Corte di Cassazione, I Sezione Penale, sentenza 09 luglio 2024, n. 27115
PRINCIPIO DI DIRITTO
Qualora il soggetto agente versasse in uno stato di angoscia causato dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica da Covid-19, sarebbe necessario verificare se possa, ed in quale misura, ascriversi all’imputato di non avere “efficacemente tentato di contrastare” lo stato di angoscia del quale era preda e, parallelamente, se la fonte del disagio, evidentemente rappresentata dal sopraggiungere della citata emergenza pandemica, con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, ancor più, la contingente difficoltà di porvi rimedio costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
- I primi due motivi di ricorso sono infondati.
- La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che “In tema di prova, costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, la scelta operata dal giudice, tra le diverse tesi prospettate dal perito e dai consulenti delle parti, di quella che ritiene maggiormente condivisibile, purché la sentenza dia conto, con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni di tale scelta, del contenuto dell’opinione disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti” (Sez. 4, n. 45126 del 06/11/2018, Ghisellini, Rv. 241907 – 01; nello stesso senso, cfr., tra le altre, Sez. 4, n. 15493 del 10/03/2016, B., Rv. 266787 – 01).
Con specifico riferimento all’accertamento dell’imputabilità, è stato, vieppiù,- rilevato che “In tema di perizia psichiatrica, qualora le conclusioni dei periti siano insanabilmente divergenti, il controllo di legittimità sulla motivazione del provvedimento concernente la capacità di intendere e di volere deve necessariamente riguardare i criteri che hanno determinato la scelta tra le opposte tesi scientifiche; il che equivale a verificare se il giudice del merito abbia dato congrua ragione della scelta e si sia soffermato sulla tesi che ha creduto di non dovere seguire e, nell’effettuare tale operazione, abbia tenuto costantemente presenti le altre risultanze processuali e abbia con queste confrontato le tesi recepite” (Sez. 5, n. 686 del 03/12/2013, dep. 2014, De Marco, Rv. 257965 – 01; in termini, cfr. anche Sez. 1, n. 8076 del 24/05/2000, Stevanin, Rv. 216613 – 01).
- Nel caso di specie, la Corte di assise di appello si è mossa nel pieno rispetto del predetto canone ermeneutico, pervenendo al rigetto delle censure articolate, in proposito, dall’imputato all’esito di un percorso argomentativo complessivamente aderente alle acquisizioni istruttorie e scevro da rilevanti fratture razionali.
I giudici di merito hanno, invero, mutuato, in vista della decisione qui impugnata, le considerazioni sviluppate dal dott. C.C., la cui correttezza scientifica e coerenza logica hanno verificato alla luce delle obiezioni, di ordine sia fattuale che tecnico, proposte dalla dott.ssa D.D. Hanno escluso che l’imputato abbia agito perché affetto da una psicosi reattiva breve,patologia psichiatrica suscettibile di influire, scemandola o escludendola, sulla capacità di intendere e di volere, in forza del combinato, sinergico apprezzamento di una pluralità di concorrenti fattori e, rimarcando, in particolare:
– che i dati tratti dal vissuto di A.A. e le generali connotazioni del suo carattere non autorizzano “alcuna diagnosi psichiatrica di valenza medico-legale”, da escludersi anche in funzione dell’esito della valutazione psicometrica affidata al dott. F.F., ausiliario del perito;
– che la tesi sostenuta dalla consulente di parte, pure, in qualche misura, accreditata dall’osservazione psicologica penitenziaria, che ha messo in luce, a partire dall’1 aprile 2020, un allentamento dei nessi associativi con coartazione affettiva ed una ideazione referenziale che, tuttavia, non è stata confermata dalla coeva valutazione psichiatrica, è smentita dal contegno serbato dall’imputato il quale, nei giorni e nelle ore precedenti l’omicidio e subito dopo la sua consumazione, ha tenuto comportamenti (trascorrendo la serata del 28 marzo in compagnia di un amico; recedendo, su altrui consiglio, dal proposito di allontanarsi da @F e dalla compagna; cancellando alcuni dei messaggi inviati ai familiari ed alla stessa vittima) che non sono compatibili con la ricostruzione propugnata dalla dott.ssa D.D.;
– che la tesi difensiva è ulteriormente contraddetta dallo svanire, immediatamente dopo l’omicidio, della dedotta condizione psicotica, tanto repentino e radicale (l’imputato,è bene ricordare, preso atto del fallimento del tentativo di uccidersi, ha chiamato i Carabinieri, ammesso l’omicidio, fornito le proprie generalità ed indicato il luogo in cui egli si trovava) da rendere superflua la somministrazione di farmaci; fenomeno, questo, assai inconsueto nelle ipotesi di improvvisa manifestazione di un disturbo psicotico reattivo breve del quale, per di più, del caso di specie non è stato riscontrato alcuno dei sintomi caratteristici (quali, tra gli altri, il delirio strutturato, fenomeni allucinatori, effettiva disorganizzazione comportamentale).
