall’imputabilità del danno alla Pubblica Amministrazione sulla base del requisito soggettivo del dolo o della colpa (ex plurimis, Cassazione civile sez. III, 6 dicembre 2018, n. 31567)».
Il giudice rimettente dunque, con una motivazione non implausibile, ha ritenuto prioritario l’esame dell’elemento oggettivo della illegittimità dell’azione della pubblica amministrazione, in considerazione della ritenuta «succedaneità logica» rispetto a quest’ultimo dell’accertamento degli altri elementi.
Tale argomentazione deve reputarsi sufficiente alla luce del costante orientamento giurisprudenziale secondo cui questa Corte è chiamata a operare una verifica meramente esterna e strumentale al riscontro di una adeguata motivazione in punto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale (così, sentenza n. 4 del 2024; in termini analoghi, sentenze n. 193 e n. 150 del 2022, n. 240 del 2021, n. 224 e n. 168 del 2020).
In definitiva, il giudice a quo ritiene, non implausibilmente, di dover fare applicazione della disposizione censurata nel giudizio dinanzi a lui e dall’accoglimento o meno della questione sollevata discende, sulla decisione da rendere nello stesso, un effetto diretto e immediato quanto meno sotto il profilo del percorso argomentativo (si vedano, al riguardo, le sentenze n. 25 del 2024 e n. 19 del 2022). L’eccezione, dunque, non è fondata.
3.– Per meglio affrontare le questioni nel merito, è opportuno ricostruire, per quanto qui di interesse, la genesi della disposizione sottoposta a scrutinio.
4.– L’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993, poi asseritamente interpretata dalla disposizione censurata, prevede che «[a] decorrere dal 1o gennaio 1994, i prezzi delle specialità medicinali, esclusi i medicinali da banco, sono sottoposti a regime di sorveglianza secondo le modalità indicate dal CIPE e non possono superare la media dei prezzi risultanti per prodotti similari e inerenti al medesimo principio nell’ambito della Comunità europea; se inferiori, l’adeguamento alla media comunitaria non potrà avvenire in misura superiore al 20 per cento annuo della differenza.
Sono abrogate le disposizioni che attribuiscono al CIP competenze in materia di fissazione e revisione del prezzo delle specialità medicinali». Con tale disposizione veniva introdotto – in sostituzione del previgente regime dei prezzi amministrati dei medicinali – il cosiddetto regime di sorveglianza, che assumeva come parametro di riferimento il concetto del «prezzo medio europeo».
Da un regime in cui l’autorità statale determinava in maniera unilaterale il prezzo delle specialità medicinali si passava, cioè, a un sistema che prevedeva un intervento da parte dell’autorità preposta solo in caso di superamento della cosiddetta «media europea». Le relative competenze in materia venivano attribuite al CIPE.
In attuazione della nuova normativa, il CIPE adottava due delibere – datate 25 febbraio e 16 marzo 1994 – tese a regolare, rispettivamente, i criteri per il calcolo del prezzo medio europeo dei farmaci e la competenza per la sorveglianza del prezzo dei medicinali.
In particolare, con la deliberazione del 25 febbraio 1994 era disposto che: a) il prezzo dei medicinali venisse ridotto autoritativamente ove avesse superato di almeno il 5 per cento la media del prezzo europeo; b) tale prezzo venisse determinato prendendo a riferimento i prezzi praticati da Francia, Inghilterra, Germania e Spagna; c) la media fosse calcolata utilizzando i tassi di conversione basati sulla parità del potere di acquisto delle varie monete, come determinati annualmente dallo stesso CIPE.
Tale deliberazione veniva successivamente annullata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 118 del 1997, per quanto qui di interesse, nel punto 3, primo e terzo periodo, ovverosia, nella parte in cui prevedeva la scelta di quattro Paesi europei con cui effettuare il confronto e l’applicazione dei tassi di conversione fra le valute, basati sulla parità dei poteri d’acquisto, come determinati dallo stesso CIPE (oltre che nel punto 2, secondo periodo).
