Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 11 giugno 2024, n. 5183
Principio di diritto
È pacifica in giurisprudenza la configurazione dell’atto amministrativo di erogazione della sovvenzione come provvedimento di natura concessoria, con cui la P.A. attribuisce al destinatario vantaggi economici, al termine di un procedimento amministrativo finalizzato all’accertamento della sussistenza dei requisiti soggettivi e oggettivi per la corresponsione del beneficio. Alla base si pone una valutazione discrezionale dell’Amministrazione, svolta comunque non solo a tutela dei singoli interessi privati, ma anche e soprattutto in vista della tutela di interessi collettivi di promozione economica e sociale.
Testo rilevante della decisione
- Il primo motivo di appello è rubricato: Error in iudicando et in procedendo.
Violazione e falsa applicazione degli artt. 29, 31 e 34 c.p.a., dell’art. 21-septies della l. n. 241/1990 e/o dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, nonché degli artt. 1334, 1335, 2033, 2946 c.c.
Contraddittorietà intrinseca della motivazione.
Erronea valutazione degli atti e dei documenti di causa.
L’appellante critica la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto i primi due motivi di ricorso in primo grado dopo:
- a) aver riconosciuto la natura concessoria del rapporto sorto a seguito della erogazione delle agevolazioni;
- b) aver escluso che la rinuncia potesse acquisire valore di atto unilaterale recettizio idoneo a produrre un effetto estintivo del rapporto;
- c) aver ritenuto sussistenti e tempestivi i poteri esercitati dall’Amministrazione.
1.1 Secondo l’appellante il Tar ha commesso un primo errore nel ritenere la rinuncia inidonea a produrre effetti.
In particolare si sostiene che:
– la qualificazione pubblicistica o privatistica del rapporto in esame è irrilevante ai fini del perfezionamento e dell’efficacia dell’atto di rinuncia formalizzato dall’appellante, il quale si risolve in un atto giuridico unilaterale
(a) con il quale un soggetto (il rinunciante) esercita il potere (unilaterale) di abdicare alla situazione giuridica soggettiva sostanziale di cui è titolare e
(b) per il cui perfezionamento non sono richiesti né l’intervento, né l’espressa accettazione, né una valutazione riservata dell’Amministrazione;
– la rinuncia alla agevolazione costituisce manifestazione del principio dispositivo sostanziale, che è a sua volta espressione del potere esclusivo della parte di disporre del suo interesse materiale sotto ogni aspetto (Ad. Plen. n. 5/2015) e che trova applicazione a prescindere dalla qualificazione – in termini di interesse legittimo o di diritto soggettivo – dell’interesse materiale oggetto dell’atto dispositivo compiuto dal privato;
– trattasi di un atto unilaterale recettizio a destinatario determinato che rientra nella più ampia categoria di «ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona»; categoria, quest’ultima, cui trova applicazione la disciplina generale dettata dal codice civile agli artt. 1334 e 1335 di cui è in questa sede censurata la violazione e falsa applicazione;
– ai sensi dell’art. 1334 c.c. gli atti unilaterali producono effetto «dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati» e, ai sensi del successivo art. 1335 c.c., tali atti si «reputano conosciuti nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario»;
– quanto detto vale anche nei procedimenti amministrativi e, più in generale, nei rapporti giuridici pubblicistici avviati su istanza dei privati che intendano conseguire un vantaggio dalla P.A. (ed è questo il caso), come chiaramente evincibile anche dall’art. 2 della legge n. 241/1990, il cui comma 1 dispone che il procedimento amministrativo può essere avviato su istanza di parte e il cui successivo comma 6 dispone, a sua volta, che «i termini per la conclusione del procedimento decorrono dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte»;
– se il procedimento può essere avviato su richiesta del privato, allora non v’è dubbio che lo stesso procedimento avviato su impulso del privato possa essere anche rinunciato dal rispettivo istante con atto unilaterale recettizio;
– e, allo stesso modo, non v’è dubbio che oggetto di analoga rinuncia possa essere anche il provvedimento favorevole che l’Amministrazione abbia assunto nei confronti del rispettivo istante. Quanto detto trova conferma:
(i) nel fatto che diritto soggettivo e interesse legittimo costituiscono situazioni giuridiche soggettive pari ordinate;
(ii) nel caso di specie, nell’art. 2 del Regolamento e nell’art. 5, lett. d) della Circolare n. 900315 del 14 luglio 2000, i quali, con specifico riferimento alle agevolazioni di cui alla l. n. 488/1992, contemplano espressamente il diritto, per il rispettivo richiedente/beneficiario, di rinunciarvi, senza subordinare l’esercizio della rinunzia ad alcuna peculiare formalità e, men che meno, all’accettazione da parte dell’ente erogante;
(iii) nel fatto che la pretesa originariamente azionata ha ad oggetto interessi economici (come tali disponibili), non anche interessi morali o personalissimi, rispetto ai quali il bene oggetto di protezione è indisponibile.
