Corte di Cassazione civile, Sezione II, ordinanza 21 giugno 2024, n. 17148
PRINCIPIO DI DIRITTO
La nullità comminata dall’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della l. n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma terzo dell’art 1418 cod. civ., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile, sicché, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato.
L’affermata irrilevanza, ai fini della sussistenza del vizio genetico del contratto, della conformità o meno della costruzione al titolo menzionato, valevole, come detto, nel contratto ad effetti reali, non può che ridondare, a maggior ragione, nel contratto ad effetti obbligatori, quale il contratto preliminare di compravendita immobiliare, per la cui esistenza non è richiesta neppure la dichiarazione del promittente alienante degli estremi del titolo urbanistico, la quale può anche sopravvenire all’atto ed essere prodotta in giudizio, ove si intenda ottenere con esso la sentenza di trasferimento coattivo del bene ai sensi dell’art. 2932 cod. civ.
In ipotesi di compravendita di costruzione realizzata in difformità della licenza edilizia, non è ravvisabile un vizio della cosa, non vertendosi in tema di anomalie strutturali del bene, ma trova applicazione l’art. 1489 cod. civ., in materia di oneri e diritti altrui gravanti sulla cosa medesima, sempre che detta difformità non sia stata dichiarata nel contratto o, comunque, non sia conosciuta dal compratore al tempo dell’acquisto.
Affinché operi la garanzia prevista dall’art. 1489 cod. civ. occorre tener conto della natura e dell’intensità degli oneri e dei diritti del terzo sulla cosa, e cioè controllare se essi incidono sulla stessa nel modo o nella misura richiesti dalla norma citata, ossia si risolvano in una limitazione del libero godimento della cosa medesima o, quanto meno, in una diminuzione del suo valore.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
Svolgimento del processo
- Con atto notificato il 10 luglio 2006, B.B. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Napoli, A.A., F.F., G.G. e H.H., esponendo che, in data 30 Marzo 2006, aveva stipulato con i predetti, dal notaio Castaldo, un contratto preliminare per l’acquisto della proprietà del localeterraneo ad uso deposito, facente parte del fabbricato sito in Napoli, via Terracina, lotto C- Parco Angela, di circa 200 mq., il quale, all’art. 5, contemplava la dichiarazione dei promittenti venditori, ai sensi dell’art. 40, comma 2, l. n. 47 del 1985, dell’intera realizzazione del bene prima del settembre 1967, che il prezzo era stato concordato nella somma di Euro 280.000,00, di cui fu versata la somma di Euro 40.000,00 a titolo di caparra confirmatoria,che la restante parte avrebbe dovuto essere versata al momento della stipula del contratto definitivo, fissata per il 15 maggio 2006, che, in seguito a perizia effettuata da tecnico di fiducia, aveva appurato la totale irregolarità urbanistica dell’immobile di cui al predetto preliminare, non essendo stato mai assentito con concessione edilizia, né con successiva sanatoria, il piano seminterrato facente parte del compendio immobiliare, interessato, successivamente al settembre 1967 e all’acquisto dei promittenti venditori del 22 Marzo 2001, da modifiche – consistenti nella realizzazione di una finestra, nella costruzione di un solaio ammezzato e nella creazione di un servizio igienico – parimenti abusive e tali da alterarne la consistenza, e che aveva cercato di recedere consensualmente dal contratto con restituzione degli importi ricevuti attraverso le missive del 17 maggio 2006 e 5 giugno 2006 senza ottenere riscontro, sicché chiedeva l’annullamento del contratto preliminare per dolo della parte promittente-venditrice, con condanna della stessa alla restituzione di quanto percepito a titolo di caparra, nonché al risarcimento del danno;
in via subordinata, l’accertamento della legittimità del recesso per il grave inadempimento della medesima parte promittente-venditrice, con conseguente condanna della stessa al pagamento del doppio della caparra;
in via ancora più subordinata, la risoluzione del preliminare per grave inadempimento dei convenuti, con condanna degli stessi al risarcimento dei danni, e, in ogni caso, accertato l’inadempimento degli obblighi di buona fede ex artt. 1175 e 1375 cod. civ., la condanna dei promittenti venditori al risarcimento di tutti i danni patiti per responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
Si costituirono in giudizio A.A. e F.F., sostenendo di non aver mai realizzato alcun abuso, posto che le opere descritte erano state realizzate prima del settembre 1967 e che essi si erano limitati a restaurarle, e proponendo, a loro volta, domanda riconvenzionale fondata sul grave inadempimento imputabile all’attrice, con conseguente loro diritto a ritenere quanto ricevuto a titolo di caparra, oltre a chiedere di chiamare in causa i propri danti causa, C.C. e D.D., onde essere dagli stessi garantiti e manlevati in caso di accoglimento dell’avversa domanda, mentre rimasero contumaci G.G. e H.H..