Veniva, infatti, ritenuto illegittimo il criterio di determinazione del prezzo sulla base dei prezzi praticati in soli quattro Paesi e con riferimento a un tasso di conversione diverso dal tasso di cambio ufficiale.
La sentenza di annullamento diveniva definitiva il 24 marzo 1999, a seguito della declaratoria di estinzione, da parte delle sezioni unite della Corte di cassazione, del giudizio introdotto dall’Avvocatura generale dello Stato ai sensi dell’art. 111 Cost. Con l’art. 36 della legge n. 449 del 1997 veniva, dunque, introdotta una nuova disciplina del prezzo dei medicinali, che prendeva in considerazione, ai fini del calcolo del prezzo medio degli stessi, i prezzi praticati in tutti i Paesi dell’Unione europea, con applicazione dei tassi di cambio ufficiali, disponendo che, sulla base di quanto dallo stesso previsto, il CIPE, entro 60 giorni, provvedesse con propria deliberazione alla definizione di nuovi criteri per il calcolo del prezzo medio europeo.
Con i primi due commi del medesimo articolo veniva, inoltre, disciplinato in via transitoria – nelle more dell’adozione della nuova deliberazione da parte del CIPE – il regime dei prezzi dei medicinali, disponendo una sanatoria della precedente disciplina tramite la previsione che «[d]alla data del 1° settembre 1994 fino all’entrata in vigore del metodo di calcolo del prezzo medio europeo come previsto dai commi 3 e 4, restano validi i prezzi applicati secondo i criteri indicati per la determinazione del prezzo medio europeo dalle deliberazioni del CIPE 25 febbraio 1994, 16 marzo 1994, 13 aprile 1994, 3 agosto 1994 e 22 novembre 1994» (comma 2) e offrendo un’interpretazione autentica del comma 12 dell’art. 8 della legge 537 del 1993, il quale «deve essere intes[o] nel senso che è rimesso al CIPE stabilire anche quali e quanti Paesi della Comunità prendere a riferimento per il confronto, con applicazione dei tassi di conversione fra le valute, basati sulla parità dei poteri d’acquisto, come determinati dallo stesso CIPE» (comma 1).
In attuazione del predetto art. 36, il CIPE, con propria deliberazione del 26 febbraio 1998, ampliava i Paesi di riferimento per il calcolo (da 4 a 12 rispetto al previgente sistema, corrispondenti ai Paesi europei i cui dati su prezzi e consumi dei prodotti medicinali risultavano disponibili) e adottava i tassi di cambio ufficiali.
5.– Ciò premesso, va osservato che, sebbene nella prospettazione del Consiglio di Stato oggetto delle questioni di legittimità costituzionale siano i primi tre commi dell’art. 36 della legge n. 449 del 1997, le censure riguardano invero unicamente i primi due, aventi ad oggetto l’interpretazione autentica dell’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993 e la “sanatoria” («restano validi») dei prezzi fissati in applicazione dei criteri indicati per la determinazione del prezzo medio europeo dalla deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994 (e seguenti).
Il terzo comma, che unitamente ai successivi disciplina pro futuro le modalità di determinazione del prezzo medio europeo, è, invece, estraneo alle doglianze del giudice rimettente, il quale lo evoca al solo fine di rimarcare l’illegittimità e l’irrazionalità delle scelte operate dalla deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994 – calcolo del prezzo medio europeo tramite confronto con soli quattro Paesi di riferimento e utilizzo dei tassi di conversione tra le valute dei Paesi scelti e la lira basati sulla parità dei poteri di acquisto – rispetto a quella adottata per il futuro, basata sul calcolo del prezzo medio europeo con riferimento a tutti i Paesi europei e sull’utilizzo dei tassi di cambio ufficiale.
Le questioni di legittimità costituzionale sollevate devono ritenersi dunque aver ad oggetto i soli primi due commi.
