Corte Costituzionale, sentenza 18 luglio 2024, n. 135
PRINCIPIO DI DIRITTO
La Corte Costituzionale dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze con ordinanza del 17 gennaio 2024.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
1.– Il GIP del Tribunale di Firenze dubita della legittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen., «come modificato dalla sentenza n. 242 del 2019» di questa Corte, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».
Ad avviso del giudice a quo, il requisito censurato violerebbe anzitutto l’art. 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche.
In presenza delle altre condizioni per la non punibilità dell’aiuto al suicidio (l’essere questo prestato a persona affetta da malattia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, la quale resti però capace di prendere decisioni libere e consapevoli), l’avverarsi, o no, della condizione in questione sarebbe, infatti, frutto di circostanze del tutto accidentali, quali le caratteristiche e il modo di manifestazione della patologia, la situazione clinica generale dell’interessato, la natura delle terapie disponibili e le stesse scelte del paziente, il quale potrebbe aver rifiutato sin dall’inizio ogni trattamento.
Ciò, senza che tale sperequazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, posto che la presenza del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, oltre a non essere indicativa di un minor bisogno di tutela del bene della vita, non apporterebbe neppure alcuna rassicurazione in ordine al carattere libero e consapevole della decisione di congedarsi dalla vita stessa o alla minore “vulnerabilità” della persona che la assume.
Sarebbero violati anche gli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., in quanto il requisito in parola provocherebbe una compressione della libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, non giustificata da contro-interessi di analogo rilievo. L’esercizio di tale libertà rischierebbe, anzi, di essere condizionato in modo perverso, giacché il paziente potrebbe essere indotto ad accettare trattamenti di sostegno vitale, che altrimenti avrebbe rifiutato, al solo fine di poter accedere alla procedura per il suicidio assistito.
Verrebbe leso, inoltre, il «principio di dignità umana», in quanto il malato, irreversibile e intollerabilmente sofferente, si vedrebbe costretto a subire, per congedarsi dalla vita, un processo più lento e meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire, ossia ad attendere, anche per lungo tempo, l’inevitabile aggravamento della malattia sino allo stadio che rende necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale, con il carico di sofferenze aggiuntive che ne consegue, sia per il malato stesso, sia per le persone a lui care.
Ciò rischierebbe di produrre risultati antitetici rispetto allo stesso obiettivo di tutela della vita, inducendo i malati che non intendono affrontare un simile percorso a darsi la morte in completa autonomia, fuori dai controlli e dalle garanzie offerte dal circuito legale, con modalità spesso cruente e non conformi al concetto di dignità generalmente riconosciuto.
Subordinare la liceità dell’aiuto al suicidio di una persona capace di autodeterminarsi al requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale comporterebbe, da ultimo, la violazione dell’art. 117 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, implicando una interferenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare non funzionale, né tantomeno necessaria, alla tutela del diritto alla vita, o, comunque sia, non proporzionata rispetto all’obiettivo, e contraria, al tempo stesso, al principio di non discriminazione, stante il rilevato carattere del tutto accidentale dell’elemento in questione.
2.– Va anzitutto ribadita l’ammissibilità degli interventi di L. S. e M. O., per la ragione indicata nell’ordinanza letta all’udienza del 19 giugno 2024, allegata alla presente sentenza.
3.– Debbono essere prese quindi in esame, in via preliminare, le eccezioni di inammissibilità delle questioni formulate dall’Avvocatura generale dello Stato, a sostegno delle quali si esprimono anche talune delle opinioni degli amici curiae.
3.1.– La prima delle eccezioni si lega al fatto che nel caso oggetto del giudizio a quo – concernente l’agevolazione del suicidio assistito presso una struttura privata in Svizzera di una persona affetta da sclerosi multipla – non risultano essere state rispettate le condizioni procedurali alle quali la sentenza n. 242 del 2019 ha subordinato la non punibilità dell’aiuto al suicidio.
L’Avvocatura dello Stato ricorda che, con la citata sentenza, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 580 cod. pen., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona che versi nelle condizioni già individuate dalla precedente ordinanza n. 207 del 2018: ossia di una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Onde evitare, peraltro, che «la sottrazione pura e semplice di tale condotta alla sfera di operatività della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi “per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità”» (sentenza n. 242 del 2019), questa Corte ha specificamente richiesto – ai fini della sottrazione a pena – che l’agevolazione abbia luogo con la «procedura medicalizzata» prevista dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017.
In difetto dell’intervento legislativo auspicato dall’ordinanza n. 207 del 2018, in tale procedura è stato, infatti, individuato un preciso «punto di riferimento», già esistente nel sistema, utilizzabile per dar risposta alle suddette esigenze. Questa Corte ha, altresì, richiesto che la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio e delle relative modalità di esecuzione sia effettuata da strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Osserva l’Avvocatura che il giudice a quo ritiene sussistenti, nel caso di specie, le condizioni sostanziali per la liceità dell’aiuto al suicidio – eccezion fatta per quella della dipendenza del malato da trattamenti di sostegno vitale – non già sulla base delle risultanze della procedura regolata dai citati artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, ma facendo leva su elementi reperiti aliunde, fuori da precisi e rigorosi controlli di legge.
Il rimettente sostiene che, malgrado ciò, il requisito in discorso possa ritenersi soddisfatto, considerando «sostanzialmente equivalente» alla predetta procedura quella seguita per la prestazione dell’aiuto al suicidio presso la struttura svizzera in cui il malato è deceduto.