Si costituirono in giudizio i terzi chiamati, C.C. e D.D., assumendo che l’immobile compravenduto fosse stato realizzato e ultimato prima del settembre 1967 e che le opere attualmente esistenti dovessero farsi risalire a data successiva all’acquisto dei chiamanti, e formulando anch’essi richiesta di autorizzazione alla chiamata dei propri danti causa, I.I. e E.E..
Si costituirono in giudizio E.E., in proprio e in qualità di erede del defunto I.I., e J.J., sia in qualità di erede di I.I., sia di rappresentante legale della minore K.K., evidenziando che il bene compravenduto ai loro chiamanti era stato realizzato prima del mese di settembre 1967 e che le opere rinvenute erano state realizzate in epoca successiva al 2001.
Con sentenza n. 5460/2015, pubblicata il 13 aprile 2015, il Tribunale di Napoli rigettò la domanda proposta da B.B. in via principale e accolse quella subordinata, dichiarando per l’effetto risolto per recesso il contratto preliminare del 30 Marzo 2006 a causa dell’inadempimento dei convenuti F.F., A.A., G.G. e H.H., e condannando i predetti in solido al pagamento del doppio della caparra versata ad essi.
Il giudizio di gravame, instaurato dai medesimi F.F., A.A., G.G. e H.H., si concluse, nella resistenza di B.B., che propose anche appello incidentale, e di D.D., con la sentenza n. 3642/2018, pubblicata il 19/7/2018, con la quale la Corte d’Appello di Napoli rigettò l’appello, sostenendo l’inammissibilità del motivo di impugnazione afferente alla nullità del contratto preliminare, non avendovi i giudici di primo grado fatto riferimento e avendo analizzato soltanto la legittimità del recesso esercitato dalla promissaria acquirente;
la correttezza e congruità della relazione del c.t.u. e l’omessa presa di posizione di quest’ultimo sulle osservazioni del c.t.p.;
l’assenza della concessione edilizia per le opere realizzate nel piano seminterrato, essendone stata modificata consistenza e superficie, e l’impossibilità di ottenere la DIA, stanti gli abusi originariamente commessi; l’irrilevanza, infine, delle prove testimoniali dedotte, essendo i relativi capitoli privi di indicazioni temporali, e della perizia svolta dall’istituto di credito che aveva concesso il mutuo, in quanto intervenuta prima che le opere abusive venissero realizzate.
- Contro la predetta sentenza, A.A. propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi. B.B. e C.C. si sono difesi con controricorso. Sono rimasti invece intimati D.D., E.E., F.F., G.G., H.H.. Le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
[…]
- Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta la violazione o falsa applicazione della l. n. 47 del 1985, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito ritenuto di aderire alle conclusioni del c.t.u., che aveva qualificato i presunti abusi (bagnetto e soppalco) come maggiori e quindi insanabili.