A quest’ultimo proposito, la Corte di assise di appello non ha mancato di rimarcare che, qualora lo stato di ansia ed inquietudine che attanagliava A.A. avesse raggiunto la soglia di una condizione psicotica, molto difficilmente egli sarebbe stato in grado di mantenere il livello di organizzazione tenuto, ovvero ad interagire, nelle ore pomeridiane del 30 marzo 2020, con i propri congiunti e, soprattutto, nessuno sarebbe riuscito a convincerlo a rientrare a F presso l’abitazione che egli condivideva con la vittima; né, ha aggiunto, egli avrebbe potuto interagire con B.B. così a lungo se fosse stato in una condizione di disconnessione dalla realtà.
Al riguardo, ha precisato – sempre sulla scia di quanto esposto dal perito – che “sebbene lo psicotico, similmente allo schizofrenico, possa alternare fasi in cui è disconnesso dalla realtà e fasi in cui è più stabile, a seconda che si trovi o meno in presenza del fattore scatenante, nelle fasi in cui si scompensa, ed elabora idee deliranti, la relazione, spesso e volentieri, diventa impossibile” e notato che “d’altra parte, tale condizione di disconnessione dalla realtà non era stata clinicamente accertata nel periodo immediatamente successivo al fatto, in quanto gli unici dati, peraltro ambigui, erano stati rilevati dallo psicologo del carcere, ma non dallo psichiatra”.
I giudici di appello hanno, ancora, sottolineato, riportandosi al contributo del dott. C.C., che l’astratta possibilità di una ricaduta nel disturbo psicotico breve non trova riscontro nei contegni aggressivi dei quali A.A. si è macchiato ai danni di taluni compagni di detenzione, motivate sul piano relazionale e non da comportamenti allucinatori o idee deliranti delle quali, nel suo agito, non vi è traccia; hanno, infine, rilevato che il manifestarsi della evocata patologia psichiatria è in grado di incidere sulle facoltà mnemoniche del soggetto, che manifesta confusione e ricostruisce i fatti in maniera distorta ma che, tuttavia, il difetto di memoria limitato, come nel caso in esame, al singolo fatto è riferibile più ad uno stato emotivo intenso che ad una condizione psicotica.
- La Corte di assise di appello ha, sotto altro aspetto, dato conto delle obiezioni rivolte dall’imputato all’esegesi delle risultanze probatorie, delle quali ha escluso il travisamento. Ha, in dettaglio, ricondotto il tentativo di suicidio dell’imputato alla disperazione da lui avvertita a fronte dell’apprezzamento della commissione di un gesto dalle conseguenze tanto drammatiche quanto irreparabili, piuttosto che al supposto disturbo psicotico che ha, del pari, reputato incompatibile con il contegno, assolutamente privo di connotazioni singolari, bizzarre o deliranti, tenuto da A.A. all’arrivo delle forze dell’ordine e una volta condotto in ospedale.
