Corte Costituzionale, sentenza 01 luglio 2024, n. 115
Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 3, del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39 (Attuazione della direttiva 2006/43/CE, relativa alle revisioni legali dei conti annuali e dei conti consolidati, che modifica le direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE, e che abroga la direttiva 84/253/CEE), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento, dal Tribunale ordinario di Milano, sezione quindicesima civile.
Vanno altresì dichiarate non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 39 del 2010, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della intrinseca irragionevolezza, e all’art. 24 Cost., dal Tribunale ordinario di Milano, sezione quindicesima civile.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
1.– Con ordinanza del 6 settembre 2023, iscritta al n. 133 del registro ordinanze 2023, il Tribunale di Milano, sezione quindicesima civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 39 del 2010, nella parte in cui fa decorrere il termine di prescrizione delle azioni di responsabilità, nei confronti dei revisori legali dei conti e delle società di revisione, dalla data della relazione di revisione sul bilancio d’esercizio o consolidato emessa al termine dell’attività di revisione cui si riferisce l’azione di risarcimento.
2.– Il rimettente è chiamato a decidere sulla domanda di risarcimento del danno che il curatore fallimentare di una società per azioni ha proposto, tra gli altri, nei confronti dell’ex revisore legale dei conti della società, per avere omesso ogni doveroso controllo sulla regolare tenuta della contabilità sociale e sulla corretta redazione dei bilanci, nonché per violazione dei doveri di diligenza e professionalità imposti dalla legge o connessi all’incarico e, in ogni caso, per aver concorso con i membri del consiglio di amministrazione e del comitato per il controllo sulla gestione nell’aggravamento del dissesto della società.
All’atto della costituzione in giudizio, la convenuta ha eccepito, tra l’altro, la prescrizione del credito risarcitorio dedotto dal Fallimento, osservando che l’ultima relazione di revisione depositata, relativa al bilancio 2012, è datata 14 giugno 2013, mentre l’atto di citazione le è stato notificato il 17 ottobre 2018, quando doveva ritenersi ormai spirato il termine quinquennale di prescrizione previsto dall’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 39 del 2010, decorrente dalla data di deposito della relazione.
3.– Il rimettente, pur confermando la sequenza temporale indicata dalla convenuta e condividendo la lettura che la stessa ha fornito dell’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 39 del 2010, ritiene che la norma in questione sia costituzionalmente illegittima, per violazione di diversi parametri costituzionali.
Anzitutto, vi sarebbe un contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost.: da un lato, per la irragionevole disparità di trattamento che essa determina rispetto alla disciplina del decorso del termine prescrizionale previsto per le azioni di responsabilità verso amministratori e sindaci; da un altro lato, per la sua intrinseca irragionevolezza, facendo decorrere il termine prescrizionale anche «quando il danneggiato non è ancora titolare del diritto risarcitorio o quando non può essere solerte nell’esercizio di quel diritto, perché il diritto non è ancora sorto o perché non può essere a conoscenza del danno che ha subito».
Inoltre, la norma contrasterebbe con l’art. 24, primo comma, Cost., in quanto la decorrenza così fissata finirebbe per contribuire significativamente a ostacolare l’esercizio effettivo in giudizio del diritto risarcitorio da parte del danneggiato.
4.– Prima di passare all’esame nel merito delle questioni, occorre soffermarsi, per un verso, sulla portata normativa dell’art. 15 del d.lgs. n. 39 del 2010, nel quale si colloca la disposizione censurata (il comma 3), e, per un altro verso, sul presupposto interpretativo dal quale muovono i dubbi che solleva il rimettente.
4.1.– L’art. 15 del d.lgs. n. 39 del 2010 si compone di tre commi.
Il comma 1 prevede che «[i] revisori legali e le società di revisione legale rispondono in solido tra loro e con gli amministratori nei confronti della società che ha conferito l’incarico di revisione legale, dei suoi soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri», specificando che nei rapporti interni i debitori solidali «sono responsabili nei limiti del contributo effettivo al danno cagionato».
