<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>La riserva di legge costituisce una delle estrinsecazioni del principio di legalità ed è intesa, nella sostanza, a scongiurare che gli elementi costitutivi della punibilità vengano previsti e disciplinati da soggetti diversi dal Legislatore, segnatamente dal Governo e dall’Amministrazione pubblica, essendo al primo (a differenza dei secondi) consustanziale la dialettica tra maggioranza e minoranze. Il principio trova tuttavia dei temperamenti sempre maggiori a cagione dell’iper-tecnicismo che caratterizza il mondo contemporaneo, con la necessità talvolta di integrare o comunque di aggiornare le fattispecie (anche incriminatrici) in modo talmente rapido da rivelarsi talvolta incompatibile con il procedimento legislativo puro. Soccorre allora, a livello accentrato, la Corte costituzionale e, a livello diffuso, il giudice penale che, dopo una prima fase storica tutta incentrata sulla disapplicazione dell’atto amministrativo, si è poi orientato verso un controllo di legalità maggiormente improntato al concreto disvalore penale della fattispecie tipica.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;">Nel diritto romano si può richiamare un noto passo di Ulpiano (Digesto, 1.4.1., pr.) secondo il quale”Quod principi placuit, legis habet vigorem”: ha vigore di legge tutto quello che dispone l’Imperatore. Una espressione che richiama la mera legalità formale e che tuttavia corrisponde al primo postulato del positivismo giuridico onde è il ius positum (da chi è legittimato a produrlo) a prescrivere ciò che si deve e ciò che non si può fare.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1865</strong> Il 20 marzo viene varata la legge 2248, il cui allegato E, all’art.5, prevede la possibilità per il giudice ordinario di disapplicare i provvedimenti amministrativi illegittimi, compresi quelli che incidono sul trattamento sanzionatorio penale, come dimostra la dicitura “in ogni altro caso”.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1889</strong> La codificazione liberale Zanardelli, all’art.1, prevede che a definire i fatti penalmente rilevanti e le rispettive pene sia una legge.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1930</strong> Il codice penale Rocco, all’art.1, conferma che a definire i fatti penalmente rilevanti e le rispettive pene deve essere una legge. Al contempo, vengono tuttavia dettate tutta una serie di disposizioni che si riveleranno significative proprio in tema di riserva di legge, e precisamente: a) l’art.43 in tema di colpa specifica, laddove rinvia regolamenti ed ordini che sono atti amministrativi; b) l’art. 251 in tema di inadempimento di contratti di forniture in tempo di guerra, laddove rinvia alla disciplina dei singoli contratti e del relativo inadempimento; c) l’art.259, che sanziona la disobbedienza di un militare o di un agente della forza pubblica che rifiuta o ritarda indebitamente di eseguire quanto gli viene chiesto dall’autorità competente “nelle forme stabilite dalla legge”; d) l’art.323 in tema di abuso d’ufficio, che punisce chi adotta un provvedimento amministrativo violativo di legge o comunque illegittimo; e) l’art.329 in tema di rifiuto o ritardo indebito del militare a dar seguito ad una richiesta dell’Autorità formalmente legittima; f) l’art. 650 in tema di inosservanza del provvedimento dell’autorità “legalmente” dato, che rinvia al contenuto del singolo provvedimento amministrativo: si tratta di disposizione che, prevedendo un provvedimento amministrativo restrittivo della sfera giuridica del privato, si è a lungo prestata a giustificare il potere disapplicativo in bonam partem del giudice ordinario penale ai sensi dell’art. 5 della L.A.C. g) l’art. 679, comma 3, in tema di ordine “legalmente” dato dalla Autorità di consegnare nei termini prescritti materie esplodenti; h) l’art.698 in tema di ordine “legalmente” dato dalla Autorità di consegnare nei termini prescritti armi e munizioni detenute.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong> La Costituzione (art.25, comma 2) ribadisce che nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. L’art. 101, comma 2 dichiara poi solennemente che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, autorizzando in qualche modo a disapplicare (o comunque a rendere non operativi) gli atti amministrativi che a tale legge non si conformino.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1966</strong> Il 23 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.26 (norme di polizia forestale) che, in tema di riserva di legge, delinea la teoria della sufficiente specificazione: la legge può assumersi costituzionale solo laddove – in caso di rinvio ad altre fonti per la disciplina penale - indichi, specificandoli, i presupposti, i caratteri, il contenuto ed i limiti del provvedimento normativo sottoordinato che ove trasgredito implica sanzione penale. Un orientamento che tuttavia può essere pericoloso laddove si lasci all’Amministrazione una discrezionalità nella valutazione (scelta) dei comportamenti punibili così ampia da friggere con il principio, per l’appunto, della riserva di legge, per giunta sovrapponendosi a quello di tassatività.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1971</strong> Il 26 aprile esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.84 che – con riguardo alla legge 304/68 di rinvio ad un regio decreto del 1873 in materia di polizia ferroviaria – ritiene legittima costituzionalmente la norma primaria che, per ragioni di economia legislativa, operi un rinvio fisso ad una norma sub-primaria già in vigore al fine di disegnare il comportamento punibile. L’8 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 168 che si occupa dell’art.650 c.p. in tema di inosservanza del provvedimento dell’autorità legalmente dato: poiché si tratta di un provvedimento amministrativo individuo e concreto (e non di un atto generale ed astratto come ad esempio un regolamento), per la Corte è da escludere che esso integri il precetto penale, il quale ultimo trova la propria fonte esclusivamente nella legge; la materialità della contravvenzione per la Corte è descritta dal codice tassativamente e in tutti i relativi elementi costitutivi, dovendo dunque escludersi la frizione con il principio della riserva di legge. Il riferimento al fatto che il provvedimento richiamato dall’art. 650 c.p. debba essere “legalmente dato” dall’Autorità prova che esiste (deve esistere) una legge dello Stato che ne specifica in modo sufficiente le condizioni e l’ambito applicativo, e laddove il giudice accerti questo, il principio della riserva di legge deve assumersi rispettato (attraverso la sommatoria tra la legge penale e quella amministrativa che disciplina il singolo provvedimento).</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1977</strong> Il 20 gennaio esce la sentenza della Cassazione “Torosantucci”, una delle prime ad assumere che, in caso di titolo a costruire illegittimo, tale illegittimità ne produce la giuridica inesistenza consentendo al giudice penale di disapplicarlo (in malam partem) ai sensi della L.A.C. e di punire come nel caso di vera e propria assenza del detto titolo: né è possibile invocare la propria buona fede, perché essa si risolve in errore di diritto inescusabile ex art. 5 c.p., neanche nel caso specifico del Sindaco che abbia avuto parere favorevole dalla commissione comunale edilizia.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1983</strong> Il 15 giugno escono le sentenze della Cassazione “Tommasini” e “Dalli Cani”, che riprendono la giurisprudenza del caso Torosantucci (e sentenze successive), equiparando dunque l’illegittimità del titolo edilizio (disapplicato) alla relativa assenza, ma che appaiono più garantiste dal punto di vista soggettivo della fattispecie: muovendo dalla presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, esse affermano che il costruttore è penalmente responsabile solo in caso di consapevolezza della palese illegittimità dell’atto, una fattispecie della quale viene rinvenuta nella collusione con l’autorità comunale che rilascia il titolo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1985</strong> Il 13 marzo esce l’ordinanza della sezione III della Cassazione (“Meraviglia”) che – inaugurando un contrasto rispetto ai precedenti della Corte favorevoli alla disapplicazione - si pone nel solco dell’abbandono del riferimento alla disapplicazione medesima di cui all’art.5 della L.A.C., abbracciando la tesi della c.d. tipicità formale: il giudice penale in realtà non disapplica nulla, ma si limita solo a verificare se il fatto tipico si è verificato o meno. Quando il fatto tipico prevede esplicitamente (per espresso richiamo della norma incriminatrice) che l’atto amministrativo incidente sulla fattispecie sia “legittimo” (come nell’ipotesi dell’art.650 c.p.), solo in quel caso è possibile per il giudice constatare l’illegittimità dell’atto e ritrarne tutte le conseguenze in termini di mancata realizzazione della fattispecie penale. Proprio queste fattispecie testimoniano che il giudice penale, in realtà, non può disapplicare: se al giudice penale fosse consentito disapplicare (piuttosto che, più tecnicamente, verificare la tipicità della fattispecie), gli espliciti richiami della norma alla “legittimità” dell’atto non servirebbero, potendolo egli disapplicare in ogni caso. Ulteriore conseguenza che se ne ritrae è che laddove la norma incriminatrice non faccia alcun riferimento esplicito alla “legittimità” dell’atto amministrativo che integra la fattispecie penale – come nell’ipotesi di cui all’art.17, lettera b), della legge n.10.77 in tema di concessione edilizia mancante (ma non, appunto, illegittima) - al giudice penale non è consentito sindacare dal punto di vista “sostanziale” l’atto amministrativo che, per quanto illegittimo, esiste ed è assistito da presunzione di legittimità: è sufficiente che un atto ci sia e che sia stato adottato dall’organo apparentemente legittimato, a nulla rilevando che esso sia, ad esempio, viziato da eccesso di potere. Diversi solo i casi, macroscopici, di assenza formale dell’atto (laddove adottato da organo in difetto di attribuzione, assolutamente privo del potere di provvedere) e di assenza sostanziale dell’atto (perché frutto di attività criminosa tra soggetto pubblico erogante e soggetto privato ricevente): casi entrambi nei quali anche questo orientamento assume l’atto tamquam non esset e disapplicabile, con conseguente punibilità.