Consiglio di Stato, sezione II, sentenza 13 giugno 2024, n. 5309
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il disposto del comma 2- bis dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 deve essere interpretato estensivamente, sganciando la falsa rappresentazione dal presupposto dell’accertamento con sentenza passata in giudicato, potendosi affermare, sulla base del principio del legittimo affidamento, che il limite temporale per l’esercizio del potere di autotutela trovi applicazione solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento di formazione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione, distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge.
La non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo favorevole non consente di configurare in capo al privato una posizione di affidamento legittimo, così che l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata deve ritenersi sussistente in re ipsa e comunque prevalente rispetto al contrapposto interesse privatistico al mantenimento dell’atto illegittimo.
Il superamento del limite temporale di 18 o 12 mesi per l’esercizio del potere di autotutela è ammissibile nei casi in cui, a prescindere da qualsivoglia accertamento penale di natura processuale, il soggetto privato abbia rappresentato uno stato preesistente – anche mediante il solo silenzio su circostanze rilevanti – diverso da quello reale.
Nell’esercizio del potere di autotutela non può non assumere rilievo anche l’effettivo contributo dato dal beneficiario del provvedimento favorevole al suo (illegittimo) rilascio, come risulti accertato nella sede penale o comunque emerga dagli atti acquisiti al procedimento di autotutela, essendo evidente che la sua compartecipazione alla consumazione dell’illecito, anche se non giudizialmente accertata, ma ragionevolmente desumibile dal concreto svolgersi della vicenda sottostante, comprime, fino ad annullarla, la legittima aspirazione al mantenimento di un assetto di interessi prevalentemente incentrato sulla egoistica realizzazione di un interesse privato in contrapposizione – e non, fisiologicamente, in sinergica relazione – con quello pubblico non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, per cui non può trovare applicazione il limite temporale oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
L’appello è fondato.
Ai sensi dell’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990, nel testo modificato dalla legge 29 luglio 2021, n. 108, in sede di conversione del d.l. 31 maggio 2021, n. 77, “il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
In base al comma 2-bis “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”.
La giurisprudenza ha interpretato estensivamente il disposto del comma 2- bis dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990, sganciando la falsa rappresentazione dal presupposto dell’accertamento con sentenza passata in giudicato, affermando, sulla base del principio del legittimo affidamento, che il limite temporale per l’esercizio del potere di autotutela trovi applicazione solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento di formazione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione, distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge (Cons. Stato, Sez. II, 22 novembre 2021, n. 7817; Sez. VI, 26 marzo 2021, n. 2575; id, 11 gennaio 2021, n. 352).
In particolare, sulla base dei principi indicati dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 8 del 2017, la giurisprudenza ha ritenuto che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo favorevole non consenta di configurare in capo al privato una posizione di affidamento legittimo, così che l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata debba ritenersi sussistente in re ipsa e comunque prevalente rispetto al contrapposto interesse privatistico al mantenimento dell’atto illegittimo (Cons. Stato, Sez. IV, 11 gennaio 2021, n. 343; Sez. II, 14 giugno 2021, n. 4568).
Il superamento del limite temporale di 18 o 12 mesi per l’esercizio del potere di autotutela è pertanto ammissibile nei casi in cui, a prescindere da qualsivoglia accertamento penale di natura processuale, il soggetto privato abbia rappresentato uno stato preesistente – anche mediante il solo silenzio su circostanze rilevanti – diverso da quello reale (Cons. Stato, Sez. II, 29 marzo 2023, n. 3224). Infatti nell’esercizio del potere di autotutela non può non assumere rilievo anche l’effettivo contributo dato dal beneficiario del provvedimento favorevole al suo (illegittimo) rilascio, come risulti accertato nella sede penale o comunque emerga dagli atti acquisiti al procedimento di autotutela, essendo evidente che la sua compartecipazione alla consumazione dell’illecito, anche se non giudizialmente accertata, ma ragionevolmente desumibile dal concreto svolgersi della vicenda sottostante, comprime, fino ad annullarla, la legittima aspirazione al mantenimento di un assetto di interessi prevalentemente incentrato sulla egoistica realizzazione di un interesse privato in contrapposizione – e non, fisiologicamente, in sinergica relazione – con quello pubblico (Cons. Stato, Sez. III, 9 giugno 2022, n. 4687), non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, per cui non può trovare applicazione il limite temporale oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 17 maggio 2019 n. 3192, 24 aprile 2019 n. 2645; Sezione V, 12 aprile 2021, n. 2971; Sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207).