1.2 L’appellante continua sostenendo che:
– a sostegno della tesi opposta non può argomentarsi, come fa il primo giudice, che l’inidoneità della rinuncia ad incidere sul rapporto concessorio sarebbe corroborata dalla circostanza che la ditta non ha provveduto in alcun modo alla restituzione delle somme stesse;
– con tale statuizione il Tar ha anzitutto introdotto ‘in via pretoria’ un requisito da cui far dipendere il perfezionamento dell’efficacia dell’atto di rinuncia (ovvero: la restituzione delle somme) che non è contemplato da nessuna vigente disposizione normativa;
– il Tar ha commesso l’ulteriore errore di non considerare che l’obbligo di restituzione delle somme concesse in via provvisoria è la conseguenza dell’effetto giuridico prodotto dall’atto unilaterale di rinuncia al contributo inizialmente concesso, il cui perfezionamento fa sorgere un nuovo e diverso rapporto giuridico, nell’ambito del quale la P.A. non esercita alcun potere autoritativo, ma dispone di un diritto (di credito) alla ripetizione delle somme inizialmente corrisposte (a titolo di indebito oggettivo) il cui esercizio è sottoposto all’ordinario termine decennale di prescrizione di cui agli artt. 2033-2946 c.c.
1.3 L’appellante sostiene, quindi, l’erroneità anche della parte della sentenza in cui il Tar ha motivato il rigetto del ricorso di primo grado affermando che «il precedente invito alla restituzione rivolto alla ditta subito dopo la dichiarata rinuncia, nel 2005, ha avuto una valenza di mera diffida alla restituzione del contributo in quanto ormai indebito, stante la inidoneità della rinuncia ex se a determinate il venir meno del rapporto concessorio» e che «tale considerazione è corroborata dalla circostanza che la ditta non ha provveduto in alcun modo alla restituzione delle somme stesse» (p. 12 della sentenza), non essendo il comportamento inerte del debitore idoneo a evitare il maturarsi del termine di prescrizione, che dipende unicamente dal mancato esercizio del diritto da parte del rispettivo titolare.
1.4 Sotto un ulteriore profilo l’appellante censura la sentenza anche perché assunta su presupposti giuridici e fattuali erronei. In particolare si sostiene che:
– il decreto di revoca avrebbe dovuto essere dichiarato nullo ai sensi dell’art. 21- septies della legge n. 241/1990 e/o avrebbe dovuto essere annullato ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, in quanto:
(i) era privo di oggetto (essendo il rapporto venuto meno per effetto della rinuncia);
(ii) era privo dei presupposti (rapporto giuridico rinunciato);
(iii) adottato in violazione e falsa applicazione degli artt. 2033-2946 c.c. e viziato da sviamento di potere, in quanto il diritto alla riscossione delle somme, che l’asserita revoca è preordinata a recuperare, si è prescritto per decorrenza dell’ordinario termine decennale di prescrizione.
1.5 L’appellante, infine, sostiene che quanto dedotto vale anche in relazione al capo della sentenza che ha rigettato i motivi aggiunti nella parte in cui censuravano i vizi di illegittimità derivata della cartella di pagamento.
