<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Rispetto al tenore letterale di una norma incriminatrice, sottile è la linea che separa il “</em>dentro<em>” dell’interpretazione estensiva – laddove il caso affrontato, quand’anche “</em>limite<em>”, può comunque ancora essere ricondotto all’usbergo letterale della disposizione scandagliata – dal “</em>fuori<em>” dell’applicazione analogica, laddove il caso considerato è senz’altro oltre la portata semantica abbracciata dalla disposizione che si interpreta, e tuttavia viene “</em>fatto disciplinare<em>” da essa sulla base di una mera somiglianza di fattispecie, al fine di sopperire ad una lacuna del sistema normativo.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;">Durante tutta l'epoca repubblicana e fino al primo impero, è l'opera della giurisprudenza romana a produrre diritto positivo: sono indefiniti i rapporti giuridici in relazione ai quali i <em>prudentes</em> "<em>creano</em>" la norma da applicare, attraverso la c.d. <em>interpretatio prudentium</em>, e ciò prendendo sovente spunto dai precedenti resi su casi analoghi. Tanto premesso in via generale, occorre tuttavia precisare – lo è stato fatto notare dalla dottrina – come presso i Romani ogni decisione della "<em>giurisprudenza</em>" abbia un'efficacia particolare e trovi il proprio fondamento giuridico sull'<em>auctoritas</em> del singolo giurista o magistrato che la prende: da questo punto di vista, la disciplina dettata per il caso singolo non può assurgere a norma di efficacia generale idonea a disciplinare, in quanto tale, altri casi secondo il paradigma dell'analogia (siccome elaborato in epoca successiva): se per la disciplina di rapporti analoghi si è in precedenza deciso in un certo modo, ciò formalmente non rileva ai fini della decisione del nuovo caso che, seppure appunto analogo, è “<em>normato</em>” dal singolo giurista (magistrato, giureconsulto) che se ne occupa e dall’<em>auctoritas</em> che da esso promana; dal punto di vista sostanziale, nondimeno, non può negarsi il peso esercitato dalla tradizione giuridica pregressa e, con esso, la forza degli <em>exempla</em> resi in fattispecie analoghe già "<em>decise</em>" e dunque "<em>normate</em>" dalla giurisprudenza che contribuisce a plasmare tale tradizione. Senza dire che, dinanzi a casi che presentano una qualche somiglianza, sono le stesse esigenze di giustizia e di equità ad imporre soluzioni non dissimili. Questo significa che, quand’anche non in modo cosciente secondo i termini moderni, i Romani fanno certamente applicazione del ragionamento analogico, seppure non assumendolo mai come procedimento mentale che consente ad una conclusione raggiunta con norme generali di essere logicamente applicata a fattispecie speciali non normate. Nel tardo impero, ed in particolare nelle costituzioni imperiali del periodo di Diocleziano, compaiono poi espressioni come "<em>ad exemplum</em>", "<em>ad instar</em>", "<em>ad similitudinem</em>", che stanno a significare come l'Imperatore disciplini una specifica fattispecie ispirandosi a quella di altra fattispecie simile, e tuttavia anche in questo caso, dal punto di vista formale, non si ha vera e propria analogia dal momento che ancora una volta è la <em>potestas</em> dell'Imperatore a normare il singolo caso specifico, seppure sostanzialmente rifacendosi alla disciplina di un precedente caso analogo. Ad un certo punto tuttavia, i giudici iniziano ad utilizzare la decisione contenuta in un rescritto imperiale al dichiarato fine di decidere casi analoghi, onde se il rescritto imperiale poggia “<em>dall’alto</em>” sull'<em>auctoritas</em> dell'Imperatore, l'applicazione che ne viene fatta “<em>dal basso</em>” dalla giurisprudenza si atteggia ormai a vera e propria estensione analogica delle relative statuizioni. Ciò spinge Giustiniano – che assume il procedimento analogico pericoloso in ottica di certezza del diritto - a vietare l'interpretazione analogica delle proprie disposizioni da parte dei giuristi e dei giudici, sul presupposto onde (Digesto, costituzione “<em>Tanta</em>”) "<em>imperatori soli concessum est et leges condere et interpretari</em>" (spetta dunque al solo Imperatore elaborare le leggi ed interpetarle).</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1889</strong></p> <p style="text-align: justify;">La codificazione liberale Zanardelli, all’art.1, prevede che nessuno possa essere punito per un fatto che non sia “<em>espressamente</em>” preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. Interessante notare come la parola “<em>espressa</em>”, riferita a “<em>disposizione di legge</em>”, viene proposta alla Commissione preparatoria del codice sin dal 1866, su impulso del prof. Giampaolo Tolomei: una proposta che viene accolta dalla Commissione confluendo nella versione finale del codice, proprio al fine di escludere ogni base all’applicazione dell’analogia in materia penale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il codice penale all’art.1 prevede, sulla scia del precedente del 1889, che nessuno possa essere punito per un fatto che non sia “<em>espressamente</em>” preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite, così indirettamente negando cittadinanza all’applicazione analogica, in perfetta continuità col codice Zanardelli. Il codice dipinge poi talune fattispecie che saranno rilevanti nella giurisprudenza successiva al fine di distinguere tra interpretazione estensiva ed applicazione analogica:</p> <ol style="text-align: justify;"> <li>l’art.57 in tema di reati commessi col mezzo della stampa periodica, laddove è prevista una responsabilità autonoma a titolo di colpa per il direttore che omette di esercitare sul contenuto del periodico che dirige il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati; una norma delicata già sul versante del possibile concorso tra reato doloso e colposo, oltre che dell’omissione impropria applicata ad un reato di pura condotta e non già di evento;</li> <li>l’art.593, comma 2, laddove si punisce per omissione di soccorso chi abbia “<em>trovato</em>” il bisognoso di tale soccorso;</li> <li>l’art.628, comma 2, in tema di rapina impropria, in connessione con il tentativo ex art.56 (tentativo di rapina impropria);</li> <li>l’art.660 laddove punisce le molestie arrecate in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con il “<em>mezzo del telefono</em>”;</li> <li>l’art.674, che punisce il “<em>getto pericoloso di cose</em>”.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong>1942</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo viene varato il R.D. 262, codice civile, le cui disposizioni preliminari annoverano l’art.14 onde le <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4275.html">leggi penali</a> (assieme a quelle che fanno <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4289.html">eccezione</a> a regole generali o ad altre leggi, c.d. eccezionali) non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati: in sostanza, le leggi penali non sono applicabili in via analogica.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">La Costituzione, entrata in vigore il 01 gennaio, ribadisce che è una legge a dover prevedere quali comportamenti siano punibili e a quali pene sia soggetto il reo che li pone in essere; in particolare viene in rilievo la disposizione di cui all’art.25, comma 2, della Carta, anche in relazione all’art.24 sul diritto di difesa e all’art.27 sul principio di colpevolezza e sulle finalità di prevenzione della norma penale (e di connessa, tendenziale rieducazione della pena), che vengono frustrate se il cittadino non è in grado di capire cosa viene punito e se il giudice, per parte sua, può punire o non punire secondo propria, arbitraria discrezione, applicando la legge penale – giusta analogia - anche a casi ai quali essa letteralmente non dovrebbe applicarsi. In ambito più specifico, rilevante anche l’art.21, comma 3, onde si può procedere a <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/95.html">sequestro</a> della stampa soltanto per atto motivato dell'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/55.html">autorità giudiziaria</a> nel caso di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/96.html">delitti</a>, per i quali la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/391.html">legge</a> sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 febbraio viene varata la legge n.47, recante disposizioni sulla stampa, che disciplina lo statuto della stampa periodica cartacea, anche in termini di repressione della c.d. stampa clandestina (articoli 5 e 16).</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1978</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 31 gennaio esce la sentenza della Cassazione n.378 che si occupa dell’art.593, comma 2, c.p. in tema di omissione di soccorso. La norma punisce la fattispecie di chi abbia “<em>trovato</em>” un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, ed ometta appunto di soccorrerla; sicuramente si è dinanzi ad un “<em>trovare</em>” allorché il soggetto agente abbia un contatto materiale diretto, attraverso gli organi sensoriali, con l’oggetto del ritrovamento, mentre i dubbi si pongono per chi non sia protagonista di tale ritrovamento in modo diretto, ma abbia piuttosto la mera notizia che qualcuno si trova in pericolo in un luogo lontano, senza poterne avere percezione diretta con i propri sensi. La Corte si trova in particolare dinanzi al caso di un medico che si trova in stazione alle 16.15 del pomeriggio e si rifiuta di attendere le 16.30, ora di arrivo di un treno in cui si trova un soggetto rimasto vittima di un malore e dunque bisognoso di soccorso; per la Corte, “<em>trovare</em>” può al più essere interpretato in via estensiva, onde si “<em>trova</em>” non solo il soggetto nel quale ci si imbatte “<em>nunc</em>” e che ha bisogno di soccorso, ma anche il soggetto che si trova già (<em>ex ante</em>) in presenza di chi dovrebbe agire allorché il pericolo insorge; oltre questi casi - come appunto nell’ipotesi in cui il soggetto agente e che dovrebbe agire è lontano dal luogo in cui il pericolo è insorto e dovrebbe attendere del tempo (<em>ex post</em>) per imbattersi nel soggetto bisognoso di aiuto - si deborda nella applicazione analogica <em>in malam partem</em>, inammissibile in materia penale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1991</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.9392, <em>D’Amico</em>, alla cui stregua – in tema di bancarotta - non è consentito equiparare la posizione dell’imprenditore che, ex art.236 della legge fallimentare, si attribuisce attività inesistenti (soggetta a sanzione penale) all’imprenditore che sopravvaluti attività esistenti (non punibile), trattandosi non già di interpretazione estensiva, ma di applicazione analogica non ammessa in materia penale. Riferire la disposizione penale a casi in alcun modo riconducibili ad alcuno dei relativi, possibili significati significa per la Corte fuoriuscire dall’interpretazione (quand’anche estensiva), per debordare nella applicazione analogica.</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 dicembre viene varata la legge n.413 che inserisce nel D.p.R. 600 del 1973 in tema di imposte sui redditi l’art.37.bis in tema di elusione fiscale, onde sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti. La PA, secondo tale disposizione (a valle di un contraddittorio tra Fisco e contribuente) disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1, applicando le (maggiori) imposte (lorde) determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle (minori) imposte (già di per sé) dovute per effetto del comportamento tenuto (inopponibile all’Amministrazione perché elusivo). La norma è inserita tra le disposizioni in tema di imposte sui redditi, ed in futuro si dubiterà in ordine alla relativa applicazione ad imposte diverse, in particolare alle imposte indirette, prima fra tutte l’IVA.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1993</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 dicembre viene varata la legge 547, il cui articolo 4 inserisce nel codice penale l’art.615.ter che punisce l’accesso abusivo a sistema informatico.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1997</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 gennaio viene varata la legge costituzionale n.1 istitutiva di una Commissione Bicamerale che, insediatasi, vara un progetto di riforma costituzionale; il relativo art.129 punta ad introdurre il generale divieto di interpretare le leggi penali in modo analogico o estensivo, così accomunando sotto il medesimo divieto tanto l’analogia quanto l’interpretazione estensiva, e peraltro collocando l’analogia nell’ambito della interpretazione.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 ottobre viene varato un D.M. che nomina una Commissione ministeriale per la riforma del codice penale (c.d. “<em>Progetto Grosso</em>”), che propone un nuovo art.2, comma 1, del codice penale in cui viene espressamente previsto il divieto di analogia in materia penale, nel solco dell’art.14 delle disposizioni preliminari al codice civile; viene tuttavia chiarito che il divieto di analogia riguarda le sole norme incriminatrici, e non già quelle di favore, potendosi ammettere (sulla scia della dottrina più accreditata) una analogia <em>in bonam partem</em>.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2000</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 marzo viene varato il decreto legislativo n.74 che contiene l’impianto del nuovo diritto penale tributario.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 luglio viene varata la legge n.212, c.d. statuto del contribuente, che disciplina i rapporti tra contribuenti e Fisco.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 dicembre esce la sentenza della sezione feriale della Cassazione n.12960 che assume applicabile l’art.57 c.p. in tema di responsabilità omissiva (colposa) del direttore responsabile nel settore della carta stampata anche al direttore di testata televisiva. Si tratta di una pronuncia che rimarrà isolata, anche perché più che una interpretazione estensiva sembra far luogo ad una vera e propria applicazione analogica <em>in malam partem</em> del ridetto art.57 c.p.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 33453, alla cui stregua l'interrogatorio dell'indagato, effettuato dalla polizia giudiziaria per delega del pubblico ministero ai sensi dell'art. 370 cod. proc. pen., non e' atto idoneo ad interrompere il corso della prescrizione, non rientrando nel novero degli atti, produttivi di tale effetto, indicati nell'art. 160, comma II, cod. pen. e non essendo questi ultimi - da assumersi tassativi - suscettibili di ampliamento per via interpretativa, stante il divieto di analogia in malam partem materia penale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.18449, alla cui stregua l'invio in rapida sequenza di due messaggi sms di contenuto ingiurioso non appare idoneo a ledere il bene giuridico della privata tranquillità ma soltanto quello dell'onore personale; per la Corte, la previsione incriminatrice di cui all’art.660 c.p. sulle molestie col mezzo del telefono, formulata in un’epoca in cui l'impiego del telefono era concepibile soltanto mediante comunicazioni vocali, non può ritenersi estensibile anche all'ipotesi in cui detto mezzo (nella specie telefono cellulare) sia utilizzato esclusivamente per l’invio dei cosiddetti <em>'sms</em>', pienamente assimilabili agli scritti contemplati dall'articolo 594 c.p. piuttosto che alle comunicazioni telefoniche di cui appunto all’articolo 660 c.p., onde nel caso di specie deve assumersi integrato il diverso reato di <a href="https://www.studiocataldi.it/guide-diritto-penale/ingiuria.asp">ingiuria</a>.