Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 27 giugno 2024, n. 25452
PRINCIPIO DI DIRITTO
Con specifico riferimento al reato di cui all’art. 4 della L. n. 645 del 1952, la condotta dell’agente può articolarsi in tre tipi: – perseguimento di finalità antidemocratiche proprie del partito fascista; – esaltazione di esponenti, fatti e metodi di detto partito; – compimento di manifestazioni esteriori di carattere fascista. A prescindere dalla forma in cui si manifesta, la condotta deve, comunque, essere idonea a determinare il risultato ovvero il concreto pericolo di una riorganizzazione del disciolto partito fascista, secondo i criteri di cui all’art 56 cod. pen. in tema di delitto tentato con una valutazione ex ante della sua potenzialità, indipendentemente dalle condizioni che in concreto possano articolare la realizzazione dell’evento. Se ad essere realizzata è la condotta di “esaltazione”, essa deve essere suggestiva e comunque suscettibile di provocare adesioni e consensi favorevoli alla ricostituzione del partito fascista.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
Il ricorso propone censure infondate o inammissibili sicché nel suo complesso è passibile di rigetto.
- Il primo motivo è infondato.
1.1. Tra le norme dell’ordinamento italiano che, a vario titolo, riguardano le organizzazioni o i partiti che si ispirano al regime fascista, ha rango costituzionale la disposizione XII delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, rendendo inapplicabile, nei confronti dei movimenti fascisti, la libertà di associazione, prevista dall’art. 18 Cost. Le indicazioni contenute nella norma costituzionale sono state recepite ed attuate dalla L., 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Sceiba), la quale ha vietato la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto Partito Fascista ed ha previsto, tra l’altro, all’art. 4 il reato di apologia di fascismo.
La norma incriminatrice ha subito modifiche nel corso del tempo. Nella versione originaria il delitto apologetico puniva chiunque, fuori del caso preveduto dall’art. 1, pubblicamente esalta sponenti, principii, fatti o metodi del fascismo oppure le finalità antidemocratiche proprie del partito fascista. L’art. 10 della legge n. 152 del 1975 ha sostituito il testo dell’art. 4 L. n. 645 del 1952, ampliando l’ambito di applicazione della fattispecie di apologia del fascismo: – con l’inserimento, al primo comma, della condotta propagandistica; – con la riproduzione, quasi testuale, al secondo comma del previgente primo comma, aggiungendo anche l’esaltazione di idee e metodi razzisti.
Nell’attuale formulazione che risente anche delle modifiche introdotte dalle legge, 25 giugno 1993, n. 205 (“Chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o dì un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità indicate nell’articolo 1 … chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche.”), la norma incriminatrice punisce sia le condotte di “propaganda” per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità antidemocratiche proprie del partito fascista (comma 1), sia quelle che si sostanziano nella pubblica “esaltazione” di principi, fatti o metodi del fascismo, oppure delle sue finalità antidemocratiche, prevedendo, per tale ultima ipotesi, un aggravamento di pena “se il fatto riguarda idee o metodi razzisti” (comma 2).
La norma opera un esplicito rinvio, quanto alla proiezione teleologica sia delle condotte di “propaganda” finalizzate alla costituzione di gruppi di qualsiasi tipo sia delle condotte di “pubblica esaltazione”, alle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, indicate dall’art. 1 della medesima legge n. 645 del 1952 nella minaccia o uso di violenza quale metodo di lotta politica, nella propugnazione della soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o nella denigrazione della democrazia, delle sue istituzioni e dei valori della “Resistenza”, ovvero rivolgere la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista.
1.2. Ai fini della configurabilità del reato è sempre necessario che una delle condotte previste metta a repentaglio il bene giuridico tutelato dalla norma, cioè l’integrità dell’ordinamento costituzionale e democratico (Sez. 1, n. 40629 del 01/04/2014 – dep. 01/10/2014, P.O. in proc. Angelone e altro, Rv. 260707).
La Corte Costituzionale, sin dalla risalente sentenza n. 1 del 1957 ha, infatti, chiarito che “l’apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista”. Ciò significa che deve essere considerata non già in sé e per sé, ma in rapporto a quella riorganizzazione, che è vietata dalla XII disposizione (transitoria e finale della Costituzione).
Trattasi non di una istigazione diretta, perché questa è configurata nell’art. 2 della legge 1952, bensì di una istigazione indiretta a commettere un fatto rivolto alla detta riorganizzazione e a tal fine idoneo ed efficiente. Il pericolo che la norma tende a scongiurare viene ad esistenza, secondo la giurisprudenza di legittimità, quando si pongono in essere condotte idonee, secondo l’accertamento che compete al giudice di merito ed e insindacabile in Cassazione, se congruamente motivato, a favorire la concreta possibilità di riorganizzazione del partito fascista, vietata dalla Costituzione repubblicana (Sez. 2, n. 11106 del 23/05/1979, Guerin, Rv. 143745 – 01).
