Corte Costituzionale, sentenza, 18 giugno 2024, n. 107
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 64, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), nella parte in cui prevede che non possono far parte della giunta, né essere nominati rappresentanti del comune e della provincia, gli affini entro il terzo grado del sindaco o del presidente della giunta provinciale, anche quando l’affinità deriva da un matrimonio rispetto al quale il giudice abbia pronunciato, con sentenza passata in giudicato, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili per una delle cause previste dall’art. 3 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio).
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– La Corte di cassazione, sezione prima civile, dubita, in riferimento agli artt. 2, 3 e 51 Cost., della legittimità costituzionale «dell’art. 78, terzo comma, cod. civ., implicitamente richiamato dall’art. 64, comma 4, T.U.E.L., nella parte in cui stabilisce che “l’affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva, salvo che per alcuni effetti specialmente determinati.
Cessa se il matrimonio è dichiarato nullo, salvi gli effetti di cui all’art. 87, n. 4”, così prevedendo che il vincolo di affinità permanga per il parente del coniuge divorziato, malgrado il rapporto di coniugio da cui tale vincolo è stato determinato sia oramai sciolto, e impedendo la partecipazione di quest’ultimo alla giunta municipale a seguito di designazione ad opera dell’ex coniuge di un parente».
2.– La questione è stata sollevata nel corso del giudizio instaurato sul ricorso proposto dall’ex coniuge divorziato della sorella del sindaco del Comune di C. – entrato a far parte della Giunta municipale su designazione del sindaco stesso, che lo aveva altresì nominato in sua rappresentanza quale vicesindaco – nei confronti della decisione della Corte d’appello di Napoli che, in riforma della sentenza di primo grado, aveva accertato l’incompatibilità allo svolgimento dell’ufficio indicato.
3.– Secondo la Corte rimettente, l’art. 64, comma 4, t.u. enti locali e l’art. 78, terzo comma, cod. civ., quest’ultimo richiamato per implicito dalla prima norma, non varrebbero a disciplinare gli effetti della pronuncia di divorzio sul legame di affinità.
Il legislatore, infatti, non ha provveduto a modificare, all’esito dell’introduzione della legge n. 898 del 1970, la regolamentazione dell’art. 78 citato che, quale norma generale, disciplina gli effetti che la morte del coniuge e la dichiarazione di nullità del vincolo coniugale da cui deriva il rapporto di affinità producono su quest’ultimo.
3.1.– Il giudice a quo deduce, a sostegno dei parametri nella cui violazione si invera il formulato dubbio di legittimità costituzionale, l’ingiustificata disparità tra il trattamento riservato agli affini nei casi in cui il rapporto matrimoniale si sia sciolto o sia cessato all’esito della pronuncia di divorzio rispetto a quello riconosciuto agli affini stessi il cui presupposto vincolo matrimoniale sia venuto meno, invece, in seguito alla sentenza di nullità del matrimonio.
La nullità ed il divorzio godono, infatti, per la Corte rimettente, della comune natura di «atto contrastante con la fonte del rapporto di affinità», e si fondano entrambi «su un interesse contrario al protrarsi della vita coniugale».
Ma, mentre in caso di nullità «il venir meno del vincolo coniugale comporta la cessazione del rapporto di affinità e abilita l’(ormai ex) affine a ricoprire la carica pubblica», l’accesso a detta carica è «precluso all’affine del divorziato, il cui vincolo permane, benché il rapporto coniugale da cui deriva sia parimenti venuto meno», in contrasto con il principio di eguaglianza.
3.2.– La Corte rimettente denuncia, ancora, la violazione degli artt. 2 e 51 Cost., per il vulnus al diritto di accesso ad un ufficio pubblico in condizioni di eguaglianza, nonostante il diritto di elettorato passivo risulti tra quelli inviolabili.
3.3.– Esclude, infine, il giudice a quo la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata, che, anziché individuare la disciplina «per la fattispecie non prevista», condurrebbe l’interprete, in via di analogia, ad «aggiornare» i contenuti della norma.
4.– È necessario, in via preliminare, un breve riepilogo del contesto normativo all’interno del quale viene sollevato il dubbio di legittimità costituzionale.
4.1.– L’art. 78 cod. civ., inserito nel Titolo V (Della parentela e dell’affinità) del Libro I del codice civile e rubricato «Affinità», ai primi due commi, stabilisce che «[l]’affinità è il vincolo tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge» e che «[n]ella linea e nel grado in cui taluno è parente d’uno dei coniugi, egli è affine dell’altro coniuge».
Al terzo comma, la medesima disposizione stabilisce che «[l]’affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva, salvo che per alcuni effetti specialmente determinati» e, ancora, che quel legame invece «[c]essa se il matrimonio è dichiarato nullo, salvi gli effetti di cui all’art. 87, n. 4».