6.– Nel merito, le questioni sono fondate con riferimento agli artt. 3,111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, con assorbimento delle ulteriori censure.
6.1.− Va preliminarmente rammentato, su un piano più generale, che – al di là della autoqualificazione, di per sé non vincolante, e dell’accertamento di un contrasto giurisprudenziale formatosi sulla disposizione oggetto dell’interpretazione autentica, anch’esso non dirimente (tra le tante, sentenze n. 4 del 2024, n. 104 e n. 61 del 2022, n. 133 del 2020) – la natura interpretativa va riconosciuta solo a quelle disposizioni «che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo» (così la sentenza n. 73 del 2017, richiamata dalla sentenza n. 70 del 2020).
Ciò premesso, questa Corte ha più volte affermato «la “sostanziale indifferenza, quanto allo scrutinio di legittimità costituzionale, della distinzione tra norme di interpretazione autentica – retroattive, salva una diversa volontà in tal senso esplicitata dal legislatore stesso – e norme innovative con efficacia retroattiva” (sentenza n. 73 del 2017; nonché, da ultimo, sentenza n. 108 del 2019)» (sentenza n. 70 del 2020); arrivando a ritenerne «la possibile assimilazione, quanto agli esiti dello scrutinio di legittimità costituzionale» (sentenza n. 108 del 2019).
A tal fine, la detta distinzione rileva, al più, perché «“la palese erroneità di tale auto-qualificazione può costituire un indice, sia pure non dirimente, della irragionevolezza della disposizione impugnata” (sentenza n. 73 del 2017; ex plurimis, anche sentenze n. 103 del 2013 e n. 41 del 2011)» (sentenza n. 70 del 2020).
6.2.− Nello scrutinio di legittimità costituzionale, questa Corte ha più volte ricordato la centralità che assume il principio di non retroattività della legge, inteso quale fondamentale valore di civiltà giuridica (tra le più recenti, sentenze n. 4 del 2024, n. 145 del 2022, n. 174 del 2019 e n. 73 del 2017).
Ne consegue che, di fronte a una norma avente comunque efficacia retroattiva – che pure deve considerarsi, al di fuori della materia penale, frutto del legittimo esercizio discrezionale del potere del legislatore –, è necessario procedere ad uno scrutinio particolarmente rigoroso. Tale scrutinio diviene ancor più stringente se l’intervento legislativo retroattivo incide su giudizi ancora in corso, tanto più se in essi sia coinvolta un’amministrazione pubblica.
Infatti, «tanto i principi costituzionali relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale, quanto i principi concernenti l’effettività della tutela giurisdizionale e la parità delle parti in giudizio, impediscono al legislatore di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio (tra le altre, sentenze n. 201 e n. 46 del 2021, n. 12 del 2018 e n. 191 del 2014)» (sentenza n. 4 del 2024).
Relativamente al sindacato di costituzionalità delle leggi retroattive incidenti su giudizi in corso, ancora di recente è stato rammentato il rilievo assunto dalla giurisprudenza della Corte EDU, affermandosi che in tale ambito si è ormai pervenuti alla costruzione di una «solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU», che consente di leggere in stretto coordinamento i parametri interni con quelli convenzionali «al fine di massimizzarne l’espansione in un “rapporto di integrazione reciproca”» (sentenza n. 145 del 2022, richiamata dalla sentenza n. 4 del 2024).
6.3.– Tanto premesso, per svolgere tale rigoroso controllo sono stati individuati una serie di elementi sintomatici dell’uso distorto della funzione legislativa. Tra questi, in particolare, per quanto qui di interesse, emergono l’errata e artificiosa autoqualificazione della norma come norma di interpretazione autentica e, soprattutto, la chiara finalità di incidere sull’esito di giudizi pendenti.
Finalità, quest’ultima, che si può evincere da metodo e tempistica dell’intervento del legislatore (sentenze n. 4 del 2024, n. 145 del 2022, n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018) – per esempio, la distanza dell’intervento legislativo rispetto all’entrata in vigore delle disposizioni oggetto di interpretazione autentica (sentenze n. 4 del 2024 e n. 174 del 2019) – e si può ricavare dai lavori preparatori (sentenze n. 4 del 2024 e n. 145 del 2022).