Ha, nel prosieguo, ribadito la rilevanza, nell’ottica considerata, dell’esito dell’osservazione compiuta, a ridosso dell’omicidio, dallo psichiatra, ben più titolato dello psicologo a decifrare la sintomatologia riconducibile ad un disturbo mentale, e dato analiticamente atto del succedersi delle dichiarazioni rese dall’imputato, connotate, all’origine, da incertezze e falsità che ha stimato essere influenzate da intenti strategici, e, successivamente, da discrasie che, ove non valutate negativamente sul piano della credibilità soggettiva e dell’attendibilità del narrato, potrebbero discendere dalla sua inconscia volontà di rimuovere i ricordi dolorosi.
La Corte di assise di appello ha concordato con il primo giudice nel ritenere che “ove effettivamente precipitato, negli attimi immediatamente precedenti alla commissione del delitto, in una sorta di buco nero che ne avrebbe azzerato anche la capacità di incasellare gli accadimenti all’interno del suo patrimonio mnemonico, l’imputato non avrebbe mai potuto – e ciò soprattutto in epoca prossima al fatto – ricostruire quanto accaduto” e che “se ciò è riuscito a fare, peraltro in termini coerenti a quanto i dati obiettivi permettono di ipotizzare, ciò significa che egli è riuscito a focalizzare la propria attenzione sull’accadimento e ne ha serbato memoria, un ricordo che per la sua carica drammatica appare francamente irragionevole possa aver poi disperso dal patrimonio mnemonico nel breve volgere di qualche mese”.
Ha ribadito, da ultimo, che la condizione di ansia in cui A.A. è precipitato, e che si è tramutata in angoscia, rientra nel novero degli “stati emotivi” che, ai sensi dell’art. 90 cod. pen., non escludono né diminuiscono l’imputabilità.
- Al cospetto del vasto e completo apparato argomentativo testé, per sintesi, evocato, il ricorrente si pone in un’ottica ispirata alla confutazione ed alla riproposizione di tesi ed assunti che, già sottoposti all’attenzione dei giudici di merito, hanno ricevuto, in quella sede, risposta appagante e logicamente ineccepibile. Consapevole del contenuto e dei limiti del sindacato rimesso al giudice di legittimità, A.A. ha interpretato in chiave di travisamento dei dati istruttori, illogicità manifesta o contraddittorietà aspetti che, a ben vedere, non valgono ad inficiare la complessiva tenuta razionale della motivazione sottesa alla decisione impugnata, quale l’accenno, da parte del teste N.N.. alla sua tendenza all’ipocondria, del tutto inidoneo ad assegnare a talune sue abitudini (quali l’attenzione all’igiene ed alla cura per la persona) connotazione ossessivo-compulsiva.
Né maggior credito va attribuito alla, pur plausibile, distinzione tra la paura di essere contaminato, diretta soprattutto nei confronti della fidanzata, e quella di essere seguito dai parenti della ragazza (che, in effetti, sembra trovare, almeno parziale, riscontro nelle dichiarazioni della sorella della vittima), relativa ad un aspetto che, nella complessiva economia della decisione, assume rilievo del tutto marginale, essendo discese da altri, e ben più significativi, rilievi le conclusioni raggiunte in ordine alla sussistenza del ventilato vizio di mente.