Il ricorrente ha sul punto obiettato che, alla stregua dello studio 5389/c del Consiglio nazionale notarile, la menzione del titolo abitativo edilizio non è obbligatoria né per le opere soggette ad autorizzazione o a denuncia di attività, situazioni queste in cui gli immobili sarebbero comunque commerciabili e gli atti di trasferimento validi, né per gli interventi edilizi non riconducibili alla tipologia della ristrutturazione maggiore, né nei casi di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, non portando detti interventi a organismi edilizi diversi dai preesistenti e non essendovi un obbligo, per legge, di citare in atto gli estremi delle autorizzazioni edilizie e delle D.I.A. presentate ex art. 22, primo e secondo comma, T.U..
Inoltre, il Regolamento edilizio del Comune di Napoli ammette la realizzazione di soppalchi quando non costituenti unità immobiliari autonome, rispetto alle quali è sufficiente l’autorizzazione edilizia o la D.I.A. quando ammessa, così come il d.P.R. n. 380 del 2001 consente in sede di manutenzione straordinaria, la realizzazione e integrazione di servizi igienici, purché non alterino volumi e superfici o modifiche di destinazioni d’uso.
Pertanto, ad avviso del ricorrente, gli interventi in questione non potevano che essere considerati minori e compatibili con gli strumenti edilizi vigenti, con conseguente illegittimità del recesso, stante la commerciabilità e non abusività del bene, peraltro censito nell’attuale strumento regolatore, e la sua sanabilità con un semplice accertamento di conformità ex artt. 31, comma 3, 33, comma 1, e 34, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, soggetto, al più, a sanzione amministrativa.
- Con il terzo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1325, 1343, 1346, 1418, 1385 e 145 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito dichiarato l’inammissibilità del primo motivo d’appello, sostenendo che i giudici di primo grado non avessero compiuto alcun accenno alla nullità del preliminare per contrasto con le norme urbanistiche ed edilizie, ma avessero valutato la fondatezza dell’esercizio del diritto di recesso per grave inadempimento dei promittenti venditori.
Ad avviso del ricorrente, i giudici di merito avevano errato, sia in quanto il grave inadempimento avrebbe dovuto condurre ad una pronuncia di nullità del contratto preliminare perché contenente un oggetto impossibile o illecito o una causa illecita, con conseguente illegittimità del recesso, siccome presupponente la validità del contratto, e della condanna al pagamento del doppio della caparra, posto che essi avrebbero dovuto limitarsi ad ordinare la restitutio in integrum, sia in quanto, nel valutare la gravità dell’inadempimento, avevano applicato le norme in tema di risoluzione del contratto, benché il recesso postuli non un inadempimento grave, ma un qualunque inadempimento, che però avrebbe dovuto seguire e non precedere la sottoscrizione del contratto, con conseguente sua invalidità genetica.
- La terza censura, da trattare per prima per motivi di priorità logica, in quanto, vertendo sulla eventuale sussistenza di un vizio genetico del preliminare di vendita, non può che precedere logicamente e giuridicamente l’esame delle questioni afferenti alla sussistenza o meno di un adempimento, è in parte inammissibile e in parte infondata.
Essa non attinge, infatti, la ratio decidendi risultante dalla motivazione della sentenza impugnata, nella quale il motivo d’appello afferente alla dedotta nullità del contratto, con i conseguenti obblighi ripristinatori, è stato affrontato e risolto dalla Corte di merito nel senso della sua inammissibilità in quanto non conferente con la sentenza impugnata, nella quale era stata, invece, affrontata e risolta la questione della legittimità del diritto di recesso esercitato dalla controparte, ponendosi così la censura, sotto questo profilo, in contrasto col principio secondo cui i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri non solo della specificità e della completezza, ma anche della riferibilità alla decisione stessa (Cass., Sez. 3, 2/8/2002, n. 11530).
Nonostante ciò, il sostanziale sollecito del ricorrente a rivedere la questione della nullità negoziale, rilevabile anche in cassazione a condizione che i relativi fatti costitutivi siano stati ritualmente allegati dalle parti (Cass., Sez. 3, 17/7/2023, n. 20713; Cass., Sez. U, 12/12/2014, n. 26242), induce ad affrontare comunque la sostanza della doglianza, la quale è senz’altro infondata.