Infine, in quest’opera di rigoroso scrutinio è necessario valutare se l’intervento legislativo trovi una possibile ragionevole giustificazione «nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni costituzionali». Anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, «solo imperative ragioni di interesse generale possono consentire un’interferenza del legislatore su giudizi in corso; i princìpi dello stato di diritto e del giusto processo impongono che tali ragioni “siano trattate con il massimo grado di circospezione possibile” (sentenza 14 febbraio 2012, Arras contro Italia, paragrafo 48)» (sentenza n. 4 del 2024).
Come da ultimo ricordato da questa Corte nella più volte citata sentenza n. 4 del 2024, la Corte EDU ha perimetrato in maniera rigorosa e restrittiva tale nozione di «imperative ragioni di interesse generale», ravvisando la compatibilità con l’art. 6 CEDU di «alcuni interventi legislativi retroattivi incidenti su giudizi in corso, là dove “i soggetti ricorrenti avevano tentato di approfittare dei difetti tecnici della legislazione (sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society e Yorkshire Building Society contro Regno Unito, paragrafo 112), o avevano cercato di ottenere vantaggi da una lacuna della legislazione medesima, cui l’ingerenza del legislatore mirava a porre rimedio (sentenza del 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas, OGEC Saint-Pie X, Blanche de Castille e altri contro Francia, paragrafo 69)” (sentenza n. 145 del 2022)», o, ancora, quando «l’intervento legislativo retroattivo mirava a risolvere una serie più ampia di conflitti conseguenti alla riunificazione tedesca, al fine di “assicurare in modo duraturo la pace e la sicurezza giuridica in Germania” (20 febbraio 2003, ForrerNiedenthal c. Germania, paragrafo 64)».
Più in generale, in tale opera di perimetrazione, al di fuori della nozione di «imperative ragioni di interesse generale» sono i soli motivi di carattere meramente finanziario, volti a contenere la spesa pubblica, come chiarito tanto dalla Corte EDU (sentenza 29 marzo 2006, Scordino e altri contro Italia, paragrafo 132; sentenza 11 aprile 2006, Cabourdin contro Francia, paragrafo 37), quanto da questa stessa Corte, la quale ha espressamente affermato che «[i] soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso (sentenze n. 174 e n. 108 del 2019, e n. 170 del 2013)» (sentenza n. 145 del 2022).
7.– In applicazione delle coordinate giurisprudenziali sin qui sinteticamente ripercorse, le disposizioni oggetto delle questioni sollevate non resistono allo scrutinio di costituzionalità. Esse, infatti, sono evidentemente finalizzate a incidere su giudizi di cui è parte la pubblica amministrazione; giudizi dei quali si vuole vanificare o comunque condizionare l’esito, anche con riferimento ai collegati profili risarcitori.
7.1.– Tale finalità emerge, innanzitutto, dai lavori preparatori, dai quali non si possono evincere ragioni giustificatrici dell’intervento legislativo retroattivo diverse dall’esigenza di superare le ragioni di illegittimità accolte dal Consiglio di Stato che ha annullato la deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994, nelle parti che riguardano l’individuazione parziale dei Paesi europei con i quali operare il confronto e la scelta, invece del tasso ufficiale, dei tassi di conversione tra valute basati sulla parità del potere di acquisto.
L’intento dichiarato era quello, in definitiva, di “sterilizzare” gli effetti della predetta sentenza n. 118 del 1997 del Consiglio di Stato (più volte richiamata nei lavori preparatori), la quale, annullando la deliberazione del CIPE, aveva riconosciuto l’illegittimità dell’azione amministrativa, ponendo così le basi per future azioni di risarcimento nei suoi confronti, quale, appunto, quella posta alla base del giudizio a quo (come espressamente affermato, in particolare, nel dossier del Servizio studi della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica).