Così opinando, il giudice a quo si sarebbe avvalso, tuttavia, impropriamente di un criterio – quello dell’equivalenza sostanziale delle garanzie offerte – al quale la sentenza n. 242 del 2019 ha fatto riferimento solo ai fini dell’esclusione della punibilità dei fatti anteriori alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, rispetto ai quali non sarebbe stato possibile pretendere l’osservanza di una procedura introdotta ex post: criterio non utilizzabile, dunque, nel procedimento principale, attinente a una vicenda svoltasi interamente in epoca successiva.
Il dubbio di ammissibilità, prospettato dalla difesa dello Stato, potrebbe essere esteso d’ufficio, mutatis mutandis, anche alla mancata osservanza delle ulteriori condizioni procedurali poste dalla sentenza n. 242 del 2019 (l’affidamento a strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale della verifica dei presupposti di legittimità dell’aiuto al suicidio e delle relative modalità di esecuzione, previo parere del comitato etico territorialmente competente): osservanza che il rimettente reputa non «esigibile» quando il fatto si sia verificato all’esito della prestazione offerta da una struttura estera, o riguardi, comunque sia, una persona che, in quanto non dipendente da trattamenti di sostegno vitale, si sarebbe vista respingere l’eventuale domanda di accesso al suicidio assistito presentata alle strutture sanitarie italiane.
Tutto ciò renderebbe le questioni inammissibili per difetto di rilevanza, giacché, anche nell’ipotesi di loro accoglimento, il giudice a quo dovrebbe, comunque sia, respingere la richiesta di archiviazione del procedimento penale a carico degli indagati della quale si trova investito.
L’eccezione, pur correttamente escludendo la riferibilità della clausola di equivalenza ai fatti successivi alla sentenza n. 242 del 2019, non è, tuttavia, fondata.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo e che la pronuncia di accoglimento possa incidere sull’esercizio della funzione giurisdizionale, anche soltanto sotto il profilo del percorso argomentativo che sostiene la decisione del processo principale, senza che occorra la dimostrazione della sua effettiva capacità di influire sull’esito del processo medesimo (ex plurimis, sentenze n. 25 del 2024, n. 164 del 2023, n. 19 del 2022 e n. 247 del 2021).
Ciò, in quanto il presupposto della rilevanza non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare (tra le altre, sentenze n. 151 del 2023, n. 88 del 2022 e n. 172 del 2021).
È dunque sufficiente nella specie osservare che, se da un lato è pacifica l’applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo, dall’altro lato l’accoglimento delle odierne questioni sarebbe in grado di incidere, comunque sia, quantomeno sull’iter motivazionale della decisione che il rimettente è chiamato ad assumere.
Anche nella prospettiva dell’Avvocatura dello Stato, infatti, la richiesta di archiviazione del procedimento principale dovrebbe essere rigettata, non già – come ritiene di dover fare allo stato il giudice a quo – per la dirimente ragione della carenza di una delle condizioni sostanziali della non punibilità, ma semmai unicamente per il mancato rispetto della procedura prevista ai fini del loro accertamento e della verifica delle modalità di esecuzione del suicidio.
3.2.– La seconda eccezione dell’Avvocatura dello Stato si connette al rilievo che, con le questioni sollevate, il rimettente chiede di dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 580 cod. pen. in una parte che questa stessa Corte vi ha aggiunto con la sentenza n. 242 del 2019, peraltro in stretta correlazione con la relativa ratio decidendi, che è quella di sottrarre alla punibilità i soli casi di aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero lasciarsi alternativamente morire mediante la rinuncia a trattamenti necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017.
L’invocata rimozione del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale presupporrebbe dunque – a parere dell’Avvocatura – che questa Corte sconfessi sé stessa, rivedendo la precedente decisione in senso «ingiustificabilmente ampliativo, oltre che lesivo della riconosciuta discrezionalità del legislatore in subiecta materia».
L’eccezione viene ulteriormente precisata da alcuni degli amici curiae (Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale – ODV, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani), i quali rilevano come il giudice a quo sottoponga a scrutinio, non una disposizione di legge, ma il contenuto di una pronuncia di questa Corte: il che farebbe sì che le questioni si traducano in un gravame contro la sentenza n. 242 del 2019, inibito dall’art. 137, terzo comma, Cost.
Nemmeno questa eccezione è fondata.
Al riguardo, occorre considerare che la sentenza n. 242 del 2019 è una pronuncia di accoglimento parziale. Le questioni con essa decise erano, infatti, dirette a conseguire, nella sostanza, l’ablazione integrale della fattispecie incriminatrice dell’aiuto al suicidio: richiesta che questa Corte ha accolto solo in parte, sottraendo alla punibilità una circoscritta classe di casi, identificati anche attraverso il requisito sul quale si appuntano le censure dell’odierno rimettente. Per il resto, le questioni sono state dunque respinte.
Ciò posto, deve escludersi che una simile pronuncia impedisca in modo definitivo a questa Corte di aggiungere una classe ulteriore di casi a quelli già sottratti alla punibilità: il che è proprio l’effetto che conseguirebbe all’auspicata ablazione del requisito in parola.
Oggetto dello scrutinio di costituzionalità può, d’altro canto, ben essere una disposizione di legge quale risultante da una sentenza “manipolativa” di questa Corte (ad esempio, sentenze n. 131 del 2022 e n. 286 del 2016).
4.– Taluni degli amici curiae (in specie, il Centro studi Rosario Livatino e l’Unione per la promozione sociale – ODV) sollecitano questa Corte a esaminare, d’ufficio, un ulteriore profilo di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, connesso al fatto che il giudice a quo non sarebbe competente per territorio.