Il comma 2 stabilisce che di tali danni rispondono, in solido fra di loro e con la società di revisione legale, anche il responsabile dell’incarico di revisione e i dipendenti che hanno collaborato all’attività di revisione, precisando che essi «sono responsabili entro i limiti del proprio contributo effettivo al danno cagionato».
Infine, il censurato comma 3 stabilisce che l’«azione di risarcimento nei confronti dei responsabili ai sensi del presente articolo si prescrive nel termine di cinque anni dalla data della relazione di revisione sul bilancio d’esercizio o consolidato emessa al termine dell’attività di revisione cui si riferisce l’azione di risarcimento».
Dal comma 1 dell’art. 15 si evince che i revisori rispondono non soltanto dei danni cagionati dal loro inadempimento alla società che ha conferito l’incarico, ma anche dei danni che la loro attività può aver prodotto direttamente in capo a soci o a terzi (per effetto, ad esempio, del compimento di atti, quali l’acquisto di azioni o di obbligazioni della società o l’erogazione di finanziamenti a quest’ultima, causalmente indotti dall’affidamento ingenerato dall’attività di revisione).
I revisori non sono invece responsabili dei danni che indirettamente possono derivare a soci o terzi dal pregiudizio della società. La responsabilità dei revisori non può essere, infatti, più estesa di quella degli amministratori che, ai sensi dell’art. 2395, primo comma, cod. civ., rispondono solo «del danno spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori» (anche la Corte di cassazione, in diverse pronunce – sezione prima civile, ordinanza 28 aprile 2021, n. 11223; sezione terza civile, sentenza 22 marzo 2012, n. 4548; sezioni unite civili, sentenza 24 dicembre 2009, n. 27346 –, precisa che gli amministratori non rispondono dell’eventuale pregiudizio indiretto che i soci subiscono per effetto del danno arrecato alla società e alla consistenza del suo patrimonio sociale).
Tale azione risarcitoria, che possono far valere nei confronti dei revisori i soci e i terzi per i loro danni diretti, ha natura aquiliana. Non basta, infatti, a fondare una responsabilità contrattuale la sussistenza di un dovere legale di attestare che il bilancio della società rappresenti in maniera veritiera e corretta la situazione patrimoniale e finanziaria, nonché il risultato economico della società medesima. A fronte della violazione di simile dovere, i soci e i terzi risultano danneggiati solo allorché, per effetto dell’affidamento ingenerato dalla revisione, si realizzi un concreto sviamento della loro autonomia negoziale, produttivo di danni.
La citata azione dei soci e dei terzi presenta, pertanto, una natura distinta rispetto a quella, contrattuale, di cui può avvalersi la società che ha conferito l’incarico, attesa la eterogeneità dei rispettivi presupposti costitutivi.
Infine, quanto alle azioni esperibili nei confronti dei soggetti di cui al comma 2, esse riguardano la responsabilità solidale di coloro che in concreto hanno eseguito l’attività di revisione e che rispondono dei danni derivanti o dall’inadempimento posto in essere dalla società di revisione o dal fatto illecito della medesima società di revisione nei confronti dei soci e dei terzi.
A fronte di tale complesso di azioni, la disposizione recante la norma censurata – l’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 39 del 2010 – fa riferimento a una «azione di risarcimento» verso una pluralità di responsabili, azione il cui termine di prescrizione è unico e viene fatto decorrere dal deposito della relazione di revisione.
4.2.– Nel dubitare della legittimità costituzionale di tale previsione, il rimettente assume che, secondo il diritto vivente, formatosi sulle disposizioni che regolano in generale il dies a quo del diritto al risarcimento del danno (artt. 2935 e 2947 cod. civ.), e riferibile – a suo dire – anche alle norme che disciplinano le azioni di responsabilità di amministratori e di sindaci, il momento di decorrenza del termine di prescrizione del diritto debba identificarsi sempre in quello in cui il danno diviene oggettivamente conoscibile.