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1987</strong> Il 31 gennaio esce la sentenza delle SSUU n.3 (Giordano) che – in tema di reati edilizi – risolve il contrasto inveratosi nella giurisprudenza ed esclude l’operatività della disapplicazione ai sensi dell’art.5 della L.A.C. a provvedimenti che non siano restrittivi della sfera giuridica del cittadino: diversamente opinando si consentirebbe al giudice penale un potere di controllo e di ingerenza esterna sull’attività della PA, in violazione del principio della separazione dei poteri. La Corte muove da un analisi della disapplicazione siccome disegnata agli articoli 4 e 5 della L.A.C.: destinatario ne è all’origine il solo giudice ordinario (per giunta con accertamento incidentale, posto che l’atto continua a produrre effetti per chi è rimasto fuori dal giudizio), ed essa riguarda il solo caso di diritti soggettivi conculcati dall’azione della PA (atti repressivi), non anche il caso degli atti ampliativi della sfera giuridica del cittadino; laddove il giudice penale potesse disapplicare anche gli atti ampliativi, si ingerirebbe ab externo sull’attività di perseguimento dell’interesse pubblico demandata per legge alla PA, entrando in rotta di collisione con il principio della divisione dei poteri. Muovendo da questa premessa, il giudice penale può sindacare la legittimità degli atti ampliativi solo quando vi è espressamente autorizzato dal legislatore (come nel caso dell’art.650 c.p., che tuttavia riguarda atti conculcativi), ovvero quando la legittimità/illegittimità dell’atto amministrativo (anche se non esplicitamente menzionata nella norma incriminatrice) rientra comunque tra gli elementi essenziali del fatto di reato; per verificare tale ultima circostanza, occorre muovere dall’interesse penalmente tutelato: laddove detto interesse si identifichi con quello all’osservanza delle norme di diritto amministrativo sostanziale che disciplinano l’attività edilizia, ogni frizione con detto interesse (affiorante dal costruire sulla base di un atto anche solo illegittimo) sarebbe penalmente sanzionabile; ma in realtà per la Corte l’interesse tutelato dall’art.17 della legge 10.77 è quello (meramente formale) a che chi vuole edificare non lo faccia autonomamente, ma chieda l’autorizzazione preventiva alla competente PA, con la conseguenza che se detta autorizzazione è stata chiesta ed ottenuta, ancorché sia illegittima, il privato può costruire senza essere sottoposto a sanzione penale anche se il suo intervento costruttivo è contrario alla disciplina urbanistica; mentre laddove costruisca in modo pienamente conforme alla disciplina urbanistica, e tuttavia senza chiedere preventivamente la “concessione edilizia”, egli è comunque assoggettabile a sanzione penale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1989</strong> Il 9 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione che rispolvera la disapplicazione in materia di reati edilizi, la cui operatività era stata negata dalle SSUU nel 1987: dire che in caso di atti ampliativi la disapplicazione non è ammessa significa, per la Corte, conculcare grandemente la possibilità per il giudice ordinario penale di scandagliare gli atti amministrativi, peraltro in qualche modo contra legem, in quanto l’art. 5 della L.A.C., laddove dice “in ogni altro caso”, sembra ammettere la disapplicazione anche degli atti ampliativi.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1990</strong> Il 14 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.282, secondo la quale un problema di riserva di legge si pone soprattutto quando la legge viene prima e la norma sub-legislativa di integrazione viene varata dopo; allorché invece, all’opposto, la norma sub-primaria sia già in vigore e sia fatta oggetto di un richiamo a fini punitivi dalla legge ordinaria successiva, non si pongono problemi di compatibilità con il principio della riserva di legge laddove si tratti di rinvio fisso, mentre più pericoloso è il rinvio mobile, nel quale ultimo caso non deve perdurare la facoltà per la PA di mutare, sostituire o abrogare il proprio atto preesistente integrativo della legge. La medesima pronuncia si occupa del potere di sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo (nel caso di specie, concessione edilizia in sanatoria, palesemente illegittima): la questione dei limiti alla disapplicazione del giudice penale ai sensi degli articoli 4 e 5 della L.A.C. viene giudicata (con riguardo al caso di specie) manifestamente infondata, in quanto il realtà il giudice può ampiamente disapplicare (anche in malam partem) l’atto amministrativo, non soltanto in caso di collusione tra privato e funzionario, ma in presenza di qualunque vizio che derivi all’atto dalla violazione della legge penale, come ad esempio nel caso dell’art.328 c.p. (omissione di atti d’ufficio), laddove l’istanza di concessione in sanatoria del privato richieda un accertamento di conformità alla disciplina urbanistica che viene deliberatamente omesso dal funzionario competente al fine di autorizzare, illegittimamente, l’intervento edilizio.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1991</strong> Il 4 giugno esce la sentenza della III sezione n. 6094, in tema di lottizzazione abusiva “materiale” (concreta realizzazione di opere difformi dalla disciplina urbanistica, e dunque diversa dalla lottizzazione abusiva “formale”, quale inequivoca destinazione a scopo edificatorio di terreni sulla base di atti giuridici quali il frazionamento e la vendita di lotti et similia), che ritiene che la sanzione penale possa scattare solo quando manca l’autorizzazione a lottizzare, non anche quando tale autorizzazione è stata ottenuta, ma è illegittima per frizione con la disciplina urbanistica: solo in ipotesi di autorizzazione mancante (o comunque inesistente o macroscopicamente invalida), la lottizzazione è davvero abusiva e merita sanzione penale, non potendo negli altri casi il giudice penale disapplicare l’autorizzazione ottenuta, ancorché illegittima. L’11 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.333 che abbraccia la teoria della riserva di legge tendenzialmente assoluta in una fattispecie in materia di stupefacenti: la norma censurata viene giudicata costituzionalmente legittima perché i parametri che essa detta alla PA sono vincoli sufficienti a restringerne la discrezionalità riservandole una valutazione strettamente tecnica.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>1992</strong> Il 21 ottobre esce la sentenza delle SSUU “Molinari” che, pronunciandosi su una fattispecie in tema di distruzione o deturpamento di bellezze naturali ex art.734 c.p., afferma l’autonomia della tutela penale (e del sindacato del giudice penale) rispetto alla sfera decisionale riservata alla PA, così avvicinandosi alla tesi della c.d. tipicità sostanziale, sulla base della quale quel che conta è garantire un presidio penale al bene tutelato, ancorché ciò possa comportare – nell’ottica dell’accertamento del fatto tipico – equiparazione di un provvedimento illegittimo ad un provvedimento mancante (e, dunque, sostanziale disapplicazione in malam partem). <strong> 1993</strong> Il 21 gennaio esce una sentenza della III sezione della Cassazione che ritiene inesistente, e quindi disapplicabile in malam partem, una concessione edilizia che sia patentemente in contrasto con il PRG per vizio grave, sostanziale e non meramente procedimentale: la pronuncia implementa il sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo, in quanto l’atto dal punto di vista del diritto amministrativo non sarebbe inesistente, ma il giudice penale lo considera tale a cagione della gravità sostanziale del vizio riscontrato. Il 21 dicembre esce la sentenza delle SSUU n. 11635 (Borgia), che torna sulla questione della possibile disapplicabilità dei provvedimenti amministrativi ampliativi da parte del giudice penale nell’ipotesi dei reati edilizi: tale disapplicabilità viene esclusa, ma non perché essa sia applicabile solo in caso di atti repressivi (ed interessi oppositivi dei privati), quanto piuttosto perché il giudice penale è chiamato ad applicare, nella sostanza, una norma penale in bianco (l’art. 20 della legge n.47.85), dinanzi alla quale deve non già ingerirsi ab externo sull’azione della PA, quanto piuttosto verificare quale sia l’interesse penalmente tutelato da tale norma penale in bianco e rapportarlo alla specifica fattispecie che è chiamato a scandagliare, al fine di accertare se il comportamento del soggetto ha o meno soddisfatto tale interesse (presidiato da sanzione penale). Si tratta, nella sostanza, di verificare se chi ha costruito lo ha fatto “bene” o meno, dovendosi vedere nell’atto amministrativo concessorio (che amplia la sfera giuridica del privato) un mero elemento extrapenale della fattispecie con valore puramente descrittivo. Non si tratta di ingerirsi nell’attività