Secondo gli amici curiae, discutendosi di reato commesso parzialmente all’estero, punibile secondo la legge italiana ai sensi dell’art. 6 cod. pen., dovrebbe ritenersi competente per esso, in base al combinato disposto degli artt. 9, comma 1, e 10, comma 3, cod. proc. pen., il giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione: luogo che si identificherebbe, non in Firenze, ma nel circondario di Como o di Varese, secondo il percorso scelto dalle indagate per trasportare la persona malata dal luogo di residenza alla località svizzera in cui è avvenuto il suicidio.
Anche tale profilo di inammissibilità non è ravvisabile.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, alla luce del principio di autonomia del giudizio incidentale di legittimità costituzionale rispetto al processo principale, il difetto di competenza del giudice a quo – al pari del difetto di giurisdizione – costituisce causa di inammissibilità della questione solo se manifesto, ossia rilevabile ictu oculi (tra le altre, sentenze n. 68 del 2021 e n. 136 del 2008, ordinanza n. 134 del 2000): ipotesi che non ricorre nel caso in esame.
5.– Preliminare all’esame del merito delle questioni è una breve ricognizione dello stato della giurisprudenza di questa Corte sui principi coinvolti dalle questioni medesime: principi, tutti, di sommo rilievo nell’ordinamento costituzionale italiano.
5.1.– La disposizione censurata – l’art. 580 cod. pen. – è posta a tutela della vita umana: bene che, come questa Corte ha recentemente sottolineato, «si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona» (sentenza n. 50 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto).
Pur in assenza di riconoscimento esplicito nel testo della Costituzione, la giurisprudenza di questa Corte riconduce la vita all’area dei diritti inviolabili della persona riconosciuti dall’art. 2 Cost., «e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”» (sentenza n. 35 del 1997, punto 4 del Considerato in diritto). La vita, si aggiunge, è del resto «presupposto per l’esercizio di tutti gli altri» diritti inviolabili (ordinanza n. 207 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto).
Il diritto alla vita, inoltre, è oggetto di tutela espressa da parte di tutte le carte internazionali dei diritti umani, che menzionano per primo tale diritto rispetto a ogni altro (art. 2 CEDU, art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici), ovvero immediatamente dopo la proclamazione della dignità umana (art. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Da tali disposizioni scaturiscono obblighi che vincolano anche l’ordinamento nazionale, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost. (nonché, per quanto concerne la CDFUE, dell’art. 11 Cost.).
Dal riconoscimento del diritto alla vita scaturisce, infine, il corrispondente dovere dell’ordinamento di assicurarne la tutela attraverso la legge (oltre che, più in generale, attraverso l’azione di tutti i pubblici poteri). Tale dovere – statuito in termini espliciti dagli artt. 2, paragrafo 1, CEDU e 6, paragrafo 1, PIDCP – è stato affermato di recente da questa Corte, con particolare nettezza, proprio con riferimento alla tematica del fine vita: «[d]all’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto).
Tanto che proprio l’affermazione del dovere dello Stato di tutelare la vita umana è stata alla base della decisione di inammissibilità di un referendum abrogativo, il cui esito positivo sarebbe stato quello di lasciare la vita umana in una situazione di insufficiente protezione, in contrasto con gli obblighi costituzionali e convenzionali menzionati (sentenza n. 50 del 2022, punto 5.4. del Considerato in diritto).
5.2.– Su un diverso versante, la costante giurisprudenza di questa Corte ritiene che ogni paziente capace di assumere decisioni libere e consapevoli sia titolare di un diritto fondamentale, discendente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., a esprimere il proprio consenso informato a qualsiasi trattamento sanitario e, specularmente, a rifiutarlo, in assenza di una specifica previsione di legge che lo renda obbligatorio: e ciò anche quando si discuta di un trattamento necessario ad assicurare la sopravvivenza del paziente stesso (come, ad esempio, l’idratazione e la nutrizione artificiali).
Tale diritto è confermato, altresì, dall’art. 8 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo (Corte EDU, sentenza 13 giugno 2024, Dániel Karsai contro Ungheria, paragrafo 131; sentenza Pretty contro Regno Unito, paragrafo 63); e trova oggi riconoscimento, a livello di legislazione ordinaria, nell’art. 1 della legge n. 219 del 2017, che ha nella sostanza recepito e sistematizzato principi già enucleati dalla giurisprudenza – costituzionale, civile e penale – sulla base delle norme costituzionali menzionate (più ampiamente, sul punto, ordinanza n. 207 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto).
Anche quando il trattamento sia necessario ad assicurare la sopravvivenza del paziente, questi ha dunque il diritto di rifiutare l’attivazione di tale trattamento, ovvero di ottenerne l’interruzione. In tal modo, come questa Corte ha già avuto modo di sottolineare, l’ordinamento riconosce in sostanza al paziente la libertà di lasciarsi morire, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, mediante il rifiuto o la richiesta di interruzione di trattamenti necessari a sostenerne le funzioni vitali (ancora, ordinanza n. 207 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto).
Il diritto di rifiutare le cure necessarie alla sopravvivenza deve, invero, essere oggi esercitato «nel contesto della “relazione di cura e di fiducia” – la cosiddetta alleanza terapeutica – tra paziente e medico, che la legge [n. 219 del 2017] mira a promuovere e valorizzare: relazione “che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto).
La legge n. 219 del 2017 prevede altresì che, «ove il paziente manifesti l’intento di rifiutare o interrompere trattamenti necessari alla propria sopravvivenza, il medico debba prospettare a lui e, se vi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze della sua decisione e le possibili alternative, e promuovere “ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”. Ciò, ferma restando la possibilità per il paziente di modificare in qualsiasi momento la propria volontà (art. 1, comma 5)» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto).