Il giudice a quo ritiene, in particolare, che l’interpretazione degli artt. 2935 e 2947 cod. civ., come elaborata dalla Corte di cassazione con riferimento a specifiche vicende risarcitorie, sia costituzionalmente obbligata per qualsiasi diritto al risarcimento del danno. Solo nel momento in cui il danno diviene conoscibile, il danneggiato potrebbe, infatti, far valere il proprio diritto e, dunque, solo a partire da quel momento l’inerzia potrebbe rilevare ai fini preclusivi propri della prescrizione.
Pertanto, nel sostenere che il medesimo diritto vivente supporti anche l’interpretazione del dies a quo relativo alle azioni di risarcimento del danno, di cui rispondono amministratori e sindaci delle società, il rimettente lamenta, anzitutto, che la disciplina censurata determini una irragionevole disparità di trattamento dell’avente diritto al risarcimento del danno rispetto a quanto previsto sempre per i danneggiati dalle citate azioni.
5.– Tanto premesso, non è fondata la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento fra i danneggiati che soggiacciono alla regola prevista dall’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 39 del 2010 per le azioni risarcitorie nei confronti dei revisori e quelli che si avvalgono delle azioni risarcitorie nei confronti di amministratori e sindaci.
Anche a prescindere dal diverso ruolo che compete agli amministratori e ai sindaci rispetto ai revisori, è erroneo il presupposto interpretativo da cui muove il rimettente.
5.1.– Se si considera, anzitutto, il dato testuale delle disposizioni codicistiche, che – a seguito delle modifiche apportate dalla riforma del diritto societario introdotta con il decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6 (Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366) – regolano la prescrizione delle varie azioni risarcitorie nei confronti di amministratori e sindaci, emerge un quadro normativo nel quale non viene indicato un unico termine di decorrenza della prescrizione riferito espressamente al momento in cui il danno diviene oggettivamente conoscibile.
L’art. 2393, quarto comma, cod. civ. prevede che l’azione sociale nei confronti degli amministratori «può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica».
Quanto, invece, alla pretesa risarcitoria che i creditori sociali possono far valere verso gli amministratori, per «l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale» – diritto al risarcimento del danno, che l’art. 15, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 39 del 2010 non evoca, almeno testualmente, con riguardo ai revisori – il momento di decorrenza del termine di prescrizione è individuato in quello in cui «il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei […] crediti» (art. 2394, secondo comma, cod. civ.).
Infine, con riferimento all’azione del socio e del terzo nei confronti degli amministratori, l’art. 2395, secondo comma, cod. civ. stabilisce che essa «può essere esercitata entro cinque anni dal compimento dell’atto che ha pregiudicato il socio o il terzo».
Le stesse previsioni trovano poi applicazione anche alle azioni di responsabilità nei confronti dei sindaci, in virtù del rinvio che l’art. 2407, terzo comma, cod. civ. opera agli artt. 2393, 2393-bis, 2394, 2394-bis e 2395 cod. civ.
5.2.– Già questa eterogeneità di disciplina, dipendente dalla diversa natura delle varie azioni di responsabilità che possono venire in considerazione, preclude l’individuazione di un preciso tertium comparationis, ai fini del giudizio di disparità di trattamento, rispetto all’unico dies a quo indicato per le azioni risarcitorie nei confronti dei revisori.
Né risulta formatosi, sulla portata di tali disposizioni, un diritto vivente, che riconduca in via ermeneutica il dies a quo al paradigma della oggettiva conoscibilità del danno.