della PA, quanto piuttosto di identificare in concreto la fattispecie sanzionata e, in caso di comportamento fuori asse del soggetto agente (quand’anche con la complicità dell’Amministrazione), di punirlo. Secondo la Corte, peraltro, la disciplina urbanistica si è evoluta dall’originaria legge del 1150.42 sino alla legge 47.85, con la conseguenza che ormai l’interesse che la norma penale tutela non è più identificabile nella “costruzione previa autorizzazione” e dunque formalmente legittima, quanto piuttosto nella costruzione sostanzialmente conforme all’assetto urbanistico del territorio e, dunque, sostanzialmente legittima. Al fine di operare questa verifica di conformità sostanziale dell’opera (presunta abusiva) rispetto al quadro ordinamentale (a livello di normativa primaria e secondaria) vigente, il giudice penale è chiamato – configurando l’art. 20 della legge n.47.85 una norma penale in bianco – ad andare più a monte, e dunque a scrutinare gli atti amministrativi (in veste di elementi extrapenali descrittivi: PRG e relative norme tecniche di attuazione, regolamento comunale, regolamento edilizio, altri atti pianificatori, concessione edilizia) al fine di verificare se l’opera realizzata possa o meno considerarsi lecita dal punto di vista penale. La conclusione è che il giudice penale non disapplica nessun atto amministrativo, ma conosce degli atti amministrativi al solo fine di verificare se, sul piano sostanziale e concreto, l’opera divisata è conforme o meno all’assetto urbanistico ed edilizio vigente, dovendo in caso contrario punire anche se il soggetto ha ottenuto un titolo edilizio (che, come tale, si palesa sostanzialmente illegittimo). Dato il bene (interesse) tutelato – costruire in modo conforme all’ordinamento urbanistico-edilizio – il giudice penale accerta la fattispecie concreta (opera costruita) e la confronta con quella astratta (in bianco, ma integrata in via extrapenale dagli atti amministrativi) e, in caso di contrasto, punisce senza disapplicare nulla. <strong> 2001</strong> Il 29 gennaio esce la sentenza della III sezione “Matarrese ed altri”, che in tema di lottizzazione abusiva corregge il proprio precedente orientamento e ritiene che essa configuri un reato a consumazione alternativa, dovendosi assumere configurabile a) nel caso in cui manchi l’autorizzazione (lottizzazione abusiva formale); ovvero b) nel caso in cui l’autorizzazione a lottizzare vi sia, ma contrasti con le previsioni degli strumenti urbanistici (lottizzazione abusiva sostanziale). Il problema (come nell’analogo caso dei titoli edilizi) non è quello di presidiare penalmente il controllo della PA sull’attività urbanistica, ma quello di garantire penalmente che detta attività sia pienamente conforme alle norme urbanistiche vigenti.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2002</strong> L’8 febbraio esce la sentenza delle SSUU n. 5115, che in tema di lottizzazione abusiva conferma gli approdi già raggiunti dalle SSUU del 1993, Borgia con riguardo ai titoli edilizi, risolvendo il contrasto sorto in seno alla III sezione della Corte. Lo scopo del giudice penale non è quello di verificare se esiste o meno un dato atto amministrativo (l’autorizzazione a lottizzare), assolvendo nel primo caso e punendo nel secondo; il giudice penale deve piuttosto verificare – anche laddove un atto amministrativo sicuramente vi è, con ampliamento della sfera giuridica privata - se è stata integrata o meno la fattispecie penale e, dunque, se è stato leso l’interesse (bene) penalmente presidiato, che si compendia nel pieno rispetto da parte del soggetto agente della disciplina urbanistica vigente, dovendo punire laddove il bene dell’ordinato assetto urbanistico sia stato leso anche se un provvedimento autorizzativo (illegittimo) in realtà vi è stato: l’autorizzazione rientra tra quegli elementi di natura extrapenale, con effetto descrittivo, che contribuiscono a delineare la fattispecie penale, la cui concreta integrabilità è l’unico oggetto reale della verifica del giudice, il quale non disapplica nulla, verificando solo se la costruzione è “urbanisticamente” lecita o illecita. L’obiettivo è quello di garantire la concreta conformazione del territorio siccome derivata dalle scelte di programmazione effettuate dalla legge o dalla disciplina di piano. Il 01 marzo escono le sentenze gemelle della III sezione n. 8032-33-34-35-40 che ribadiscono quanto già insegnato, in tema di lottizzazione abusiva, dalle SSUU con la sentenza 5115, chiarendo che trattasi di un reato a consumazione alternativa che si realizza: a) per difetto di autorizzazione a lottizzare; b) per autorizzazione a lottizzare presente, ma contrastante con le prescrizioni della legge e degli strumenti urbanistici.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong> Il 30 marzo esce la sentenza della III sezione n. 15299 della Cassazione che, nell’abbracciare la tesi sostanzialistica con riguardo al sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo, parte dall’art.101 Cost. - il giudice è soggetto soltanto alla legge - per affermarne il potere di vagliare la legittimità di tutti gli atti amministrativi (nel caso di specie, edilizi: concessione edilizia, concessione in sanatoria, condono): poiché l’attività edilizia è soggetta ad autorizzazioni, concessioni e in genere atti ampliativi, laddove tali atti siano illegittimi (e dunque non conformi alla legge, dal punto di vista sostanziale e non solo formale) tale relativa caratteristica patologica (illegittimità sostanziale) non può non rifrangersi sulla fattispecie penale a tutela del bene protetto (assetto urbanistico ed edilizio del territorio), a meno che non intervengano cause di giustificazione.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong> Il 15 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 9121 in tema di immigrazione: la fattispecie (disapplicazione in bonam partem) è quella del Prefetto che ha adottato un decreto di espulsione, al quale fa seguito l’ordine del Questore allo straniero di lasciare il territorio nazionale, che tuttavia è motivato per relationem rispetto al precedente decreto di espulsione prefettizio. Laddove lo straniero non esegua l’ordine del Questore, si tratterebbe di reato ex art. 14, comma 5.ter, del decreto legislativo 286/98 (prima della riformulazione del 2011), ma tale ordine, motivato solo per relationem, viene assunto illegittimo per violazione dell’art. 3 della legge 241/90, e viene disapplicato in bonam partem. Il Questore deve infatti dare seguito al provvedimento prefettizio, ma è munito di discrezionalità tecnica potendo alternativamente far accompagnare lo straniero alla frontiera, ovvero trattenerlo presso un centro di accoglienza, ovvero ordinargli di lasciare il territorio dello Stato entro 5 giorni, sicché la motivazione per relationem va considerata illegittima. Il 21 giugno esce la sentenza della III sezione n. 21487 che conferma – in tema di reati edilizi - l’impostazione “sostanzialistica” della sentenza delle SSUU del 1993 Borgia, escludendo l’operatività della disapplicazione: l’atto amministrativo (titolo edilizio) non viene scrutinato incidentalmente nella relativa legittimità dal giudice penale, ma costituisce elemento costitutivo dell’illecito penale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong> Il 28 febbraio esce la sentenza delle SSUU n. 19601 – in tema di sindacato del giudice penale su atti giurisdizionali di altri giudici - secondo la quale il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta (artt. 216 e seguenti della legge fallimentare) non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non solo quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza della impresa ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall’art. 1 l. fall. per la fallibilità dell’imprenditore; pertanto, le modifiche apportate all’art. 1, l. fall. (prima dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 e poi dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169) non esercitano influenza, ai sensi dell’art 2 c.p., sui procedimenti penali in corso. Secondo la Corte ogni sentenza, anche se non definitiva, laddove applica la legge, ha un valore erga omnes e non può essere sindacata e/o disapplicata da un altro giudice: essa può essere messa in discussione solo dalle parti legittimate attraverso i mezzi di impugnazione (ordinari e straordinari) previsti dalla pertinente disciplina processuale. Il 22 aprile esce la sentenza della III sezione n. 26144, che si occupa del caso in cui sia intervenuto un provvedimento amministrativo di sanatoria di abuso edilizio (genericamente, “concessione in sanatoria”), con effetti estintivi della fattispecie penale (contravvenzione) corrispondente: laddove tale atto amministrativo sia illegittimo, il giudice penale che accerta il mancato verificarsi dell’effetto estintivo del reato – secondo la Corte – non disapplica il provvedimento amministrativo ai sensi dell’art.5 della L.A.C. ma verifica il contrasto tra la costruzione e le norme urbanistiche vigenti, con conseguente lesione dell’interesse penalmente tutelato (assetto del territorio pienamente conforme alle scelte urbanistiche operate). In realtà la dottrina critica questa impostazione in quanto – a differenza delle ipotesi di concessione edilizia o di autorizzazione alla lottizzazione – qui il provvedimento amministrativo non incide ab interno sulla fattispecie incriminatrice, contribuendo (quale elemento extranormativo) ad integrarla – ma opera “ab externo” rispetto ad essa, influendo sulla eventuale estinzione del reato già consumato, con conseguente piena disapplicabilità “tecnica” dell’atto in questi casi (proprio perché esterno alla fattispecie penale).