Analogamente, il fatto – che il ricorrente lamenta essere stato indebitamente sottaciuto dal perito e dalla Corte di assise di appello – che, nella letteratura scientifica, si ammetta che il disturbo psicotico reattivo possa essere, in ipotesi, circoscritto ad un solo giorno non giova alla sua causa, giacché il dott. C.C., lungi dall’escludere, in termini assoluti, la teorica possibilità che egli sia stato affetto da siffatta patologia psichiatrica, ha escluso, in concreto, tale eventualità sulla scorta di plurime e convincenti considerazioni, tra le quali quella – non contraddetta dalla, pur pertinente, obiezione difensiva – secondo cui la ridottissima durata delle riscontrate singolarità comportamentali concorre a convincere, nel più ampio contesto globalmente delineato, dell’essere stato egli preda di un profondo stato di disagio psicologico, che ha generato ansia ed angoscia, ma non anche di un franco delirio psicotico, produttivo della reazione tradottasi nella letale aggressione ai danni della fidanzata.
Frutto di un approccio meramente controargomentativo si rivelano, poi, le contestazioni sollevate dal ricorrente in ordine alla rilevanza, in chiave dimostrativa della dedotta patologia psichiatrica, del tenore e dell’evoluzione delle dichiarazioni da lui rese nel corso del procedimento e delle aggressioni poste in essere in pregiudizio di soggetti che condividevano con lui l’esperienza detentiva; temi, questi, che, come detto, la Corte di assise di appello ha affrontato funditus e vagliato in modo che sfugge al potere censorio del giudice di legittimità.
Ineccepibili si palesano, del resto, le osservazioni che la Corte di assise di appello ha riservato all’esito dei test diagnostici somministrati all’imputato dal dott. F.F. che, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, hanno oggetto e finalità non coincidenti con quelli utilizzati dalla dott.ssa D.D., che hanno sortito risultati non decisivi in vista dell’accertamento della sussistenza di patologia incidente sulla capacità di intendere e di volere.
I rilievi che precedono impongono il rigetto, oltre che del primo, del secondo motivo di ricorso; ad onta di quanto eccepito da A.A., la Corte di assise di appello ha, infatti, avuto cura di illustrare debitamente le ragioni che la hanno condotta ad aderire – sul piano sia scientifico che dell’interpretazione delle emergenze processuali – alla prospettazione del perito e a disattendere, per converso, le valutazioni espresse dalla sua consulente in relazione a ciascuno degli evidenziati campi di indagine.
- E, al contrario, fondata la doglianza concernente la legittimità del rigetto del motivo di appello relativo al diniego, da parte della Corte di assise, delle circostanze attenuanti generiche. In proposito, occorre premettere, al fine di delineare le coordinate ermeneutiche che governano lo scrutinio della censura, che “L’applicazione delle circostanze attenuanti generiche non costituisce un diritto conseguente all’assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto, ma richiede elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle stesse” (Sez. 3, n. 24128 del 18/03/2021, De Crescenzo, Rv. 281590 – 01).
Le predette circostanze, invero, hanno lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all’imputato, in considerazione di situazioni atipiche- o che, sebbene comprese nell’ambito applicativo dell’art. 133 cod. pen., meritino comunque, nel caso concreto, una particolare considerazione per la specificità della vicenda, o della personalità o del vissuto dell’imputato o altro (Sez. 1, n. 4508 del 15/02/1988, Crimenti, Rv. 178095 – 01) – che effettivamente incidano sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere del reo, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (Sez. 2, n. 9299 del 07/11/2018, dep. 2019, Villani, Rv. 275640 – 01).
È, d’altro canto, pacifico, in giurisprudenza, che “Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente” (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269) e “In tema di diniego della concessione delle attenuanti generiche, la “ratio” della disposizione di cui all’art. 62 bis cod. pen. non impone al giudice di merito di esprimere una valutazione circa ogni singola deduzione difensiva, essendo, invece, sufficiente l’indicazione degli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti” (Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826).
Resta, dunque, fermo che il sindacato di legittimità in materia non può in alcun modo estendersi alla discrezionalità di una valutazione che rimane appannaggio esclusivo del giudice di merito e deve mantenersi nella cornice della verifica dell’assenza, nel provvedimento impugnato, di deficit razionali di tale portata da integrare manifesta illogicità o contraddittorietà ovvero di radicale travisamenti dei dati istruttori, dotati di decisiva influenza sulla complessiva architettura della motivazione.