A tal riguardo, occorre prendere le mosse dal principio, affermato dalle Sezioni unite di questa Corte con riguardo al negozio di trasferimento di proprietà immobiliare, secondo cui la nullità comminata dall’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della l. n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma terzo dell’art 1418 cod. civ., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile, sicché, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato (Cass., Sez. U, 22/3/2019, n. 8230).
L’affermata irrilevanza, ai fini della sussistenza del vizio genetico del contratto, della conformità o meno della costruzione al titolo menzionato, valevole, come detto, nel contratto ad effetti reali, non può che ridondare, a maggior ragione, nel contratto ad effetti obbligatori, quale il contratto preliminare di compravendita immobiliare, per la cui esistenza non è richiesta neppure la dichiarazione del promittente alienante degli estremi del titolo urbanistico, la quale può anche sopravvenire all’atto ed essere prodotta in giudizio, ove si intenda ottenere con esso la sentenza di trasferimento coattivo del bene ai sensi dell’art. 2932 cod. civ. (Cass., Sez. 3, 15/1/2020, n. 538).
Come chiaramente affermato da questa Corte, anche di recente, infatti, in ipotesi di compravendita di costruzione realizzata in difformità della licenza edilizia, non è ravvisabile un vizio della cosa, non vertendosi in tema di anomalie strutturali del bene, ma trova applicazione l’art. 1489 cod. civ., in materia di oneri e diritti altrui gravanti sulla cosa medesima, sempre che detta difformità non sia stata dichiarata nel contratto o, comunque, non sia conosciuta dal compratore al tempo dell’acquisto (Cass., Sez. 2, 28/9/2023, n. 27559; Cass., Sez. 2, 28/2/2007, n. 4786; Cass., Sez. 2, 23/10/1991, n. 11218).
Orbene, il giudice d’appello, a fronte di una dichiarazione formale contenuta nel preliminare di compravendita di avvenuta realizzazione della costruzione in data antecedente al 1967, ha accertato la sussistenza nel bene di opere compiute in data successiva in assenza di titolo urbanistico e, dunque, la sostanziale inveridicità dell’affermazione contenuta nell’atto, aspetto questo che lungi da costituire vizio genetico dello stesso, è andato ad incidere sulla fase della sua esecuzione e, in ultima analisi, sull’adempimento degli obblighi assunti.
Alla stregua di quanto detto, il motivo, anche sotto il profilo del rilievo officioso della nullità, deve essere rigettato.
- La seconda censura è parimenti infondata.
Con essa, il ricorrente evidenzia l’insussistenza dell’inadempimento legittimante il recesso della parte dal contratto essendo la difformità edilizia riscontrata minore ed essendo perciò l’abuso inesistente, stante la sua sanabilità, e l’immobile commerciabile.
La tesi ripropone, in questa sede, i diversi orientamenti dottrinali formatisi in tema di nullità urbanistiche, allorché si distingueva tra abusi c.d. maggiori (perché consistenti nella costruzione dal nulla di un intero edificio oppure, nella realizzazione, su un edificio preesistente, di una parte autonoma del tutto nuova e suscettibile di essere commercializzata autonomamente dalla restante parte e non come porzione inscindibile perché pertinenza, senza il titolo abilitativo, oppure nell’esecuzione dell’opera in totale difformità dal titolo edilizio) e abusi c.d. minori (perché riguardanti opere soggette ad autorizzazione edilizia, titolo abilitativo in sanatoria relativo ad abusi minori o D.I.A., tranne che per alcune tipologie di manufatti, o, in genere, opere poste in condizione di ” tollerabilità urbanistica”), per escludere solo questi ultimi dall’alveo del vizio genetico del contratto.