In ordine alla stessa azione sociale di responsabilità degli amministratori, da un lato, vi sono pronunce di merito che, sul presupposto che il legislatore abbia inteso perseguire con la riforma del 2003 esigenze di certezza del diritto, interpretano alla lettera il dies a quo previsto dall’art. 2393, quarto comma, cod. civ., identificandolo nel momento della cessazione dell’incarico dell’amministratore (Tribunale ordinario di Bologna, sezione speciale impresa, sentenza 30 marzo 2023, n. 732; Tribunale ordinario di Trieste, sezione specializzata in materia di impresa, sentenza 14 novembre 2022, n. 559; Tribunale ordinario di Napoli, sezione speciale impresa, sentenza 7 marzo 2022, n. 2267). Da un altro lato, vi sono interpreti che fanno riferimento al momento in cui il danno diventa oggettivamente percepibile all’esterno; fra questi vi è lo stesso rimettente, secondo cui, là dove l’art. 2393, quarto comma, cod. civ. prevede che l’azione dell’amministratore «può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica», l’uso della «formulazione concessiva del disposto dell’art. 2393 comma 3 c.c.» favorirebbe «il rifiuto di una sua meccanica interpretazione a contrario ed invece la riconduzione alle norme generali, segnatamente al disposto dell’art. 2935 c.c., del regime di decorrenza, identificando, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione […], il dies a quo in quello in cui la società può rappresentarsi il danno ricevuto».
E, tuttavia, a sostegno del presupposto interpretativo che assume, l’ordinanza menziona pronunce della Corte di cassazione sulla decorrenza del termine di prescrizione dalla oggettiva conoscibilità del danno, che, a ben vedere, riguardano fattispecie estranee al contesto delle azioni societarie (Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 5 aprile 2012, n. 5504; sezione lavoro, sentenza 11 settembre 2007, n. 19022; sezione terza civile, sentenza 8 maggio 2006, n. 10493, sezione lavoro, sentenza 29 agosto 2003, n. 12666).
Inoltre, è meramente assertiva la constatazione del rimettente secondo cui «[n]essuna particolare difficoltà interpretativa ha poi riguardato l’individuazione del regime prescrizionale della responsabilità extracontrattuale degli amministratori e dei sindaci (artt. 2395, comma 2, 2407, comma 3, c.c.), posto che l’“atto che ha pregiudicato il socio o il terzo” cui la norma si riferisce per individuare il dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale, non poteva che essere ricondotto al “fatto illecito” di cui all’art. 2947 comma 1 c.c., necessariamente inclusivo di nesso di causalità e danno, dalla cui conoscenza il termine inizia a decorrere».
Infatti, se non può porsi in dubbio che vi sia corrispondenza tra l’atto che ha pregiudicato il socio o il terzo e il fatto illecito produttivo del danno, non è altrettanto automatico che ciò conduca – nel contesto in esame – all’esito di far decorrere il termine di prescrizione dalla «conoscenza del danno».
In altre parole, il presupposto interpretativo da cui muovono le censure del rimettente, secondo cui il dies a quo delle azioni di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci si identificherebbe con la conoscibilità o con la conoscenza del danno – e questo grazie «alle norme generali, segnatamente al disposto dell’art. 2935 c.c.» –, dà per acquisita un’opzione ermeneutica che, nell’ambito degli illeciti societari, non è assurta al rango di diritto vivente.
In una simile situazione di incertezza, la disciplina della decorrenza della prescrizione per le azioni di responsabilità del revisore trova nelle norme sulla prescrizione delle corrispondenti azioni di responsabilità di amministratori e sindaci un termine di comparazione del tutto precario e non adeguato a uno scrutinio incentrato sulla irragionevole disparità di trattamento.
6.– Venendo, ora, all’esame delle questioni sollevate in riferimento sia all’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza intrinseca, sia all’art. 24 Cost., per violazione del diritto di difesa, esse non sono fondate nei termini di seguito illustrati.
7.– Il giudice a quo incentra gli argomenti relativi alla lamentata violazione degli artt. 3 e 24 Cost. sul presupposto che una previsione normativa, che faccia decorrere il termine di prescrizione prima che si produca il danno risarcibile e prima che esso diventi conoscibile, vìoli il principio di ragionevolezza e il diritto di difesa del danneggiato.
Il legislatore non potrebbe, dunque, derogare a quanto stabilito dagli artt. 2935 e 2947 cod. civ., secondo l’interpretazione che ne ha dato il diritto vivente, nell’ambito di talune vicende risarcitorie, che hanno visto identificare il dies a quo, relativo al termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, nel momento in cui questo si manifesta e diviene oggettivamente conoscibile (si vedano, infra, le sentenze citate al punto 8).