- Ciò posto in linea generale, va osservato come, nella presente vicenda, si discuta dell’attitudine dello stato emotivo che ha fatto da sfondo alla condotta omicida di A.A. a fungere da fattore di attenuazione della misura della responsabilità penale: eventualità, questa, che, sicuramente ipotizzabile in astratto, come in passato riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 7272 del 05/04/2013, dep. 2014, Disha, Rv. 259160 – 01), è stata esclusa dalla Corte di assise di appello sulla scorta di un percorso argomentativo che si connota, a ben vedere, per aporie e contraddizioni tutt’altro che marginali.
7.1. La Corte di assise di appello ha escluso che nella fattispecie sia dato rinvenire “elementi positivi che giustifichino un trattamento di particolare favore nei confronti dell’imputato” sul rilievo, in primo luogo, dell’esorbitante livello di disvalore dell’azione delittuosa dell’imputato. Ha sottolineato che il delitto, consumato con modalità particolarmente cruente e violente, è maturato “nel corso di una lite furibonda in cui, nelle prime ore del mattino del 31 marzo 2020, era culminato un contrasto che aveva frapposto l’imputato e la vittima sin dalla mattina del giorno precedente (come ammesso dallo stesso imputato e riferito dalla vicina di casa, G.G., svegliata dalle grida dei due giovani e dal rumore simile a quello prodotto dallo spostamento di mobili)”.
Ha aggiunto, in dichiarata adesione a quanto già esposto dalla Corte di assise, che “le modalità della condotta – segnatamente l’avere esercitato, in occasione di un litigio con la vittima, una cieca violenza nei confronti di colei cui l’imputato era legato da un saldo rapporto affettivo, l’avere trovato dentro di sé il coraggio di uccidere a mani nude la giovane, di osservarla mentre vinceva la disperata resistenza che ella aveva tentato di opporre (come evidenziato dalla Dott.ssa O.O., la morte per soffocamento è intervenuta dopo alcuni minuti) – sono circostanze che disegnano i contorni di una condotta efferata, fonte di non comune sgomento e che, sul piano soggettivo, delineano una allarmante determinazione e pervicacia dell’imputato”.
Ha, per tale via, formulato valutazioni che – se si eccettua l’enfasi che connota la qualificazione come “furibonda” del diverbio tra i fidanzati che, ha correttamente eccepito il ricorrente, è stato ricostruito sulla base, oltre che delle dichiarazioni dell’imputato, dell’apporto di una testimone, che ne ha offerto, dal suo limitato punto di ascolto, una descrizione meno allarmante – sono senz’altro aliene da vizi logici e che, tuttavia, devono essere apprezzate in combinazione con quelle che la Corte di assise di appello ha dedicato alla questione specificamente posta dall’imputato, vertente, come detto, sulla rilevanza, in prospettiva sanzionatoria, della peculiare condizione psicologica in cui egli ha agito.
7.2. A quest’ultimo riguardo, i giudici di merito sono pervenuti a conclusioni di ordine negativo sul postulato che le cause del delitto “sono rimaste dubbie nella condivisibile prospettazione del perito”. Hanno, in particolare, ricordato come il dott. C.C. abbia evidenziato che il timore, allegato dall’imputato, di essere contagiato dalla vittima non era, evidentemente, ben radicato nella sua coscienza, posto che egli “aveva accettato di tornare a casa ed era riuscito a mantenere un rapporto adeguato con la stessa (addirittura baciandola sulle scale al suo rientro), comportamento difficilmente ipotizzabile ove avesse presentato una ideazione profondamente radicata e pervasiva tale da ingenerare un delirio di contaminazione, con la vittima come agente causale”.