Per l’integrazione del delitto di apologia del fascismo non è necessaria una effettiva riorganizzazione del partito fascista; è sufficiente, infatti, una concreta idoneità dell’esaltazione a provocare adesioni e consensi favorevoli alla ricostituzione del disciolto partito fascista (Sez. 1, n. 11576 del 25/09/2020, dep. 2021, PG C/ Viri, Rv. 280746 – 01).
Per quanto di rilevanza costituzionale, il bene giuridico protetto dal reato di apologia del fascismo, non gode di tutela illimitata, ma va bilanciato con la libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost. anche se, come si trae dalle plurime sentenze della Corte costituzionale intervenute a più riprese sulle diverse fattispecie previste dalla legge Sceiba, l’obbiettivo perseguito dal legislatore di “bandire” dall’orizzonte democratico dello Stato la ricostituzione del partito fascista è stato reputato talmente primario” da avere formato oggetto, all’interno della stessa Costituzione, di una specifica disposizione (quella appunto sub XII disp. trans, fin.) , non potrebbe dubitarsi della legittimità costituzionale, sotto il profilo della conciliabilità con il principio della libera manifestazione del pensiero dell’art. 21 Cost., di una previsione che mira a sanzionar financo le condotte prodromiche ad una tale ricostituzione, purché “coniugate” con elementi modali e spaziali idonei a renderle idonee “a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste” (Corte cost., sent. n. 74 del 1958).
Oltre che nella già ricordata sentenza n. 1 del 1957, nelle successive decisioni n. 74 del 1958 e n. 15 del 1973 il Giudice delle leggi, nell’esaminare la ratio delle incriminazioni contenute nella legge del 1952 e i limiti interpretativi, ha escluso che la libertà di manifestazione del pensiero possa andare esente da limitazioni lì dove la condotta tenuta risulti violatrice di altri interessi costituzionalmente protetti tra i quali rientra la tutela dell’ordine democratico cui è preposta la XII disposizione transitoria in tema di divieto di ricostituzione del partito fascista.
Ne segue che è legittima, sul piano costituzionale, l’incriminazione di condotte che risultino possibili e concreti antecedenti causali di ciò che resta costituzionalmente inibito, ossia la riorganizzazione del disciolto partito fascista, e ciò in relazione alle modalità di realizzazione delle stesse, posto che il fatto deve trovare nel momento e nell’ambiente in cui è compiuto circostanze tali da renderlo idoneo a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste.
1.3. L’esigenza di tutela delle istituzioni democratiche, anche a costo di limitare la libertà di manifestazione del pensiero, è stata avvertita anche in sede sovranazionale: la Convenzione Internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, sottoscritta a New York il 7 marzo 1966 (ratificata nel nostro ordinamento con la L. n. 654 del 1975), ha previsto la possibilità di incriminare la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico; la Carta di Nizza (Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, del 7 dicembre 2000), ha incluso il divieto di discriminazione e il rispetto della diversità culturale, religiosa e linguistica tra i valori fondanti delle tradizioni costituzionali dell’Unione.
La Corte EDU, dichiarando in più occasioni l’inammissibilità di ricorsi per incompatibilità con i valori della Convenzione, in casi di apologia della violenza, ha riconosciuto che la libertà di espressione sancita dall’art. 10 della Convenzione Europea non è assoluta e che le limitazioni alla libertà di espressione previste dal secondo comma di tale disposizione ben possono trovare fondamento nella necessità di assicurare la diffusione di ideali contrari a detti valori fondanti, nella loro dimensione storica ed effettuale.
Il legislatore interno attualizzando i principi della Convenzione di New York con l’emanazione del D.L. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla L. 25 giugno 1993, n. 205 ha riproposto, seguendo il solco tracciato dalla legge Sceiba, l’incriminazione delle “manifestazioni esteriori” tenute in pubbliche riunioni e riconducibili alle organizzazioni o ai gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (L. n. 205 del 1993, art. 2), il che – ancora una volta – rappresenta conferma del fatto che detti “gesti simbolici” sono ritenuti, dalla generalità dei consociati, idonei a favorire il proselitismo e risultano dunque dotati di obiettiva pericolosità per il mantenimento dei valori della democrazia e dell’uguaglianza tra le persone.
- Con specifico riferimento al reato di cui all’art. 4 della L. n. 645 del 1952, la condotta dell’agente può articolarsi in tre tipi: – perseguimento di finalità antidemocratiche proprie del partito fascista; – esaltazione di esponenti, fatti e metodi di detto partito; – compimento di manifestazioni esteriori di carattere fascista. A prescindere dalla forma in cui si manifesta, la condotta deve, comunque, essere idonea a determinare il risultato ovvero il concreto pericolo di una riorganizzazione del disciolto partito fascista, secondo i criteri di cui all’art 56 cod. pen. in tema di delitto tentato con una valutazione ex ante della sua potenzialità, indipendentemente dalle condizioni che in concreto possano articolare la realizzazione dell’evento.
2.1. Se ad essere realizzata è la condotta di “esaltazione”, essa deve essere suggestiva e comunque suscettibile di provocare adesioni e consensi favorevoli alla ricostituzione del partito fascista (Sez. 2, n. 3929 del 02/12/1977, dep. 1978, Venezia, Rv. 138514; Sez. 2, n. 8506 del 31/01/1977, Feltri, Rv. 136341).