Ebbene, a prescindere dalla portata dell’interpretazione fornita dalla Corte di cassazione agli artt. 2935 e 2947 cod. civ., le questioni che vengono sottoposte a questa Corte attengono unicamente alla ritenuta illegittimità costituzionale di una norma di settore che individua nel momento del deposito della relazione di revisione il dies a quo per far valere le pretese creditorie relative alle specifiche azioni di responsabilità nei confronti dei revisori.
8.– Per operare simile valutazione occorre procedere dalla considerazione che la disciplina concernente il giorno da cui decorre il termine di prescrizione per far valere il diritto al risarcimento del danno pone un problema di bilanciamento fra due contrapposti interessi.
Da un lato, si rinviene l’interesse del danneggiante a far valere una eccezione (quella di prescrizione) che, con il decorso del tempo unito all’inerzia della controparte, lo libera dall’eventuale vincolo obbligatorio, sollevandolo dall’onere di una difesa che, altrimenti, andrebbe a vertere in primis sulla insussistenza dei presupposti della responsabilità, da cui scaturisce l’obbligazione risarcitoria. E questo, a distanza di tempo, può dimostrarsi non agevole. Simile interesse, di natura privatistica, correlato a una esigenza di difesa, spinge verso un dies a quo oggettivo e certo, e si collega, al contempo, all’esigenza pubblicistica di assicurare la certezza del diritto.
Da un altro lato, emerge l’interesse del danneggiato a far valere il proprio diritto al risarcimento del danno, senza subire l’effetto preclusivo della prescrizione, se non a fronte di una propria inerzia: simile esigenza invoca, viceversa, un dies a quo correlato alla possibilità “di fatto” di far valere il diritto, e cioè alla conoscibilità del danno e del nesso di causalità.
I contrapposti interessi non si compongono agevolmente, tant’è che nell’esperienza giuridica di altri ordinamenti (fra i quali quello tedesco con i paragrafi 195 e 199 del Bürgerliches Gesetzbuch – applicabili anche alle azioni di responsabilità nei confronti dei revisori a seguito della riforma del 1° dicembre 2003 – e il diritto francese con gli artt. 2224 e 2232, primo comma, del Code civil), nonché in alcune soluzioni adottate anche dal legislatore nazionale si prospetta la combinazione di due termini: uno, più breve, che risponde alle ragioni del danneggiato e che decorre dal momento in cui questi può “di fatto” esercitare la pretesa risarcitoria, essendo in condizione di conoscere tutti i danni risarcibili e la loro connessione causale con l’illecito; e un termine, più lungo, che inibisce definitivamente l’esercizio del diritto, rispondente alle ragioni del danneggiante e a quella della certezza del diritto, e che decorre dall’evento lesivo produttivo di danni, in quanto dies a quo oggettivo e certo.
Si pensi, nel diritto interno, alla disciplina dettata in materia di responsabilità del produttore (artt. 125 e 126 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, recante «Codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229»), secondo cui «[i]l diritto al risarcimento si prescrive in tre anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del difetto e dell’identità del responsabile» (o, in caso di aggravamento del danno, dal giorno in cui il danneggiato «ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza di un danno di gravità sufficiente a giustificare l’esercizio di un’azione giudiziaria»: rispettivamente, art. 125, commi 1 e 2), fermo restando che «[i]l diritto al risarcimento si estingue alla scadenza di dieci anni dal giorno in cui il produttore o l’importatore nella Unione europea ha messo in circolazione il prodotto che ha cagionato il danno» (art. 126, comma 1, cod. consumo). Analoga disciplina si rinviene, in materia di illeciti nucleari, con l’art. 23 della legge 31 dicembre 1962, n. 1860 (Impiego pacifico dell’energia nucleare).
Si limita, invece, a giustapporre i due interessi la normativa in materia di responsabilità derivante dalle informazioni fornite in un prospetto, prevista dall’art. 94, comma 9, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), secondo cui «[l]e azioni risarcitorie sono esercitate entro cinque anni dalla pubblicazione del prospetto, salvo che l’investitore provi di avere scoperto le falsità delle informazioni o le omissioni nei due anni precedenti l’esercizio dell’azione».