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.30663, <em>Grimoldi</em>, che si occupa dell’acceso abusivo a sistema informatico o telematico di cui all’art.615.ter c.p.; per la Corte tale fattispecie si configura anche allorché colui che accede al sistema è autorizzato a farlo, ma con una specifica finalità, utilizzando poi il titolo di legittimazione all’accesso per una finalità diversa (una forma dunque di sviamento di potere, quand’anche in ambito privato). In simili fattispecie il soggetto agente, per la Corte, non rispetta le condizioni alle quali è subordinato il proprio legittimo (e lecito) accesso, stante come l’autorizzazione all’accesso in parola è finalizzata ad un determinato scopo, palesandosi allora l’ingresso abusivo laddove la pertinente autorizzazione sia utilizzata per uno scopo diverso rispetto a quello cui essa è avvinta. Secondo questo orientamento peraltro, anche se la disposizione parla di “<em>accesso</em>” abusivo, deve considerarsi tale – in forza di una ammissibile interpretazione estensiva - anche l’abusivo “<em>mantenersi</em>” nel sistema contro la volontà (espressa o tacita) di chi potrebbe escludere tale “<em>mantenimento</em>”. Da questo punto di vista si ha “<em>accesso</em>” abusivo anche quando il primo accesso al sistema è legittimo, ma il soggetto agente si mantiene nel sistema cui è legittimamente acceduto per finalità estranee ai propri fini istituzionali, che fondano appunto l’autorizzazione all’accesso in parola.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 giugno esce la sentenza delle SSUU n.21833, che si occupa del contrasto che si agita intorno all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, con particolare riguardo alla questione se esso sia idoneo o meno ad interrompere il termine di prescrizione del reato. La Corte richiama in proposito entrambi gli orientamenti, ed in particolare quello che assume l’avviso di conclusione delle indagini preliminari idoneo ad interrompere la prescrizione ridetta, sulla base di quella giurisprudenza che – in disparte anche la sostanziale equipollenza tra l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, quale atto che deve sempre precedere l’esercizio dell’azione penale e che tuttavia non è espressamente previsto all’art.160 c.p., da un lato, e l’invito a presentarsi innanzi al PM per rendere l’interrogatorio di cui all’art.375 c.p.p., che è atto invece espressamente previsto al ridetto art.160 c.p., dall’altro – fa piuttosto e soprattutto leva sul fatto che l’art.415 bis c.p.p. riconosce all’indagato la facoltà di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio a seguito proprio della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, onde si sarebbe al cospetto di una conferma testuale dell’effetto interruttivo in parola, sol che si consideri come nell’avviso di deposito di cui all’art.415.bis c.p.p. è sostanzialmente contenuto un avviso di presentarsi al PM, che è esplicitamente assunto dall’art.160 c.p. quale atto interruttivo della prescrizione. Le SSUU nondimeno abbracciano l’opposto orientamento inteso ad assumere l’avviso di conclusione delle indagini preliminari non idoneo ad interrompere la prescrizione, tratteggiandone la figura e muovendo dal presupposto onde le norme che disciplinano la prescrizione del reato – e dunque anche la relativa interruzione - hanno natura sostanziale e non già processuale, producendo l’interruzione della prescrizione un rimarchevole effetto negativo per l’indagato (o per colui che è ormai imputato): proprio muovendo da tale premessa sistematica, per il Collegio occorre tenere ben presente il principio di legalità ed in particolare il principio di determinatezza delle fattispecie penali sostanziali, siccome consacrato nell’art.25, comma 2, Cost., in una con il collaterale divieto di applicazione analogica della legge penale di cui all’art.14 delle Preleggi, onde l’elenco degli atti che determinano l’interruzione della prescrizione del reato ex art.160 c.p. deve assumersi tassativo</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 2534, <em>Migliazzo</em>, che torna ad occuparsi dell’accesso abusivo a sistema informatico di cui all’art.615.ter c.p. e, andando in contrario avviso rispetto a diversa giurisprudenza, muove dal presupposto onde tale norma punisce il solo l’“<em>accesso abusivo</em>” a sistema informatico o telematico: se dunque l’accesso è <em>ab origine</em> legittimo e lecito in quanto avvinto alla pertinente autorizzazione che lo fonda, esso resta tale anche se poi il soggetto agente – una volta operato lecitamente l’accesso in parola – persegua finalità estranee a quelle dell’ufficio e perfino finalità illecite. In sostanza, non può essere punito “<em>per estensione</em>” (che nasconde una analogia) il soggetto agente che acceda al sistema munito di un titolo e poi persegua finalità estranee rispetto a quelle per le quali ha ottenuto il titolo di accesso.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 3 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 26797, <em>Scimia</em>, che torna ad occuparsi dell’accesso abusivo a sistema informatico di cui all’art.615.ter c.p. e, andando in contrario avviso rispetto a diversa giurisprudenza, muove dal presupposto onde tale norma punisce il solo l’“<em>accesso abusivo</em>” a sistema informatico o telematico: se dunque l’accesso è <em>ab origine</em> legittimo e lecito in quanto avvinto alla pertinente autorizzazione che lo fonda, esso resta tale anche se poi il soggetto agente – una volta operato lecitamente l’accesso in parola – persegua finalità estranee a quelle dell’ufficio e perfino finalità illecite. In sostanza, non può essere punito “<em>per estensione</em>” (che nasconde una analogia) il soggetto agente che acceda al sistema munito di un titolo e poi persegua finalità estranee rispetto a quelle per le quali ha ottenuto il titolo di accesso.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 01 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.37322, <em>Bassani</em>, che si occupa dell’acceso abusivo a sistema informatico o telematico di cui all’art.615.ter c.p. e ribadisce che tale fattispecie si configura anche allorché colui che accede al sistema è autorizzato a farlo, ma con una specifica finalità, utilizzando poi il titolo di legittimazione all’accesso per una finalità diversa (una forma dunque di sviamento di potere, quand’anche in ambito privato). In simili fattispecie il soggetto agente, per la Corte, non rispetta le condizioni alle quali è subordinato il proprio legittimo (e lecito) accesso, stante come l’autorizzazione all’accesso in parola è finalizzata ad un determinato scopo, palesandosi allora l’ingresso abusivo laddove la pertinente autorizzazione sia utilizzata per uno scopo diverso rispetto a quello cui essa è avvinta. Secondo questo orientamento peraltro, anche se la disposizione parla di “<em>accesso</em>” abusivo, deve considerarsi tale – in forza di una ammissibile interpretazione estensiva - anche l’abusivo “<em>mantenersi</em>” nel sistema contro la volontà (espressa o tacita) di chi potrebbe escludere tale “<em>mantenimento</em>”. Da questo punto di vista si ha “<em>accesso</em>” abusivo anche quando il primo accesso al sistema è legittimo, ma il soggetto agente si mantiene nel sistema cui è legittimamente acceduto per finalità estranee ai propri fini istituzionali, che fondano appunto l’autorizzazione all’accesso in parola.</p> <p style="text-align: justify;">*L’8 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 39290, <em>Peparaio</em>, che torna ad occuparsi dell’accesso abusivo a sistema informatico di cui all’art.615.ter c.p. e, andando in contrario avviso rispetto a diversa giurisprudenza, muove dal presupposto onde tale norma punisce il solo l’“<em>accesso abusivo</em>” a sistema informatico o telematico: se dunque l’accesso è <em>ab origine</em> legittimo e lecito in quanto avvinto alla pertinente autorizzazione che lo fonda, esso resta tale anche se poi il soggetto agente – una volta operato lecitamente l’accesso in parola – persegua finalità estranee a quelle dell’ufficio e perfino finalità illecite. In sostanza, non può essere punito “<em>per estensione</em>” (che nasconde una analogia) il soggetto agente che acceda al sistema munito di un titolo e poi persegua finalità estranee rispetto a quelle per le quali ha ottenuto il titolo di accesso.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 dicembre escono le sentenze gemelle delle SSUU della Cassazione n. 30055, 30057 e 30058, che riconoscono la presenza nel sistema di un generale principio antielusivo ritraibile – per quanto concerne i tributi non armonizzati, e dunque in particolare le imposte dirette – dall’art.53 della Costituzione in tema di capacità contributiva e di imposizione tendenzialmente progressiva.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2009</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 30 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.18006, <em>Russo</em>, che si occupa dell’acceso abusivo a sistema informatico o telematico di cui all’art.615.ter c.p. e ribadisce che tale fattispecie si configura anche allorché colui che accede al sistema è autorizzato a farlo, ma con una specifica finalità, utilizzando poi il titolo di legittimazione all’accesso per una finalità diversa (una forma dunque di sviamento di potere, quand’anche in ambito privato). In simili fattispecie il soggetto agente, per la Corte, non rispetta le condizioni alle quali è subordinato il proprio legittimo (e lecito) accesso, stante come l’autorizzazione all’accesso in parola è finalizzata ad un determinato scopo, palesandosi allora l’ingresso abusivo laddove la pertinente autorizzazione sia utilizzata per uno scopo diverso rispetto a quello cui essa è avvinta. Secondo questo orientamento peraltro, anche se la disposizione parla di “<em>accesso</em>” abusivo, deve considerarsi tale – in forza di una ammissibile interpretazione estensiva - anche l’abusivo “<em>mantenersi</em>” nel sistema contro la volontà (espressa o tacita) di chi potrebbe escludere tale “<em>mantenimento</em>”. Da questo punto di vista si ha “<em>accesso</em>” abusivo anche quando il primo accesso al sistema è legittimo, ma il soggetto agente si mantiene nel sistema cui è legittimamente acceduto per finalità estranee ai propri fini istituzionali, che fondano appunto l’autorizzazione all’accesso in parola.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 14 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 40078, <em>Genchi</em>, che torna ad occuparsi dell’accesso abusivo a sistema informatico di cui all’art.615.ter c.p. e, andando in contrario avviso rispetto a diversa giurisprudenza, muove dal presupposto onde tale norma punisce il solo l’“<em>accesso abusivo</em>” a sistema informatico o telematico: se dunque l’accesso è <em>ab origine</em> legittimo e lecito in quanto avvinto alla pertinente autorizzazione che lo fonda, esso resta tale anche se poi il soggetto agente – una volta operato lecitamente l’accesso in parola – persegua finalità estranee a quelle dell’ufficio e perfino finalità illecite. In sostanza, non può essere punito “<em>per estensione</em>” (che nasconde una analogia) il soggetto agente che acceda al sistema munito di un titolo e poi persegua finalità estranee rispetto a quelle per le quali ha ottenuto il titolo di accesso.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile n.20106, c.d. caso <em>Renault</em>, che si occupa – in una fattispecie afferente a concessioni di vendita di automobili - dell’abuso del diritto (una manifestazione del quale in ambito tributario è l’elusione fiscale), onde l’esercizio di un qualunque diritto è abusivo allorché avvenga secondo modalità che, pur formalmente rispettose della cornice attributiva del diritto medesimo, risultano preordinate a conseguire scopi diversi rispetto a quelli prefissati dal legislatore allorché ne ha delineato in contorni.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.24510, che si occupa delle molestie arrecate per mezzo del computer, giusta utilizzo delle e-mail. La Corte muove dal principio di tassatività scolpito all’art.25, comma 2, Cost. onde la previsione incriminatrice delle molestie “<em>col mezzo del telefono</em>” non può essere dilatata fino a comprendere l’invio di posta elettronica sgradita, che provochi turbamento o quanto meno fastidio in chi la riceve. Si tratta infatti di appuntarsi sulla lettera della legge e dunque sul tenore letterale della disposizione incriminatrice che, anche laddove interpretata estensivamente, non consente di punire ai sensi dell’art.660 c.p. le molestie arrecate via computer attraverso la spedizione di e-mail moleste: la posta elettronica utilizza infatti, precisa la Corte, la rete telefonica e la rete cellulare delle bande di frequenza, ma non il telefono. A ciò va aggiunto, sempre secondo la Corte, che la posta elettronica presenta una caratteristica comune alla normale corrispondenza cartacea, compendiantesi in una comunicazione a-sincrona laddove non è configurabile alcune immediata interazione tra mittente e destinatario, potendo quest’ultimo evitare intromissioni nella propria sfera personale semplicemente omettendo di aprire il messaggio di posta elettronica non desiderato. La Corte sembra dunque affermare che applicare l’art.660 c.p. all’invio di e-mail moleste corrisponde più ad una inammissibile applicazione analogica che ad una consentita interpretazione estensiva.</p> <p style="text-align: justify;">Il 01 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.35511 che assume non applicabile al direttore di testata telematica l’art.57 c.p. in tema di responsabilità (a titolo di colpa) del direttore di testata tradizionale (carta stampata). La stampa, giuridicamente intesa ai sensi dell’art.1 della legge n.47 del 1948, è tale a due condizioni precise, ovvero (preliminarmente) la riproduzione tipografica e (successivamente) la destinazione alla pubblicazione - e quindi alla distribuzione effettiva tra il pubblico - di tale riproduzione tipografica. Tali condizioni non sono presenti nella stampa telematica, alla quale non è appunto applicabile l’art.57 c.p., trattandosi di inammissibile applicazione analogica.