</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong> L’8 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione che si occupa della fattispecie – in tema di immigrazione - del provvedimento del Questore che fa seguito al decreto di espulsione del Prefetto, ribadendo che l’illiceità penale ai sensi dell’art.5.ter del decreto legislativo n.286.98 va esclusa quando il Questore si limiti a motivare per relationem rispetto al provvedimento espulsivo del Prefetto.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong> L’8 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 9157 secondo la quale l’art.650 c.p. è conforme al principio della riserva di legge: si è al cospetto di una norma penale in bianco che tuttavia ha carattere sussidiario e scatta solo quando il fatto non costituisca un più grave reato ovvero non sia comunque assistito da una qualche altra forma di risposta sanzionatoria, anche non penale. Quando il fatto è munito di un proprio specifico meccanismo di tutela, anche non penale (ad esempio di tipo processuale o amministrativo), l’art.650 c.p. non è operativo in forza del principio di sussidiarietà, e questo rende tale norma compatibile con il principio della riserva di legge. La Corte, sotto altro profilo, afferma che nel caso di inottemperanza all’ordine dell’autorità, il sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo si estende anche al profilo della eventuale illegittimità meramente formale (procedimentale) dell’atto, in funzione della eventuale disapplicazione in bonam partem. Il 13 settembre viene varato il decreto legge n.158, meglio noto come decreto “Balduzzi”, il cui articolo 3 – al fine di mitigare il rigore pretorio in tema di colpa medica – esclude la responsabilità del medico per morte o lesioni del paziente nel caso in cui il medico stesso sia incorso in colpa lieve (non anche, dunque, colpa grave) nello svolgimento della propria attività (non ulteriormente perimetrata con riferimento alla idoneità dell’evento ad integrare specifiche figure di reato “altre”, né quanto alla afferibilità a negligenza, imprudenza o imperizia) attenendosi a linee guida e buone pratiche accreditate presso la comunità scientifica. L’8 novembre viene varata la legge n.189 che converte il decreto Balduzzi n.158.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong> Il 19 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.7423, Cervino ed altri, che offre una interpretazione costituzionalmente orientata (e tale da non porsi in contrasto con gli articoli 3, comma 1, 25, comma 2 e 27, comma 1 della Costituzione) dell’art.44 del D.p.R. 380.01, testo unico in materia edilizia: ai fini della configurabilità delle ipotesi di reato previste nelle lettere b) e c) di tale norma, non possono assumersi realizzate “in assenza” di permesso di costruire le opere che hanno alla base un provvedimento abilitativo della PA meramente illegittimo, salvo che non si giunga alla soglia della collusione illecita o che, comunque, tale titolo abilitativo sia macroscopicamente illegittimo, solo in questi casi potendosi ritenere “mancante” anche a fini penali. La Corte precisa di porsi, con questo arresto, in linea di sostanziale continuità con la evoluzione giurisprudenziale in tema di reati urbanistici e riserva di legge, non potendosi assumere valida l’automatica equazione tra illegittimità dell’atto amministrativo (titolo edilizio) e reato urbanistico; solo ragionando in questi termini può infatti scongiurarsi la frizione con il principio di responsabilità penale per fatto proprio colpevole (l’adozione di un provvedimento favorevole da parte della PA è idoneo ad ingenerare nel privato un certo affidamento) e con quello che vieta una equiparazione ermeneutica (che sarebbe in malam partem) tra titolo assente e titolo meramente illegittimo. In proposito, al fine di individuare quali situazioni di illegittimità rendono il titolo abilitativo improduttivo di validi effetti anche a fini penali, occorre giocoforza fare riferimento alle finalità della disciplina urbanistica ed ai presupposti per il rilascio del permesso di costruire, individuati dall’art.12 del D.p.R. 380.01, tra l’altro, nella necessaria conformità alla previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e più in generale della normativa urbanistico-edilizia vigente; onde, lasciando da parte il caso in cui il provvedimento sia addirittura illecito, può configurarsi una illegittimità (macroscopica) rilevante anche in sede penale laddove il titolo abilitativo sia palesemente non conforme alla normativa che ne regola l’adozione e alle disposizioni normative di settore. In sostanza, per la Corte va escluso che il solo fatto della esistenza del permesso di costruire escluda ogni valutazione del giudice penale in ordine alla sussistenza del reato, potendo egli accertarne la configurabilità quando il vizio dell’atto sia macroscopico, oltre che nell’ipotesi di collusione illecita tra chi lo rilascia e chi lo ottiene.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2016</strong> Il 21 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.2598 secondo la quale l’esercizio del sindacato incidentale di legittimità del giudice penale sugli atti amministrativi a contenuto normativo è da assumersi ammesso nei soli casi in cui questi siano frutto di attività criminosa del privato o dell’Amministrazione, ovvero siano viziati da illegittimità tale da potersi considerare sostanzialmente mancanti o inesistenti (gravemente nulli). Per la Corte, nelle fattispecie di opere urbanistiche eseguite sulla base di permessi di costruire rilasciati in forza di un regolamento urbanistico ritenuto illegittimo, il contrasto dell’atto normativo presupposto con disposizioni della normativa regionale o nazionale di riferimento che riverbera in illegittimità dell’atto concessorio può rilevare ai fini della valutazione di astratta configurabilità dei reati previsti dall’art.44, lettere b) e c), del D.p.R. n.380.01 in tema di lottizzazione abusiva, ma nei soli casi in cui si manifesti in termini di evidenza macroscopica. La sentenza viene criticata da parte della dottrina laddove – sulla base del riferimento al concetto indeterminato di illegittimità macroscopica dell’atto amministrativo presupposto – finisce per l’avallare un ritorno alla giurisprudenza penale sulla disapplicabilità / inapplicabilità dell’atto amministrativo a fini penali in malam partem, con corredo di possibile sindacato del giudice penale sul merito dell’atto amministrativo; si propone, da parte della dottrina medesima, di distinguere: a) i casi in cui oggetto di sindacato del giudice penale sia un atto amministrativo “normativo” (o gli atti a valle che esso presuppone), laddove è possibile per il giudice penale semplicemente affidarsi al rapporto di gerarchia tra le fonti primaria e secondaria (con conseguente disapplicazione); b) i casi in cui oggetto di sindacato sia invece un atto amministrativo generale, ma non normativo, ipotesi in cui può rilevare la c.d. macroscopica illegittimità al fine di valutare se si è realizzata la fattispecie penale, ma non già in termini “sciolti”, quanto piuttosto facendo riferimento ai rapporti di “simpatia” o di “antipatia” tra gli atti concessori a valle e l’atto generale illegittimo a monte; b.1) nel primo caso (“simpatia”) palesandosi macroscopicamente illegittimo anche l’atto concessorio a valle, mentre b.2) nel secondo (“antipatia”) dovendosi assumere conforme alla fonte primaria il ridetto atto concessorio a valle. Il 3 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 46170 che, nel fornire una prima interpretazione dell’art. 452 bis c.p., fornisce chiarimenti utili a definire l’esatta portata di alcuni elementi della fattispecie di inquinamento ambientale. In particolare, per quanto qui interessa, l’avverbio “abusivamente” (“chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili…”), secondo la Corte, deve essere inteso in un’accezione ampia, comprendente la violazione tanto di leggi (statali o regionali) quanto di prescrizioni amministrative. Per quanto concerne in particolare la possibilità di additare come abusive condotte inquinanti che risultino autorizzate sul piano amministrativo, il si pone proprio la nota questione di individuare i limiti del potere di sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo che si presenti difforme dalla legge. La dottrina ha in proposito evidenziato come la pertinente giurisprudenza abbia animato due orientamenti che, pur fornendo un differente inquadramento dogmatico a tale potere, giungono entrambi ad ammettere la possibilità di un tale sindacato piuttosto in misura piuttosto ampia; la prima impostazione fa riferimento all’istituto della disapplicazione dell’atto amministrativo ex art. 5, All. E, L. n. 2248 del 1865 (legge abolitrice del contenzioso amministrativo), mentre il secondo, definito “sostanzialistico”, assume invece che, quando il giudice penale accerta profili di illegittimità sostanziale dell’atto amministrativo autorizzatorio richiamato dalla norma penale di fonte primaria, egli null’altro fa che procedere all’accertamento in concreto della sussistenza degli elementi della pertinente fattispecie, non facendo luogo a veruna disapplicazione riconducibile al citato art. 5, All. E, L. n. 2248 del 1865. Qui la Corte di Cassazione segue la seconda impostazione e, al fine di individuare il limite del sindacato in oggetto, richiama talune pronunce che si sono espresse con riferimento al reato di cui all’art.260, D.Lgs. n. 152/2006, laddove si rinviene una clausola di illiceità speciale analoga a quella di cui all’art. 452 bis c.p., onde il carattere abusivo della condotta sussiste qualora l’attività si svolga