D’altra parte, hanno aggiunto, “se il fattore stressante fosse stato la pandemia, l’imputato non avrebbe ridotto il senso di angoscia e di oppressione dopo il decesso della vittima”, mentre, qualora “l’imputato avesse presentato idee di persecuzione da parte del padre e del fratello di B.B., l’ostilità si sarebbe dovuta concentrare su tali persone”. Hanno, pertanto, concluso che lo “stato d’ansia e di irrequietezza, comunque manifestato dall’imputato nelle ore immediatamente precedenti al delitto, non solo, come ampiamente argomentato, non ha compromesso la sua capacità di intendere e di volere, ma non ha certamente determinato, né giustificato, la furia, l’odio e l’efferatezza rivolti dal A.A. contro la povera B.B. (che non può escludersi abbiano tratto origine da un movente rimasto inesplorato)”.
7.3. Il ragionamento non convince, perché affetto, sul piano sia razionale che, soprattutto, dell’esegesi delle emergenze istruttorie, da plurime falle. È, invero, la stessa Corte di assise di appello ad attestare (cfr. pag. 4), nel sintetizzare il contenuto della sentenza di primo grado, come “tutti i testi escussi in dibattimento avessero concordemente attribuito alla relazione sentimentale che aveva avvinto l’imputato alla vittima i caratteri di un rapporto solido, profondo e sereno, condiviso con entusiasmo dai componenti dei rispettivi nuclei familiari”.
Tanto, in pieno accordo con il tenore dei messaggi inviati dalla B.B. all’imputato nella giornata del 30 marzo 2020, sempre affettuosi ed ispirati da assoluta fiducia ed amorevole solidarietà, nonché, più in generale, con le informazioni aliunde acquisite circa i legami, saldi e maturi, che univano non solo i due giovani ma anche le rispettive famiglie di origine (si pensi, tra l’altro, all’atteggiamento tenuto dal fratello, dalla sorella e dai genitori dell’imputato, preoccupati, innanzitutto, che egli non abbandonasse B.B., in quel momento ancora più bisognosa della sua assistenza).
In questa cornice – esente, per quanto emerso dal processo, da connotazioni tali da assegnare al delitto una matrice legata al genere – adombrare, come fa la Corte di assise di appello, che l’imputato abbia agito per un movente, rimasto sconosciuto, diverso dal preponderante stimolo derivante dallo stato di angoscia in cui egli era precipitato si risolve in un travisamento del dato processuale, che depone, piuttosto, nel senso della diretta connessione tra il disagio psicologico che ha afflitto A.A. e gli anomali comportamenti da lui tenuti a partire dalla tarda mattinata del 30 marzo 2020.
Di ciò, d’altro canto, la Corte di assise di appello mostra, almeno implicitamente, di rendersi conto laddove, subito dopo avere escluso “che lo stato emotivo manifestato dall’imputato nei momenti antecedenti all’omicidio abbia influito concretamente sulla misura della responsabilità penale e sia, pertanto, valutabile positivamente ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche”, richiama e condivide il rilievo del primo giudice secondo cui l’odierno ricorrente, lungi dall’essere “stato travolto da una sensazione di concitazione emotiva improvvisamente palesatasi al momento del delitto”, ha, al contrario, per sua stessa ammissione, “sentito crescere dentro di sé una condizione di disagio che non ha, però, tentato efficacemente di contrastare”.
Per tale via, dunque, i giudici di merito finiscono con il riconoscere che lo stato psicologico si è riverberato sull’agito delittuoso, per come, peraltro, indirettamente confermato dal reiterato tentativo di suicidio posto in essere da A.A. in ragione della lucida consapevolezza di quanto appena accaduto (cfr., al riguardo, quanto esposto dalla Corte di assise di appello alle pagg. 24-25 della sentenza impugnata), non coronato da successo per la provvidenziale attivazione del dispositivo salvavita.