7.2.– L’uso improprio della funzione legislativa, tale perché esercitata allo scopo di influire sul contenzioso in corso, vanificandone, nelle intenzioni, gli effetti, è confermato da due ulteriori circostanze, l’una attinente alla complessiva vicenda processuale, l’altra concernente la stessa portata normativa dell’intervento.
7.2.1.– Sul piano processuale, va rimarcato che la legge n. 449 del 1997 (del 27 dicembre) è intervenuta a ben quattro anni di distanza dalla disposizione oggetto della presunta interpretazione, ossia l’art. 8 della legge n. 537 del 24 dicembre 1993, quando era già in corso un nutrito contenzioso, alimentato da trentanove aziende farmaceutiche, che aveva dato luogo, con la citata sentenza n. 118 del 1997 (depositata il 27 gennaio 1997), all’annullamento della deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994, proprio nella parte in cui, come già detto, prevedeva la scelta limitata a quattro Paesi europei con cui effettuare il confronto dei prezzi e adottava i tassi di conversione fra le valute basati sulla parità dei poteri d’acquisto.
La sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. dall’Avvocatura generale dello Stato, impedendosi così il passaggio in giudicato. Nelle more della decisione del ricorso, sono intervenute le disposizioni censurate, che, per un verso, hanno fornito un’interpretazione asseritamente autentica di quelle applicate dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 118 del 1997, interpretazione in contrasto con quella offerta da tale pronuncia; per un altro, hanno proceduto contestualmente alla sostanziale sanatoria della deliberazione del CIPE, a distanza di poco meno di un anno dal suo annullamento dal Consiglio di Stato.
L’amministrazione statale, a seguito dell’intervento normativo contestato, ha rinunciato al ricorso ex art. 111 Cost., la cui proposizione aveva impedito nelle more l’immediata formazione del giudicato sulla sentenza del Consiglio di Stato posta dalla parte privata a fondamento (sul piano oggettivo) della pretesa risarcitoria nel giudizio a quo. «Metodo» e «tempistica» seguiti dal legislatore nella vicenda in esame – rilevanti, come sopra ricordato, ai fini del presente scrutinio (sentenze n. 4 del 2024, n. 145 del 2022, n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018) – confermano, quindi, quanto risulta dai lavori preparatori.
7.2.2.− Sul piano sostanziale, poi, è significativo che, nello stabilire la disciplina a regime della determinazione dei prezzi medi dei farmaci (art. 36, comma 3), la legge n. 449 del 1997 delinei un sistema esattamente conforme a quanto deciso con la sentenza n. 118 del 1997, per cui l’asserita interpretazione autentica (commi 1 e 2) riguarda proprio la proposizione normativa oggetto del contenzioso giudiziario e si rivela, ancora una volta, finalizzata a vanificare gli effetti della più volte citata sentenza del Consiglio di Stato a giudicato non ancora formatosi, risolvendosi nell’assunzione a livello legislativo di quanto sostenuto in giudizio dall’amministrazione pubblica e smentito dal giudice nella sua decisione.
Nel caso in esame, quindi, pare evidente, tanto sul piano oggettivo quanto su quello soggettivo, la volontà del legislatore di interferire su vicende processuali in corso al fine (o con il risultato) di alterarne l’esito, palesandosi pertanto un uso improprio della funzione legislativa.
8.– In conclusione, l’art. 36, commi 1 e 2, della legge n. 449 del 1997, avendo introdotto una norma ad efficacia retroattiva, al fine specifico di incidere su giudizi di cui era parte la stessa amministrazione pubblica, e in assenza di ragioni imperative di interesse generale, ha violato i princìpi del giusto processo e della parità delle parti in giudizio, sanciti dagli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., e per mezzo di quest’ultimo dall’art. 6 CEDU, nonché il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. Restano assorbite le ulteriori questioni sollevate in riferimento agli artt. 24 e 113 Cost.