continuativamente nell’inosservanza di leggi o in difetto di autorizzazioni amministrative (cosiddetta attività clandestina), potendo tuttavia il giudice di merito assumere abusivi anche quei comportamenti tenuti in presenza di autorizzazioni scadute o manifestamente illegittime, dovendosi altresì additare come abusive quelle fattispecie in cui le autorizzazioni non risultino commisurate alla tipologia di attività richiesta, ovvero siano state violate le prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazioni stesse, in modo che l’attività non possa più assumersi giuridicamente riconducibile al titolo abilitativo rilasciato dalla competente autorità amministrativa. Può anche accadere, in senso opposto, che il delitto sia non configurabile pur in difetto di autorizzazione, laddove tale atto assuma un rilievo meramente formale e non sia causalmente ricollegabile agli altri elementi costitutivi del fatto (che invece farebbero considerare realizzata la fattispecie incriminatrice). Proprio collocandosi nel solco di questo orientamento sostanzialistico la Corte sembra dunque rivendicare per il giudice penale un ampio potere di sindacato su quegli atti autorizzatori frutto di condotte penalmente illecite, o in quei casi in cui le condotte inquinanti siano state tenute solo apparentemente nel rispetto di autorizzazioni amministrative (autorizzazioni scadute o manifestamente illegittime), evenienze nelle quali l’atto amministrativo può essere incidentalmente qualificato illegittimo, così consentendo l’integrazione dell’elemento oggettivo del reato.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong> *Il 21 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.12389 che ribadisce la necessità di una interpretazione costituzionalmente orientata (e tale da non porsi in contrasto con gli articoli 3, comma 1, 25, comma 2 e 27, comma 1 della Costituzione) dell’art.44 del D.p.R. 380.01, testo unico in materia edilizia: ai fini della configurabilità delle ipotesi di reato previste nelle lettere b) e c) di tale norma, non possono assumersi realizzate “in assenza” di permesso di costruire le opere che hanno alla base un provvedimento abilitativo della PA meramente illegittimo, salvo che non si giunga alla soglia dell’illecito o che, comunque, tale titolo abilitativo sia macroscopicamente illegittimo, solo in questi casi potendosi ritenere “mancante” anche a fini penali. La Corte precisa di porsi, con questo arresto, in linea di sostanziale continuità con la evoluzione giurisprudenziale in tema di reati urbanistici e riserva di legge, non potendosi assumere valida l’automatica equazione tra illegittimità dell’atto amministrativo (titolo edilizio) e reato urbanistico; solo ragionando in questi termini può infatti scongiurarsi la frizione con il principio di responsabilità penale per fatto proprio colpevole (l’adozione di un provvedimento favorevole da parte della PA è idoneo ad ingenerare nel privato un certo affidamento) e con quello che vieta una equiparazione ermeneutica (che sarebbe in malam partem) tra titolo assente e titolo meramente illegittimo. In proposito, al fine di individuare quali situazioni di illegittimità rendono il titolo abilitativo improduttivo di validi effetti anche a fini penali, occorre giocoforza fare riferimento alle finalità della disciplina urbanistica ed ai presupposti per il rilascio del permesso di costruire, individuati dall’art.12 del D.p.R. 380.01, tra l’altro, nella necessaria conformità alla previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e più in generale della normativa urbanistico-edilizia vigente; onde, lasciando da parte il caso in cui il provvedimento sia addirittura illecito, può configurarsi una illegittimità (macroscopica) rilevante anche in sede penale laddove il titolo abilitativo sia palesemente non conforme alla normativa che ne regola l’adozione e alle disposizioni normative di settore. In sostanza, per la Corte va escluso che il solo fatto della esistenza del permesso di costruire escluda ogni valutazione del giudice penale in ordine alla sussistenza del reato, potendo egli accertarne la configurabilità quando il vizio dell’atto sia macroscopico, oltre che nell’ipotesi di collusione illecita tra chi lo rilascia e chi lo ottiene. L’8 marzo viene varata la legge n.24, c.d. Gelli-Bianco, in materia di responsabilità medica, che – nel tipizzare la colpa medica, con particolare riguardo a quella derivante da imperizia – introduce per il caso di morte o lesioni colpose del paziente la causa di non punibilità prevista dall’art.590.sexies, comma 2, del codice penale, onde qualora l’evento si sia verificato appunto a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto. Interessante in particolare l’art.3 della legge che prevede la istituzione di un Osservatorio delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, destinato a raccogliere i dati utili per la gestione del rischio sanitario e quelli concernenti le buone pratiche per la sicurezza delle cure, giusta predisposizione di linee di indirizzo con l’ausilio delle società scientifiche e delle associazioni tecnico scientifiche delle professioni sanitarie; all’uopo viene previsto un elenco delle società e delle associazioni in parola, che presentino caratteristiche peculiari idonee a garantirne la trasparenza e la capacità professionale scientifica; si tratta nella sostanza di enti deputati ad elaborare, unitamente alla istituzioni pubbliche e private, le raccomandazioni da includere in Linee guida con la finalità di fungere da parametro per la corretta esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità tanto preventive e diagnostiche quanto terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale. Il 3 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 37787 onde non integra il reato di inosservanza dei provvedimenti dell'autorità (art. 650 cod. pen.) l'inottemperanza dell'ordinanza contingibile e urgente del Sindaco che non riguardi un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato e si risolva in una disposizione di tenore regolamentare data in via preventiva ad una generalità di soggetti, in assenza di riferimento a situazioni imprevedibili o impreviste, non fronteggiabili con i mezzi ordinari, non essendo sufficiente l'indicazione di mere finalità di pubblico interesse per radicare – in caso di inosservanza – la responsabilità penale del soggetto attivo. *Il 24 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.12389 che ribadisce la necessità di una una interpretazione costituzionalmente orientata (e tale da non porsi in contrasto con gli articoli 3, comma 1, 25, comma 2 e 27, comma 1 della Costituzione) dell’art.44 del D.p.R. 380.01, testo unico in materia edilizia: ai fini della configurabilità delle ipotesi di reato previste nelle lettere b) e c) di tale norma, non possono assumersi realizzate “in assenza” di permesso di costruire le opere che hanno alla base un provvedimento abilitativo della PA meramente illegittimo, salvo che non si giunga alla soglia dell’illecito o che, comunque, tale titolo abilitativo sia macroscopicamente illegittimo, solo in questi casi potendosi ritenere “mancante” anche a fini penali. La Corte precisa di porsi, con questo arresto, in linea di sostanziale continuità con la evoluzione giurisprudenziale in tema di reati urbanistici e riserva di legge, non potendosi assumere valida l’automatica equazione tra illegittimità dell’atto amministrativo (titolo edilizio) e reato urbanistico; solo ragionando in questi termini può infatti scongiurarsi la frizione con il principio di responsabilità penale per fatto proprio colpevole (l’adozione di un provvedimento favorevole da parte della PA è idoneo ad ingenerare nel privato un certo affidamento) e con quello che vieta una equiparazione ermeneutica (che sarebbe in malam partem) tra titolo assente e titolo meramente illegittimo. In proposito, al fine di individuare quali situazioni di illegittimità rendono il titolo abilitativo improduttivo di validi effetti anche a fini penali, occorre giocoforza fare riferimento alle finalità della disciplina urbanistica ed ai presupposti per il rilascio del permesso di costruire, individuati dall’art.12 del D.p.R. 380.01, tra l’altro, nella necessaria conformità alla previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e più in generale della normativa urbanistico-edilizia vigente; onde, lasciando da parte il caso in cui il provvedimento sia addirittura illecito, può configurarsi una illegittimità (macroscopica) rilevante anche in sede penale laddove il titolo abilitativo sia palesemente non conforme alla normativa che ne regola l’adozione e alle disposizioni normative di settore. In sostanza, per la Corte va escluso che il solo fatto della esistenza del permesso di costruire escluda ogni valutazione del giudice penale in ordine alla sussistenza del reato, potendo egli accertarne la configurabilità quando il vizio dell’atto sia macroscopico, oltre che nell’ipotesi di collusione illecita tra chi lo rilascia e chi lo ottiene. Il 2 agosto viene varato il Decreto del Ministro della Salute che istituisce l’Osservatorio delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, previsto dall’art.3 della legge Gelli-Bianco. Il 20 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 43123 che afferma sindacabile la scelta del medico di guardia sulla necessità di compiere o meno la visita richiesta quando ha già consigliato la terapia per via telefonica, dal momento che il delitto di cui all’art. 328 c.p. è reato di pericolo che prescinde dalla causazione di un danno effettivo e postula semplicemente la potenzialità del rifiuto a produrre un danno o una lesione. Si tratta di una pronuncia