Ebbene, al di fuori delle ipotesi in cui il legislatore riesce a comporre (e non a giustapporre) i due diversi interessi, facendo ricorso alla combinazione di due termini (spesso variamente qualificati, l’uno quale termine di decadenza, l’altro quale termine di prescrizione), è, viceversa, inevitabile che, con la previsione di un unico termine, l’individuazione del dies a quo si sposti, a seconda dei casi, maggiormente a favore dell’uno o dell’altro interesse.
In tale prospettiva, l’interpretazione che il diritto vivente ha dato dell’art. 2947 cod. civ., in raccordo con l’art. 2935 cod. civ. – con riguardo a talune vicende risarcitorie, che hanno tratto la loro origine soprattutto dai danni alla persona lungolatenti (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanza 29 gennaio 2024, n. 2725; sentenza 17 febbraio 2023, n. 5119; sentenza 2 settembre 2022, n. 25887), ma che hanno toccato anche altri ambiti (per un’estensione agli illeciti anticoncorrenziali, Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 19 ottobre 2022, n. 30783; sentenza 3 aprile 2020, n. 7677; per l’allargamento alla responsabilità contrattuale, Corte di cassazione, sezione seconda civile, n. 5504 del 2012, sezione terza civile, sentenze 5 dicembre 2011, n. 26020 e n. 10493 del 2006, sezione prima civile, sentenza 29 agosto 1995, n. 9060) – deriva proprio dall’esigenza di potenziare, in quei contesti, la tutela del danneggiato. Questo ha indotto a ritenere che l’inerzia computabile ai fini della prescrizione sia solo quella correlata alla possibilità “di fatto” per il danneggiato di far valere il suo diritto al risarcimento del danno (con conseguente rivisitazione ermeneutica dell’art. 2935 cod. civ., nel suo coordinamento sistematico con l’art. 2947 cod. civ.).
9.– Ciò chiarito, a fronte dell’ampia discrezionalità che compete al legislatore con riguardo alla fissazione di termini per l’esercizio di singoli diritti (ex plurimis, sentenze n. 32 del 2024, n. 54 del 2019, n. 216 del 2015 e n. 234 del 2008), spetta a questa Corte unicamente giudicare se la scelta del dies a quo, effettuata dall’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 39 del 2010, con riguardo alle azioni di responsabilità del revisore, determini un irragionevole sacrificio dell’avente diritto al risarcimento del danno, realizzando un bilanciamento manifestamente squilibrato, in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.
A tal fine, non si può prescindere dalla distinzione fra l’azione risarcitoria che può far valere la società, che ha conferito l’incarico di revisione, e le pretese creditorie che possono avanzare, quali danneggiati, i soci o i terzi.
Nel primo caso, l’illecito nei confronti della società si compie con l’inadempimento da parte del revisore, vale a dire con la relazione di revisione che sia erronea o scorretta, sicché il momento del suo deposito integra l’illecito contrattuale, che è già – come si dirà – produttivo di danni nei confronti della società.
Nell’ipotesi, viceversa, dei danni a soci o a terzi, il deposito di una relazione di revisione erronea o scorretta configura unicamente una condotta che ingenera un affidamento potenzialmente idoneo a sviare la loro libertà negoziale. Pertanto, sino a quando non risulti che siano state compiute scelte direttamente condizionate dalla relazione, i soci e i terzi non hanno alcun interesse a far valere una pretesa, non avendo ancora subito qualsivoglia danno.
10.– Va allora preso in considerazione dapprima l’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 39 del 2010, in quanto certamente applicabile all’azione risarcitoria da inadempimento della società che ha conferito l’incarico al revisore legale o alla società di revisione.
Proprio con riguardo a tale azione, la norma censurata realizza, infatti, uno dei suoi principali obiettivi: la riduzione del termine di prescrizione da quello ordinario decennale, di regola operante nella responsabilità contrattuale, a quello di cinque anni, che si allinea alla durata del termine di prescrizione delle azioni derivanti dai rapporti sociali (art. 2949, primo comma, cod. civ.).