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 10 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.39620, <em>Lesce</em>, che si occupa dell’acceso abusivo a sistema informatico o telematico di cui all’art.615.ter c.p. e ribadisce che tale fattispecie si configura anche allorché colui che accede al sistema è autorizzato a farlo, ma con una specifica finalità, utilizzando poi il titolo di legittimazione all’accesso per una finalità diversa (una forma dunque di sviamento di potere, quand’anche in ambito privato). In simili fattispecie il soggetto agente, per la Corte, non rispetta le condizioni alle quali è subordinato il proprio legittimo (e lecito) accesso, stante come l’autorizzazione all’accesso in parola è finalizzata ad un determinato scopo, palesandosi allora l’ingresso abusivo laddove la pertinente autorizzazione sia utilizzata per uno scopo diverso rispetto a quello cui essa è avvinta. Secondo questo orientamento peraltro, anche se la disposizione parla di “<em>accesso</em>” abusivo, deve considerarsi tale – in forza di una ammissibile interpretazione estensiva - anche l’abusivo “<em>mantenersi</em>” nel sistema contro la volontà (espressa o tacita) di chi potrebbe escludere tale “<em>mantenimento</em>”. Da questo punto di vista si ha “<em>accesso</em>” abusivo anche quando il primo accesso al sistema è legittimo, ma il soggetto agente si mantiene nel sistema cui è legittimamente acceduto per finalità estranee ai propri fini istituzionali, che fondano appunto l’autorizzazione all’accesso in parola.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.10983, alla cui stregua è punibile ai sensi dell’art.660 c.p. per molestia recata “<em>col mezzo del telefono</em>” chi invia sms molesti: è vero che il legislatore del 1930 si riferiva indiscutibilmente alla comunicazione vocale, e tuttavia la norma incriminatrice va interpretata in senso evolutivo, onde si molesta “<em>col mezzo del telefono</em>” anche via sms, rimanendosi nell’ambito dei casi riconducibili al tenore letterale della disposizione, giusta relativa interpretazione estensiva, senza debordare in una applicazione analogica.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.15657 che si occupa dell’applicabilità del decreto 231.01 e della responsabilità ivi prevista all’impresa individuale, ammettendola e così sconfessando un precedente orientamento inteso a negarla. Occorre per la Corte muovere da una interpretazione costituzionalmente orientata del decreto, dovendo scongiurarsi una irragionevole disparità di trattamento tra impresa individuale ed impresa organizzata in forma societaria, e ciò attraverso una considerazione dell’impresa individuale quale soggetto assimilabile ad un ente fornito di personalità giuridica. Per la Corte non può negarsi che l’impresa individuale possa essere assimilata ad una persona giuridica nella quale viene a confondersi l’imprenditore quale soggetto fisico che esercita una determinata attività economica, sol che si badi al fatto che molte imprese individuali sovente ricorrono ad una organizzazione interna di tipo complesso nella cui orbita si prescinde dal sistematico intervento del titolare dell’impresa medesima per la soluzione di determinate problematiche, con possibilità che ne resti coinvolta la responsabilità di soggetti diversi dall’imprenditore, e che tuttavia operano nell’interesse suo e della sua azienda. Per la Corte ad opinare diversamente si correrebbe anche il rischio di un vuoto normativo capace di produrre gravi ricadute di tipo costituzionale - sul crinale della disparità di trattamento - tra coloro che ricorrono a forme (spesso, solo apparentemente) semplici di impresa, ai quali il decreto 231.01 non si applicherebbe, e coloro che invece ricorrono a strutture ben più complesse e articolate (quand’anche magari solo nella forma giuridica prescelta, di tipo societario), ai quali invece esso inesorabilmente si applicherebbe. L’art.1, comma 2, del decreto dovrebbe essere allora interpretato con portata soggettivamente ampia, anche perché è un testo che non fa alcun cenno alle imprese individuali, onde esse non possono assumersi <em>a priori</em> escluse dall’area precettiva del decreto, dovendo piuttosto intendersene implicitamente incluse. La dottrina contesta tuttavia questa nuova e più rigorosa presa di posizione della Corte, sia perché non risponde partitamente a tutte le argomentazioni di cui all’orientamento opposto, sia perché sembra far luogo ad una vietata applicazione analogica (assai più che una mera interpretazione estensiva) dell’art.1 del decreto 231.01.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 29 luglio esce la sentenza della I Sezione della Cassazione n.30294, alla cui stregua è punibile ai sensi dell’art.660 c.p. per molestia recata “<em>col mezzo del telefono</em>” chi invia sms molesti: è vero che il legislatore del 1930 si riferiva indiscutibilmente alla comunicazione vocale, e tuttavia la norma incriminatrice va interpretata in senso evolutivo, onde si molesta “<em>col mezzo del telefono</em>” anche via sms, rimanendosi nell’ambito dei casi riconducibili al tenore letterale della disposizione, giusta relativa interpretazione estensiva, senza debordare in una applicazione analogica.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 ottobre esce la sentenza della I Sezione della Cassazione n.36779 che si occupa ancora una volta dell’art.660 c.p., con riguardo alla spedizione delle e-mail, laddove queste vengano inoltrate non già tramite computer, quanto piuttosto tramite telefoni cellulari di ultima generazione: in questa ipotesi – e-mail scambiata tra due telefoni cellulari – la fattispecie è per la Corte analoga a quella degli sms, onde la comunicazione deve intendersi avvenire “<em>col mezzo del telefono</em>” giusta modalità sincrona, senza che il destinatario della e-mail possa sottrarsi (quanto meno) al segnale acustico che avvisa dell’arrivo del messaggio mail, con conseguente applicabilità dell’art.660 c.p. laddove si configuri la molestia.</p> <p style="text-align: justify;">Il 29 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.44126 che ribadisce non applicabile al direttore di testata telematica l’art.57 c.p. in tema di responsabilità (a titolo di colpa) del direttore di testata tradizionale (carta stampata). La stampa, giuridicamente intesa ai sensi dell’art.1 della legge n.47 del 1948, è tale a due condizioni precise, ovvero (preliminarmente) la riproduzione tipografica e (successivamente) la destinazione alla pubblicazione - e quindi alla distribuzione effettiva tra il pubblico - di tale riproduzione tipografica. Tali condizioni non sono presenti nella stampa telematica, alla quale non è appunto applicabile l’art.57 c.p., trattandosi di inammissibile applicazione analogica. La Corte chiarisce infatti che non si è al cospetto di un medesimo testo redatto in originale e poi riprodotto in modo molteplice su supporti fisici per destinarlo alla distribuzione presso il pubblico, onde difetta nel caso della stampa telematica il requisito della riproduzione tipografica. Peraltro in caso di testata telematica il testo pubblicato su internet - in termini di luogo di effettiva esistenza e di divulgazione delle notizie in esso contenute – è presente esclusivamente nella relativa pagina di pubblicazione, pur essendo esso visualizzabile su un numero indefinito e molteplice di dispositivi <em>hardware</em>, onde non si realizza alcuna distribuzione su supporto fisico; peraltro, mentre la stampa tipografica può essere fruita in via immediata dal lettore, la stampa telematica, anche se venisse “<em>versata</em>” su un supporto fisico, richiederebbe comunque un apparato di lettura per poterla consultare da parte del singolo lettore: manca dunque anche il requisito della pubblicazione giusta destinazione al pubblico (per come la intende la legge del 1948 sulla stampa), in quanto il contenuto è uno e non viene “<em>portato</em>” ai potenziali lettori su molteplici supporti fisici, ma è solo visualizzabile da essi in modo molteplice e contemporaneo dai rispettivi dispositivi. Per la Corte si è dunque al cospetto di una lacuna normativa che non può essere colmata dal giudice penale attraverso una inammissibile applicazione analogica. Da questo punto di vista, il direttore responsabile di un giornale telematico può dunque essere eventualmente chiamato a rispondere per diffamazione, in concorso con l’autore della pubblicazione ed in presenza di dolo, ma non già per omissione colposa di controllo ex art.57 c.p.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.4694 in tema di accesso abusivo a sistema informatico, alla cui stregua l’art.615.ter c.p. punisce sia chi accede senza titolo al sistema, sia chi vi accede munito di titolo autorizzativo, ma vi si mantiene poi con finalità diverse rispetto a quelle oggetto di autorizzazione. Per le SSUU le condotte di accesso e di mantenimento nel sistema divengono penalmente rilevanti sia allorché il soggetto agente violi le indicazioni del titolare del sistema <em>ex ante</em>, accedendovi abusivamente, sia quando – <em>ex post</em>, ed operato un accesso lecito - compie attività ontologicamente diverse da quelle per le quali l’accesso in parola gli è stato consentito, poiché anche in questa seconda ipotesi egli va oltre quanto autorizzatogli, superando la soglia del penalmente lecito e divenendo punibile, dovendosi assumere implicito il dissenso del <em>dominus</em> autorizzante laddove chi è autorizzato violi in misura oggettiva le indicazioni al cospetto delle quali l’accesso gli è stato consentito. Va tuttavia sottolineato come, dinanzi al contrasto di giurisprudenza che esse si trovano a dipanare, le SSUU assumono la questione di diritto controversa non afferire al profilo delle finalità perseguite da chi accede o si mantiene nel sistema, e ciò in quanto la volontà del titolare del diritto di escludere si connette soltanto al dato oggettivo della permanenza dell'agente in esso; in altri termini, la volontà contraria dell'avente diritto (autorizzante) deve essere verificata solo con riferimento al risultato immediato della condotta posta in essere, non già ai fatti successivi, onde a rilevare è solo il profilo oggettivo dell'accesso e del trattenimento nel sistema informatico da parte di un soggetto non autorizzato – o non più autorizzato - ad accedervi o a permanervi, sia quando questi violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema e contenute in disposizioni organizzative interne, in prassi aziendali o in clausole di contratti individuali di lavoro, sia quando ponga in essere operazioni di natura diversa da quelle di cui è incaricato ed in relazione alle quali l'accesso gli è consentito. Per la Corte, il giudizio sull'esistenza del dissenso del <em>dominus loci</em> non può essere allora formulato in base alla direzione finalistica della condotta, ma deve assumere come parametro la sussistenza di una oggettiva violazione delle prescrizioni impartite dal <em>dominus</em> stesso circa l'uso del sistema, onde qualora l'agente compia sul sistema un'operazione pienamente assentita dall'autorizzazione ricevuta e agisca nei limiti di questa, il reato di cui all'art. 615-<em>ter</em> c.p. non è per le SSUU configurabile, dovendosi prescindere dallo scopo ulteriore eventualmente perseguito; in altri termini, qualora l'attività autorizzata consista anche nella acquisizione di dati informatici e l'operatore la esegua nei limiti e nelle forme consentiti dal titolare del diritto di esclusione, il delitto in esame non può assumersi configurato, quand’anche degli stessi dati il soggetto agente si dovesse poi servire per finalità illecite, palesandosi irrilevanti gli eventuali fatti successivi ad un accesso o ad un trattenimento lecito che, se del caso, potranno essere ricondotti ad altro titolo di reato (ad esempio, alle previsioni di cui agli artt. 326, 618, 621 e 622 c.p.).</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7739, caso <em>Dolce & Gabbana</em>, che – sconfessando la precedente giurisprudenza in senso contrario – attribuisce rilevanza penale all’elusione fiscale; per la Corte, più in particolare, in presenza di una elusione fiscale sono applicabili gli articoli 4 (dichiarazione infedele) e 5 (omessa dichiarazione) di cui al decreto legislativo n.74 del 2000 in tema di diritto penale tributario. L’art.1, lettera f), del decreto legislativo ridetto fornisce una ampia nozione di “<em>imposta evasa</em>”, quale differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella (minore) indicata in dichiarazione, che si compendia nell’intera imposta dovuta in caso di dichiarazione omessa: per la Corte, si è al cospetto di una definizione idonea a ricomprendere anche l’imposta (non evasa, ma solo) elusa, quale differenza appunto tra l’imposta effettivamente dovuta – afferente all’operazione oggetto di elusione – e quella dichiarata ed autoliquidata sull’operazione elusiva. La Corte corrobora le proprie conclusioni anche con considerazioni di politica criminale, partendo dal presupposto onde il legislatore ha incentrato la risposta punitiva sulla dichiarazione annuale: in sostanza ogni anno si dichiara al Fisco, e si hanno fattispecie penali in presenza di infedeltà dichiarativa nel singolo anno di imposta, onde se questa deriva da una elusione piuttosto che da una vera e propria evasione, essa non può comunque andare esente da sanzione penale; il legislatore tutela infatti il bene (interesse) compendiantesi nella corretta percezione annuale del tributo, onde laddove si verifichi una riduzione o financo una esclusione della base imponibile, non può non scattare l’ambito applicativo delle singole fattispecie incriminatrici che presidiano penalmente il detto bene giuridico. Né potrebbe invocarsi, al fine di scongiurare l’applicazione delle fattispecie penali tributarie in materia di elusione, il principio di legalità poiché, se si tiene conto della <em>ratio</em> delle norme incriminatrici da applicare, della relativa finalità e della precipua collocazione sistematica, si è al cospetto di un risultato interpretativo conforme ad una ragionevole prevedibilità. La Corte sembra dunque affermare che applicare le sanzioni penali tributarie previste per l’evasione fiscale alla mera elusione significa operare una ammissibile interpretazione estensiva, e non già una inammissibile applicazione analogica; ciò andando in contrario avviso rispetto alla dottrina maggioritaria (oltre che alla precedente giurisprudenza), che ha sempre ricondotto all’elusione fiscale effetti di mera inopponibilità all’Amministrazione finanziaria, senza possibilità di applicare sanzioni penali, a meno di non volersi porre in netta frizione con il principio di legalità di cui all’art.25, comma 2, Cost., dovendosi intendere il decreto legislativo n.74.00 come inteso a sanzionare le sole condotte evasive “<em>tipiche</em>”, e non già quelle meramente elusive (o abusive) che sono connotate da atipicità e proprio perché tali sono in contrasto con la necessaria tipicità di ogni fattispecie penale. La dottrina ha in proposito evidenziato anche una contraddizione della quale la Corte non sembra, nel caso di specie, tenere conto: l’elusione fiscale, quale forma di abuso del diritto, va ricondotta a fatti conformi al diritto, ma connotati da finalità che contrastano con lo spirito della legge, onde assumere applicabile una fattispecie incriminatrice all’elusione fiscale significa assumerla <em>tout court</em> illecita, escludendo dunque la stessa configurabilità ontologica dell’elusione (che è tale proprio perché non illecita, quand’anche persegua fini non rispondenti allo spirito del sistema tributario).