- Il motivo è infondato.
È pacifica in giurisprudenza la configurazione dell’atto amministrativo di erogazione della sovvenzione come provvedimento di natura concessoria, con cui la P.A. attribuisce al destinatario vantaggi economici, al termine di un procedimento amministrativo finalizzato all’accertamento della sussistenza dei requisiti soggettivi e oggettivi per la corresponsione del beneficio. Alla base si pone una valutazione discrezionale dell’Amministrazione, svolta comunque non solo a tutela dei singoli interessi privati, ma anche e soprattutto in vista della tutela di interessi collettivi di promozione economica e sociale. L’effetto tipico della concessione è l’attribuzione al privato di utilità patrimoniali o anche non patrimoniali, rispetto alle quali il privato in origine non vanta alcun diritto. Egli è titolare di interessi legittimi che nascono in conseguenza della presentazione della domanda di concessione e vivono nel relativo procedimento. Si discute molto sulla natura giuridica della concessione, anche considerandone i molteplici esempi o le molteplici figure, in relazione alla diversità dell’oggetto. Con particolare riferimento alle concessioni di beni, figura cui è ricondotta (sebbene con delle peculiarità –v. Cons. St., Ad. plen. 6 del 2014) la concessione di un contributo ovvero di denaro pubblico, secondo una nota teoria essa ha natura mista di concessione-contratto.
Secondo un diverso orientamento, le dichiarazioni di volontà della P.A. e del singolo si concretano in due atti distinti unilaterali, dei quali è solo l’atto espressione della volontà dell’Amministrazione a far sorgere il rapporto concessorio mentre l’atto del privato costituisce un semplice presupposto che ne condiziona l’efficacia a seconda che intervenga prima o dopo l’atto di concessione.
In ogni caso, senza entrare nel merito dei diversi orientamenti, la fattispecie concessoria risulta dalla combinazione di due momenti giuridici.
Uno di assenso identificabile nell’atto unilaterale mediante il quale l’Amministrazione accerta la rispondenza della concessione al pubblico interesse.
L’altro paritetico rappresentato da una convenzione bilaterale di diritto privato, integrativa del contenuto della determinazione unilaterale della P.A. in relazione ai profili patrimoniali. Di fatto le erogazioni di sovvenzioni sono disciplinate come provvedimenti, con tutto ciò che ne consegue, sia sul piano del diritto sostanziale sia su quello del diritto processuale.
Il rapporto oggetto della presente controversia ha natura concessoria e la finalità pubblica, per la quale è erogato il contributo, ne pervade anche la fase successiva al momento dell’erogazione.
In questa prospettiva, è quanto meno dubbio che la mera rinuncia del privato alla sovvenzione sia sufficiente a porre nel nulla l’intero rapporto.
Il rapporto concessorio, come si è visto, nasce dall’atto autoritativo dell’Amministrazione e può sciogliersi unicamente in presenza di una nuova determinazione della stessa Amministrazione.
Tale conclusione è implicitamente confortata dalla recente statuizione della Sezione (Cons. Stato, Sez. VI, 03/05/2024, n. 4031) secondo la quale la revoca di un contributo per il mancato rispetto del termine di rendicontazione non ha natura automatica, ma deve essere disposta con provvedimento avente effetti costitutivi, in conformità con le disposizioni normative vigenti.
La concessione di un contributo ha natura costitutiva. Per porla nel nulla occorre un provvedimento, di segno opposto, che abbia ugualmente valore costitutivo. Il mero silenzio non ha tale valore. Il discorso investe il tema delle vicende giuridiche e il problema, che ciclicamente riaffiora, della (ir)rinunciabilità dell’interesse legittimo.