Ebbene, rispetto alla decorrenza del termine di prescrizione delle azioni che può far valere la società che ha conferito l’incarico di revisione, non si ravvisa un contrasto della norma censurata con gli artt. 3 e 24 Cost.
10.1.– Le ragioni della non manifesta irragionevolezza della disciplina emergono tenendo conto, per un verso, del tipo di responsabilità che grava sul revisore e, per un altro verso, delle esigenze di tutela del danneggiato.
Sotto il primo profilo, deve constatarsi che il revisore, in ragione della sua obbligazione di controllare, quale soggetto esterno alla società, l’esatta e corretta tenuta dei bilanci e delle loro risultanze, è esposto, in base allo stesso art. 15, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 39 del 2010, a una responsabilità solidale con gli amministratori per i danni da questi cagionati alla società, anche là dove sia stato minimo il suo contributo effettivo alla produzione del danno subito dalla società medesima.
In particolare, il revisore, ove non riesca a provare che il danno si sarebbe comunque prodotto o che era impossibile accorgersi delle irregolarità sottese a quanto attestato dai bilanci, pur essendosi attenuto alle regole di diligenza professionale, risponde in solido dell’integralità del danno, salva l’azione di regresso verso gli amministratori.
Un simile assetto rende, evidentemente, meritevole di particolare attenzione l’interesse del revisore a non doversi difendere da una tale responsabilità, quando oramai sono decorsi diversi anni dall’esecuzione della prestazione, nell’inerzia del danneggiato.
Con quest’ultimo riferimento si delinea, nondimeno, il secondo profilo da considerare nel bilanciamento di interessi. L’istituto della prescrizione presuppone, infatti, l’inerzia di chi è titolare della pretesa risarcitoria, il che implica la sussistenza di un interesse attuale dell’avente diritto a far valere la pretesa creditoria. Sennonché, il riferimento alla nozione di interesse attuale, suscettibile di dare rilievo all’inerzia dell’avente diritto al risarcimento del danno, può, a ben vedere, oscillare fra una maggiore tutela del danneggiato – che si lega alla sua possibilità “di fatto” di far valere la pretesa creditoria, correlata alla conoscibilità di tutti i danni risarcibili e della loro derivazione causale dall’illecito – e una tutela minima, che presuppone il verificarsi di una condotta lesiva già produttiva di danni e, dunque, idonea a far sorgere un credito risarcitorio.
Ebbene, il deposito della relazione, quale momento da cui inizia a decorrere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno che vanta, nei confronti del revisore, la società che ha conferito l’incarico, integra proprio tale ipotesi di tutela minima del danneggiato.
Nel caso, infatti, della responsabilità contrattuale, l’inadempimento genera immediatamente un danno costituito dalla perdita economica correlata al valore (minore o nullo) della prestazione inesattamente eseguita, qual è la revisione inesatta e scorretta. Sin dall’inadempimento del debitore (ossia dal deposito della relazione), il creditore vanta, dunque, un interesse attuale a far valere – anche in via stragiudiziale – una pretesa risarcitoria.
Di conseguenza, benché la posizione del danneggiato risulti certamente meno protetta di quanto lo sarebbe se la prescrizione decorresse dalla oggettiva conoscibilità di tutti i danni cagionati, nonché della loro derivazione causale dall’inadempimento, nondimeno, nel bilanciamento di interessi con la posizione particolarmente svantaggiata del revisore e con le esigenze di certezza del diritto, non è manifestamente irragionevole che il legislatore abbia adottato un termine che si colloca a un livello di tutela minima del danneggiato, essendo quest’ultimo favorito dalla responsabilità solidale del revisore.