</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 23230 che – dopo aver premesso, sulla scorta della giurisprudenza maggioritaria, come possa parlarsi di prodotto di stampa ai sensi della legge n.47.48 solo in presenza di una attività di riproduzione tipografica del prodotto medesimo e di successiva destinazione alla pubblicazione di tale prodotto – assume non estensibile l’obbligo di registrazione presso la cancelleria del Tribunale (nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi) di cui all’art.5 della legge in parola, previsto per la testata cartacea, al giornale telematico; ne consegue il precipitato onde, in caso di omessa registrazione di tale testata telematica, non si può applicare la fattispecie penale in tema di stampa clandestina prevista dall’art.16 della legge sulla stampa, incorrendosi in caso contrario in una interpretazione analogica della pertinente fattispecie, in frizione con l’art.14 delle preleggi e con l’art.25, comma 2, della Costituzione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.24670 che si occupa delle molestie col mezzo del telefono di cui all’art.660 c.p. e della relativa configurabilità nel caso in cui tali molestie siano arrecate attraverso il servizio di messaggistica istantanea (<em>istant messaging</em>) MSN Messenger, che mette in comunicazione due o più persone attraverso i rispettivi computer e la rete internet. Per la Corte, l’art.660 c.p. non è applicabile a tale peculiare fattispecie in quanto – se è pur vero che i soggetti che vi sono coinvolti utilizzano la rete telefonica e le bande di frequenza della rete cellulare – MSN Messenger ed il relativo servizio di telecomunicazione non è assimilabile ad una comunicazione telefonica: quest’ultima presenta come caratteristica peculiare quella di consentire la teletrasmissione in modalità sincrona di voci e di suoni creando una immediata interazione tra i due soggetti coinvolti e una conseguente, incontrollata possibilità di intrusione di uno di essi nella sfera privata dell’altro, che può scongiurare tale intrusione solo avvalendosi di un rimedio estremo, vale a dire la disattivazione della linea telefonica, evento capace di comportargli peraltro un pregiudizio alla relativa libertà di comunicazione. MSN Messenger è invece un servizio che si connota per una spiccata dose di libertà sia “<em>in entrata</em>” che “<em>in uscita</em>”: è l’utente potenziale soggetto passivo che deve abilitare preventivamente un terzo al fine di consentirgli la “<em>messa in contatto</em>” con lui; ed è lo stesso utente potenziale soggetto passivo che può in ogni momento bloccare qualsiasi possibilità di interazione col soggetto attivo (potenziale molestatore), inserendolo <em>sic et simpliciter</em> in una <em>black list</em> senza ad un tempo dover interrompere la comunicazione con altri interlocutori (non molesti), onde non è possibile per la Corte applicare l’art.660 c.p.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 settembre esce la sentenza delle SSUU n.34952 che, nell’ammettere la configurabilità di un tentativo di rapina impropria, esclude ad un tempo la frizione di tale fattispecie con il principio di legalità e con il divieto di analogia in materia penale. Stando all’art.628, comma 2, c.p. si ha rapina impropria quando la violenza o la minaccia vengono esercitate immediatamente dopo la sottrazione della <em>res</em>, come mezzo per assicurarsi il possesso della cosa sottratta ovvero per procurare a sé o ad altri l’impunità. Poiché nella fattispecie tentata la sottrazione all’evidenza non si verifica, mentre in quella consumata è richiesta la sottrazione cui segue “<em>immediatamente dopo</em>” l’esercizio di violenza o minaccia da parte del soggetto attivo del reato, è evidente – per la dottrina più garantista – che solo un inammissibile procedimento analogico (finalizzato appunto a configurare il tentativo di rapina impropria) può far considerare integrato il tentativo senza che si sia in realtà realizzata alcuna sottrazione della <em>res</em>. Per le SSUU, che dirimono il pertinente contrasto di giurisprudenza, anche in difetto di previa sottrazione della <em>res</em> può configurarsi tentativo di rapina impropria, la cui fattispecie consumata presuppone invece indefettibilmente la ridetta sottrazione, dovendosi assumere suggestiva, ma infondata, la tesi del presunto contrasto tra il ridetto tentativo di rapina impropria e il divieto di analogia in materia penale, quale espressione del rigoroso principio di legalità. Quest’ultimo principio affonda per la Corte le proprie radici, oltre che nella Costituzione, nell’art.7 della CEDU siccome interpretato nei lustri dalla Corte EDU facendo leva sui due valori della accessibilità della norma violata (c.d. <em>accessibility</em>) e sulla connessa prevedibilità della sanzione (<em>foreseeability</em>), dovendosi riferire entrambi questi canoni non già alla astratta previsione normativa quanto piuttosto alla norma “<em>vivente</em>” siccome risulta dalla interpretazione ed applicazione concreta da parte della giurisprudenza, il cui ruolo è fondamentale al fine di precisare contenuto ed ambito applicativo della norma penale. Se il risultato ermeneutico cui perviene l’interpretazione della giurisprudenza è prevedibile, stando alla struttura della norma oggetto di ermeneusi, in termini tanto di precisione che di stretta interpretazione, il principio di legalità può dunque dirsi pienamente rispettato. Nel caso del tentativo di rapina impropria, il risultato interpretativo della giurisprudenza appare alla Corte del tutto prevedibile, in quanto ammette tale tentativo un orientamento granitico consolidatosi nel corso di diversi decenni, fino a che non sono apparse talune sentenze nel senso della non ammissibilità che hanno inaugurato il contrasto ora risolto dalla Corte medesima: in altri termini, il risultato interpretativo – ammissibilità del tentativo di rapina impropria – appare nel caso di specie “<em>prevedibile</em>” in quanto assistito da una consistente e pluridecennale giurisprudenza, non potendosi affermare dunque che esso contrasti con i principi di precisione e di stretta interpretazione. La dottrina più garantista criticherà tale pronunciamento laddove sembra affidare alla giurisprudenza un ruolo creativo del diritto penale, in frizione con il principio della riserva di legge e con quello compendiantesi proprio nel divieto di analogia; peraltro, a portare il ragionamento delle SSUU alle estreme conseguenze, potrebbe assumersi “<em>risultato interpretativo prevedibile</em>” anche quello fondato su un granitico diritto vivente di creazione pretoria (peraltro, nel caso di specie neppure tale, stanti le recenti pronunce difformi che hanno fatto luogo al contrasto risolto dalle SSUU medesime) che tuttavia frigga proprio con i principi della riserva di legge e del divieto di analogia.</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.41249, <em>Sallusti</em>, alla cui stregua integra l’ipotesi di concorso nel reato di diffamazione ex art.595 c.p. - e non già quella di omesso controllo prevista dall’art. 57 c.p. - la condotta del direttore responsabile di un quotidiano che disponga la pubblicazione di un articolo di contenuto diffamatorio firmato con uno pseudonimo di autore non identificabile, quando vi sia prova della consapevole adesione dello stesso direttore al contenuto dello scritto.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’11 marzo viene varata la legge n.23 che delega il Governo (art.5) ad emanare norme che attuino la revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di uniformarle al principio generale del divieto di abuso del diritto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.37596 che, occupandosi di <em>Facebook</em>, assume tale piattaforma <em>social</em> quale luogo aperto al pubblico virtuale accessibile da chiunque utilizzi la rete: tale piattaforma, che nel 2008 contava già più di 100 milioni di utenti in 70 lingue, rappresenta una sorta di evoluzione scientifica che il legislatore del codice penale non è giunto ad immaginare quando ha varato l’art.660 c.p. in tema di molestie. Trattandosi di un “<em>luogo aperto al pubblico</em>”, seppure virtuale, la piattaforma Facebook può implicare - per chi ne fa uso arrecando molestie a terzi - l’applicazione dell’art. 660 c.p., in quanto la stessa lettera della legge parla di “<em>luogo pubblico o aperto al pubblico</em>”, onde si è al cospetto – al più – di una interpretazione estensiva che, a fronte della rivoluzione che ha coinvolto le forme di aggregazione e le tradizionali nozioni di comunità sociale, impone già in termini di <em>ratio</em> normativa di considerare “<em>luogo</em>” penalmente rilevante la piattaforma medesima. In sostanza, per la Corte nel caso di <em>Facebook</em> l’art.660 c.p. appare rilevante non già perché la comunicazione telematica della quale ivi ci si avvale è assimilabile a quella telefonica, quanto piuttosto perché la molestia viene consumata postando su Facebook messaggi, per l’appunto, molesti sulla pagina pubblica del soggetto passivo, e dunque in un luogo “<em>aperto al pubblico</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 luglio esce la sentenza delle SSUU n. 31022 che si occupa del sequestro preventivo della stampa e delle testate <em>internet</em>, muovendo dall’art.21 Cost. che – dopo aver previsto in via generale al comma 1 la tutela del diritto alla libera manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto ed “<em>ogni altro mezzo di diffusione</em>” – prevede una tutela rafforzata nei successivi comma proprio per la stampa, stante l’importanza fondamentale da annettersi al diritto ad informare e ad essere informati nelle moderne società democratiche: la conseguenza è che proprio il sequestro preventivo della stampa può essere disposto (comma 3) solo laddove espressamente autorizzato dalla legge sulla stampa. In sostanza, le fattispecie in cui può essere disposto il sequestro della stampa sarebbero tassative, e tra queste non sarebbe annoverata l’ipotesi in cui si consumi una diffamazione, per l’appunto, a mezzo stampa; tale sequestro può infatti essere previsto laddove siano violate le norme sul diritto d’autore (art.161 della legge 633.41); quando si tratti di stampa periodica che fa apologia del fascismo (art.8 della legge 645.52); quando si tratti di stampati osceni o comunque offensivi della pubblica decenza, ovvero ancora divulganti mezzi atti a procurare aborto (art.2 del Regio Decreto 561.46); infine, allorché siano violate le norme sulla registrazione delle pubblicazioni periodiche e sull’indicazione dei relativi responsabili (articoli 3 e 16 della legge 47.48: c.d. stampa clandestina). Le SSUU precisano poi che i limiti alla sequestrabilità della stampa di cui all’art.21, comma 3, Cost., riguardano non la nozione di stampa in senso tecnico, siccome descritta dall’art.1 della legge n.47.48, quanto piuttosto una nozione più ampia che ricomprende tutta l’attività di informazione svolta in modo professionale attraverso una testata giornalistica, a prescindere dai tipi di supporto utilizzati per la divulgazione. Da questa premessa discende che l’art.21 Cost. e le garanzie per la stampa da esso previste abbraccia tutta l’informazione di tipo professionale che sia veicolata anche per il tramite di una testata giornalistica <em>on line</em>; discorso diverso va invece fatto per quel vasto ed eterogeneo ambito di diffusione di informazioni e notizie da parte di singoli soggetti con carattere di spontaneità; in sostanza, mentre la divulgazione di informazioni con carattere di professionalità può essere considerata “<em>stampa</em>” ai fini della tutela costituzionalmente prevista, la diffusione di notizie a carattere spontaneo attraverso <em>forum</em>, <em>blog</em>, <em>mailing list</em>, <em>social network</em>, <em>newsgroup</em>, <em>newsletter</em> etc, pur essendo espressione applicativa del principio di libera manifestazione del pensiero ex art.21, comma 1, Cost., non rientra invece nella tutela specificamente prevista per la stampa dal comma 3 del medesimo articolo 21. Interessante la definizione che la Corte da di <em>forum</em>, quale bacheca telematica o area di discussione in cui qualsiasi utente (o, nel caso di forum chiuso, il solo utente registrato) è libero di esprimere il proprio pensiero rendendolo accessibile agli altri soggetti autorizzati ad accedervi, attivando così un confronto libero di idee in una piazza virtuale; esso dunque, per struttura e finalità, non è per la Corte assimilabile ad una testata giornalistica e non è soggetto pertanto alle tutele ed agli obblighi previsti dalla legge sulla stampa; un regime analogo è riconoscibile per il <em>blog</em> (quale contrazione di <em>web log</em>, “<em>diario in rete</em>”), ovvero quella sorta di agenda personale aperta e presente in rete, contenente diversi argomenti ordinati cronologicamente; per i <em>newsgroup</em>, quali spazi virtuali in cui gruppi di utenti si trovano a discutere di argomenti di interesse comune; per le <em>mailing list</em>, quale metodo di comunicazione gestito per lo più da aziende ed associazioni e giusta il quale esse inviano tramite posta elettronica ad una lista di soggetti interessati e iscritti informazioni utili in ordine alle quali si esprime condivisione o si attivano discussioni o commenti. Per la Corte occorre dunque distinguere tra</p> <ul style="text-align: justify;"> <li>un quotidiano o un periodico che, ancorché telematico, è strutturato alla stregua di un vero e proprio giornale cartaceo tradizionale, essendo munito di un direttore responsabile e di una organizzazione redazionale (che, quando vi sia una parallela pubblicazione cartacea, sovente neppure coincidono), da intendersi soggetto alle tutele costituzionalmente previste per la stampa;</li> <li>un qualunque sito <em>web</em> in cui chiunque può inserire contenuti, da intendersi non soggetto alle tutele costituzionalmente previste per la stampa.</li> </ul> <p style="text-align: justify;">In sostanza, appare per le SSUU irragionevole ed incongruente che entrambe le fattispecie ricevano la medesima disciplina in ottica di tutela della “<em>stampa</em>” da essi prodotta. Fatte queste premesse, per le SSUU il concetto di stampa di cui all’art.1 della legge 47.48 va interpretato in modo evolutivo e, come tale, va fatto oggetto di una interpretazione di tipo estensivo: ciò vale con particolare riferimento proprio al concetto di “<em>riproduzione tipografica</em>”, che deve ormai intendersi come mera accessibilità da parte del pubblico, potendosi dunque parlare di “<em>riproduzione tipografica</em>” ogni qual volta l’oggetto della riproduzione, quale prodotto editoriale, sia liberamente accessibile dal pubblico, come accade anche per la stampa <em>on line</em>; per la Corte questa conclusione costituisce il frutto di una mera deduzione interpretativa di carattere evolutivo, non analogica, che – nel cogliere fino in fondo, in sintonia con l’evoluzione socio culturale e tecnologica, il senso autentico della legge .47 del 1948, ed in particolare del relativo articolo 1 – fa leva sull’applicazione di un criterio storico sistematico coerente con il dettato dell’art.21 della Costituzione. E’ una presa di posizione della Corte a SSUU che sembra tuttavia sovvertire le basi sistematiche sulla cui scorta essa, a sezioni semplici, ha negato l’estensibilità del regime di responsabilità penale di cui all’art.57 c.p. (e all’art.16 della legge 47.48) al direttore responsabile di testate <em>on line</em>; alla dottrina che la accoglie con favore, si contrappone quella che invece assume trovarsi al cospetto di una applicazione analogica mascherata da interpretazione estensiva, stante l’inequivoco tenore testuale della norma (art.1 della legge 47.48) che definisce la stampa come riproduzione tipografica, inestensibile dunque a mezzi di comunicazione e divulgazione diversi da essa, con conseguente procedimento analogico occulto ed <em>in malam partem</em> applicato alle testate <em>on line</em> giusta configurazione, anche per esse, delle responsabilità per omesso controllo e per clandestinità previste, rispettivamente, dagli articoli 57 del codice penale e 16 della legge 47.48.