in cui viene nella sostanza esclusa la “disapplicazione in malam partem” di un rifiuto di un atto di ufficio, laddove tale rifiuto assunto dal giudice quale atto illegittimo, sulla scorta tuttavia della struttura precipua della fattispecie incriminatrice scandagliata, assunta come reato di pericolo: non si tratta di disapplicare il rifiuto (quasi assimilandolo ad una omissione) quanto piuttosto di applicare la fattispecie penale, strutturalmente assunta appunto come di pericolo (e non già di danno). Il 29 settembre viene varato il Decreto del Ministro della Salute che istituisce l’elenco - previsto dall’art.3 della legge Gelli-Bianco - delle società e associazioni che presentano caratteristiche peculiari idonee a garantirne la trasparenza e la capacità professionale scientifica, quali enti deputati ad elaborare, unitamente alle istituzioni pubbliche e private, le raccomandazioni da includere in Linee guida con la finalità di fungere da parametro per la corretta esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità tanto preventive e diagnostiche quanto terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale.. Il 10 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 51458 che ribadisce l’orientamento per cui, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 650 c.p., il giudice è tenuto a verificare previamente la legalità sostanziale e formale del provvedimento che si assume violato sotto i tre profili tradizionali della violazione di legge, dell'eccesso di potere e della incompetenza, con conseguente assoluzione dell’imputato che non si sia conformato ad un provvedimento illegittimo sotto uno dei menzionati aspetti; peraltro, ai fini dell’operatività della norma in ottica punitiva, il provvedimento deve riguardare le esigenze tipizzate dalla norma medesima (sicurezza, ordine pubblico, igiene, giustizia) ed i motivi che hanno determinato il provvedimento devono essere formalizzati in esso, da ciò dipendendo la relativa validità ed efficacia. *Il 4 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 54496 onde ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 650 c.p., il giudice è tenuto a verificare previamente la legalità sostanziale e formale del provvedimento che si assume violato sotto i tre profili tradizionali della violazione di legge, dell'eccesso di potere e della incompetenza, con conseguente assoluzione dell’imputato che non si sia conformato ad un provvedimento illegittimo sotto uno dei menzionati aspetti; inoltre, l'art. 650 c.p. è una norma penale in bianco a carattere sussidiario, applicabile soltanto quando il fatto non sia previsto come reato da una specifica disposizione ovvero allorché il provvedimento dell'autorità rimasto inosservato sia munito di un proprio, specifico meccanismo di tutela. Peraltro, ai fini dell’operatività della norma in ottica punitiva, il provvedimento deve riguardare le esigenze tipizzate dalla norma medesima (sicurezza, ordine pubblico, igiene, giustizia) ed i motivi che hanno determinato il provvedimento devono essere formalizzati in esso, da ciò dipendendo la relativa validità ed efficacia.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong> Il 15 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione civile n. 3740 in tema di sanzioni irrogate per superamento dei limiti di emissioni elettromagnetiche: per la Corte, l'applicabilità della causa di giustificazione riconducibile - in relazione al disposto della L. n. 689 del 1981, art. 4, comma 1, - all'esercizio di una facoltà legittima non può operare allorquando il provvedimento amministrativo autorizzatorio (che legittimi appunto tale facoltà) non si conformi alle prescrizioni inderogabili della fonte normativa sopraordinata che ne legittima l'emissione (dovendo, se del caso, essere disapplicato ai sensi dell'art. 5 L.A.C. 1865-all. E, con effetti in malam partem) e, a maggior ragione, nel caso in cui detto provvedimento sia stato rilasciato in favore del destinatario sotto condizione dell'osservanza delle norme vigenti, oltre che di procedere alle modificazioni necessarie agli impianti, dettate dall'insorgenza di esigenze comunque implicanti il rispetto degli obblighi di legge. Il 22 febbraio viene pubblicata la sentenza delle SSUU della Cassazione n.8770 che si occupa della responsabilità penale del medico, a titolo colposo, per morte o lesioni del paziente, e della nuova causa di non punibilità di cui all’art.590 sexies c.p. della legge c.d. Gelli-Bianco n.24.17. Per la Corte, per quanto qui di interesse, il medico - nell’attività medico chirurgica - va assunto responsabile se l’evento (morte o lesioni) si è verificato in capo al paziente per colpa – anche lieve – derivante da negligenza o imprudenza; per colpa – anche lieve – derivante da imperizia, laddove il caso concreto non sia regolato da raccomandazioni, linee guida o buone pratiche assistenziali; laddove esse vi siano, per colpa – anche lieve – da imperizia nella individuazione e nella scelta delle linee guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; infine per colpa (solo) grave da imperizia nella esecuzione di raccomandazioni, di linee guida e o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate (qui tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico). Viene in tal modo confermata una forma di tipizzazione della colpa medica (già in qualche modo prefigurata, seppure con coordinate diverse, nel c.d. Decreto Balduzzi) strettamente agganciata alle c.d. linee guida che tendono sempre più a concretizzare, proprio dal punto di vista della configurabilità di una colpa da imperizia, i precetti legislativi primari, garantendo anche una maggiore tassatività delle pertinenti fattispecie incriminatrici, altrimenti affidate al soggettivismo decisionale del singolo giudice. La Corte specifica tuttavia come non si tratti di norme regolamentari da applicare in ogni caso ed inderogabilmente, dovendo esse piuttosto essere “disapplicate” dagli operatori sanitari laddove non adeguate allo specifico caso ad essi sottoposto, senza dunque rigidi automatismi: in sostanza, talvolta per andare esenti da colpa (e da responsabilità penale) gli operatori sanitari, dinanzi alla specificità di un caso ad essi sottoposto, devono piuttosto non applicare le linee guida individuate come pertinenti. Il 1° marzo viene varato il decreto legislativo n. 21 che introduce nel codice penale il nuovo art. 3 bis ai sensi del quale “nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia”. Questa nuova disposizione introduce nell’ordinamento la c.d. “riserva di codice” volta a porre un argine all’affastellarsi di norme incriminatrici sparse in diversi testi normativi e, quindi, facilitare la conoscibilità delle norme incriminatrici. Peraltro, la dottrina non ha mancato di evidenziare come il principio sancito sia in effetti privo di efficacia vincolante dal momento che è stato introdotto al livello di legge ordinaria e quindi derogabile da una fonte successiva di pari efficacia. Il 22 giugno esce la sentenza della Cassazione n. 29035 che si pronuncia circa la possibilità per il giudice penale, in sede di accertamento del fatto di reato, di ritenere non integrata la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 650 c.p., nel caso in cui l’ordine emesso dalla pubblica Autorità, violato dall’agente, sia illegittimo. Nel caso di specie, i Giudici di legittimità confermano l’annullamento del decreto di sequestro preventivo, avente ad oggetto un frigorifero e 239 bottiglie di birra, reso dal Tribunale, poiché il provvedimento di divieto emesso dal sindaco, violato dall’agente, era stato emesso dall’autorità amministrativa non competente. Pertanto, viene ribadito il principio di diritto secondo cui non è integrato il reato di inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità quando il provvedimento amministrativo violato difetti dei requisiti di legittimità e quindi debba essere incidentalmente disapplicato in sede penale. L’ 8 ottobre esce la sentenza della Cassazione n 44957, che si pronuncia in tema del carattere sussidiario del reato di cui all’art. 650 previsto e punito dal codice penale, rispetto alla sanzione amministrativa prevista dal legislatore. La Cassazione chiarisce che l'art. 650 cod. pen. è una norma penale in bianco a carattere sussidiario, applicabile solo quando il fatto non sia previsto come reato da una specifica disposizione ovvero allorché il provvedimento dell'autorità rimasto inosservato sia munito di un proprio, specifico meccanismo di tutela, trovando quindi applicazione solo quando l'inosservanza del provvedimento dell'autorità non sia sanzionata da alcuna norma, penale o processuale o amministrativa. Il 7 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 54841, che si pronuncia in tema di potere di disapplicazione del giudice penale, in sede di accertamento del fatto di reato di cui all’art. 650 c.p. La Corte ribadisce che in tema di accertamento del reato di inosservanza ai provvedimenti emessi dell’Autorità, di cui all’art. 650 c.p.c., il giudice deve previamente accertare la legittimità – sostanziale e formale – del provvedimento che è stato violato, nel caso di specie. Pertanto, quando il provvedimento di carattere contingibile ed urgente (nel caso di specie, i provvedimenti previsti dall’art. 54, comma 4, del T.U.E.L. – D.Lgs. 267/2000), non sia stato emesso dall’Autorità legalmente competente, (nel caso di specie, dal solo dirigente amministrativo e non dal Sindaco) non può ritenersi integrato il reato di cui all’art. 650 c.p.