Rispetto agli eventi della «morte, anche senza prole, del coniuge» e della dichiarazione di nullità del matrimonio, la norma provvede a fissare le sorti della relazione di affinità che dal vincolo coniugale discende, secondo un regime che conosce una regola generale e le sue eccezioni.
Se alla morte si accompagna la permanenza del vincolo di affinità, altrettanto non avviene nel caso di dichiarazione di nullità del matrimonio, in cui il vizio genetico dell’atto comporta la retroattività dello stesso, salve, sempre, nell’uno e nell’altro caso, specifiche deroghe.
4.2.– Il terzo comma dell’art. 78 cod. civ. non disciplina, tuttavia, la sorte del rapporto di affinità nelle ipotesi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
L’art. 149 cod. civ., rubricato «Scioglimento del matrimonio» nella sua originaria dizione prevedeva che il matrimonio si sciogliesse «con la morte di uno dei coniugi».
Tanto avveniva per una indissolubilità del vincolo disposta dal codice civile.
Con la legge n. 898 del 1970, il legislatore non ha regolamentato in modo organico le ricadute che l’introduzione dell’istituto del divorzio avrebbe avuto all’interno del diritto di famiglia. È solo con la successiva legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia) che sono state apportate le relative modifiche del sistema, seppure per puntuali e circoscritti interventi.
5.– È in siffatto contesto che il legislatore ha inserito all’interno dell’art. 149 cod. civ. la previsione per la quale il matrimonio si scioglie, oltre che con la morte di uno dei coniugi, anche «negli altri casi previsti dalla legge» e, ancora, quella secondo cui «[g]li effetti civili del matrimonio celebrato con rito religioso, ai sensi dell’art. 82 o dell’art. 83, e regolarmente trascritto» cessano, oltre che alla morte di uno dei coniugi, anche «negli altri casi previsti dalla legge».
Il divorzio, con la modifica introdotta dall’art. 5 della legge n. 151 del 1975 nell’art. 87, primo comma, numero 4), cod. civ., determina la permanenza dell’impedimento a contrarre nuovo matrimonio derivante dal rapporto di affinità in linea retta, in caso di scioglimento o cessazione degli effetti civili del presupposto vincolo coniugale.
5.1.– Né l’art. 78 cod. civ., al terzo comma, è stato aggiornato a seguito dell’introduzione del divorzio nell’ordinamento.
La disposizione in questione non contiene, infatti, nei suoi immutati contenuti una regola d’indole generale, idonea a dare conto del (e disciplinare il) rapporto tra divorzio e vincolo di affinità, potendo piuttosto ad essa attribuirsi, nel serbato silenzio sul punto, la natura di mera norma di riferimento.
Gli eventi, espressamente previsti, della morte del coniuge e della dichiarazione di nullità del matrimonio, testualmente non riferibili al divorzio, possono bensì valere quali categorie di orientamento e confronto tra norme per quell’analogia legis (art. 12, secondo comma, delle disposizioni preliminari al codice civile) che consente all’interprete di individuare la regola applicabile accostando, quanto agli effetti e nella identità di ratio, la fattispecie da disciplinare a quella già disciplinata.
5.2.– In tali termini hanno operato dottrina e giurisprudenza, che, per supplire alle incertezze e mancanze del legislatore nel dettare la regolamentazione dello scioglimento e della cessazione degli effetti del matrimonio rispetto al vincolo di affinità, hanno accostato il divorzio ora alla morte dell’altro coniuge, ora alla dichiarazione di nullità del matrimonio, salve le rispettive deroghe.
Si è così rimarcata, da una parte, nella comune operatività ex nunc del divorzio e degli effetti della morte (secondo prospettiva e soluzione adottata nell’unico precedente in termini della giurisprudenza di legittimità: Cass., sentenza n. 2848 del 1978), la salvaguardia della realtà storica e giuridica del matrimonio – nell’affermata tassatività della diversa previsione della cessazione dell’affinità all’esito della dichiarazione di nullità del matrimonio – e, dall’altra, nell’accostare il divorzio a quest’ultima, la condivisa volontà dei coniugi di disgregare la relativa comunione, per un esito mediato, in entrambe le ipotesi, dalla pronuncia del giudice.
6.– Nel delineato contesto, si rende necessario procedere, ancora in via preliminare, alla corretta individuazione del perimetro normativo all’interno del quale si colloca il sollevato dubbio di legittimità costituzionale.
6.1.– Il d.lgs. n. 267 del 2000, nell’art. 64, rubricato «Incompatibilità tra consigliere comunale e provinciale e assessore nella rispettiva giunta», al comma 4, così sostituito dall’art. 7, comma 1, lettera b)-ter, del d.l. n. 80 del 2004, come convertito, prevede che «[i]l coniuge, gli ascendenti, i discendenti, i parenti e affini entro il terzo grado, del sindaco o del presidente della Giunta provinciale, non possono far parte della rispettiva Giunta né essere nominati rappresentanti del comune e della provincia».