Per le medesime ragioni, non è manifestamente irragionevole che la decorrenza della prescrizione dal deposito della relazione operi anche rispetto ai danni conseguenti all’inadempimento dell’obbligazione assunta dalla società di revisione, di cui rispondono in solido il responsabile dell’incarico e i dipendenti della stessa società di revisione che hanno concretamente posto in essere l’attività di revisione stessa (art. 15, comma 2, del d.lgs. n. 39 del 2010).
10.2.– Quanto al rischio che una condotta dolosa del revisore renda occulti i danni cagionati alla società, va precisato che, in tal caso, può trovare applicazione una delle cause di sospensione della decorrenza del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno spettante alla società, che ha conferito l’incarico, nei confronti del revisore.
In particolare, l’art. 2941, primo comma, numero 8), cod. civ., stabilisce che «la prescrizione rimane sospesa […] tra il debitore che ha dolosamente occultato l’esistenza del debito e il creditore, finché il dolo non sia stato scoperto».
Ebbene, avendo il revisore assunto, nei confronti della società, l’impegno a controllare che il bilancio rappresenti in maniera veritiera e corretta la situazione patrimoniale e finanziaria, nonché il risultato economico della società, l’eventuale dolosa omessa segnalazione del carattere non veritiero e non corretto di tale rappresentazione –mancata segnalazione da cui deriva l’obbligazione risarcitoria – può ritenersi equivalente all’aver dolosamente celato il proprio stesso debito.
11.– Passando ora a considerare, invece, l’azione risarcitoria che possono far valere i soci e i terzi, ai sensi dell’art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 39 del 2010, emerge come, nei loro confronti, il deposito della relazione da parte del revisore identifichi una condotta che non è ancora di per sé produttiva di danni.
11.1.– In base all’art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 39 del 2010 (supra punto 4.1.), i soci e i terzi, in tanto possono agire nei confronti del revisore, coobbligato in solido con l’amministratore, in quanto dimostrino: che sia stata effettuata, dolosamente o colposamente, una revisione erronea o incompleta; che la revisione abbia ingenerato un affidamento sulla attendibilità di quanto da essa erroneamente attestato, dando un contributo causale al compimento da parte di soci e di terzi di scelte per loro stessi pregiudizievoli (il che delimita necessariamente nel tempo le revisioni suscettibili di aver concorso al pregiudizio); che da ciò derivino i danni di cui soci e terzi domandano il ristoro.
A fronte di tale fatto illecito, il dies a quo della prescrizione dell’azione risarcitoria di soci o di terzi non può essere quello del deposito della relazione, che è antecedente al momento in cui si possono produrre danni e sono, dunque, identificabili i soggetti danneggiati.
In altri termini, il dies a quo della prescrizione di un’azione risarcitoria non può retrocedere a un momento che precede lo stesso perfezionamento del fatto illecito produttivo di danni, cui testualmente fa riferimento l’art. 2947 cod. civ.
11.2.– Ciò posto, per ricondurre l’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 39 del 2010 a una portata normativa che non contrasti in maniera manifesta con il principio di ragionevolezza e con la tutela del danneggiato, è sufficiente limitare il raggio applicativo della medesima disposizione alle sole azioni con cui la società, che ha conferito l’incarico di revisione, fa valere il danno conseguente all’erronea o inesatta revisione.
Del resto, come già anticipato, è proprio nel caso della responsabilità contrattuale del revisore o della società di revisione nei confronti della società, che ha conferito l’incarico, che si giustifica la riduzione della durata della prescrizione dal termine ordinario di dieci anni a quello di cinque.
Rispetto, invece, all’illecito nei confronti dei soci e dei terzi – sia che venga in considerazione la responsabilità dei revisori legali o della società di revisione, sia che sia implicata quella del responsabile dell’incarico o dei dipendenti della società di revisione – in ogni caso, la responsabilità è sempre di natura aquiliana e, dunque, opera l’ordinaria durata quinquennale della prescrizione, di cui all’art. 2947 cod. civ.
Quanto al dies a quo, trova parimenti applicazione l’art. 2947 cod. civ., il cui dato testuale assicura che il termine di prescrizione non possa iniziare a decorrere prima che si sia compiuto il fatto illecito e prima che si siano prodotti danni.