Nel caso di specie, risulta evidente dagli atti di causa che non sussiste il presupposto della falsa rappresentazione della realtà, in quanto dal progetto allegato alla istanza di permesso di costruire (Prospetto) emerge chiaramente che le tende sarebbero state collocate in parte anche sui portoncini di ingresso dei locali allora di proprietà comunale. In particolare delle tre tende una risulta interamente collocata su uno dei portoncini di ingresso, mentre un’altra copre quasi integralmente l’altro portoncino.
L’Amministrazione, quindi, non poteva essere tratta in errore dalla documentazione presentata, essendo assolutamente evidente che le tende avrebbero occupato anche la area della facciata sovrastante i portoncini di ingresso di immobili, inoltre, allora di sua proprietà, con la conseguenza che non poteva essere indotta in errore neppure sulla eventuale unica proprietà degli immobili o sulla adesione del proprietario.
Per tale ragione non poteva essere idonea a trarre in errore l’Amministrazione comunale la riproduzione nel prospetto della parte indicata come “interessata dal pubblico esercizio”, essendo il Comune a conoscenza della presenza delle scale d’accesso ai locali di sua proprietà.
Peraltro tale indicazione era comunque un elemento irrilevante rispetto al progetto di collocazione delle tende esterne, essendo correttamente riprodotti i portoncini nel prospetto dell’edificio.
Per le medesime ragioni non poteva trarre in errore il Comune neppure l’indicazione dell’”area interessata dal pubblico esercizio” in “pianta”, in quanto l’Amministrazione doveva essere a conoscenza del tipo di occupazione di suolo pubblico che era stata assentita. Inoltre risulta, sulla base della documentazione presentata dalla società, che l’occupazione del suolo pubblico autorizzata con provvedimento del 22 aprile 2011 riguardasse l’intera area prospiciente il locale, facendo salvo solo l’ingresso dello stesso.
Tale documentazione non è stata specificamente contestata dalle controparti relativamente all’area effettivamente autorizzata per l’occupazione di suolo pubblico al momento della presentazione della istanza di permesso di costruire né le stesse hanno presentato documentazione contraria.
Ha, quindi, errato il giudice di primo grado nel ritenere sussistente la falsa rappresentazione della realtà nella documentazione presentata unitamente all’istanza il 26 aprile 2013.
Ciò anche a ritenere che non si trattasse di un permesso di costruire ma di una autorizzazione, rilasciata ai sensi delle Norme tecniche dell’arredo urbano, rientrando anche tali provvedimenti nella disciplina generale della legge n. 241 del 1990 e quindi dell’art. 21-nonies in materia di autotutela.
Ne deriva che il Comune non poteva procedere in autotutela al di fuori del termine di 12 mesi previsto dalla legge n. 241 del 1990.
Con riguardo agli altri presupposti del provvedimento impugnato in primo grado, si deve rilevare in primo luogo che non risulta accertata la realizzazione delle opere in difformità dal titolo abilitativo, essendo solo indicato l’avvenuto superamento dell’estensione massima di 1,20 metri, mentre non risulta sia stata effettuato alcun sopralluogo da parte dei tecnici comunali nel corso del quale sia stata compiuta una misurazione o almeno una tale circostanza non è indicata nel provvedimento di autotutela.