Anche questa Corte, analizzando l’irregolarità urbanistica rilevante ai fini della validità del negozio, si era espressa, distinguendo le fattispecie in base all’abuso edilizio realizzato e ravvisando il vizio genetico della nullità nei soli casi di abuso primario, sussistente in caso di beni immobili edificati o resi abitabili in assenza di concessione, e non anche di abuso secondario, caratterizzato dalla realizzazione di modifiche o mutamento di destinazione su una sola parte dell’unità immobiliare preesistente (Vedi Cass., Sez. 2, 14/05/2018, n. 11659), da modifiche della sagoma o del volume rispetto alla situazione preesistente (come il caso di costruzione di una veranda costituente locale normalmente privo dei connotati di precarietà e destinato a durare nel tempo, vedi Cass., Sez. 2, 07/01/2010, n. 52), e affermando la possibilità di emettere sentenza ai sensi dell’art. 2932 cod. civ. quando il vizio di regolarità urbanistica non oltrepassi la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione ed escludendola in caso di realizzazione di un aumento non consistente della volumetria fuori terra perché non risolventesi in un organismo integralmente diverso o autonomamente utilizzabile oppure nel caso di realizzazione di una scala esterna (Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza del 18/09/2009 n. 20258;. Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza del 07/04/2014, n. 8081).
Le sezioni penali della Suprema Corte, invece, pronunciandosi in merito al reato di cui all’art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001, ne hanno ritenuto ravvisabile la fattispecie nelle opere non rientranti tra quelle autorizzate in quanto implicanti trasformazioni, concernenti l’intero edificio, con caratteristiche tipologiche e plano-volumetriche di entità tale da costituire uno stravolgimento complessivo dell’originario progetto, ovvero nelle opere realizzate in eccedenza volumetrica, con creazione di un organismo edilizio o di parte di esso avente caratteristiche di utilizzazione e di ubicazione connotate da una loro autonomia e novità, sia sul piano costruttivo che su quello della valutazione economico sociale, ritenendo sussistente la totale difformità, ad esempio, in una tettoia esterna in quanto modificativa della sagoma dell’edificio, seppur accessoria ad esso, in relazione al suo sviluppo in altezza, oppure nella realizzazione di una tettoia al posto di un pergolato regolarmente assentito, oppure nel raddoppio della superficie di un futuro esercizio commerciale attraverso lavori di modificazione al piano interrato, ma non anche la modifica dell’utilizzazione di taluni ambienti dello stabile, eseguita mediante lavori murari non previsti, oppure nella costruzione di un muro divergente dalla concessione solo per altezza, siccome costituenti difformità parziale, nella (Cass. pen., Sez. 3, sez. 3, 23/4/1990, n. 5891; Cass. pen., Sez. 3, 03/03/1992, n. 5330; Cass. pen., Sez. 3, 10/06/1994, n. 7559; Cass. pen., Sez. 3, 23/05/1997 n. 6875; Cass. pen., Sez. 3, 16/04/2008 n. 199373.L Cass. pen., Sez. 4, 30/10/2002, n. 25159; Cass. pen., Sez. 3, 16/04/2008 n. 19973; Cass. pen., Sez. 3, 06/05/2010 n. 21351; Cass. pen., Sez. 3, 18/06/2014, n. 40541; Cass. pen., Sez. 3, 24/09/2015, n. 49669).
Se tale distinzione aveva però un senso allorché l’abuso edilizio andava ad incidere sulla stessa validità del contratto, indipendentemente dall’indicazione in esso di un titolo urbanistico, diversamente deve ritenersi all’esito dell’arresto delle Sezioni unite di questa Corte del 2019, che, come sopra detto, hanno ancorato la validità del contratto al dato formale dell’indicazione in esso del titolo edilizio, purché esistente e riferito all’immobile che ne è oggetto, ed escluso la rilevanza, ai fini della sua validità, della difformità del bene rispetto allo stesso titolo.