2.1 Risulta incompatibile con i principi esposti, la ricostruzione di parte appellante volta a qualificare la comunicazione del 4.9.2006 come atto di rinuncia risolventesi in un atto giuridico unilaterale con il quale è stato esercitato il potere (unilaterale) di abdicare alla situazione giuridica soggettiva sostanziale di cui è titolare. Come detto, non è possibile che un atto del genere produca effetti senza che l’Amministrazione torni sull’originario potere concessorio esercitato per porlo nel nulla alla luce di precise condizioni. Né tale atto può essere ricondotto alla disciplina degli artt. 1334 e 1335 del codice civile. Tali articoli, nel disciplinare gli effetti degli atti unilaterali, si riferiscono agli effetti che l’atto produce nei confronti dell’emittente. Gli effetti rispetto al destinatario sono quelli previsti dai principi appena richiamati in materia di concessioni amministrative e, in particolare, di concessione di agevolazioni (nella specie: l’avvio di un procedimento che porti a rivedere i contenuti dell’originario potere concessorio esercitato).
2.2 Ma anche a voler seguire l’impostazione di parte appellante, che riconduce la fattispecie alle categorie del diritto privato e che ricostruisce la fattispecie nei termini della rinuncia (non di un interesse legittimo ma) di un diritto soggettivo, occorre rilevare che la comunicazione del 4.9.2006 potrebbe, al più, assumere la funzione di un recesso dalla convenzione bilaterale di diritto privato, integrativa del contenuto della determinazione unilaterale della P.A.
Ma un diritto di recesso (argomentando ex art. 1373 del codice civile) avrebbe trovato eventualmente spazio prima dell’inizio dell’esecuzione del rapporto: ma non è questo il caso visto che la comunicazione del 4.9.2006 è stata inviata 3 anni dopo l’erogazione delle somme. In ogni caso, quand’anche ipotizzabile, l’esercizio del diritto di recesso non fa venir meno la necessità che l’Amministrazione rivedesse i contenuti dell’originario potere concessorio esercitato.
2.3 Sempre a voler seguire l’impostazione di parte appellante, occorre in ogni caso rilevare che l’atto definito come “rinuncia” non può essere considerato come rinuncia, ai fini che in questa sede rilevano, perché mancava l’offerta di restituzione delle somme. Nel decreto impugnato si legge testualmente: «considerato che la predetta rinuncia non è stata perfezionata in quanto l’impresa non ha provveduto a restituire contestualmente le somme percepite nel corso dell’iter agevolativo». La comunicazione del 4.9.2006, da sola considerata, non era in grado di sortire alcun effetto. Sarebbe stata necessaria quanto meno un’offerta reale delle somme dovute (argomentando ex art. 1209 del codice civile) fino a giungere alla messa in mora del creditore (art. 1206 del codice civile). L’appellante si è adagiato sulla non risposta della banca alla richiesta di rateizzazione. Ma questo non è sufficiente a produrre l’effetto di tenere per sé quanto riscosso malgrado l’avvenuta “rinuncia” alle stesse.
Contrariamente a quanto sostenuto da parte appellante, il Tar non ha introdotto ‘in via pretoria’ un requisito da cui far dipendere il perfezionamento dell’efficacia dell’atto di rinuncia. Ha esplicitato le condizioni che avrebbero reso accettabile, in linea di principio, la ricostruzione di natura meramente privatistica operata da parte appellante.
2.4 Mette conto notare che nella specie non può invocarsi la prescrizione del credito (essendo trascorsi circa tredici anni tra il decreto di concessione del contributo provvisorio e la revoca dello stesso). La prescrizione inizia a decorrere solo dalla data del provvedimento di revoca ed il relativo termine è decennale. Come chiarito, in motivazione, da Cass. civile, sez. III, 04/05/2009, n. 10205 «il termine di prescrizione del diritto del Ministero alla restituzione dei contributi non può farsi ovviamente decorrere dalla data del versamento dei contributi medesimi -come asserito dalla ricorrente – bensì dalla data in cui si siano verificate le circostanze di diritto e di fatto da cui deriva il diritto richiederne la restituzione (nella specie, dalla data del provvedimento di revoca del contributo)». Nel caso di specie, evidentemente, si applica il termine ordinario di prescrizione decennale vigente nell’ordinamento italiano che, come emerge dagli atti, alla data di emissione del decreto di revoca non era ancora spirato. Sul punto si veda l’insegnamento di Cass., sez. VI, 09/10/2017, n. 23603: In tema di contributi pubblici, qualora il difetto della “causa solvendi” sopravvenga all’erogazione del contributo, il diritto dell’Amministrazione alla restituzione non può sorgere nel momento della percezione del contributo da parte del privato, ma solo nel momento della revoca in cui, a seguito della scoperta e dell’accertamento dell’illegittimità dell’erogazione, l’indebito si è concretizzato, sicché è da tale momento che decorre il termine decennale di prescrizione dell’azione di ripetizione.