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong> Il 18 gennaio 2019 esce la sentenza della I sezione della Cassazione, n. 2365, la quale si occupa di chiarire il potere di disappplicazione del giudice penale nei confronti del provvedimento di rimpatrio emesso dal questore (nel caso di specie, si trattava di una misura di prevenzione, disposta dal questore per aver commesso lo straniero il reato previsto dall'art. 76, comma 3, D.L. vo n° 159 del 2011). La Cassazione chiarisce che il provvedimento questorile di rimpatrio che risulti privo di motivazione o insufficientemente motivato può essere disapplicato dal giudice penale che, attraverso un sindacato di legittimità, verifica la conformità del provvedimento stesso alle prescrizioni di legge. Nel caso di specie, il provvedimento del Questore viene ritenuto contrario alla legge perché nel suo corpo motivazionale fa esclusivo riferimento ad episodi di accattonaggio molesto (non più costituenti reato a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale della fattispecie incriminatrice prevista dall'art. 670 cod. pen.) senza segnalare condotte illecite penalmente rilevanti così come richiesto dall'ad, 1 del D.L. vo n° 159 del 2011 che al n° 3) che indica tra i soggetti cui possono essere applicati i provvedimenti di prevenzione «coloro che debbono ritenersi sulla base di elementi di fatto, essere dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo ... la sicurezza o la tranquillità pubblica».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono i due aspetti complementari del principio della riserva di legge?</strong> a) L’aspetto negativo: in materia penale interviene la legge e non anche fonti gerarchicamente sottordinate; b) L’aspetto positivo: la legge deve essere precisa, in modo da restringere lo spazio di operatività delle fonti sottordinate.</p> <p style="text-align: justify;">Le cause di giustificazione sono soggette al principio della riserva di legge? a) la risposta deve essere affermativa perché si tratta di derogare a norme di legge che puniscono, e dunque occorre una norma di pari grado (tesi recessiva); b) la risposta è negativa: il principio è espressione di una ratio garantista che non lambisce le cause di giustificazione, le quali peraltro sono previste da norme di natura non strettamente penale, sicchè la relativa produzione non soggiace allo statuto penalistico della riserva di legge (tesi prevalente).</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale è la natura della riserva di legge?</strong> a) è assoluta: non è mai ammesso ad alcuna fonte sottordinata di sostituirsi alla legge o di integrarla in materia penale (tesi recessiva); b) è relativa: la legge non è in grado di stare al passo con i tempi, specie sul crinale tecnico, e dunque deve lasciarsi integrare da atti normativi sottordinati, come ad esempio i regolamenti (tesi recessiva); c) è tendenzialmente assoluta: dettando con precisione un criterio tecnico, essa può rinviare a norme regolamentari ma solo per mere specificazioni tecniche, al fine di rimanere sempre al passo con i tempi garantendo un costante aggiornamento delle disposizioni senza entrare in rotta di collisione con il garantismo (tesi prevalente).</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che tipo di atto amministrativo può essere richiamato dalla legge penale?</strong> a) un atto di tipo regolamentare: questo tipo di atto descrive o comunque contribuisce a disegnare la fattispecie di reato, sicché occorre che esso si limiti ad una specificazione di tipo meramente tecnico rispetto alla disciplina legislativa, circostanza nella quale il principio della riserva di legge deve intendersi rispettato; b) un atto di tipo concreto e specifico: qui il fatto penalmente rilevante è disegnato in modo esclusivo dalla norma primaria, che richiama talune classi di provvedimenti specifici i quali trovano a loro volta la propria disciplina nella legge; in questi casi il principio della riserva di legge è rispettato solo a patto che le classi di provvedimento richiamate siano ben individuate (chi può adottarlo, a quali condizioni e sulla base di quali presupposti), circostanza che – a detta di parte della dottrina - non si verificherebbe nel caso dell’art. 650 c.p. laddove parla genericamente di “ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico ed igiene”: anche a voler ritenere la norma compatibile con il principio della riserva di legge, essa per tale dottrina non lo sarebbe comunque con il principio di tassatività. Il rinvio ad un atto concreto e specifico della PA si pone allora al confine tra il principio della riserva di legge ed il principio di tassatività della fattispecie.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che problemi pone la disapplicazione del provvedimento amministrativo richiamato dalla norma incriminatrice primaria?</strong> a) dal punto di vista della Costituzione, si fronteggiano l’art. 101, comma 2 che – nel dichiarare che i giudici sono soggetti soltanto alla legge – autorizzerebbe una disapplicazione indiscriminata in caso di atto illegittimo (proprio perché contrario alla legge) – e l’art.25, comma 2 che, nel consacrare il principio di legalità, implica il necessario contemperamento del principio della riserva di legge (che fonda la disapplicazione) con i principi “cugini” di tassatività e di irretroattività della norma penale; b) vengono generalmente distinte 3 fasi in senso diacronico: 1) fase di indiscriminata disapplicazione ope iudicis ex art. 5 della L.A.C.; 2) fase di fuga dottrinale dalla L.A.C. (metà degli anni Sessanta); 3) fase di fuga giurisprudenziale dalla L.A.C. (inizio anni Ottanta); c) specie se la norma penale parla esplicitamente di inosservanza di un provvedimento “legittimo”, laddove il provvedimento richiamato sia in realtà illegittimo, la relativa inosservanza non porta – secondo una certa prospettiva - ad una disapplicazione vera e propria del provvedimento, quanto piuttosto all’accertamento da parte del giudice penale che manca un elemento costitutivo del reato; si oscilla allora tra la teoria della disapplicazione vera e propria (in bonam e malam partem) e quella c.d. della tipicità formale (nel caso di esplicito richiamo della norma penale alla legittimità/illegittimità dell’atto) ovvero della tipicità sostanziale (si prescinde dall’esplicito richiamo della norma ad un atto “legittimo”, “legalmente dato “ e così via); d) la disapplicazione non può mai essere il precipitato di un controllo sul merito amministrativo del provvedimento, potendo scaturire solo dall’accertamento di un vizio di legittimità dello stesso (con qualche dubbio sull’eccesso di potere); e) l’atto amministrativo può avere rilevanza esterna e diretta sulla fattispecie penale, come nel caso dell’autorizzazione del Ministro della Giustizia quale condizione di procedibilità della fattispecie, come tale assumendosi pacificamente disapplicabile; f) l’atto amministrativo può avere rilevanza interna e indiretta sulla fattispecie medesima, nel quale ultimo caso si distinguono: f.1) gli atti- presupposto del reato, positivi (art.650 c.p.: si punisce un comportamento in presenza dell’atto) o negativi (art.20, lettera b, legge 47/85, oggi art.44 del TU edilizia: si punisce un comportamento in assenza dell’atto, ad esempio del permesso di costruire); f.2) gli atti-presupposto (non del reato, ma) della circostanza del reato (la presenza dell’atto rende il reato da semplice, circostanziato: art. 528, ultimo comma, c.p., ovvero spettacoli osceni organizzati nonostante il divieto dell’autorità; f.3) gli atti-mezzo esecutivo del reato (art.323 c.p.: si punisce chi adotta il provvedimento, così commettendo reato: qui disapplicare condurrebbe al risultato paradossale di mandare assolto il colpevole); f.4) gli atti-oggetto del reato, come nel caso del falso in atto pubblico, laddove l’atto è appunto l’oggetto sul quale si spiega il contegno penalmente sanzionato; f.5) gli atti-scriminante, che consentono di escludere l’antigiuridicità di un contegno che altrimenti sarebbe reato (esempio classico l’ordinanza contingibile ed urgente, con capacità scriminante ex art. 51 c.p.); g) quando l’atto restringe la sfera giuridica del destinatario (art.650 c.p.), la disapplicazione avviene in bonam partem, evitando la pena; quando l’atto amplia la sfera giuridica del destinatario (art.44 del T.U. edilizia), l’eventuale disapplicazione avviene in malam partem, comportando pena (la norma sancisce la punibilità in difetto di titolo autorizzatorio, e non anche nel caso di titolo autorizzatorio illegittimo: se quest’ultimo viene disapplicato, il giudice penale lo rende tamquam non esset, realizzando una fattispecie – punibile – analoga a quella di difetto di titolo autorizzatorio); in caso di disapplicazione in malam partem, si pongono anche problemi di tassatività della fattispecie (l’atto mancante non equivale all’atto esistente illegittimo) e di irretroattività (quando si costruisce il titolo esiste, ancorché illegittimo, e anzi esso è presunto legittimo vista la presunzione di legittimità che assiste gli atti amministrativi, sicché l’equipararlo ex post ad un titolo mancante implica applicazione retroattiva della sanzione); h) la disapplicazione tout court presuppone – specie laddove la norma incriminatrice non richiami espressamente la legittimità dell’atto amministrativo – un generalizzato potere del giudice penale di sindacare (controllare) la legittimità di tale atto, sia sul crinale formale che su quello sostanziale: vi sono tuttavia casi in cui, per esplicita scelta legislativa, il giudice penale può sindacare solo la legittimità formale dell’atto, e non anche quella sostanziale (art. 329 c.p.: rifiuto o ritardo indebito del militare a dar seguito ad una richiesta dell’Autorità formalmente legittima);</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa accomuna e cosa distingue le due tesi della tipicità formale e della tipicità sostanziale della fattispecie incriminatrice?