7.4. A.A., scrivono i giudici di merito, “nulla ha fatto per tentare di placare l’ansia dalla quale si sentiva oppresso, se non, da ultimo, dare corso ad un tentativo di allontanamento da F cui ha prontamente abdicato, nulla ha concretamente opposto per infrenare la crescita di una condizione di agitazione che”, com’è agevole comprendere, rappresenta il sostrato ideale nel quale maturano quelle reazioni comportamentali che, seppur sorrette da coscienza e volontà, ben difficilmente appaiono replicabili in condizioni personali diverse e più serene”.
E questo, a giudizio del Collegio, il baricentro della motivazione che, se condiviso, la renderebbe tetragona – stanti i già tratteggiati limiti del sindacato di legittimità – alle censure difensive e che, però, appare distonico rispetto alle conquiste processuali. L’espletata istruttoria ha, infatti, consentito di acclarare, in termini incontroversi, che A.A., agitato e psicologicamente frastornato, si risolse, la mattina del 30 marzo 2020, ad allontanarsi dall’abitazione che condivideva con la B.B. al dichiarato fine di raggiungere la famiglia di origine a D: iniziativa, questa, che, nelle contingenti condizioni connesse all’emergenza pandemica ed alle restrizioni ai movimenti imposte, nell’interesse della salute pubblica, da provvedimenti cogenti dell’autorità, si palesava velleitaria quanto priva, in concreto, di praticabili opzioni alternative.
In un frangente storico drammatico, in cui l’umanità intera è stata chiamata, praticamente dall’oggi al domani, a resistere ad un pericolo sino a quel momento sconosciuto, invasivo ed in apparenza inarrestabile, A.A. ha vissuto un disagio psicologico, poco a poco evoluto in ansia e, quindi, in angoscia, per attutire il quale ha pensato (in questo senso depone, tra l’altro, il contenuto dei colloqui intercorsi, in quelle ore, con la sorella ed il cognato) di raggiungere i genitori ed i fratelli, a costo di sottrarsi all’adempimento dei doveri di assistenza e solidarietà verso la compagna di vita.
Ha, in questo modo, compiuto una scelta che – ancorché inaccettabile, perché comportante l’abbandono della B.B., in precarie condizioni di salute e, a sua volta, lontana dagli affetti familiari, oltre che la violazione degli stringenti divieti alla circolazione al tempo vigenti – ben potrebbe avere costituito, nella sua distorta prospettiva, soluzione obbligata stante l’estrema difficoltà, per non dire l’impossibilità, di accedere alle strutture sanitarie o di ricorrere ad ausili che travalicassero la sfera della mera consulenza telefonica o, comunque, a distanza.
Inquadrato in questo contesto il tentativo di allontanamento posto in essere da A.A., la valutazione operata al riguardo dai giudici di merito appare manifestamente illogica, perché parametrata ad una situazione assai distante da quella nella quale egli si trovò, nei fatti, a fronteggiare lo stato di angoscia.
7.5. Ancor più irrazionale è il successivo snodo del percorso motivazionale che sorregge il rigetto del motivo di appello, imperniato sul rilievo per cui A.A., dopo avere inscenato il tentativo di fuga, vi avrebbe “prontamente abdicato”. Se è vero, infatti, che l’imputato, giunto a M, ove aveva in animo di provare ad imbarcarsi su uno dei traghetti che, con frequenza ridotta, consentivano ai soggetti autorizzati di attraversare lo Stretto, non diede seguito al suo intendimento, non è men vero, per converso, che egli fu a ciò indotto dalle pressioni dei congiunti, come univocamente testimoniato dalle dichiarazioni dei soggetti coinvolti e dall’esame dei tabulati telefonici.
A.A., tornato a casa ed accolto con sollievo dalla fidanzata, rimeditò, dunque, la sua decisione perché richiamato al dovere di restare al fianco della ragazza, come lui lontana dagli altri affetti, impedita a spostarsi e, per di più, sofferente.