2.5 Quanto esposto toglie fondamento alle tesi di parte appellante secondo cui il decreto di revoca avrebbe dovuto essere dichiarato nullo ai sensi dell’art. 21- septies della legge n. 241/1990 e/o avrebbe dovuto essere annullato ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, in quanto privo di oggetto, privo dei presupposti, adottato in violazione e falsa applicazione degli artt. 2033-2946 c.c. e viziato da sviamento di potere, in quanto il diritto alla riscossione delle somme che l’asserita revoca è preordinata a recuperare si sarebbe prescritto per decorrenza dell’ordinario termine decennale di prescrizione. 2.6 Quanto esposto esclude l’esistenza di in fondamento dei vizi di illegittimità derivata della cartella di pagamento.
- Il secondo motivo di appello è rubricato: Error in iudicando et in procedendo. Violazione e falsa applicazione degli artt. 29 e 34 c.p.a., degli artt. 21-quinquies, 21- octies e 21-nonies della legge n. 241/1990, del principio generale di tutela del legittimo affidamento. Contraddittorietà intrinseca della motivazione. Erronea valutazione degli atti e dei documenti di causa.
L’appellante sostiene che:
– il provvedimento di revoca del beneficio deve essere inquadrato quale annullamento d’ufficio, soggetto ai limiti di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241/1990, ovvero: le ragioni di pubblico interesse, la ponderazione di tutti gli interessi in gioco ed il limite temporale del termine ragionevole;
– l’Amministrazione ha avuto contezza della causa della (presunta) revoca del beneficio a far data dalla comunicazione, da parte dell’appellante, dell’esercizio della revoca avvenuta in data 4.9.2006; comunicazione, quest’ultima, che è stata riscontrata dalla banca, “in nome e per conto del Ministero”, con nota del 13.9.2006;
– l’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione erogante è avvenuto ben 13 anni dopo la conoscenza, da parte di quest’ultima, della causa ostativa alla corresponsione del contributo;
– l’Amministrazione ha agito in violazione del principio di ragionevole durata del procedimento amministrativo;
– i principi enucleati dalla giurisprudenza a con specifico riguardo alla revoca di benefici erogati ai sensi della l. n. 488/1992, trovano applicazione anche con riferimento alla c.d. “clausola di provvisorietà”, che connota la concessione di tali contributi e che equivale ad una “condizione risolutiva” che si risolve, infatti, nel potere pubblico di ripetere, in caso di controllo culminante in una valutazione negativa (in ordine alla sussistenza e persistenza di determinati requisiti e/o all’adempimento di taluni obblighi), le somme già erogate. Tale clausola: (i) non ammette un suo utilizzo contrario al principio di buona fede e correttezza; (b) non può essere utilizzata dall’Amministrazione come strumento per procrastinare sine die il suo potere di controllo.
3.1 L’appellante censura la sentenza anche nella parte in cui ha sancito che il recupero di somme pubbliche erogate indebitamente dall’Amministrazione è un atto dovuto a fronte del quale non è invocabile un legittimo affidamento, dovendo l’interesse alla stabilità ritenersi totalmente recessivo rispetto all’esigenza di ripristinare la legalità violata, nell’interesse pubblico e degli eventuali controinteressati.