Secondo la prospettazione del giudice a quo, l’art. 78, terzo comma, cod. civ. e l’art. 64, comma 4, t.u. enti locali definiscono, rispettivamente, la regola generale e quella specifica, derivata in via applicativa dalla prima, secondo cui si declina, in termini di permanenza o cessazione, il rapporto di affinità, in caso di scioglimento o cessazione degli effetti del vincolo matrimoniale da cui esso deriva, nella materia delle incompatibilità alle nomine politiche negli enti locali.
6.2.– Nella specie, peraltro, lo scrutinio di costituzionalità va condotto in modo tale da riallineare la parte dispositiva dell’ordinanza di rimessione ai più articolati contenuti della motivazione, in cui il sospetto di illegittimità costituzionale viene riguardato come incidente non già sull’art. 78, terzo comma, cod. civ., ma sull’art. 64, comma 4, t.u. enti locali, quale specifica declinazione di una regola che non vive se non nei singoli, e differenti, contesti di riferimento.
Si tratta, peraltro, di una operazione che non costituisce un novum nella giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 176 del 1992).
6.3.– Del resto, ai differenti ambiti di riferimento, all’interno dei quali la relazione di affinità svolge il proprio ruolo, di volta in volta, di attribuzione o limitazione del diritto, corrisponde un bilanciamento operato dal legislatore tra la condizione di affine e le correlate posizioni di favore o sfavore.
Basti pensare, a titolo esemplificativo, alla materia degli impedimenti al matrimonio, in cui il codice civile distingue tra affinità in linea retta e collaterale (art. 87, primo comma, per le ipotesi, rispettivamente, di cui ai numeri 4 e 5 cod. civ.), per poi prevedere, espressamente solo nella prima ipotesi, la persistenza del divieto anche nel caso in cui l’affinità derivi da matrimonio dichiarato nullo, o sciolto, o per il quale sia stata pronunciata la cessazione degli effetti civili.
7.– Definita nel senso chiarito, la questione di legittimità costituzionale è fondata, in riferimento a tutti i parametri evocati.
7.1.– Come costantemente affermato da questa Corte, l’art. 51 Cost. va ricondotto «alla sfera dei diritti inviolabili sanciti dall’art. 2 della Costituzione» (sentenza n. 141 del 1996 punto 3 del Considerato in diritto) quale «aspetto essenziale della partecipazione dei cittadini alla vita democratica» (sentenza n. 141 citata, punto 5 del Considerato in diritto) e «svolge il ruolo di garanzia generale di un diritto politico fondamentale, riconosciuto ad ogni cittadino» (sentenza n. 60 del 2023, punto 7 del Considerato in diritto che richiama la sentenza n. 277 del 2011 ed i precedenti di cui alle sentenze n. 25 del 2008, n. 288 del 2007 e n. 539 del 1990).
7.2.– In questo contesto si è ancora precisato che «le restrizioni del contenuto di un diritto inviolabile sono ammissibili solo nei limiti indispensabili alla tutela di altri interessi di rango costituzionale, e ciò in base alla regola della necessarietà e della ragionevole proporzionalità di tale limitazione» (ancora sentenza n. 141 citata, punto 3 del Considerato in diritto).
Dove il diritto all’elettorato passivo vada coniugato con gli interessi costituzionali protetti dall’art. 97, secondo comma, Cost., che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, le cause di incompatibilità alla carica, che del diritto all’elettorato passivo integrano una delle declinazioni, sono costituzionalmente legittime in quanto non introducano differenze nel trattamento tra categorie omogenee di soggetti che siano manifestamente irragionevoli e sproporzionate al fine perseguito.
7.3.– È di chiara comprensione che limitare, nelle ipotesi in esame, l’accesso ad un ufficio pubblico politico, qual è la partecipazione, quale componente, alla Giunta di un comune, ed alla nomina ad un ufficio di rappresentanza della municipalità, qual è la nomina a vice sindaco, con conseguente affermazione della relativa causa di incompatibilità, nel bilanciamento tra la cura dell’imparziale agire della pubblica amministrazione e la tutela del diritto inviolabile all’elettorato, si ponga in contrasto con i canoni di proporzione e ragionevolezza.
La manifesta irragionevolezza di tale disciplina emerge dall’essere la stessa, nella sua permanente affermazione, del tutto sganciata dalle sorti del rapporto di riferimento, e dalla differenza rispetto alla situazione dell’ex coniuge del sindaco, per il quale la incompatibilità non sussiste.
8.– Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 64, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000, nella parte in cui prevede che non possono far parte della giunta, né essere nominati rappresentanti del comune e della provincia, gli affini entro il terzo grado del sindaco o del presidente della giunta provinciale, anche quando l’affinità deriva da un matrimonio rispetto al quale il giudice abbia pronunciato, con sentenza passata in giudicato, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili per una delle cause previste dall’art. 3 della legge n. 898 del 1970.