Peraltro, è indubbio che, pur all’interno della speciale relazione di fiducia tra medico e paziente, a quest’ultimo spetta la decisione ultima se sottoporsi, o continuare a sottoporsi, ai trattamenti che il medico giudichi non solo appropriati, ma addirittura necessari per la sua sopravvivenza. Come recita l’art. 32, secondo comma, Cost., nessuno può essere infatti «obbligato» – e tanto meno fisicamente “costretto” – a sottoporsi a un trattamento sanitario sul proprio corpo e nel proprio corpo.
L’esecuzione di un tale trattamento violerebbe, oltre che l’art. 32, secondo comma, Cost., l’art. 13 Cost. (sentenza n. 22 del 2022, punto 5.3.1. del Considerato in diritto), il cui contenuto minimo di tutela protegge la persona contro ogni forma di coazione sul corpo (sentenze n. 127 del 2022, punto 4 del Considerato in diritto; n. 238 del 1996, punto 3.2. del Considerato in diritto), nonché lo stesso diritto fondamentale all’integrità fisica della persona, espressamente riconosciuto dall’art. 3 CDFUE, ma riconducibile, assieme, al novero dei “diritti inviolabili della persona” di cui all’art. 2 Cost. e all’area di tutela del diritto alla vita privata proclamato dall’art. 8 CEDU.
6.– La disposizione in questa sede censurata, l’art. 580 cod. pen., è stata già scrutinata da questa Corte con l’ordinanza n. 207 del 2018 e con la sentenza n. 242 del 2019.
In via ancora preliminare rispetto alla valutazione del merito delle odierne questioni, conviene qui sintetizzare le principali conclusioni ivi raggiunte, che questa Corte intende qui integralmente confermare.
6.1.– Nel vigente ordinamento costituzionale, la ratio dell’art. 580 cod. pen. e della contigua ipotesi delittuosa di cui all’art. 579 cod. pen. non può più essere ravvisata nell’idea – sottesa alle scelte del legislatore del 1930 – di una indisponibilità della vita umana, funzionale all’«interesse che la collettività riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini». Una simile prospettiva risulterebbe palesemente in contrasto con la Costituzione, «che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).
Nondimeno, questa Corte ha ritenuto e ritiene che il mantenimento, attorno alla persona, di una «cintura di protezione» (sentenza n. 50 del 2022, punto 3.1. del Considerato in diritto) contro scelte autodistruttive, realizzato attraverso la duplice incriminazione dell’omicidio del consenziente e di ogni forma di istigazione o agevolazione materiale dell’altrui suicidio, «assolv[a] allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).
L’incriminazione in parola deve dunque essere, oggi, intesa come funzionale a proteggere la vita delle persone rispetto a scelte irreparabili che pregiudicherebbero definitivamente l’esercizio di qualsiasi ulteriore diritto o libertà, al fine di evitare che simili scelte, «collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate» (ancora, sentenza n. 50 del 2022, punto 5.3. del Considerato in diritto), possano essere indotte, sollecitate o anche solo assecondate da terze persone, per le ragioni più diverse.
Il divieto in parola – ha ancora osservato questa Corte – «conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto.
Al legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.)» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).
6.2.– Tuttavia, questa Corte ha riconosciuto che ogni paziente è titolare di un diritto fondamentale a rifiutare ogni trattamento sanitario, compresi quelli necessari ad assicurarne la sopravvivenza (supra, punto 5.2.).
Conseguentemente, l’ordinanza n. 207 del 2018 e la successiva sentenza n. 242 del 2019 hanno ritenuto irragionevole mantenere ferma l’operatività del divieto di cui all’art. 580 cod. pen. anche nell’ipotesi di pazienti che abbiano già la possibilità – alla luce della legge n. 219 del 2017, attuativa delle norme costituzionali in precedenza menzionate – di porre termine alla propria esistenza attraverso il rifiuto delle cure necessarie per tenerli in vita: rifiuto che determinerebbe la prospettiva del decesso in un breve lasso di tempo anche in pazienti che pure sarebbero in grado, proseguendo quei trattamenti, di sopravvivere a lungo.
La persistente operatività del divieto di assistenza al suicidio anche in tali situazioni, ha proseguito questa Corte, costringerebbe il paziente ad affrontare la morte attraverso un processo più lento, «in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 9 del Considerato in diritto).
Ciò comporterebbe una insostenibile compressione della «libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive» (art. 3 Cost.) (ordinanza n. 207 del 2018, punto 9 del Considerato in diritto).
L’art. 580 cod. pen. è stato, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevedeva un’eccezione alla generale punibilità di ogni forma di aiuto al suicidio per le peculiari ipotesi in cui la persona aiutata sia «una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli», sempre che – a tutela dei soggetti deboli e vulnerabili – le condizioni e le modalità di esecuzione della procedura siano state verificate, nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge n. 219 del 2017, da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
7.– L’odierna ordinanza di rimessione sollecita, ora, questa Corte a estendere ulteriormente l’area della liceità delle condotte di aiuto al suicidio incriminate in via generale dall’art. 580 cod. pen., con riferimento ai pazienti rispetto ai quali sussistano i requisiti poc’anzi indicati sub (a) (patologia irreversibile), (b) (sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili) e (d) (capacità di prendere decisioni libere e consapevoli), ma rispetto ai quali difetti, invece, il requisito sub (c), e cioè l’essere mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
Secondo il rimettente, la persistente operatività del divieto penalmente sanzionato in queste ipotesi determinerebbe la violazione: dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche (infra, punto 7.1.); degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., sotto il profilo della eccessiva compressione della libertà di autodeterminazione del paziente (infra, punto 7.2.); del principio della dignità umana (infra, punto 7.3.); dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, nonché al divieto di discriminazione, di cui all’art. 14 CEDU, nel godimento del medesimo diritto alla vita privata (infra, punto 7.4.).