Sarà, quindi, necessario che il giudice accerti, alla stregua di una valutazione da effettuarsi complessivamente, la sussistenza degli elementi di fatto (il contesto ambientale, il grado di immediata, o meno, ricollegabilità dello stesso contesto al periodo storico in oggetto e alla sua simbologia, il numero dei partecipanti, la ripetizione dei gesti) idonei dare concretezza al pericolo di “emulazione” insito nel reato secondo i principi enunciati dalla Corte costituzionale nelle sentenze ricordate in precedenza.
L’esaltazione deve essere pubblica nel senso che le condotte, ai sensi dell’art. 266, ultimo comma, cod. pen.; devono essere commesse: – con il mezzo della stampa, o con altro mezzo di propaganda; – in un luogo pubblico, aperto al pubblico e in presenza di più persone; – in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata.
2.2. L’elemento soggettivo, come per la fattispecie di apologia di delitto prevista dall’art. 414 comma 3, cod. pen. è il dolo generico inteso come “consapevolezza e (…) volontà di commettere il fatto costituente apologia di delitto, e cioè di manifestare pubblicamente, con la propria condotta, la esaltazione e l’approvazione di uno o più delitti e, quindi, nella consapevolezza e nella volontà dei possibili effetti apologetici della propria condotta.
È invece del tutto irrilevante (…) il preciso fine di esaltare o approvare uno o più delitti affinché altri ne commettano di ulteriori, non essendo richiesta la qualificazione teleologica della condotta dell’agente” (Sez. 1, n. 13534 del 11/06/1986, Rapa Rv. 174483).
- La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei rammentati principi, seguendo un percorso motivazionale dotato di plausibilità più elevata rispetto a quello attraverso il quale il Tribunale era pervenuto alla pronuncia liberatoria.
Ha preso in esame le argomentazioni spese per escludere che le condotte pacificamente realizzate dall’imputato abbiano messo in pericolo il bene tutelato dalla norma incriminatrice, evidenziandone le criticità, oltre che la non conformità con gli approdi della giurisprudenza di legittimità, che non ha mai richiesto ai fini dell’integrazione del pericolo dì ricostituzione del partito fascista “comportamenti aggressivi, minacciosi, violenti” cosi come si legge nella sentenza con cui è stato definito il primo grado del giudizio.
La Corte distrettuale non solo ha individuato specifiche e plurime condotte riconducibili all’imputato di “esaltazione pubblica” di “esponenti, principi, fatti e metodi” propri del regime fascista (affissione di striscioni sula facciata del comune ed in una piazza frequentata, nonché distribuzione di volantini, significativamente chiamati “foglio d’ordini”, stampati e timbrati con caratteri tipografici richiamanti la grafia fascista, in cui si difendeva la figura di B.B., definito intoccabile, e si auspicava il confino a V per gli avversari politici), ma ha le ha apprezzate, per la loro diffusività, per la destinazione ad un numero elevato di consociati, per il tenore inequivoco delle espressioni utilizzate immediatamente evocative dell’apparato esteriore dell’ideologia fascista, come oggettivamente funzionali a generare il pericolo di ricostituzione del partito fascista, sia pure sotto un particolare profilo ovvero quello dell’idoneità a provocare nuove adesioni e consensi, attraverso il richiamo nostalgico alla restaurazione del fascismo sollecitato con l’impiego di simboli ed espressione propagandistiche, in favore di una organizzazione già costituta (DO.RA.), che, ispirandosi integralmente ai valori del regime fascista indicati dall’art. 1 legge n. 645 del 1952, si autodefiniva “partito fascista repubblicano – Fascio di A”, ed attribuiva all’imputato il titolo di “Commissario del fascio di A”.
- Il secondo motivo, relativo all’applicazione della causa di esclusione della punibilità del fatto dì particolare tenuità, non è consentito perché sollecita l’esercizio di apprezzamenti riservati al giudice del merito, che li ha effettuati dandone adeguatamente conto, ed è comunque manifestamente infondato.
Il ricorrente non si è confrontato con il reale contenuto della motivazione che ha considerato, in termini di decisività, ostativa all’accoglimento della richiesta di applicazione dell’art. 131-bis, a prescindere dai precedenti penali dell’imputato e della non occasionalità dell’illecito, la gravità dei fatti accertati desunta dalle modalità della condotta sviluppata attraverso più atti di esaltazione del regime fascista e l’utilizzo di espressioni particolarmente suggestive e, quindi, lesive del bene giuridico tutelato in termini tutt’altro che contenuti.
- Il terzo motivo, relativo alle circostanze attenuanti generiche, è parimenti inammissibile perché interamente versato in fatto e, prima ancora, generico. La difesa del ricorrente nulla di concetto oppone all’argomentazione su cui è incentrato il diniego dell’invocato beneficio, ovvero la rilevante capacità a delinquere desunta dai plurimi precedenti penali e l’assenza di elementi favorevoli, non potendosi considerare a tal fine il grado di offensività del reato accertato, nient’affatto lieve.
- Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.