L’appellante sostiene che:
– nel caso di specie non vi è stata alcuna legalità violata;
– è principio consolidato nella giurisprudenza quello secondo cui non sussiste, ex se, un interesse pubblico al mero ripristino della legalità violata, con la conseguenza che il decorso del tempo onera l’Amministrazione del compito di valutare motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto ed attuale in quanto il tempo dell’agire amministrativo non può essere indifferente rispetto all’affidamento ingenerato;
– non è rilevante il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 8/2023, resa specificamente con riferimento alla ripetibilità di prestazioni previdenziali, pensionistiche e assicurative e a ipotesi non sovrapponibili al caso in esame;
– il decorso di oltre 13 anni dall’atto di rinuncia (e di 18 dal decreto di concessione delle agevolazioni) ha comportato l’illegittimità della revoca del beneficio in violazione del principio del legittimo affidamento.
3.2 L’appellante conclude sostenendo che le argomentazioni esposte valgono anche in relazione al capo della sentenza che ha rigettato i motivi aggiunti nella parte in cui censuravano i vizi di illegittimità derivata della cartella di pagamento.
- Il motivo è infondato.
Cons. Stato, sez. VI, 20/10/2023, n. 9115 ha chiarito che ai fini del recupero da parte della P.A. di contributi erogati assenza del presupposto, non è necessaria l’indicazione nel provvedimento della motivazione specifica sulle eventuali ragioni d’interesse pubblico concreto e attuale o di comparazione con quello del debitore, in quanto la ripetizione dell’indebito non costituisce una funzione d’autotutela ex artt. 21-quinquies o 21-nonies della l. n. 241 del 1990, ma doveroso esercizio di un potere vincolato. La decisione appena richiamata, afferma chiaramente che non può essere accolta la tesi di parte appellante secondo la quale l’impugnato atto di revoca del beneficio avrebbe dovuto fare applicazione dei principi contenuti negli articoli 21-quinquies o 21-nonies della l. n. 241 del 1990 Nella specie l’esercizio di un potere vincolato ha trovato origine nella comunicazione del 4.9.2006 con la quale la stessa appellante beneficiaria dichiarava di non voler più usufruire del finanziamento: per cui non ha fondamento sostenere che l’Amministrazione avrebbe dovuto ponderare l’interesse pubblico e gli interessi in gioco. L’Amministrazione ha dato seguito (nelle forme necessitate) alla manifestazione di volontà giunta da parte appellante (che aveva autonomamente valutato che il proprio interesse era quello a non ricevere più il contributo). Non può neanche invocarsi una asserita violazione di limiti temporali: i termini previsti per la conclusione dell’iter procedimentale non possono essere considerati perentori e il loro mancato rispetto non costituisce una violazione grave e non inficia la legittimità del provvedimento. Ancora una volta (fermo restando che nella specie non ricorre alcuna prescrizione del credito): parte appellante doveva attendersi il provvedimento di revoca del contributo visto che era stata lei stessa a comunicare di non volerne usufruire. Quanto detto esclude che ci sia stato un comportamento in mala fede dell’Amministrazione.
4.1 Correttamente il primo giudice ha sancito che il recupero di somme pubbliche erogate indebitamente dall’Amministrazione è un atto dovuto a fronte del quale non è invocabile un legittimo affidamento, dovendo l’interesse alla stabilità ritenersi totalmente recessivo rispetto all’esigenza di ripristinare la legalità violata, nell’interesse pubblico e degli eventuali controinteressati.