</p> <p style="text-align: justify;">Il 5 agosto viene varato il decreto legislativo n.128 che innesta nella legge n.212.00, c.d. statuto del contribuente, un art.10.bis in tema di abuso del diritto od elusione fiscale, il cui comma 13 afferma esplicitamente che le operazioni abusive (elusive) non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie, pur restando ferma l’applicazione delle pertinenti sanzioni amministrative. Viene contestualmente abrogato l’art.37.bis del D.p.R. n.600.73, onde ad una disposizione concernente le sole imposte sui redditi (ormai abrogata) se ne sostituisce una più generale concernente tutti i tipi di imposte, e che dunque si occupa indiscriminatamente dell’elusione fiscale, senza che peraltro via sia più una elencazione tassativa delle operazioni che potrebbero essere elusive. L’Amministrazione finanziaria deve provare la configurabilità di una fattispecie elusiva, mentre il contribuente può provare la contemporanea esistenza di ragioni extrafiscali che giustificano l’operazione apparentemente elusiva, potendo spiccare interpello preventivo al Fisco (come da precedente regime).</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.40272 che afferma come l’elusione fiscale – ai sensi del nuovo art.10 bis della legge 212.00, appena entrato in vigore – non è più penalmente rilevante, potendo far luogo solo all’applicazione di sanzioni amministrative (<em>abolitio criminis</em>). La Corte, sul crinale intertemporale, muove dall’art.1, comma 5, del decreto legislativo n.128.15, alla cui stregua il nuovo art.10.bis (appena introdotto) ha efficacia a decorrere dal primo giorno del mese successivo alla data di entrata in vigore del decreto medesimo, applicandosi anche alle operazioni (elusive) poste in essere in data anteriore a tale efficacia, laddove tuttavia non sia stato già notificato un atto impositivo. In sostanza, laddove alla data del 01 ottobre 2015 sia già stato notificato un atto impositivo per pregresse operazioni elusive, la norma parrebbe far applicare il vecchio regime; e tuttavia i limiti alla retroattività posti dal legislatore debbono intendersi, precisa la Corte, riferiti ai soli effetti tributari dell’abuso del diritto <em>sub specie</em> di elusione, ma non anche a quelli penali, trattandosi peraltro di retroattività <em>in bonam partem</em> o <em>in mitius</em>. In sostanza, per la Corte si applica il principio di retroattività della legge penale più favorevole di cui all’art.2 del codice penale che – pur in astratto suscettibile di deroghe o limitazioni laddove queste si palesino sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli e, in particolare, dalla necessità di preservare interessi contrapposti di analogo rilievo (art.3 Cost.) – nel caso di specie appare canone non derogabile, pena una frizione proprio con il principio di ragionevolezza. Per la Corte sarebbe infatti del tutto irragionevole far dipendere l’applicazione di un deteriore trattamento penale, in relazione ad una operazione asseritamente abusiva, da un fatto (la notifica dell’atto impositivo) che da un lato è rimesso alla discrezionalità dell’Agenzia delle Entrate (la quale, entro il termine perentorio di legge, è libera di decidere quando in concreto notificare l’atto impositivo medesimo), e che appare in ogni caso irrilevante al fine di giustificare, per l’appunto, un trattamento penale deteriore (sanzione penale piuttosto che meramente amministrativa). Importante anche la formula assolutoria utilizzata dalla Corte, che annulla senza rinvio la sentenza di merito per non essere il fatto contestato più previsto dalla legge come reato: in sostanza, la Corte afferma che in passato le fattispecie elusive dovevano assumersi rette, sul crinale penale, dagli articoli 4 e 5 del decreto legislativo 74.00 (come affermato dalla sentenza sul caso <em>Dolce & Gabbana</em>), ma che è ormai intervenuta una vera e propria <em>abolitio criminis</em> (art.2, comma 2, c.p.), con perdita di effetto <em>in executivis</em> financo delle sentenze di condanna già passate in giudicato ai sensi dell’art.673 c.p.p.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 26 gennaio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.24, assai nota e molto importante, con la quale la Consulta, sollecitata dalla Corte d’Appello di Milano e dalla Cassazione, dispone di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, talune questioni di interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del medesimo Trattato e segnatamente: se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata; se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità; se la <a href="http://www.giurcost.org/casi_scelti/CJUE/C-105-14.pdf">sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco</a>, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro. La Corte ribadisce in primo luogo, nel contesto motivazionale dell’ordinanza, come l’istituto della prescrizione del reato afferisca in Italia al diritto penale sostanziale, e non già processuale, con conseguente affiorare della frizione tra quanto deciso dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza Taricco e quanto è previsto dall’art.25, comma 2, Cost. laddove consacra il principio di legalità. La Corte richiama il canone di c.d. prevedibilità della decisione giudiziaria, chiedendosi se il soggetto attivo potesse ragionevolmente prevedere, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art.325 del TFUE, avrebbe imposto al giudice penale chiamato a giudicarlo di non applicare gli articoli 160, ultimo comma, e 161, comma 2, c.p., in presenza appunto delle condizioni enunciate dalla Corte di Giustizia UE nel caso Taricco. Altro fronte lambito dalla Corte costituzionale è quello del c.d. principio di determinatezza della fattispecie penale, ed in particolare del grado di determinatezza assunto dall’ordinamento penale italiano in relazione all’art.325 TFUE, segnatamente con riguardo ai poteri del giudice penale al quale, per la Corte, non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale che vanno lasciate al Parlamento; più in specie, il tempo necessario alla prescrizione del reato e le operazioni giuridiche da compiersi per calcolare detto tempo devono sempre essere il frutto dell’applicazione, da parte del giudice penale, di regole predisposte dalla Legge e sufficientemente determinate. La Corte, nella sostanza, stigmatizza l’arresto Taricco laddove da esso discende l’obbligo per il giudice penale italiano di disapplicare la normativa sulla prescrizione del reato sul fondamento di una verifica demandata, caso per caso, al giudice stesso, laddove egli accerti che gli atti interruttivi della prescrizione determinano la non punizione delle frodi che conculcano gli interessi finanziari dell’Unione “<em>in un numero considerevole di casi</em>”:</p> <p style="text-align: justify;">Il 01 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.4873, nota come caso <em>Facebook</em>, che si occupa dell’art.13 della legge 47.48 laddove prevede la peculiare circostanza aggravante della diffamazione “<em>a mezzo stampa</em>”. La Corte parte dalla interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata del concetto di “<em>stampa</em>” fornita dalle SSUU nel 2015 in tema di sequestro preventivo, per l’appunto, della stampa: esse hanno esteso alle testate giornalistiche telematiche le garanzie di ascendenza costituzionale ed ordinaria che assistono la tradizionale stampa cartacea. Si tratta di una presa di posizione che, per la Corte, afferisce alla “<em>stampa</em>” e non - più in generale - alla libertà di manifestazione del pensiero, anche laddove questa si estrinsechi attraverso nuovi mezzi informatici e telematici che consentono al pensiero medesimo di viaggiare e di essere diffuso. In sostanza, per la Corte le garanzie peculiari riconosciute dalle SSUU possono afferire solo alla stampa, seppure ampiamente intesa, ma comunque strutturalmente e finalisticamente connotata per tale. Muovendo da queste premesse, la Corte afferma come anche il <em>social network</em> più diffuso, vale a dire <em>Facebook</em>, non è inquadrabile nella nozione di stampa, compendiandosi in un servizio di rete sociale basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione, che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema. La conclusione cui perviene la Corte è che, laddove sia diffuso via <em>Facebook</em> (all’interno di una bacheca) un messaggio diffamatorio, si ha diffamazione aggravata ai sensi dell’art.595, comma 3, c.p., potendo il social network compendiare un “<em>qualsiasi altro mezzo di pubblicità</em>” ivi previsto, ma non anche diffamazione aggravata ai sensi dell’art.13 della legge 47.48, non configurandosi al contrario la circostanza aggravante della diffamazione “<em>a mezzo stampa</em>” ivi prevista.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 marzo esce l’ordinanza della V sezione della Cassazione n.12264 che rimette nuovamente alle SSUU della Cassazione la fattispecie dell’accesso abusivo a sistema informatico o telematico di cui all’art.615.ter chiedendo alla Corte se possa davvero prescindersi dalle finalità perseguite dal soggetto agente che – autorizzato - acceda o si mantenga nel sistema medesimo per l’appunto con finalità ultronee rispetto a quelle oggetto dell’autorizzazione, anche qualora si tratti di un soggetto pubblico, e segnatamente di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio: trattasi di figure che, rivestendo una qualifica pubblicistica, qualora perseguano uno scopo diverso da quello per il quale l’autorizzazione all’accesso o al mantenimento nel sistema è stata loro rilasciata, si rendono protagoniste di uno sviamento di potere che può avere riflessi anche sul crinale penalistico.</p> <p style="text-align: justify;">Il 1° giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 27458 onde, in ossequio ai principi di tassatività e di legalità in materia penale, non è consentito sanzionare una condotta o ritenere sussistente una circostanza che aggravi la pena attraverso un'interpretazione di tipo analogico <em>in malam partem</em>, spettando al legislatore le scelte di natura sanzionatoria e dovendosi quindi rigettare quegli orientamenti interpretativi che, pur se ispirati all'ottenimento di un più efficace contrasto alla diffusione delle droghe a tutela di situazioni di maggiore vulnerabilità per le persone, conducano ad un’estensione delle aggravanti previste per fattispecie analoghe. In particolare, un’aggravante che fa riferimento a “<em>scuole di ogni ordine e grado</em>” quale luogo protetto in ragione dell’età dei soggetti frequentanti, non può essere applicata anche alle università stanti le diversità di sistemi e di principi applicabili alle due diverse realtà; tuttavia, il contesto universitario può far scattare l’aggravante in questione poiché rientrante nella diversa espressione “<em>comunità giovanile</em>” senza, in tal caso, ricorrere al ragionamento analogico.</p> <p style="text-align: justify;">Il 9 giugno esce la sentenza delle SSUU n.28953 che si occupa delle c.d. circostanze indipendenti e del relativo rilievo ai fini del computo del termine prescrizionale; si tratta di quelle circostanze onde la misura della pena viene determinata in modo indipendente rispetto a quella ordinaria del reato. Un problema in particolare si è posto per quelle peculiari circostanze che sono sì indipendenti nel senso anzidetto, ma che in concreto non implicano un aumento di pena superiore ad 1/3, poiché in questo caso è dubbia l’applicazione dell’art.157, comma 2, c.p., che assume rilevanti ai fini del calcolo del termine prescrizionale le sole circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e quelle ad effetto speciale, con aumento di pena per l’appunto superiore ad 1/3, sterilizzando gli effetti prescrizionali di tutte le altre aggravanti e di tutte le attenuanti. Un problema si è posto in particolare per l’art.609 ter, comma 1, c.p., che aggrava il reato di violenza sessuale ex art.609 bis c.p. in modo “indipendente” (si passa da un range tra 5 e 10 anni di reclusione ad un range aggravato tra 6 e 12 anni, con aumento di pena pari ad 1/5, e dunque inferiore ad 1/3), con riguardo in particolare ai fatti di reato commessi prima dell’ottobre 2012, e prima dunque che il problema in questione venisse quanto meno mitigato dall’inclusione di tutti i reati sessuali (ivi compresi quelli qui considerati) nel novero di quelli per i quali il termine di prescrizione è raddoppiato ai sensi dell’art.157, comma 6, c.p. Ad un orientamento più garantista, inteso in questi casi a scongiurare applicazioni della legge penale <em>in malam partem</em> (l’art.157, comma 2, c.p. si riferisce alle sole circostanze ad effetto speciale, e non anche a quelle indipendenti, massime dove l’aumento di pena da esse previsto sia inferiore ad 1/3) si contrappone – fanno registrare le SSUU – un'altra opzione ermeneutica più rigorosa alla cui stregua le circostanze c.d. “indipendenti” sono in realtà comunque circostanze “ad effetto speciale”, che come tali rilevano ai fini del computo del termine prescrizionale; stando a questa presa di posizione, neppure rileverebbe il fatto che l’art.157, comma 2, c.p. richiama l’art.63, comma 3, c.p. e dunque le sole circostanze con pena di specie diversa e quelle ad effetto speciale, e ciò in quanto anteriormente alla riforma del 1984 la dottrina ha sempre ricompreso tra le aggravanti ad effetto speciale tutti i casi in cui l’aumento di pena operava secondo un meccanismo diverso da quello ordinario fino ad 1/3, onde non sarebbe possibile attuare una scomposizione delle circostanze indipendenti, come categoria, distinguendole a seconda della quantità di aggravio di pena da esse prevista, così finendo con lo sconfessarne il prototipo, che in realtà ne prescinde, sulla scorta di una ratio propria ed autonoma che le contraddistingue. Ancora l’indirizzo più rigoroso richiama dal punto di vista sistematico l’art.69, comma 4, c.p., dedicato al giudizio di comparazione e bilanciamento tra le circostanze, che invece annovera esplicitamente le circostanze c.d. indipendenti (con pena determinata in modo appunto indipendente rispetto a quella ordinaria del reato) e che – laddove si abbracciasse la tesi più garantista secondo la quale le circostanze indipendenti non sono circostanze ad effetto speciale – implicherebbe, al cospetto