Nessuna di tali questioni è, a giudizio di questa Corte, fondata.
7.1.– Il rimettente ritiene, anzitutto, che la subordinazione della liceità della condotta alla dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale crei una irragionevole disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri pazienti che versino, essi pure, in situazioni di sofferenza soggettivamente vissute come intollerabili, per effetto di patologie parimente irreversibili.
La circostanza che la specifica patologia da cui il paziente è affetto pregiudichi, o no, le sue funzioni vitali, tanto da richiedere l’attivazione di specifici trattamenti di sostegno a tali funzioni, non sarebbe indicativa di una sua maggiore o minore vulnerabilità, né di una maggiore o minore libertà e consapevolezza della sua decisione di porre fine alla propria vita; né, ancora, l’effettiva sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale sarebbe di per sé regolarmente associata a una maggiore sofferenza, che renda più umanamente comprensibile la sua decisione di ricorrere al suicidio assistito.
Queste ultime osservazioni sono, in sé, indiscutibili; e questa Corte è pienamente consapevole della intensa sofferenza e prostrazione sperimentata da chi, affetto da anni da patologie degenerative del sistema nervoso, e giunto ormai a uno stato avanzato della malattia, associato alla quasi totale immobilità e conseguente dipendenza dall’assistenza di terze persone per le necessità più basilari della vita quotidiana, viva questa situazione come intollerabile.
Nondimeno, il requisito della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale – che pure rappresenta un unicum nell’orizzonte comparato, come esattamente sottolineato da taluni amici curiae – svolge, in assenza di un intervento legislativo, un ruolo cardine nella logica della soluzione adottata con l’ordinanza n. 207 del 2018, poi ripresa nella sentenza n. 242 del 2019.
Come poc’anzi rammentato (supra, punto 6.2.), infatti, questa Corte non ha riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile, ma ha soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza.
Una simile ratio, all’evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti dal punto di vista della ratio adottata nelle due decisioni menzionate; sicché viene meno il presupposto stesso della censura di irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, formulata con riferimento all’art. 3 Cost.
7.2.– La seconda censura formulata dal rimettente prescinde dalla pretesa similitudine tra le due situazioni, e assume direttamente che il mancato riconoscimento di un diritto al suicidio assistito a pazienti che non siano «tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale» violi il diritto all’autodeterminazione del paziente, fondato sugli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.
Al riguardo, non è dubbio che dalle tre norme costituzionali menzionate discenda il diritto fondamentale del paziente di rifiutare qualsiasi trattamento medico, inclusi quelli necessari a garantirne la sopravvivenza (supra, punto 5.2.); diritto sul quale si fonda la valutazione di irragionevolezza del divieto di aiuto al suicidio prestato in favore di chi già abbia la possibilità di porre termine alla propria vita rifiutando un trattamento di sostegno vitale (supra, punto 6.2.).
La questione ora formulata muove, tuttavia, da una nozione diversa, e più ampia, di “autodeterminazione terapeutica”.
In effetti, il diritto a rifiutare il trattamento medico è nato e si è consolidato nella giurisprudenza italiana – costituzionale, civile e penale – da un lato come diritto al consenso informato del paziente rispetto alle proposte terapeutiche del medico; dall’altro, specularmente, come diritto a rifiutare le terapie medesime. Sotto quest’ultimo profilo, il diritto in questione è intimamente legato alla tutela della dimensione corporea della persona contro ogni ingerenza esterna non previamente consentita, e dunque – in definitiva – alla tutela dell’integrità fisica della persona.
Esso si caratterizza, dunque, primariamente come libertà “negativa” del paziente a non subire interventi indesiderati sul corpo e nel corpo, anche laddove tali interventi abbiano lo scopo di tutelare la sua salute o la sua stessa vita.
Strutturalmente differente è, invece, la situazione soggettiva invocata dall’ordinanza di rimessione, che questa Corte ha definito nella stessa ordinanza n. 207 del 2018 (punto 7 del Considerato in diritto) come «sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona».
Questa Corte è consapevole che, successivamente all’ordinanza n. 207 del 2018 e alla sentenza n. 242 del 2019, le Corti costituzionali tedesca, austriaca e spagnola hanno tratto proprio dal diritto alla libera autodeterminazione nello sviluppo della propria personalità (fondato, rispettivamente, sull’art. 2 della Legge fondamentale tedesca, sull’art. 8 CEDU e sul combinato disposto degli artt. 10 e 15 della Costituzione spagnola), come pure dallo stesso mandato di tutela della dignità umana, l’esistenza di un diritto fondamentale a disporre della propria vita, anche attraverso l’aiuto di terzi (Tribunale costituzionale federale tedesco, sentenza 26 febbraio 2020, nelle cause riunite 2 BvR 2347/15, 2 BvR 2527/16, 2 BvR 2354/16, 2 BvR 1593/16, 2 BvR 1261/16, 2 BvR 651/16, paragrafi 208-213; Tribunale costituzionale austriaco, sentenza 11 dicembre 2020, in causa G 139/2019-71, paragrafi 73 e 74), o comunque un «diritto della persona alla propria morte in contesti eutanasici» (Tribunale costituzionale spagnolo, sentenza 22 marzo 2023, in causa 4057/2021, pagine da 73 a 78).