4.2 Quanto esposto esclude l’esistenza di in fondamento dei vizi di illegittimità derivata della cartella di pagamento.
- Il terzo motivo di appello è rubricato: Error in iudicando et in procedendo. Violazione e falsa applicazione dell’art. 34 c.p.a., nonché degli artt. 39 c.p.a. e 112 c.p.c. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990. Violazione e falsa applicazione degli artt. 8 e 9 del regolamento, degli artt. 3.2 e 3.3 del decreto di ammissione del 30.11.2011 e dell’art. 1.5 e 3.9 della circolare n. 900315 del 14.7.2001. Omesso esame degli atti e dei documenti di causa. Omessa pronuncia. L’appellante sostiene che il Tar non si è espresso sulle (ulteriori) censure di cui ai successivi motivi quarto e quinto motivo del ricorso in primo grado (che vengono riproposti anche ai sensi dell’art. 101 c.p.a.). Censure, queste ultime, con le quali l’annullamento del decreto era stato richiesto per
(a) violazione e falsa applicazione degli artt. 8 e 9 del regolamento, degli artt. 3.2 e 3.3 del decreto di ammissione del 30.11.2011 e dell’art. 1.5 e 3.9 della circolare n. 900315 del 14.7.2001;
(b) eccesso di potere sotto il profilo del difetto assoluto di istruttoria, del travisamento dei fatti, dello sviamento di potere;
(c) difetto di motivazione.
In particolare, l’appellante fa osservare:
(i) che il Ministero, a preteso fondamento della revoca del beneficio, nel decreto impugnato in prime cure ha imputato all’odierna appellante anche taluni asseriti inadempimenti ai propri obblighi e, segnatamente:
(a) sia la presunta mancata dimostrazione del completamento dell’iniziativa in relazione alla quale aveva ottenuto l’accesso ai benefici di cui alla l. n. 488/1992 nei termini di legge (non essendo asseritamente stata presentata la dichiarazione finale di spesa);
(b) sia il preteso mancato mantenimento dei beni agevolati per il quinquennio previsto dalla disciplina di cui alla l. n. 488/1992;
(ii) e che l’odierna appellante nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado ha contestato ognuno di tali rilievi, fornendo puntuale prova della loro infondatezza e insussistenza.
5.1 Con riferimento alla prima contestazione (mancato completamento del progetto) l’appellante sostiene che è stata fornita in giudizio la prova di aver ultimato i lavori per la realizzazione dell’iniziativa agevolata nel termine di 48 mesi dall’accesso al contributo stabilito dall’art. 3.9 della Circolare n. 900315 del 14 luglio 2000 attraverso:
(i) il deposito della comunicazione in data 16 dicembre 2005, mediante la quale l’appellante ha comunicato alla banca e al Ministero di aver completato i lavori in data 25 novembre 2005 e, quindi, entro il termine di 48 mesi dall’emanazione del decreto di concessione, senza ricevere contestazioni di sorta;
(ii) il deposito della dichiarazione finale di spesa e dei documenti a corredo della stessa, così come richiesto dalla disciplina di settore, inviati in data 1.6.2006 alla banca. 5.2 Con riferimento alla contestazione relativa alla sottrazione dei beni agevolati dalla loro destinazione d’uso, l’appellante sostiene di aver documentato:
(i) di aver realizzato oltre 1/3 dell’investimento ammesso al beneficio di cui alla l. n. 488/1992;
(ii) che, ai fini della realizzazione del programma di investimento ammesso con il decreto di concessione delle agevolazioni, ha conferito una considerevole quantità di mezzi propri, impiegando risorse per un ammontare pari a € 1.626.840,00 (e quindi di gran lunga superiore rispetto alla quota di agevolazioni erogata a titolo di anticipo da Ubibanca, pari a € 642.653,14);
(iii) che la banca ha attestato l’esattezza e la veridicità di quanto rendicontato, dichiarando di aver effettuato con esito positivo gli accertamenti di cui all’art. 7.5 della Circolare n. 900315 del 14 luglio 2000 con comunicazione del 13.9.2006.
5.3 L’appellante critica la sentenza per non aver considerato le circostanze citate e sostiene che quanto esposto vale anche in relazione al capo della sentenza che ha rigettato i motivi aggiunti nella parte in cui censuravano i vizi di illegittimità derivata della cartella di pagamento (riproposti anche ai sensi dell’art. 101 c.p.a).
- Il motivo è infondato.
6.1 Non ha costrutto la censura di omessa pronuncia. Come ribadito, ex multis, da Cons. Stato, sez. V, 25/03/2024, n. 2821 ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia. La sentenza impugnata segue un iter logico molto rigoroso mostrando con evidenza che le conclusioni raggiunte rendono implicitamente non conferenti censure che appaiono incompatibili con le conclusioni stesse.