di circostanze indipendenti con aumento inferiore ad 1/3, la inoperatività proprio del bilanciamento di tali circostanze in senso assoluto, non potendo esse essere bilanciate né con quelle (disomogenee) di cui all’art.63, comma 2, c.p. (aumenti o diminuzione frazionati di pena), né con quelle (assunte del pari disomogenee) di cui al successivo comma 3, quali circostanze con pene di specie diversa o circostanze ad effetto speciale “<em>pure</em>” e dunque con aumento superiore ad 1/3. Per le SSUU, nondimeno, va preferito l’indirizzo garantista, onde le circostanze c.d. indipendenti non rilevano ai fini del computo del termine prescrizionale. La Corte premette un discorso di tipo storico, andando a scandagliare la disciplina delle circostanze siccome originariamente prevista dal codice penale del 1930 e poi mutata per effetto del decreto legge 99.74 (che ha modificato l’art.69, comma 4) e della legge 400.84 (che ha modificato l’art.63, comma 3): l’originario art.63, comma 3, annoverava le circostanze “indipendenti” come ora più non fa e se l’originario art.69, comma 4, le escludeva dal bilanciamento; in origine dunque le circostanze “<em>indipendenti</em>” e quelle “<em>autonome</em>” costituiscono due categorie di circostanze che convivono armonicamente, entrambe rilevando sia sul crinale del computo della pena (art.63) sia sul versante del bilanciamento (art.69), venendo più in specie escluse proprio dal sistema del bilanciamento (art.69, comma 4); due categorie di circostanze assunte dunque dal legislatore penale quali <em>species</em> di un unico <em>genus</em>, quello delle circostanze ad efficacia speciale, allora non trovante una precisa definizione. Nella nuova versione invece – sottolinea il Collegio – l’art.63, comma 3, c.p. si riferisce alle sole circostanze “ad effetto speciale”, circoscrivendo la ridetta categoria senza richiamare quella delle circostanze “indipendenti”, e dunque dando la preferenza ad un sistema quantitativo ed aritmetico (la pena prevista per il reato base viene elevata in misura superiore ad 1/3) piuttosto che ad un sistema maggiormente qualitativo (la pena prevista viene determinata in modo autonomo ed indipendente rispetto a quella del reato base): questa evenienza ha fatto alfine dubitare della persistente autonomia sistematica e concettuale delle circostanze “indipendenti”, che potrebbero anche essere sparite in quanto tale per il relativo convogliare, laddove vi sia previsione di pena superiore ad 1/3, nella categoria delle circostanze ad effetto speciale, mentre laddove vi sia previsione di pena inferiore ad 1/3, nella categoria delle circostanze ordinarie, con l’ulteriore conseguenza onde, nella seconda ipotesi (previsione di pena maggiorata inferiore ad 1/3), non varrebbe più il richiamo operato dall’art.157, comma 2, del codice penale che, a fini di determinazione del tempo necessario a prescrivere, dà rilevanza alle sole circostanze ad effetto speciale (aumento di pena superiore ad 1/3), oltre che a quelle con pena di specie diversa. Proprio muovendo da questa analisi le SSUU concludono nel senso onde – configurando l’art.157, comma 2, c.p. una eccezione alla regola generale della irrilevanza delle circostanze a fini di computo del termine prescrizionale – non è ammessa una deroga <em>in malam partem</em> rispetto alle fattispecie esplicitamente previste dal legislatore (aggravanti che prevedono una pena di specie diversa rispetto a quella del reato base ed aggravanti ad effetto speciale, come tali implicanti aumento di pena superiore ad 1/3), che non sono dunque suscettibili di interpretazione estensiva, né tampoco analogica, giusta incidenza ai fini del computo della prescrizione anche delle circostanze c.d. “indipendenti”, che non rientrano in alcuna delle 2 categorie eccezionali previste dalla legge; corollario di questa affermazione è che le circostanze aggravanti “indipendenti” di cui all’art.609 ter, comma 1, c.p. non spiegano rilevanza al fine di quantificare i termini prescrizionali.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 giugno esce la sentenza delle SSUU n.31345, che si occupa della fattispecie di furto in abitazione di cui all’art.624.bis c.p., ed in particolare del concetto ivi previsto di “<em>privata dimora</em>”, al fine di verificare se un esercizio commerciale o comunque un luogo di lavoro aperto al pubblico può essere per l’appunto considerato una “<em>privata dimora</em>” in virtù di una interpretazione estensiva o se in simili ipotesi si faccia piuttosto luogo ad una inammissibile applicazione analogica. La Corte muove dal rilievo onde di privata dimora parla tanto il codice di procedura penale (art.266, comma 2) quanto – in molteplici occasioni – il codice penale sostanziale, come nelle ipotesi di cui agli articoli 52, comma 2, 614, 615, 615.bis, 628, comma 3, n.3.bis: la giurisprudenza si orienta, nell’interpretare tali fattispecie, prevalentemente in modo estensivo sul presupposto onde il concetto di “<em>privata dimora</em>” appare più ampio di quello di abitazione. Perno di tale concetto è il <em>ius excludendi</em>, genericamente inteso, dell’interno di un luogo da parte del relativo titolare, dacché egli vi si trattiene per compiere (quand’anche transitoriamente e contingentemente) atti della vita privata, tra i quali va annoverata anche l’attività lavorativa di natura professionale, commerciale o imprenditoriale. Le SSUU sconfessano tuttavia tale maggioritaria giurisprudenza dal momento che tanto il dato letterale, quanto la <em>ratio</em> (in ottica storico-sistematica) dell’art.625.bis ne impediscono una interpretazione ampliativa (con effetti incriminatori) di tale foggia: per la Corte, muovendo già dal tenore letterale dell’art.625.bis c.p., quando la presenza di un soggetto in un dato luogo – nell’ottica specifica del compimento di atti della vita privata - debba assumersi del tutto occasionale, difettando un rapporto stabile tra il luogo e l’individuo considerati, non può parlarsi di privata dimora, considerato anche come – dal punto di vista etimologico – la parola “<em>dimora</em>” richiami indefettibilmente il soggiorno, la permanenza o comunque il trattenimento in un dato luogo. Rilevante per le SSUU è anche il profilo della “<em>destinazione</em>” di un luogo a privata dimora, che reca seco la necessità che dal punto di vista cronologico sia appunto “<em>privata dimora</em>” il luogo in cui stabilmente si compiono atti della vita privata per volontà di chi tale destinazione ha inteso imprimere a quel luogo; peraltro la stessa giurisprudenza costituzionale, rammenta la Corte, interpreta la libertà di domicilio di cui all’art.14 Cost. quale diritto di un soggetto di ammettere od escludere terzi da un determinato luogo in una con il diritto alla riservatezza su quanto tale soggetto compie in quel luogo (e che in qualche modo fonda il <em>ius excludendi</em> ridetto). La conclusione, più garantista, cui pervengono le SSUU è dunque che non compendiano privata dimora ai fini del furto in abitazione gli esercizi commerciali e gli altri luoghi di lavoro aperti al pubblico, configurando tuttavia una eccezione per quelle aree, poste all’interno di tali luoghi, che siano riservate al soggetto passivo del reato, vale a dire quei luoghi – anche destinati ad attività lavorativa o professionale – nei quali si svolgono in modo non occasionale atti della vita privata, e che non sono aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, configurando aree riservate (sul modello dei bagni privati, dei retrobottega, degli spogliatoi e simili).</p> <p style="text-align: justify;">L’8 settembre esce la sentenza delle SSUU n.41210 che, in tema di accesso abusivo a sistema informatico o telematico, affermano il principio di diritto onde integra il delitto previsto dall’art. 615-ter comma 2 n. 1 c.p. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un servizio informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee e comunque diverse rispetto a quelle per le quali soltanto la facoltà di accesso gli è attribuita. Per la Corte, non esce dall’area di applicazione della norma incriminatrice la situazione nella quale l’accesso o il mantenimento nel sistema informatico dell’ufficio a cui è addetto il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, seppur avvenuto a seguito di utilizzo di credenziali proprie dell’agente ed in assenza di ulteriori espressi divieti in ordine all’accesso ai dati (trattandosi dunque di accesso formalmente lecito ed autorizzato) si connoti precipuamente, tuttavia, per l’abuso delle proprie funzioni da parte del soggetto agente, facendo luogo ad uno sviamento di potere e dunque ad un uso del potere medesimo in violazione dei doveri di fedeltà che ne devono indirizzare l’azione nell’assolvimento degli specifici compiti di natura pubblicistica a lui demandati. Si è autorevolmente chiarito da parte della dottrina – prosegue la Corte - che sotto lo schema dell’eccesso di potere si raggruppano tutte le violazioni di quei limiti interni alla discrezionalità amministrativa che, pur non essendo consacrati in norme positive, sono inerenti alla natura stessa del potere esercitato, lo sviamento di potere configurandosi come una delle tipiche manifestazioni di un tale vizio dell’azione amministrativa e ricorrendo allorché l’atto non persegue un interesse pubblico, ma un interesse diverso (di un privato, del funzionario responsabile, ecc.): si ha dunque "<em>sviamento di potere</em>" quando nella propria concreta attività il pubblico funzionario persegue una finalità diversa da quella che gli assegna in astratto la legge sul procedimento amministrativo (art. 1, legge n. 241 del 1990). Muovendo da questi presupposti, le SSUU assumono di dover privilegiare l’interpretazione proposta da una delle sentenze che hanno di fatto concretizzato il contrasto di giurisprudenza segnalato dalla Sezione rimettente e, in sostanza, fatto proprio dall’ordinanza di rimessione, laddove è stato evidenziato il principio di cui all’art. 1 della legge n. 241 del 1990 onde l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità, trasparenza, secondo le modalità previste dalla legge 241.90 medesima e dalle disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario; in proposito, la Corte rammenta come i principi di cui alla legge n. 241 del 1990 abbiano trovato progressive specificazioni nelle disposizioni emanate in tema di organizzazione del pubblico impiego, fra le quali assume speciale rilievo la definizione legislativa del "<em>Codice di comportamento</em>" dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni ad opera dell’art. 54 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Testo unico sul pubblico impiego), come sostituito dall’art. 1, comma 44, legge 6 novembre 2012, n. 190, e del successivo d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, regolamento contenente appunto, in attuazione del citato art. 54 del T.U. sul pubblico impiego, il vigente Codice di comportamento dei dipendenti pubblici. I principi cui si è fatto riferimento trovano la loro genesi – rammenta la Corte - nelle norme di cui agli artt. 54, 97 e 98 della Costituzione: disposizioni, queste, che chiedono l’adesione del dipendente ai "<em>principi dell’etica pubblica</em>", intesa come locuzione di sintesi dei valori propri della deontologia dell’impiego pubblico, al fine di porre il funzionario nella condizione di servire gli amministrati imparzialmente e con "<em>disciplina ed onore</em>"; la violazione dei doveri d’ufficio, attraverso le varie tipologie di condotta idonee a produrre uno sviamento della prestazione lavorativa dai canoni di fedeltà ed esclusività del servizio, è stata ripetutamente oggetto della giurisprudenza penale, amministrativa e contabile, che ha posto al centro la prossimità teleologica tra i quei principi, considerati nelle sentenze come espressivi di valori cardine del pubblico impiego, proiezioni del legame tra funzionario e pubblica amministrazione, e tra questa e la comunità degli amministrati. La Corte rammenta ancora come si sia assunto che ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione (viene richiamata la sentenza delle SSUU n.155 del 2011). E’ su questa base “<em>sostanzialistica</em>” che le SSUU finiscono con l’affermare che integra il delitto previsto dall’art. 615-ter comma 2 n. 1 c.p. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un servizio informatico o telematico protetto (nel caso di specie, il Re.Ge., ovvero il Registro delle notizie di reato, tenuto presso ogni Procura della Repubblica) al fine di delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel pertinente sistema per ragioni ontologicamente estranee e comunque diverse rispetto a quelle per le quali soltanto la facoltà di accesso gli è attribuita.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione che ribadisce la responsabilità per diffamazione ex art.595 c.p. – e non già ai sensi dell’art.57 c.p. (omesso controllo) - del direttore responsabile di un periodico <em>on line</em> nel caso in cui l’articolo lesivo dell’onore e della reputazione di terzi sia sottoscritto da un autore che si è celato dietro uno pseudonimo, a condizione che dalle circostanze generali possa dedursi che il direttore abbia fornito un meditato consenso alla pubblicazione del testo e abbia, così, aderito al relativo contenuto diffamatorio.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 febbraio esca la sentenza della sezione V della Cassazione n.7885 che si occupa di un caso in cui un <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=7%3d0a9VD%26H%3d3c%26w%3dX6dEY%26q%3dU0a5YG%26Q%3djN3L_tubv_55_1wUt_AB_tubv_406Sy.8rNkN3KgArQuNrVk5.rP_tubv_40wAyM_1wUt_AB3Y_1wUt_ABBdIfBbGf5b_1wUt_ABSOxPk8r7pI_xJnCwA_rOk8nCl7_n5_wKvC9Ec_8nH_r51Nq7x_9j9_pQcLm7_k_Mx9k5u_0wLjJv9_4J_hOwAt5uA_pIw_A_fCoBcGjVkIwA.jNvH_tubv_504Po_MxQt7n_NSwY_Yfhnm_p96On93PgL_1wUt_AbwNv_Ig8rQo_LZyR_Wm5j7cAo5rH_tubv_4Z4Po_7jIr5rCp_LZyR_Wmjgk%26m%3d%26Eu%3dWCY0c">quotidiano <em>online</em> ha pubblicato la notizia di un parroco che guarda i social durante un funerale, assumendo come la fattispecie non configuri una diffamazione</a>. Per la Corte, più in particolare, <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=4%3d6YKS0%26F%3dEZ%26s%3dVHaAW%263%3dR6YGVC%26O%3dvKyJ_6rXt_G2_wugq_70_6rXt_F72QA.5nLwKyIs8nO7KnTw2.nN_6rXt_F7s9AJ_wugq_70EV_wugq_70NaEdNYCdGY_wugq_70eLtNw5n52F_tHz0s9_4Lg6z0h5_z2_sI805Co_5jF_42wL34t_7v6_lOoIi5_w_Jt7w2q_89IfH86_zH_tLs962q9_2Fs_9_r0k0oDfTwFs9.vKrF_6rXt_G7zN1_JtO64j_LetU_Wrejk_262Mz6yNsI_wugq_7Z9Kr_Gs5nO1_IVwd_Ti2f5o912nF_6rXt_FWzN1_4fG42nA2_IVwd_Tihsh%26i%3d%26C7%3dT9WLZ">la pubblicazione di un articolo su un quotidiano online, con video allegato, riguardante un fatto rispondente al vero, non configura appunto diffamazione. Sotto altro profilo, per la Corte il direttore della testata online non può ritenersi responsabile ex art. 57 c.p. in tema di reati commessi col mezzo della stampa periodica, non potendosi trascurare in via più generale sul punto come </a>- secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità - il direttore di un periodico non possa essere assunto responsabile per l'omesso controllo sul contenuto delle pubblicazioni ai sensi dell'art. 57 cod. pen. (vengono richiamati i precedenti della V sezione n. 10594/13, Montanari; n. 44126/11, Hannaui; n. 35511/10, Brambilla).