Più in particolare, movendo dal riconoscimento di tale diritto fondamentale, le Corti tedesca e austriaca hanno concluso nel senso dell’illegittimità costituzionale delle disposizioni che, nei rispettivi ordinamenti, ponevano limiti all’assistenza al suicidio, ovvero la vietavano; mentre la corte spagnola ha ricavato dal diritto in parola un preciso fondamento costituzionale della disciplina legislativa recentemente adottata in quel Paese in materia di eutanasia e assistenza al suicidio di persone capaci di autodeterminarsi.
Parimente, a questa Corte è noto che altre giurisdizioni nel mondo sono pervenute a risultati simili, sulla base di principi funzionalmente analoghi a quelli invocati dall’odierno rimettente (ad esempio, Corte costituzionale della Colombia, a partire dalla sentenza 20 maggio 1997, C-239/97; Corte suprema del Canada, sentenza 6 febbraio 2015, Carter contro Canada, 2015, CSC 5; nonché, da ultima, Corte costituzionale dell’Ecuador, sentenza 5 febbraio 2024, 67-23-IN/24).
Questa Corte tuttavia – analogamente a quanto deciso dalla Corte EDU (sentenza Dániel Karsai contro Ungheria e, in precedenza, sentenza Pretty contro Regno Unito) e dalla Corte suprema del Regno Unito (sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri, KSC 38) – ritiene di dover pervenire a diverso risultato.
Può, certo, convenirsi con il rimettente – e con le intervenienti nel presente giudizio – che la decisione su quando e come concludere la propria esistenza possa considerarsi inclusa tra quelle più significative nella vita di un individuo. Tuttavia, se è vero che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino, essa crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost. (supra, punto 5.1.).
I rischi in questione non riguardano solo la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona che compia la scelta di porre termine alla propria esistenza, ma riguardano anche – come si è osservato (Corte suprema del Regno Unito, Nicklinson e altri, paragrafo 228) – la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una «pressione sociale indiretta» su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte.
Al riguardo, occorre qui sottolineare come compito di questa Corte non sia quello di sostituirsi al legislatore nella individuazione del punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita umana, sua e dei terzi; bensì, soltanto, quello di fissare il limite minimo, costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno di questi principi, restando poi ferma la possibilità per il legislatore di individuare soluzioni che assicurino all’uno o all’altro una tutela più intensa.
In quest’ottica, la sentenza n. 50 del 2022 ha individuato – rispetto alla contigua fattispecie dell’omicidio del consenziente – una soglia minima di tutela della vita umana, che si impone al legislatore, così come al potere referendario, e che si risolve nella insostenibilità costituzionale di una ipotetica disciplina che dovesse far dipendere dalla mera volontà dell’interessato la liceità di condotte che ne cagionino la morte, a prescindere dalle condizioni in cui il proposito è maturato, dalla qualità del soggetto attivo e dalle ragioni da cui questo è mosso, così come dalle forme di manifestazione del consenso e dai mezzi usati per provocare la morte.
All’opposto, l’ordinanza n. 207 del 2018 e la successiva sentenza n. 242 del 2019 hanno ritenuto eccessiva, e pertanto costituzionalmente insostenibile, la compressione dell’autodeterminazione del paziente nella peculiare situazione descritta da tali pronunce, in cui questi avrebbe – comunque sia – la possibilità di porre termine alla propria vita rifiutando i trattamenti che ne assicurano la sopravvivenza, ovvero chiedendone l’interruzione.
Nell’ambito della cornice fissata dalle pronunce menzionate, dovrà riconoscersi un significativo spazio alla discrezionalità del legislatore, al quale spetta primariamente il compito di offrire una tutela equilibrata a tutti i diritti di pazienti che versino in situazioni di intensa sofferenza. Il che esclude possa ravvisarsi, nella situazione normativa attuale, una violazione del loro diritto all’autodeterminazione.
Ciò fermo restando, in ogni caso, il dovere della Repubblica – in forza degli artt. 2, 3, secondo comma, e 32 Cost., oltre che dell’art. 2 CEDU – di assicurare a questi pazienti tutte le terapie appropriate, incluse quelle necessarie a eliminare o, almeno, a ridurre a proporzioni tollerabili le sofferenze determinate dalle patologie di cui sono affetti; e assieme il dovere di assicurare loro ogni sostegno di natura assistenziale, economica, sociale, psicologica.
Non coglie, per altro verso, nel segno l’assunto del giudice a quo – questo sì pertinente alla libertà di autodeterminazione nella scelta delle terapie – stando al quale il requisito oggetto di censura condizionerebbe l’esercizio di tale libertà «in modo perverso», inducendo il malato ad accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale, magari anche fortemente invasivi, che altrimenti avrebbe rifiutato, al solo fine di creare le condizioni per l’accesso al suicidio assistito (il che – secondo le parti costituite – finirebbe per trasformare il presidio a sostegno delle funzioni vitali in una sorta di trattamento sanitario obbligatorio).
In senso contrario, va rilevato che, per quanto osservato in precedenza (supra, punto 5.2.), il diritto fondamentale scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., di fronte al quale questa Corte ha ritenuto non giustificabile sul piano costituzionale un divieto assoluto di aiuto al suicidio, comprende anche – prima ancora del diritto a interrompere i trattamenti sanitari in corso, benché necessari alla sopravvivenza – quello di rifiutare ab origine l’attivazione dei trattamenti stessi.