6.2 Sotto altro profilo occorre considerare che l’atto di revoca testualmente recita: «Considerato che, a fronte del decreto di concessione provvisoria, l’impresa avrebbe dovuto realizzare l’investimento entro la data del 30.11.2005 (48 mesi a decorrere dal decreto di concessione medesimo), nonché rispettare l’obbligo di non distogliere dall’uso previsto le immobilizzazioni materiali o immateriali agevolate prima di 5 anni dalla data di entrata in funzione (con scadenza della relativa obbligazione il 30.11.2010); Considerato che l’impresa non ha adempiuto agli obblighi derivanti dal decreto dì concessione provvisoria e della normativa di settore, non avendo dimostrato né il completamento dell’iniziativa agevolata (non essendo stata neppure presentata la dichiarazione finale di spesa), né di aver mantenuto i beni agevolati per il quinquennio previsto dalla normativa agevolativa». La documentazione citata nel motivo di appello non è idonea a dimostrare la non veridicità di quanto affermato nell’atto di revoca. La mera comunicazione di ultimazione di lavori non può essere considerata in sé come prova dell’effettiva ultimazione nei tempi previsti. Inoltre nessuna specifica contestazione è rivolta all’affermazione circa la mancata dimostrazione di aver mantenuto i beni agevolati per il quinquennio previsto dalla normativa agevolativa. Le circostanze richiamate integrano le condizioni previste dagli art. 8, comma 1, lettere b), c1, e d) e 9, commi 1 e 2 del d.m. 527/1995.
6.2 Quanto esposto esclude l’esistenza di in fondamento dei vizi di illegittimità derivata della cartella di pagamento.
- Il quarto motivo di appello è rubricato: Error in iudicando et in procedendo. Riproposizione ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a. Violazione e falsa applicazione degli artt. 7, 8 e 21-octies della l. n. 241/1990, nonché degli artt. 29 e 34 c.p.a. Omessa pronuncia. L’appellante sostiene che:
– il Tar ha omesso di pronunciarsi in ordine al sesto motivo del ricorso introduttivo (riproposto ai sensi dell’art. 101 c.p.a.), con il quale si era eccepito l’illegittima del decreto di revoca per omessa comunicazione di avvio del procedimento di revoca dei benefici;
– il decreto di revoca è stato notificato 13 anni dopo la comunicazione di rinuncia alle agevolazioni, senza alcuna previa comunicazione di avvio del procedimento che ha condotto all’adozione del decreto di revoca;
– l’obbligo di avviso di avvio del procedimento disposto dall’art. 7 della l. n. 241/1990 è finalizzato alla realizzazione del principio sostanziale della partecipazione procedimentale ed è volto a far sì che il privato possa influire sull’esercizio del potere pubblico con il fine di ottenere il minor pregiudizio possibile dell’interesse di cui è portatore;
– se l’appellante avesse avuto la possibilità di partecipare al procedimento avrebbe potuto sottoporre all’Amministrazione elementi che avrebbero potuto condurla a una diversa determinazione da quella che invece ha assunto;
– quanto sopra vale anche in relazione al capo della sentenza che ha rigettato i motivi aggiunti nella parte in cui censuravano i vizi di illegittimità derivata della cartella di pagamento (riproposti ai sensi dell’art. 101 c.p.a.).
- Il motivo è infondato.
L’omessa comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7, l. n. 241/1990 non inficia la legittimità del provvedimento finale in applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della medesima legge, laddove l’Amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto esser diverso da quello in concreto adottato, circostanza che ricorre ogniqualvolta ci si trovi in presenza di un’attività vincolata. Costituendo la revoca di un finanziamento un’attività doverosa e a contenuto vincolato per la P.A. procedente, nel caso di specie, l’omessa comunicazione di avvio del procedimento non comporta l’annullabilità dell’atto conclusivo del procedimento.
8.1 Quanto esposto esclude l’esistenza di un fondamento dei vizi di illegittimità derivata della cartella di pagamento.
- Per le ragioni esposte l’appello deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.