Con riferimento al collegamento del titolo all’occupazione di suolo pubblico – che successivamente non è stata più rilasciata per l’intera superficie prospiciente i locali, ma con le autorizzazioni n. 32 del 2019, n. 53 del 2020 e n. 22 del 2023 è stata limitata con il rispetto degli accessi pedonali agli immobili – è vero che risulta espressamente dal titolo n. 248 del 2013 il riferimento all’occupazione di suolo pubblico, ma tale indicazione era generica, non essendo richiamati né l’autorizzazione all’occupazione del suolo pubblico allora in capo alla società né le dimensioni della stessa.
Tale generica indicazione aveva quindi un mero contenuto descrittivo del presupposto per cui veniva rilasciato il titolo in relazione ad un’opera funzionalmente destinata a soddisfare le esigenze dell’attività commerciale e strettamente connessa alla stessa, ma non condizionava le modalità di collocazione delle tende che erano determinate solo dal progetto allegato.
A conferma di tale ricostruzione deve essere osservato che a ritenere altrimenti il titolo sarebbe venuto meno nei periodi in cui non era assentita l’occupazione di suolo pubblico e che l’ampiezza dell’area occupata è mutata nel tempo (41,95 metri quadri nell’autorizzazione n. 32 del 2019; 44,70 metri quadri in quella del 20 maggio 2020; 43,20 in quella del 15 maggio 2023).
Comunque le Norme tecniche dell’arredo urbano del Piano del colore e dell’ arredo urbano del centro storico di Lecce, adottato con deliberazione del Consiglio comunale n. 89 del 29 ottobre 2005, citate sia nel provvedimento abilitativo n. 248 del 2013 e nella presupposta relazione istruttoria che nel provvedimento di autotutela impugnato nel presente giudizio – che prevedono il rilascio dell’autorizzazione comunale per l’installazione delle tende frangisole e parasole collocate al piano terra – non richiedono una necessaria corrispondenza della superficie delle tende allo spazio di occupazione del suolo pubblico.
Infatti ai sensi dell’art. 8.2.8 commi 4 e 5 “ è consentita l’installazione di tende frangisole, parasole ad ombrellone e simili solo ai pubblici esercizi prospicienti gli spazi aperti, entro i confini della proprietà privata e/o entro l’area di suolo pubblico loro concesso.
L’installazione di tende frangisole, parasole ed ombrelloni, a prescindere dalla contestuale occupazione o meno di suolo pubblico, deve in ogni caso assicurare il rispetto dei massimi ingombri individuati dal precedente Art. 5.4”, che indica anche le dimensioni delle occupazioni di suolo pubblico in relazione al tipo di strada o piazza. In ogni caso, la conformità della installazione delle tende all’art. 8.2.8 del Piano del Colore e dell’arredo urbano era stata espressamente valutata al momento del rilascio del permesso di costruire nel 2013, come risulta dal titolo e dalla presupposta relazione istruttoria. Inoltre, ai sensi dell’art. 3.1 di tali Norme tecniche dell’arredo urbano “gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, rinnovo o sostituzione, installazione e nuova realizzazione… di tutti gli altri elementi ed oggetti, che comunque incidano su facciate e superfici orizzontali, ovvero che determino modificazioni di qualsiasi tipo dell’arredo urbano all’interno del perimetro individuato col precedente Art. 1.5, devono essere preventivamente autorizzati dai competenti Uffici del Comune di Lecce, ai sensi delle leggi statali e regionali vigenti, nonché dei regolamenti e delle norme comunali”.
I poteri esercitabili dal Comune e i relativi presupposti sono indicati dalle stesse NTA che all’art. 3.10 prevedono, in caso di lavori eseguiti in difformità o in contrasto con le Norme tecniche di arredo urbano, l’assegnazione di un termine per adeguarsi e in caso di inadempimento l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
Inoltre, ai sensi dell’art. 3.11, “l’Ufficio Centro Storico del Comune di Lecce, sentito l’Ufficio Tecnico – Settore Urbanistica, anche su segnalazione delle competenti Soprintendenze, qualora oggetti e/o elementi d’arredo urbano esistenti costituiscano fattori di degrado e/o pericolo, o comunque abbiano un aspetto non decoroso e gravemente lesivo per l’immagine del centro storico cittadino, ne ordina il ripristino, da eseguirsi secondo la disciplina delle presenti NAU, fissando un congruo termine per l’esecuzione”.