</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.8090, che – scandagliando un caso in cui una lite familiare degenera in omicidio, quest’ultimo venendo perpetrato sulla soglia di una privata abitazione – afferma appartenere alla “<em>privata dimora</em>” ai fini appunto della legittima difesa domiciliare (art.52, comma 2, c.p.) anche la soglia dell’abitazione onde, nel concorso degli altri requisiti <a href="http://info.giuffre.it/e/t?q=9%3d2WIX6%26D%3dCe%26o%3dTFW2a%261%3dW2WEa9%26M%3dtPuH_4wTr_E7_ssev_38_4wTr_DBxO9.0jJuPuGqCjM5PjRu7.jL_4wTr_DBo79O_ssev_38Ca_ssev_38LfAbLd9bGY_ssev_38XAhA6PjEm_0j8qOb_61Ij5uHj34A_sAqJuJm_JfDx7_oGBEpFq_0j_32LbJ6Ao7zVb_3xHb_H4Ew367_eAyKs3_mJd0q_Hb_K1CmAm_0fDx_7cA671A1Jf.06Im_JcyQ_UrQuE_5KvJoA_ssev_46PAH_FqStDqPu74_NRub_X7M6I_n7pE7b3mvE_4wTr_E0fEmEm_JcyQ_THQuE_o7nHmEhF_4wTr_E0E7S%260%3d%26jK%3dEZ5WF">(necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta) la proporzionalità tra offesa e difesa è presunta.</a> La Corte precisa in primo luogo che la Corte territoriale ha escluso in radice – nel caso di specie - la possibilità di applicazione della legittima difesa "<em>domiciliare</em>" con l'affermazione onde "<em>durante tutto lo svolgimento della discussione, fino al suo epilogo fatale, M. si mantenne sulla soglia della porta di ingresso perché validamente fronteggiato da M., dalle sue figlie e da sua moglie, sicché, e per conseguenza, l'omicidio non sarebbe avvenuto</em> ''nei casi previsti dall'art. 614, comma 1 e 2 cod. pen<em>." e "nei luoghi ivi indicati"</em>. Afferma la Cassazione al contrario – ma qui procedendo comunque “<em>in bonam partem</em>” - come anche gli spazi condominiali rientrino nelle "<em>appartenenze</em>" dell'abitazione, ai sensi dell'art. 614 comma 1, cod. pen. La medesima Corte, non a caso, ha già affermato in tema di violazione di domicilio che rientra nella nozione di "<em>appartenenza</em>" di privata dimora il pianerottolo condominiale antistante la porta di un'abitazione, ritenendo, quindi, consumato e non solo tentato il reato (di violazione di domicilio appunto) da parte di chi si introduca, <em>invito domino</em>, all'interno di un edificio condominiale sul pianerottolo e avanti alla soglia dell'abitazione di uno dei condomini, avente, come gli altri, diritto di escludere l'intruso (Sez. 5, n. 12751/98, Palmieri); in precedenza è stato ritenuto che anche l'androne di uno stabile integra il concetto di appartenenza, ad esso estendendosi la tutela prevista dalla legge per la violazione di domicilio (Sez. 2, n. 6962/87, Marocchi); una più risalente sentenza aveva specificamente ritenuto sussistente il reato (violazione di domicilio) in chi si introduce o si trattiene sulla soglia dell'abitazione altrui, contro la volontà di chi abbia il diritto di escluderlo (Sez. 5, n. 1067/81, De Sena).</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 febbraio viene pubblicata la sentenza delle SSUU della Cassazione n.8770 che si occupa della responsabilità penale del medico, a titolo colposo, per morte o lesioni del paziente, e della nuova causa di non punibilità di cui all’art.590 <em>sexies</em> c.p. della legge c.d. Gelli-Bianco n.24.17. Per la Corte, per quanto qui di interesse, il canone intepretativo posto dall’art.12, comma 1, delle preleggi prevede la valorizzazione del significato immediato delle parole, di quello derivante dalla loro connessione nonché della “<em>intenzione del legislatore</em>”: per la Corte da tale disposizione – che va peraltro completata con la verifica di compatibilità con i principi generali che regolano la ricostruzione degli elementi costitutivi dei precetti (massime se penali) – si evince un solo vincolante divieto per l’interprete, che è quello riguardante l’andare “<em>contro</em>” il significato delle espressioni usate, con una modalità che sconfinerebbe nell’analogia, non consentita nella interpretazione del comando penale. Interessante il passaggio in cui le SSUU affermano che, pur non essendo consentito l’andare “<em>contro</em>” il significato delle espressioni usate dal legislatore, gli è invece consentito andare “<em>oltre</em>” la letteralità del testo: un passaggio in cui la Corte sembra voler superare il tenore letterale senza tuttavia ancora giungere all’analogia, ma che viene parzialmente rettificata laddove essa afferma che l’opzione ermeneutica deve essere comunque in linea con i canoni di cui all’art.12 delle preleggi, con un “<em>andar oltre</em>” (e non comunque “<em>contro</em>”) che – a fronte di un testo che lascia aperte più soluzioni (e che sembra dunque rimanere l’imprescindibile punto di riferimento dell’interprete) – selezioni l’unica opzione ermeneutica plausibile perché compatibile con il principio di prevedibilità del comando; tale opzione ermeneutica si configura allora come il risultato di uno sforzo che si rende necessario al giudice per giungere ad un risultato costituzionalmente adeguato, così candidandosi a far luogo - al cospetto di un contrasto maturato tra le sezioni semplici – al “<em>diritto vivente</em>” di pertinenza nella materia scandagliata. Nella sentenza si fa anche un rimarchevole riferimento alla distinzione tra colpa grave e colpa lieve, presente nel Decreto Balduzzi (con qualche critica in termini di tassatività della pertinente fattispecie) e non riproposta nella legge Gelli-Bianco: per la Corte, la mancata evocazione esplicita della colpa lieve da parte del legislatore del 2017 (rispetto a quello del 2012) non preclude una ricostruzione della norma che ne tenga comunque conto, sempre che ciò sia espressione di una ratio compatibile con l’esegesi letterale e sistematica del comando espresso dall’art.590. sexies, cosa che la Corte evince dalla valorizzazione dell’art.2236 c.c. (sulla scia della stessa più recente giurisprudenza penale a sezioni semplici), cui va annessa valenza di principio di razionalità e di regola di esperienza alla quale attenersi nel valutare l’addebito di imperizia al medico, qualora il caso concreto ad esso sottoposto imponga la soluzione di problemi di particolare complessità tecnica, ovvero qualora si versi in situazioni di emergenza.</p> <p style="text-align: justify;">Il 01 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.9427 che si occupa della circostanza aggravante di cui all’art.577, comma 1, n.1 c.p. onde si applica l’ergastolo laddove un omicidio sia stato perpetrato ai danni di un “<em>discendente</em>”. Si tratta di una norma che fa riferimento ai soli figli legittimi e che per la Corte non appare estendibile ai figli adottivi, come appunto nel caso sottoposto al relativo scandaglio.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.11075 che, in tema di illecito accesso al sistema informatico richiama le recenti Sezioni unite (Sez. U , n. 41210 del 18/05/2017, <em>Savarese</em> ) laddove hanno dato risposta affermativa al quesito se integri o meno il delitto previsto dall'art. 615-ter, comma 2, n. 1, c.p. la condotta del soggetto abilitato all'accesso per ragioni di ufficio che, non violando le condizioni ed i limiti risultanti dalle prescrizioni impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne oggettivamente l'accesso, acceda o si mantenga nel sistema per scopi e finalità estranei o comunque diversi rispetto a quelli per i quali la facoltà di accesso gli è attribuita. Si tratta – precisa la Corte - di rimeditazione di precedente pronuncia delle stesse Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 4694 del 27/10/2011 - dep. 07/02/2012), che aveva risolto un contrasto di giurisprudenza ritenendo che non integrasse il reato la condotta di chi, avendo titolo per accedere al sistema, se ne fosse avvalso per finalità estranee a quelle di ufficio. In particolare deve - per effetto di tale <em>revirement</em> - ritenersi sussistente l'illiceità penale della condotta del soggetto che abbia effettuato - come nel caso di specie - un ingresso nel sistema telematico con fini palesemente contrari agli interessi - anche patrimoniali - del titolare del sistema informatico stesso.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 13802 secondo cui Non è possibile applicare al convivente di fatto, imputato per lesioni nei confronti del partner, l’aggravante di cui all’art. 577, comma 2, c.p., facendo riferimento detta disposizione, nel momento in cui è stata commessa la condotta, soltanto allo status di coniuge e non essendo consentito estendere con interpretazione analogica la portata di una norma penale sostanziale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 14001 onde in tema di pornografia minorile, la sussistenza del reato di cui all'art. 600 ter c.p., comma 3, deve essere esclusa nel caso di semplice utilizzazione di programmi di <em>file</em> <em>sharing</em> che comportino nella rete internet l'acquisizione e la condivisione con altri utenti dei <em>files</em> contenenti materiale pedopornografico, solo quando difettino ulteriori elementi indicativi della volontà dell'agente di divulgare tale materiale, anche sotto il profilo dell'individuazione del dolo eventuale, desumibile dall'esperienza dell'imputato e dalla durata nel tempo del possesso di materiale pedopornografico, dall'entità numerica del materiale, e dalla condotta, già illecita ex art. 600 quater c.p., connaturata da accorgimenti volti alla difficoltà di individuazione dell'attività</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 aprile esce la sentenza della Corte Costituzionale in tema di procedimento di messa alla prova degli adulti. In particolare, La corte ritiene inammissibile la questione prospettata in quanto il Giudice <em>a quo</em> non avrebbe valutato il ricorso all’analogia per sanare una ritenuta mancanza della disciplina processuale. Pur in assenza di una specifica disposizione in tal senso, ai soli fini della decisione sulla richiesta dimessa alla prova, il Giudice potrebbe infatti prendere visione degli atti del fascicolo del pubblico ministero, avvalendosi della possibilità (già ammessa dalla giurisprudenza della Cassazione nei casi di richiesta di un rito speciale presentata nell’udienza di comparizione a seguito di citazione diretta ex art. 555 c.p.p.) di una applicazione analogica dell’art. 135 del D.Lgs. n. 271 del 1989, il quale, con riferimento al patteggiamento, consente al giudice di accedere al fascicolo del p.m. per decidere sulla richiesta di applicazione della pena rinnovata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Né v’è ragione – non dovendosi procedere al dibattimento - di impedire al giudice la conoscenza degli atti contenuti in detto fascicolo necessaria ai soli fini della decisione sulla richiesta dimessa alla prova, poiché il fatto che ciò non sia espressamente previsto non significa che sia vietato.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 23160 onde, in tema di porto abusivo di armi, il discrimine con il mero trasporto non punibile è da rinvenirsi nell’immediata disponibilità dell’oggetto incriminato. Ne deriva che si realizza mero trasporto tutte le volte in cui l’arma non può essere con facilità ed immediatezza estratta e usata con finalità di offesa.</p> <p style="text-align: justify;">Il 3 luglio esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 29847 onde nel caso in cui la cessione di un credito ipotecario precedentemente insorto avvenga successivamente alla trascrizione del provvedimento di sequestro o di confisca di prevenzione del bene sottoposto a garanzia, tale circostanza non è in quanto tale preclusiva dell'ammissibilità della ragione creditoria, né determina di per sè uno stato di mala fede in capo al terzo cessionario del credito, potendo quest'ultimo dimostrare la buona fede. Secondo la Corte, è in primo luogo da considerare la puntuale osservazione sul dato normativo per il quale la disciplina prevista dall'art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011 appare testualmente riferita al credito, oggettivamente considerato, e non alla posizione creditoria del terzo. L'anteriorità rispetto al sequestro è in effetti menzionata al comma 1 quale attributo del diritto di credito; e al credito sono associate le ulteriori condizioni dell'impossibilità di soddisfacimento su beni diversi da quelli confiscati, alla lett. a), e dell'assenza di strumentalità all'attività illecita, alla lett. b). Se già questi caratteri appaiono coerenti con una visione nella quale l'eventuale cessione risulta ininfluente rispetto alla sussistenza o meno delle condizioni per l'ammissibilità del credito, va ulteriormente notato che di particolare rilevanza è il riferimento del comma 1 dell'articolo commentato ai diritti reali di garanzia gravanti sul bene confiscato, che in concreto pongono in rapporto il terzo creditore, e in quanto tale titolare di siffatti diritti, con il bene. Il requisito dell'anteriorità è specificamente previsto anche con riguardo a tali diritti; e, a questi fini, i diritti tutelati sono indicati in quelli «costituiti in epoca anteriore al sequestro». Il termine di valutazione dell'anteriorità rispetto al sequestro è dunque espressamente indicato nel momento della costituzione del diritto reale collegato al credito. E, in presenza di questa chiara espressione normativa, l'attribuzione della condizione dell'anteriorità anche alla successiva evenienza della cessione del credito presupporrebbe un'interpretazione estensiva, o addirittura analogica come rilevato in talune pronunce di legittimità, tale da richiedere ulteriori elementi indicativi dell'assimilabilità della cessione del credito alla costituzione dello stesso; laddove invece gli elementi disponibili sono di segno contrario.</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 luglio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 36742 che ribadisce come la natura sessuale dell'atto deriva dalla sua attitudine ad essere oggettivamente valutato, secondo canoni scientifici e culturali, come erotico, idoneo cioè a incarnare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dal fatto che questo sia lo scopo dell'agente. Tale valutazione oggettiva costituisce il necessario presupposto del diritto alla libertà sessuale dell'individuo, ne definisce anche contenuto e ampiezza, conformandone, ad un tempo, l'oggetto mediante l'incessante osmosi con la scienza ed i mutevoli costumi sociali. Secondo la scienza non solo medica, ma anche psicologica, antropologica e sociologica e, comunque, in base al comune sentire, i genitali, i glutei e il seno oggettivamente esprimono, più di ogni altra parte del corpo ed in modo più naturale, diretto ed esplicito, la sessualità. Il loro volontario toccamento esprime, con rara immediatezza, la natura sessuale del gesto, sicchè, indipendentemente dalle intenzioni del suo autore (del tutto irrilevanti ai fini della sussistenza del reato), quando ciò avvenga senza il consenso di chi lo subisce o con l'inganno, integra il delitto di cui all'art. 609-bis, c.p..