Ed è proprio dal persistente ed irrisolto dissidio interiore – tra la necessità di dare sfogo al suo incomprimibile ed ormai esacerbato disagio psicologico (la Corte di assise di appello, a pag. 20 della sentenza impugnata, ricorda come, a dire del dott. C.C., A.A. presentava “un’importante condizione ansiosa, che produceva una percezione ambientale di ostilità e minacciosità”) e quella di onorare, come accoratamente raccomandatogli da tutti coloro con cui egli interloquì in quelle ore, i propri doveri di compagno e di cittadino – che discendono i suoi successivi ed altalenanti comportamenti, dal ritorno a casa al nuovo accenno di allontanamento registrato intorno alle ore 19:00, sino all’apparente calma serale, all’agitazione notturna (segnata, tra l’altro, dall’invio di messaggi, quali quelli inviati ai fratelli, basati su lugubri presagi, e dal contatto instaurato con il padre alle 4:21, dettato dalla preoccupazione per le condizioni di salute dei genitori) ed al tragico epilogo.
Se a ciò si aggiunge che – stando sempre alla narrazione dei giudici di merito – A.A. aveva, già prima del tragico sviluppo della vicenda, ventilato la possibilità di morire (in questo senso depongono i messaggi scambiati con i fratelli in ordine alla destinazione ai nipoti dei propri risparmi) e, vieppiù, che egli, subito dopo avere ucciso la compagna, ha posto in essere condotte autolesive della cui strumentalità non vi è segno, tangibile appare in conclusione, la fragilità, sul piano logico, di una motivazione che, in punto di trattamento sanzionatorio, non tiene conto dell’incidenza sulla condotta- più che degli stati emotivi, in sé considerati – della causa che ha provocato la condizione di agitazione e, inoltre, ha ostacolato la pronta attivazione di quei presidi, di ordine psicologico, affettivo, relazionale, sanitario, diretti a mitigarne gli effetti ed a prevenirne l’escalation.
7.6. Rebus sic stantibus, deve stimarsi che i giudici di merito non abbiano compiutamente verificato se, data la specificità del contesto, possa, ed in quale misura, ascriversi all’imputato di non avere “efficacemente tentato di contrastare” lo stato di angoscia del quale era preda e, parallelamente, se la fonte del disagio, evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica; con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi, anche dei protagonisti della vicenda, e, ancor più, la contingente difficoltà di porvi rimedio costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale.
La faglia razionale insita nella motivazione della sentenza impugnata è, in potenza, idonea ad incidere sul vaglio del motivo di appello, incentrato su un profilo – l’attitudine della peculiare condizione psicologica a giustificare il contenimento del trattamento sanzionatorio – che, naturalmente, dovrà essere delibato in sinergia con quelli, ulteriori, a tal fine già considerati dai giudici di merito, ivi compreso il contegno serbato dall’imputato nel corso delle indagini preliminari e, quindi, in dibattimento, che è stato valorizzato, in senso contrario al contenimento della sanzione, dal giudice di primo grado ma non anche da quello di appello.
- Le ragioni che si sono esposte impongono l’annullamento, limitatamente al diniego delle circostanze attenuanti generiche, della sentenza impugnata, con il conseguente rinvio alla Corte di assise di appello di Reggio Calabria, affinché proceda ad un nuovo esame sul punto che, libero nell’esito, sia esente dai vizi riscontrati.
- Dall’affermazione, irrevocabile, della penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli discende la sua condanna alla rifusione, in favore delle costituite parti civili e nella misura indicata in dispositivo, delle spese di lite relative all’azione civile ed alla presente fase; con l’avvertenza che la quantificazione delle spese in favore di H.H. e I.I., ammesse al patrocinio a spese dello Stato, dovrà essere effettuata dalla Corte di assise di appello di Reggio Calabria con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. 115/2002 , tenendo conto della liquidazione operata, in questa sede, con riferimento alla posizione di J.J., K.K., L.L., assistiti dal medesimo difensore.