Nel caso di specie non risultano sussistenti tali presupposti né esercitati tali specifici poteri, risultando invece esercitati poteri di vigilanza edilizia, come risulta dal richiamo all’art. 31 del d.P.R. 380 del 2001 e dalla irrogazione della sanzione pecuniaria, in caso di inadempimento, contenuti nel provvedimento del 3 novembre 2022, con cui è stata ordinata la rimozione delle opere, impugnato in primo grado con i motivi aggiunti. Invece con riguardo al “Regolamento comunale per l’arredo urbano dello spazio pubblico per attività stagionali e continuative, dehors”, approvato il 25 novembre 2019, si deve osservare che disciplina anche le tende a sbraccio, rientranti nella definizione di dehors aperti, come quelle in questione, ma si tratta di norme successive al rilascio del titolo del 9 maggio 2013, essendo entrate in vigore il 1 gennaio 2020.
In particolare, tale Regolamento prevede anche una disciplina di diritto transitorio, all’art. 17, per cui “ai titolari di autorizzazioni rilasciate per l’anno 2019 secondo i criteri previgenti e non conformi al presente regolamento potrà essere rilasciata analoga autorizzazione anche per l’anno 2020 con scadenza sino al 31/12/2020, su specifica richiesta”, con ciò evidentemente salvaguardando i titoli comunque rilasciati precedentemente.
Anche gli ulteriori riferimenti motivazionali, su cui è basato il provvedimento impugnato in primo grado e valorizzati dal giudice di primo grado, quali il collegamento con l’occupazione di suolo pubblico e la rilevanza della disciplina sopravvenuta, non sono quindi idonei a giustificare l’annullamento del titolo, peraltro formalmente autoqualificatosi come permesso di costruire e non come autorizzazione relativa ad un elemento di arredo urbano, presumibilmente proprio in relazione al tipo di intervento effettuato, ritenuto allora sottoposto al permesso di costruire, per le dimensioni e le modalità di aggancio delle tende alla facciata.
In ogni caso, anche ammesso che si tratti di una autorizzazione relativa ad un elemento di arredo urbano, i riferimenti del tutto generici contenuti nel provvedimento impugnato al Piano del Colore e al Regolamento sopravvenuto del 2019 non sono idonei a giustificare l’adozione di un provvedimento di revoca del titolo abilitativo rilasciato nel 2013 e mai precedentemente oggetto di contestazioni da parte degli uffici comunali.
La fondatezza delle censure avverso il provvedimento di autotutela comporta l’illegittimità derivata anche dell’ordine di rimozione del 3 novembre 2022 impugnato in primo grado con i motivi aggiunti.
Restano ovviamente salve la tutela giurisdizionale davanti al giudice ordinario con riguardo alla tutela della proprietà privata, l’attività amministrativa relativa alla eventuale difformità dell’opera al titolo abilitativo rilasciato nonché l’esercizio dei poteri attribuiti dalle norme comunali relative all’arredo urbano, qualora ne ricorrano i relativi presupposti.
É infondata invece la domanda di risarcimento danni, essendo l’interesse dell’appellante soddisfatto dall’accoglimento dell’appello, considerando che il danno risarcibile è riferito sia nel ricorso che nella generica riproposizione della domanda in appello all’ipotesi in cui sia ritenuto legittimo l’annullamento di autotutela con conseguente smontaggio delle tende.
Infatti, secondo la stessa ricostruzione dell’appellante, il danno è configurato per lo smontaggio delle tende, che non risulta effettuato.
Pertanto allo stato non si è verificato alcun danno.
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