</strong> a) entrambe, facendo riferimento al principio della riserva di legge, tendono a verificare come rifluisce la illegittimità dell’atto amministrativo previsto dalla fattispecie penale sulla fattispecie penale medesima, siccome prevista dalla legge, e tendenzialmente dalla sola legge, dovendosi tenere presente che dare rilevanza ad un atto amministrativo illegittimo previsto dalla fattispecie significa, indirettamente, lasciare che sia il provvedimento amministrativo (e non la legge, appunto) a disciplinare in concreto la fattispecie; entrambe indagano in particolare sul quando un provvedimento illegittimo, ai fini della tipicità della fattispecie, può essere considerato come un provvedimento mancante (tamquam non esset); b) la tesi della tipicità formale si appunta sul dato letterale e ritiene che il provvedimento amministrativo illegittimo possa essere equiparato a quello mancante solo nel caso in cui la legge richieda espressamente la legittimità dell’atto (tipico l’esempio dell’art.650 c.p.); la tesi della tipicità sostanziale si appunta invece sul bene della vita tutelato dalla norma incriminatrice, e ritiene che il provvedimento illegittimo sia assimilabile al provvedimento mancante tutte le volte che questa assimilazione sia idonea a meglio tutelare il bene (interesse) presidiato dalla fattispecie penale; in tema di reati edilizi è progressivamente invalsa la teoria della tipicità sostanziale, e la illegittimità del titolo edilizio è stata sempre più equiparata alla relativa mancanza, mano a mano che il bene giuridico penalmente tutelato ha visto spostato il proprio baricentro dal mero controllo amministrativo sull’attività urbanistica (una concessione edilizia esiste, ancorché illegittima, dunque non si punisce perché la fattispecie non richiede esplicitamente una concessione edilizia legittima) al corretto ed equilibrato assetto del territorio (una concessione edilizia illegittima non garantisce un corretto assetto del territorio e dunque va considerata come una concessione edilizia mancante, anche se la norma penale non ne prevede formalmente la necessaria legittimità); c) la tesi della tipicità formale della fattispecie incriminatrice appare più conforme ai principi della riserva di legge, della irretroattività della norma penale e della tassatività rispetto alla tesi della tipicità sostanziale, che tuttavia sembra tutelare meglio i beni e gli interessi penalmente rilevanti.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono le norme rilevanti in tema di reati edilizi, via via succedutesi nel tempo?</strong> a) in tema di concessione edilizia, che oggi è il permesso di costruire, l’art.17, lettera b), della legge 10.77; successivamente l’art.20, lettera b), della legge 47.85; infine l’art. 44, lettera b), del DpR 380.01 (T.U. edilizia); b) in tema di lottizzazione abusiva, l’art. 28 della legge 1150.42 (legge urbanistica); successivamente gli articoli 18, comma 1, e 20, lettera c), della legge 47.85; infine gli articoli 30 e 44, lettera c), del DpR 380.01 (T.U. edilizia).</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono gli orientamenti giurisprudenziali in tema di potere di sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo?</strong> La riserva di legge impone che la fattispecie penale sia disciplinata dalla legge, e non dall’atto amministrativo; laddove quest’ultimo sia illegittimo (e non solo inopportuno, essendo il merito dell’atto pacificamente non sindacabile in sede penale), il giudice penale può sindacarlo – in particolare a fini punitivi (in malam partem) – secondo diverse prospettive pretorie che si sono sviluppate diacronicamente come segue: a) una prima tesi (c.d. sindacato estrinseco ridotto) si concentra sull’atto amministrativo, predicandone la disapplicazione da parte del giudice penale (articoli 4 e 5 della L.A.C.) solo quando l’atto sia gravemente viziato, ed in particolare quando sia inesistente ovvero illecito (perché frutto di collusione tra privato e funzionario). Negli altri casi non è ammesso il sindacato, salvo che la legge indichi la legittimità/illegittimità del provvedimento come elemento costitutivo della fattispecie (es: art.650 c.p.), ipotesi nelle quali il sindacato può essere più penetrante e spingersi ad ogni sorta di illegittimità; b) una seconda tesi (c.d. sindacato estrinseco ampio) – pur muovendosi ancora nell’ottica della disapplicazione dell’atto – ammette che il giudice penale possa sindacare l’atto non solo quando inesistente o illecito, ma anche quando, pur non atteggiandosi a tale, la relativa illegittimità sia comunque particolarmente grave perché la violazione di legge è vistosa o macroscopica (è l’ipotesi della concessione edilizia rilasciata a valle di una omissione di atti d’ufficio ex art.328 c.p. da parte del funzionario competente), ovvero per carenza di potere in concreto (l’atto in senso astratto esiste, ma in concreto la legge esclude che possa essere adottato in un particolare caso, come nell’ipotesi di una concessione edilizia incompatibile con il PRG per vizio grave e sostanziale); c) una terza tesi sostanzialistica (sindacato intrinseco in funzione della tipicità della fattispecie), che poi è la più recente e la più accreditata, svilisce il ruolo della disapplicazione e si concentra esclusivamente sul se si è realizzata o meno la fattispecie penale e sul se è stato leso o meno l’interesse protetto dalla norma penale (ad esempio, la tutela del territorio): da questo punto di vista il giudice penale, che è soggetto soltanto alla legge (e non all’atto amministrativo) ai sensi dell’art. 101 Cost. e dell’art. 2 c.p.p., può sindacare l’atto amministrativo quando sia illegittimo (tuttavia dal punto di vista sostanziale, e non meramente formale e procedimentale), al fine anche di punire a tutela dell’interesse penalmente sanzionato. Il problema non è dunque se esiste o meno un provvedimento, ma se è stata o meno realizzata la fattispecie penale siccome descritta dal legislatore, e l’atto amministrativo è elemento extrapenale della fattispecie, con funzione descrittiva; d) una quarta tesi che assume che, nel caso in cui l’atto sia repressivo (e non ampliativo), fronteggiando interessi oppositivi del privato, stante la relativa disapplicabilità in bonam partem, il sindacato del giudice penale può spingersi fino allo scandaglio della eventuale illegittimità meramente formale e procedimentale dell’atto, come nell’ipotesi di inottemperanza ad ordine dell’Autorità “legalmente” dato (art. 650 c.p.).</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La riserva di legge che tipo di potere attribuisce al giudice penale quando la fattispecie incriminatrice presenta atti diversi dagli atti amministrativi?</strong> La fattispecie penale può richiamare come elementi costitutivi o condizioni di punibilità: a) altri atti legislativi: in tali casi il giudice penale non può disapplicare la legge, e deve tentare in prima battuta una interpretazione costituzionalmente orientata, e in caso di esito negativo sollevare questione di legittimità costituzionale; b) atti di autonomia privata: in tali casi, come ad esempio nell’ipotesi dell’insolvenza fraudolenta (art.641 c.p.), si configura la complessa ipotesi dei c.d. reati in contratto, in cui normalmente solo laddove l’atto negoziale sia nullo per causa illecita il giudice penale può disapplicarlo, in tutti gli altri casi dovendo invece applicarlo (quando solo annullabile, anche perché civilisticamente efficace finché non venga annullato su istanza della parte legittimata a chiederne l’annullamento); c) atti di natura giurisdizionale: in tali casi, nei quali il riferimento va soprattutto alle sentenze (di altri giudici), il giudice penale non può spiegare alcun sindacato (ancorché la sentenza non sia ancora definitiva), dovendo limitarsi ad applicare il provvedimento giurisdizionale (es., art. 570 del c.p. in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, con riguardo alla sentenza civile di separazione con addebito; art. 388 c.p., dolosa inosservanza di provvedimento del giudice civile; reato di bancarotta, con riguardo alla sentenza di fallimento).</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare a proposito delle “norme penali in bianco”?</strong> 1) è categoria di pura creazione dottrinale, non trovandosene menzione nel codice penale; 2) assumendo la fattispecie incriminatrice come precetto primario e la sanzione come precetto secondario, è “in bianco” il precetto primario che è dissociato da quello secondario, nel senso che la fattispecie incriminatrice si trova collocata e descritta in un atto diverso rispetto alla norma penale, che prevede solo il precetto secondario (sanzione); 3) chi parte dalla concezione sanzionatoria del diritto penale, ritiene ammissibili “norme senza precetto”, in cui la disposizione penale prevede la sola sanzione (precetto secondario) e rinvia per la descrizione della fattispecie incriminatrice (precetto primario) ad altra disposizione extrapenale (anche secondaria); proprio la categoria delle norme penali in bianco conferma questo tipo di impostazione penalistica; 4) chi parte dalla concezione costitutiva del diritto penale, ritiene invece che il comportamento punibile debba essere posto in modo precettivo dalla legge; le norme penali in bianco sono allora in contraddizione con questa visione in quanto si limitano a prevedere un mero “dovere di obbedienza” all’Autorità che porrà in essere l’atto descrittivo del contegno punito, demandando a tale atto normativo secondario o comunque a tale provvedimento la descrizione del “cosa bisogna fare per obbedire”.</p>