Dal punto di vista costituzionale, non vi può essere, dunque, distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, e quella del paziente che, per sopravvivere, necessiti, in base a valutazione medica, dell’attivazione di simili trattamenti, che però può rifiutare: nell’uno e nell’altro caso, la Costituzione e, in ossequio ad essa, la legge ordinaria (art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017) riconoscono al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti dei terzi.
Non c’è dubbio, pertanto, che i principi affermati nella sentenza n. 242 del 2019 valgano per entrambe le ipotesi. Sarebbe, del resto, paradossale che il paziente debba accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale solo per interromperli quanto prima, essendo la sua volontà quella di accedere al suicidio assistito.
7.3.– La terza censura assume la contrarietà al principio di tutela della dignità umana di una situazione normativa che vieti, sotto minaccia di pena, di prestare assistenza a pazienti che chiedano di morire in presenza di tutte le condizioni indicate nella sentenza n. 242 del 2019, salva la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. A parere del rimettente, ciò finirebbe per costringere il paziente a un lento processo di morte, quanto meno sino al momento in cui si renda in concreto necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale, con modalità che egli ben potrebbe considerare non conformi alla propria concezione di dignità, nel vivere e nel morire.
Al riguardo, occorre subito sottolineare che, dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga. Sicché, come sottolineato anche da vari amici curiae, certamente non potrebbe affermarsi che il divieto penalmente sanzionato di cui all’art. 580 cod. pen. costringa il paziente a vivere una vita, oggettivamente, “non degna” di essere vissuta.
Altro discorso vale, però, per la nozione “soggettiva” di dignità evocata dall’ordinanza di rimessione: nozione che si connette alla concezione che il paziente ha della propria persona e al suo interesse a lasciare una certa immagine di sé.
Ora, questa Corte non è affatto insensibile alla nozione “soggettiva” di dignità, come dimostrano i passaggi dell’ordinanza n. 207 del 2018 in cui proprio alla valutazione soggettiva del paziente sulla “dignità” del proprio vivere e del proprio morire si fa inequivoco riferimento (punti 8 e 9 del Considerato in diritto). Tuttavia, non può non rilevarsi che questa nozione di dignità finisce in effetti per coincidere con quella di autodeterminazione della persona, la quale a sua volta evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte.
Rispetto a tale nozione, non possono non valere le considerazioni già svolte, circa la sua necessaria sottoposizione a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana; bilanciamento nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre, ad avviso di questa Corte, di un significativo margine di apprezzamento.
7.4.– Infine, il giudice a quo lamenta, con la quarta censura, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per il tramite degli artt. 8 e 14 CEDU. A suo avviso, la preclusione all’accesso al suicidio assistito di pazienti non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, ma capaci di decidere e affetti da patologie irreversibili che li espongono a sofferenze intollerabili, lederebbe il loro diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, secondo l’accezione fornitane dalla giurisprudenza di Strasburgo.
D’altra parte, l’avvenuto riconoscimento, ad opera di questa Corte, di una limitata area di liceità del suicidio assistito creerebbe, relativamente ai pazienti in questione, una discriminazione nel godimento di un diritto riconosciuto dalla Convenzione, in violazione dell’art. 14 CEDU.
Al riguardo, la Corte EDU ha in effetti affermato che «il diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà» costituisce «uno degli aspetti del diritto al rispetto della propria vita privata» (Corte EDU, sentenza 20 gennaio 2011, Haas contro Svizzera, paragrafo 51; nello stesso senso, in precedenza, sentenza Pretty contro Regno Unito, paragrafo 67). In una recentissima pronuncia, la medesima Corte ha ribadito che una disciplina che vieti, sotto minaccia di pena, l’assistenza al suicidio di un paziente, necessariamente interferisce con il diritto di quest’ultimo al rispetto della propria vita privata (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai contro Ungheria, paragrafo 135).
Tuttavia, in questa stessa pronuncia la Corte EDU ha ribadito che gli Stati parte – anche in considerazione dell’assenza di un sufficiente consenso in materia tra i vari ordinamenti dei Paesi del Consiglio d’Europa – dispongono di un «considerevole margine di apprezzamento» (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 144; analogamente, sentenza Mortier contro Belgio, paragrafo 143; sentenza Haas, paragrafo 55) in ordine al bilanciamento tra tale diritto e gli interessi tutelati da simili incriminazioni, e segnatamente le ragioni di tutela della vita umana.
Tale bilanciamento può legittimamente condurre gli Stati, tanto a mantenere politiche restrittive, quanto alla regolamentazione di forme di assistenza al suicidio o di eutanasia, senza che quest’ultima opzione debba ritenersi preclusa dagli obblighi di tutela della vita umana discendenti dall’art. 2 CEDU (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 145).
La Corte EDU ha evidenziato la difficoltà di accertare che la decisione del paziente di accedere al suicidio assistito sia realmente autonoma, libera da influenze esterne e da preoccupazioni cui si dovrebbe fornire una diversa risposta; e ha sottolineato come l’accertamento della genuinità della richiesta del paziente divenga particolarmente difficoltoso in situazioni cliniche, come le patologie neurodegenerative, in cui i pazienti, in stati avanzati della malattia, possono perdere la stessa capacità di comunicare (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 151).
A fronte di tutto ciò, la Corte EDU ha concluso che spetta ai singoli Stati valutare le vaste implicazioni sociali e i rischi di abuso e di errore che ogni legalizzazione delle procedure di suicidio medicalmente assistito inevitabilmente comporta (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 152).