Infatti, ricadendo la non conformità del bene a norme urbanistiche nel vizio di cui all’art. 1489 cod. civ., è a questa disposizione che occorre fare riferimento onde stabilirne l’applicabilità alla specie, tenendo conto che, come già affermato da questa Corte, perché operi questa garanzia occorre tener conto della natura e dell’intensità degli oneri e dei diritti del terzo sulla cosa, e cioè controllare se essi incidono sulla stessa nel modo o nella misura richiesti dalla norma citata, ossia si risolvano in una limitazione del libero godimento della cosa medesima o, quanto meno, in una diminuzione del suo valore (vedi sul punto Cass., Sez. 2, 27/4/1982, n. 2620, che ha ritenuto corretta la decisione impugnata di rigetto della domanda di risoluzione del preliminare di vendita di uno stabile, trattandosi di costruzione pienamente conforme agli strumenti urbanistici vigenti in loco ed avente solo una difformità, rispetto alle prescrizioni della licenza edilizia, di entità trascurabile, puramente formale ed agevolmente risolvibile in via amministrativa, quanto meno con una sanatoria, con conseguente insussistenza di limitazioni del godimento del bene o di una diminuzione del suo valore).
La predetta disposizione è stata, in particolare, ritenuta applicabile al caso di compravendita di costruzione realizzata in difformità della licenza edilizia, in presenza delle due condizioni dell’omessa dichiarazione, nel contratto, della difformità o della sua non conoscenza in capo al compratore al momento dell’acquisto e della persistenza del potere repressivo della P.A. (adozione di sanzione pecuniaria o di ordine di demolizione), tanto da determinare deprezzamento o minore commerciabilità dell’immobile, condizioni queste in assenza delle quali non è possibile riconoscere all’acquirente la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo (Cass., Sez. 2, 6/12/1984, n. 6399; Cass., Sez. 2, 23/10/1991, n. 11218; Cass., Sez. 2, 28/2/2007, n. 4786; Cass., Sez. 2, 28/11/2014, n. 25357).
Nel caso in esame, è pacifico che il contratto preliminare contenesse la dichiarazione dei promittenti venditori in ordine alla risalenza del bene a periodo antecedente al 1969 senza alcun altra specificazione, mentre i giudici di merito hanno accertato in fatto, alla stregua dei contenuti della c.t.u., che l’opera eseguita (e segnatamente il soppalco) aveva aumentato la superficie utile, sì da richiedere il rilascio del permesso di costruire, che il servizio igienico era stato verosimilmente collegato abusivamente alla pubblica fognatura e, soprattutto, che l’intero piano seminterrato era privo del titolo edilizio, così da non essere condonabile.
Considerata l’entità della difformità alla luce dei precedenti di cui si è detto, possono allora dirsi integrati entrambi i requisiti posti dalla norma per la richiesta di risoluzione del contratto o della riduzione del prezzo, non potendosi in questa sede discutersi della ricostruzione della vicenda fattuale operata alla stregua delle prove raccolte, la quale costituisce attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, insindacabile con il ricorso per cassazione (Cass., Sez. 1, 3/7/2023, n. 18857).
Posto allora che il recesso previsto dal secondo comma dell’art. 1385 cod. civ. configura una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, avente quale presupposto l’inadempimento della controparte e condizione di operatività la semplice sua comunicazione a quest’ultima (Cass., Sez. 1, 13/3/2015, n. 5095), e che la stessa, in ipotesi di versamento della caparra confirmatoria, presuppone, alla stregua della disciplina generale in tema di risoluzione per inadempimento, l’inadempimento colpevole e di non scarsa importanza in relazione all’interesse dell’altro contraente (Cass., Sez. 2, 8/8/2019, n. 21209; Cass., Sez. 1, 10/5/2019, n. 12549), non può che derivare dal suo esercizio, in presenza dei suddetti presupposti, il trattenimento della caparra ricevuta (o l’esazione del doppio di essa), in ossequio alla sua funzione tipica, data dalla liquidazione dei danni preventivamente e convenzionalmente stabiliti, così determinando l’estinzione ope legis di tutti gli effetti giuridici del contratto e dell’ inadempimento ad esso (Cass., Sez. 3, 20/2004, n. 18850).
Correttamente, pertanto, i giudici di merito, una volta ritenuto esistente l’inadempimento colpevole dei ricorrenti, hanno condannato gli stessi al pagamento del doppio della caparra ricevuta.
Ne consegue il rigetto della censura.
[…]