</p> <p style="text-align: justify;">La Corte ribadisce poi che l'atto sessuale cui l'art. 609-bis c.p., fa riferimento deve comunque coinvolgere la corporeità sessuale del soggetto passivo il quale, stabilisce l'art. 609- bis, deve essere costretto "a compiere o subire atti sessuali". Tale requisito, infatti, distingue l'atto sessuale propriamente detto da tutti gli altri atti che, sebbene significativi di concupiscenza sessuale, siano tuttavia inidonei ad intaccare la sfera della sessualità fisica della vittima, in quanto comportano esclusivamente un'offesa alla libertà morale o al sentimento pubblico del pudore, come avviene nel caso dell'esibizionismo, dell'autoerotismo praticato in presenza di altri costretti ad assistervi o del "voyeurismo".</p> <p style="text-align: justify;">La nozione di atti sessuali attualmente contemplata dal codice penale comprende in sè entrambi i concetti di congiunzione carnale e atti di libidine in precedenza considerati dal legislatore, con la conseguenza che devono ritenersi estranei a tale nozione tutti gli atti o comportamenti che, pur essendo manifestazione di istinto sessuale, non si risolvano in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo o comunque non coinvolgano la corporeità sessuale di quest'ultimo. Va, altresì, precisato che i reati di violenza sessuale attualmente considerati dal codice penale offendono la libertà personale intesa come libertà di autodeterminazione della propria corporeità sessuale e non già la libertà morale della persona oppure il pudore e l'onore sessuale come specificazioni della moralità pubblica e del buon costume.</p> <p style="text-align: justify;">Da tale distinzione si ricava l'ulteriore conclusione che l'esibizionismo o il compimento di atti di masturbazione in presenza di terzi costretti ad assistervi, senza che vi sia alcun contatto con i genitali o le zone erogene della persona presente, non consentono di ritenere configurabile la violenza sessuale quanto, piuttosto, il delitto di atti osceni o quello di violenza privata, sempre che ne sussistano le condizioni. Il voyeurismo, invece, può essere ricondotto ad una ipotesi di molestia nei confronti delle persone oggetto della morbosa curiosità, ma non integra violenza sessuale nei confronti delle stesse.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 40470 che, nell’ambito dei reati informatici, traccia in modo chiaro la definizione di sistema informatico tutelato dal diritto penale, con la conseguenza dell’inapplicabilità di sanzioni penali a tutte quelle azioni commesse verso apparecchi non riconducibili a tale definizione. In particolare, ciò che viene in rilievo, per definire la nozione di sistema informatico, è l'attitudine della macchina (hardware) ad organizzare ed elaborare dati, in base ad un programma (software), per il perseguimento di finalità eterogenee. Nella definizione che qui interessa, dunque, alla funzione di registrazione e di memorizzazione dei dati, anche elettronica, si affianca l'attività di elaborazione e di organizzazione dei dati medesimi.</p> <p style="text-align: justify;">Il 1° ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 43264 che definisce l’elemento oggettivo del delitto di devastazione. In particolare, la Corte spiega come il concetto di devastazione, ai fini penalistici, consista in qualsiasi azione, posta in essere con qualsivoglia modalità, produttiva di rovina, distruzione o anche di un danneggiamento - comunque complessivo, indiscriminato, vasto e profondo - di una notevole quantità di cose mobili o immobili, tale da determinare non solo un pregiudizio del patrimonio di uno o più soggetti, e con esso il danno sociale conseguente alla lesione della proprietà privata, ma anche un’offesa e un pericolo concreti dell’ordine pubblico, inteso come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, cui corrispondono, nella collettività, l’opinione e in senso della tranquillità e della sicurezza.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 50949 secondo la quale, dal momento che nessuna norma sanziona penalmente l’uso non autorizzato di marchi o segni distintivi autentici, il fatto rileva solo come illecito civile, atteso che, per il divieto di analogia in materia di norme incriminatrici, non può ritenersi configurabile né il reato previsto dall’art. 474 c.p., né il reato previsto dall’art. 471 c.p., sicché non è ammissibile la confisca di detti prodotti.</p> <p style="text-align: justify;">Il 27 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 53200 onde la stanza di ospedale non è qualificabile come luogo di privata dimora in quanto il paziente non può controllare l’accesso, essendo per natura un luogo accessibile ad una pluralità di persone; di conseguenza, non può applicarsi la relativa aggravante in caso di furto commesso in detto luogo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 6752 che afferma la non equiparabilità di un ciclomotore a un motoveicolo ai fini dell’applicazione della sanzione di cui all’art. 73 d.lgs. 159/11.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 7653 che ribadisce il concetto di privata dimora ricordando come rientrano nella nozione di privata dimora ex all’art. 624-bis, comma 1, c.p. solo i luoghi ove, non essendo aperti al pubblico né accessibili liberamente da terzi, si svolgono abitualmente atti della vita privata. Al contrario, un ristorante, essendo un’attività commerciale, è per sua natura un luogo usualmente accessibile da una pluralità di soggetti senza una preventiva autorizzazione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 22 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 8032 onde, il discrimine tra l’arma impropria (il cui possesso è punibile quale porto di oggetti atti ad offendere ai sensi dell’art. 4 l. n. 110/1975) e quella propria è costituito dalla presenza delle caratteristiche tipiche delle armi bianche corte quali appunto i pugnali o gli stiletti, e cioè la punta acuta e la lama a due tagli.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>In cosa consiste la c.d. interpretazione estensiva e cosa la differenzia dall’analogia?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>ogni <strong>disposizione normativa</strong> ha un proprio <strong>tenore letterale</strong>, ovvero una propria <strong>cornice descrittiva</strong> sulla quale si innesta <strong>l’attività dell’interprete</strong>, che opera con <strong>criterio storico</strong> (la storia della norma), <strong>teleologico</strong> (lo scopo della norma) e <strong>sistematico</strong> (i rapporti con le altre norme del sistema);</li> <li>il <strong>tenore letterale</strong> può essere <strong>univoco</strong>, e dunque esprimere <strong>un solo possibile significato</strong>;</li> <li>il tenore letterale può essere <strong>plurivoco o plurisenso</strong>, palesandosi compatibile con <strong>più significati possibili</strong>;</li> <li>se <strong>a valle</strong> dell’interpretazione si attribuisce al tenore letterale della norma <strong>uno</strong> dei relativi <strong>significati possibili</strong>, si è ancora nel campo della <strong>interpretazione</strong>;</li> <li>il <strong>testo letterale</strong> ha dei <strong>significati possibili</strong>, e se <strong>l’interpretazione-risultato</strong> è <strong>estensiva</strong> la norma viene assunta applicabile a <strong>tutti i casi in qualche modo riconducibili</strong> a <strong>ciascuno</strong> di tali <strong>significati possibili</strong>, comprendendo nella relativa <strong>egida precettiva</strong> i casi “<strong><em>in penombra</em></strong>” rispetto al <strong>significato certo</strong> espresso dalla disposizione;</li> <li>se <strong>l’interpretazione-risultato</strong> è <strong>restrittiva</strong>, la norma viene invece assunta applicabile <strong>soltanto</strong> ad <strong>alcuni</strong> (e non a tutti) i <strong>casi in qualche modo riconducibili</strong> a <strong>ciascuno</strong> dei <strong>significati possibili</strong> della norma, escludendo dalla relativa <strong>egida precettiva</strong>, per primi, proprio i <strong>casi “<em>in penombra</em>”</strong> rispetto al <strong>significato certo</strong> espresso dalla disposizione;</li> <li>vi è anche chi in <strong>dottrina</strong> isola una <strong>interpretazione “<em>dichiarativa</em>”</strong>, ovvero quella che <strong>conferma <em>ex post</em></strong> – in termini di <strong>significati</strong> e di <strong>casi</strong> ad essi riconducibili - <strong>quanto affiora</strong> da una <strong>prima sommaria indagine</strong> sulla norma, rivelandosi in tal modo <strong>né estensiva, né restrittiva</strong>: se ne contesta tuttavia la <strong>reale utilità pratica</strong>;</li> <li>si resta dunque nell’ambito della <strong>interpretazione</strong>, quand’anche <strong>estensiva</strong>, laddove – data <strong>l’articolazione dell’enunciato normativo</strong> ed il <strong>significato ontologico delle parole</strong> che lo compongono – <strong>non si supera</strong> comunque l’<strong>invalicabile limite</strong> del <strong>significato letterale</strong> delle parole stesse, in termini di <strong>possibile espansione del linguaggio</strong> che esse compendiano: dietro un <strong>significato certo</strong> perché <strong>apparente</strong>, ve ne è <strong>uno nascosto</strong> che viene <strong>fatto affiorare</strong>, e che tuttavia <strong>non è meno certo</strong>, onde anche i casi ad esso ricondotti possono essere <strong>disciplinati</strong> dalla <strong>norma interpretata</strong>;</li> <li>quando un caso <strong>non rientra in nessuno</strong> dei <strong>possibili significati</strong> in qualche modo <strong>annettibili</strong> al <strong>tenore letterale</strong> della norma interpretata, applicare tale norma <strong>non significa più interpretare</strong>, ma fare <strong>applicazione analogica</strong>;</li> <li>in sostanza, il caso in questione <strong>non è disciplinato</strong> dalla norma in questione perché <strong>non riconducibile</strong> ad <strong>uno dei possibili significati</strong> espressi dalla norma stessa, stando alle <strong>parole</strong> con le quali essa è formulata, e tuttavia <strong>gli si applica</strong> la norma – in via <strong>integrativa</strong> - per <strong>colmare una lacuna</strong> del sistema, stante l’assunta <strong>identità di ratio</strong> (c.d. <strong><em>eadem ratio</em></strong>);</li> <li>in sostanza, si ritiene che <strong>se il legislatore avesse disciplinato</strong> il caso in questione, avrebbe <strong>trovato parole analoghe</strong> ma <strong>non identiche</strong> a quelle della norma della quale viene fatta applicazione, e <strong>non identiche proprio</strong> in quanto capaci di <strong>esprimere anche un significato tale</strong> da rendere <strong>applicabile la norma stessa in via interpretativa</strong>, visto l’<strong>obiettivo</strong> che il legislatore stesso si è posto prevedendo la norma che viene <strong>applicata analogicamente</strong>;</li> <li>l’<strong>interpretazione estensiva</strong> spiega il <strong>significato</strong> della norma per applicarla anche ai <strong>casi meno evidenti</strong>; l’<strong>analogia</strong> applica la norma <strong>anche</strong> a <strong>casi che certamente non vi rientrano</strong>, per colmare una <strong>lacuna</strong> dell’ordinamento, finendo peraltro con l’aggirare il principio di <strong>tassatività</strong> della <strong>fattispecie penale</strong>;</li> <li>sia l’interpretazione estensiva che, <em>a fortiori</em>, l’analogia, sembrano per <strong>parte della dottrina</strong> entrare <strong>in rotta di collisione</strong> con il <strong>principio di “<em>extrema ratio</em>”</strong> che connoterebbe il diritto penale: in realtà se il discorso pare reggere con riguardo all’<strong>analogia</strong>, esso sembra <strong>meno convincente</strong> per quanto concerne <strong>l’interpretazione estensiva</strong>, <strong>sottraendo</strong> al giudice la possibilità di <strong>ricondurre determinati casi</strong> al <strong>tenore letterale</strong> della norma, pur essendovi essi <strong>riconducibili</strong>, così applicando in modo <strong>eccessivamente garantista</strong> il <strong>canone letterale</strong> e ad un tempo <strong>dequotando</strong> i crinali <strong>storico e sistematico </strong>del procedimento ermeneutico, peraltro <strong>tradendo lo stesso legislatore penale</strong> laddove non viene in tal modo garantita la <strong>tutela</strong> di <strong>determinati beni giuridici</strong> (interessi) assunti <strong><em>ex lege</em> meritevoli</strong> del presidio penale.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali altri principi intercetta il divieto di analogia <em>in malam partem</em>?</strong></p> <ol start="380"> <li style="text-align: justify;">il principio della <strong>riserva di legge</strong>: è discorrendo di riserva di legge (in rapporto all’<strong>azione amministrativa</strong>) che si affronta normalmente il problema della <strong>assimilabilità <em>in malam partem</em></strong> dell’<strong>assenza di permesso di costruire</strong> (già concessione edilizia) al <strong>permesso di costruire</strong> che è stato <strong>rilasciato</strong>, ma che è <strong>illegittimo </strong>(<strong>44</strong> del <strong>D.p.R. 380.01</strong>); la fattispecie intercetta tuttavia anche la questione del <strong><em>discrimen</em></strong> tra <strong>interpretazione estensiva</strong> ed <strong>applicazione analogica</strong>, discutendosi se si sia al cospetto della <strong>prima</strong> (ammissibile) o della <strong>seconda</strong> (inammissibile); le coordinate della questione <strong>si semplificano</strong> nondimeno laddove il <strong>vizio che affetta</strong> il permesso di costruire sia <strong>particolarmente grave</strong>, come nel caso in cui esso sia stato rilasciato in <strong>carenza di potere</strong> ovvero a valle di una <strong>attività criminosa</strong> perpetrata dal soggetto pubblico <strong>che rilascia</strong> il titolo in accordo con quello privato che <strong>lo riceve</strong>: in queste ipotesi si fa meno difficoltà ad ammettere che in realtà si tratta di <strong>interpretazione estensiva</strong> (e non di applicazione analogica);</li> <li style="text-align: justify;">il principio di <strong>offensività</strong>: è discorrendo di offensività, specie in rapporto al <strong>superamento</strong> (o mancato superamento) di <strong>specifici limiti tabellari</strong>, che si affronta normalmente il problema dell’<strong>emissione nell’ambiente</strong> di <strong>onde elettromagnetiche</strong> e della relativa <strong>assimilabilità al “<em>getto di cose</em>”</strong> previsto come contravvenzione <strong>dall’art.674 c.p.</strong>; la fattispecie intercetta tuttavia anche la questione del <strong><em>discrimen</em></strong> tra <strong>interpretazione estensiva</strong> ed <strong>applicazione analogica</strong>, discutendosi se si sia al cospetto della <strong>prima</strong> (ammissibile) o della <strong>seconda</strong> (inammissibile), specie in relazione alla <strong>ermeneusi</strong> del <strong>verbo “<em>gettare</em>”</strong>, che è discusso se possa interpretarsi nel senso di <strong>ricomprendere anche l’emissione</strong>, giusta impianti all’uopo, di <strong>onde elettromagnetiche</strong>; e a quella del <strong>sostantivo “<em>cosa</em>”</strong>, che è discusso se possa interpretarsi nel senso di <strong>ricomprendere anche</strong> un <strong>campo elettromagnetico</strong>.</li> </ol>