Questa Corte non ravvisa ragioni per discostarsi, nella lettura dell’art. 8 CEDU, dalla Corte di Strasburgo, che è (come riconosciuto da questa Corte già con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, rispettivamente ai punti 4.6. e 6.2. del Considerato in diritto) interprete ultima delle previsioni convenzionali, ai sensi degli artt. 19 e 32 CEDU.
Una tale soluzione, d’altra parte, collima esattamente con quella cui questa Corte è pervenuta in merito alla censura relativa al principio di autodeterminazione nella sua declinazione “interna”, con riferimento in particolare all’art. 2 Cost. (supra, punto 7.2.).
Né, infine, può essere ravvisato un contrasto con il divieto di discriminazione ai sensi dell’art. 14 CEDU. Per le medesime ragioni già illustrate a proposito della censura formulata in riferimento all’art. 3 Cost. (supra, punto 7.1.), non può infatti ritenersi irragionevole la limitazione della liceità dell’aiuto al suicidio ai soli pazienti che abbiano già la possibilità, in forza del diritto costituzionale, di porre fine alla loro esistenza rifiutando i trattamenti di sostegno vitale.
8.– Tutto ciò posto, va precisato – a fronte della varietà delle interpretazioni offerte nella prassi, sulla quale hanno insistito i difensori delle parti e degli intervenienti, nonché vari amici curiae – che la nozione di «trattamenti di sostegno vitale» utilizzata da questa Corte nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019 deve essere interpretata, dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni, in conformità alla ratio di quelle decisioni.
Come si è più volte rammentato (supra, punti 6.2. e 7.1.), il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. Incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente.
Nella misura in cui tali procedure – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019.
Tutte queste procedure – proprio come l’idratazione, l’alimentazione o la ventilazione artificiali, nelle loro varie modalità di esecuzione – possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, il quale ha già, per tal via, il diritto di esporsi a un rischio prossimo di morte, in conseguenza di questo rifiuto. In tal caso, il paziente si trova nella situazione contemplata dalla sentenza n. 242 del 2019, risultando pertanto irragionevole che il divieto penalmente sanzionato di assistenza al suicidio nei suoi confronti possa continuare ad operare.
D’altra parte, a fugare i timori di progressiva incontrollata estensione dei presupposti del suicidio assistito paventati dalla difesa statale e da taluni amici curiae, deve essere ribadito come l’accertamento della condizione della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, nel senso ora precisato, debba essere condotto, unitariamente, assieme a quello di tutti gli altri requisiti fissati dalla sentenza n. 242 del 2019.
Di cruciale rilievo appare, in questo contesto, non solo l’esistenza di una patologia incurabile e la permanenza di condizioni di piena capacità del paziente – evidentemente incompatibili con una sua eventuale patologia psichiatrica –, ma anche la presenza di sofferenze intollerabili (e non controllabili attraverso appropriate terapie palliative), di natura fisica o comunque derivanti dalla situazione complessiva di intensa “sofferenza esistenziale” che si può presentare, in particolare, negli stati avanzati delle patologie neurodegenerative (sul tema, Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 47).
Sofferenza, quest’ultima, che peraltro può risultare refrattaria a qualsiasi terapia palliativa, non potendosi considerare la sedazione continua profonda come un’alternativa praticabile rispetto a pazienti che non versino ancora in condizioni terminali, o che, comunque sia, rifiutino tale trattamento (sul punto, Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafi 39 e 157).
9.– Deve, inoltre, essere qui riaffermata la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019, che questa Corte ha giudicato essenziali per prevenire quel pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili che l’aveva indotta, nell’ordinanza n. 207 del 2018, a sollecitare prioritariamente l’intervento del legislatore.
Queste condizioni sono inserite nel quadro della “procedura medicalizzata” di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, entro la quale deve essere necessariamente assicurato al paziente l’accesso alle terapie palliative appropriate ai sensi del successivo art. 2.
Tale procedura prevede il necessario coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale, al quale è affidato il delicato compito di accertare la sussistenza delle condizioni sostanziali di liceità dell’accesso alla procedura di suicidio assistito, oltre che di «verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze» (sentenza n. 242 del 2019, punto 5 del Considerato in diritto). Inoltre, in attesa di un organico intervento del legislatore, la sentenza n. 242 del 2019 richiede il necessario parere del comitato etico territorialmente competente.
In ogni caso, deve escludersi che la clausola di equivalenza, stabilita nel dispositivo della sentenza n. 242 del 2019 con riferimento ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale, possa estendersi a fatti commessi successivamente – in Italia o all’estero –, ai quali si applicano invece i requisiti procedurali stabiliti dalla sentenza; fermo restando che l’eventuale mancata autorizzazione alla procedura, da parte delle strutture del servizio sanitario pubblico, ben potrà essere impugnata di fronte al giudice competente, secondo le regole ordinarie.
Resta naturalmente impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del giudice penale, di tutti i requisiti del delitto, compreso l’elemento soggettivo.
10.– Infine, questa Corte non può che ribadire con forza l’auspicio, già formulato nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, che il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati da quelle pronunce, oggi ribaditi e ulteriormente precisati dalla presente decisione, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi richiamati dalla presente pronuncia.
Parimente, deve essere confermato lo stringente appello, già contenuto nella sentenza n. 242 del 2019 (punto 2.4. del Considerato in diritto), affinché, sull’intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010, sul cui integrale rispetto giustamente insiste l’Avvocatura generale dello Stato. Come sottolineato da questa Corte sin dall’ordinanza n. 207 del 2018, occorre infatti in ogni caso assicurare, anche attraverso la previsione delle necessarie coperture dei fabbisogni finanziari, che «l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza – in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010 – sì da porlo in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza».
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze con l’ordinanza indicata in epigrafe.