Corte costituzionale, sentenza 25 luglio 2024 n. 149
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis, quinto comma, primo periodo, del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis, quinto comma, secondo periodo, cod. pen., sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, ha sollevato due questioni di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis, quinto comma, cod. pen., introdotto dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 28 del 2015.
La prima, proposta in via principale e con riferimento all’art. 76 Cost., ha a oggetto la citata disposizione nella parte in cui, al primo periodo, prevede che, ai fini della determinazione della pena detentiva in vista dell’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui al primo comma del medesimo articolo, non si tiene conto delle circostanze «ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale».
La seconda, proposta espressamente in via subordinata e con riferimento all’art. 3 Cost., ha a oggetto il solo secondo periodo della citata disposizione, ai sensi del quale «[i]n quest’ultimo caso ai fini dell’applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’articolo 69».
1.1.– Il rimettente premette di doversi pronunciare nell’ambito di un procedimento a carico di una persona imputata del reato di cui all’art. 615-ter cod. pen., aggravato ai sensi dei commi 2, numero 1), e 3 del medesimo articolo, perché la stessa, nella sua qualità di funzionario in servizio presso l’Agenzia delle entrate, avrebbe acceduto abusivamente ai sistemi informatici dell’amministrazione per effettuare alcune ricerche sulla posizione tributaria e patrimoniale di altro soggetto non dettate da esigenze di servizio.
Valutate le risultanze processuali, il giudice a quo ritiene che l’imputato sia meritevole delle circostanze attenuanti generiche, prevalenti rispetto alle circostanze aggravanti a effetto speciale ricorrenti nel caso; ritiene, altresì, che sussistano le condizioni perché al medesimo imputato venga applicata la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen.
Quest’ultima sarebbe applicabile perché la fattispecie base del reato di cui A. D.M. è chiamato a rispondere prevede una pena detentiva fino a tre anni, compatibile con la previsione dell’art. 131-bis, primo comma, cod. pen., per cui l’esimente in parola può essere applicata, tra l’altro, quando il reato è punito con pena detentiva non superiore nel minimo a due anni.
Il suo riconoscimento in concreto, tuttavia, troverebbe un ostacolo nella disposizione censurata, che accorda rilievo – nella determinazione della pena detentiva – unicamente alle circostanze a effetto speciale e a quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.
2.– Ad avviso del rimettente, il primo periodo di tale previsione contrasterebbe con l’art. 76 Cost., perché la sua introduzione, avvenuta con l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 28 del 2015, avrebbe ecceduto dal criterio direttivo della delega contenuto nell’art. 1, comma 1, lettera m), della legge n. 67 del 2014. Quest’ultimo, infatti, delegando il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi nel rispetto – tra l’altro – del criterio volto a «escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale», nulla stabiliva in ordine al criterio di calcolo della pena detentiva, con la conseguenza che, nella determinazione della stessa, si dovrebbe necessariamente prendere in considerazione solo la cornice edittale prevista per il reato base.
2.1.– Il secondo periodo della disposizione censurata, il quale prevede che, ove ricorrano le circostanze a effetto speciale, «ai fini dell’applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’articolo 69», violerebbe a sua volta l’art. 3 Cost.
La scelta del legislatore di non consentire il bilanciamento, infatti, comporterebbe «che la causa di non punibilità è ora applicabile a quei reati per i quali la fattispecie base sia contrassegnata da limiti edittali elevati ma per i quali sussista una circostanza attenuante ad effetto speciale, mentre la stessa causa di non punibilità non è applicabile a quei reati, connotati da una fattispecie base punita mitemente, ma per i quali la sussistenza di una circostanza ad effetto speciale elevi particolarmente i limiti edittali, pur quando il fatto risulti in concreto di particolare tenuità e ricorrano delle attenuanti ad effetto comune».
3.– La prima questione non è fondata.
3.1.– La costante giurisprudenza di questa Corte ha affermato che, in tema di eccesso di delega, la previsione di cui all’art. 76 Cost. «non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa deve, così, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Il che, se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse» […].
Il controllo sul superamento dei limiti posti dalla legge di delega «deve essere compiuto partendo dal dato letterale per poi procedere a verificare se l’attività del legislatore delegato, nell’esercizio del margine di discrezionalità che gli compete nell’attuazione della legge di delega, si sia inserito in modo coerente nel complessivo quadro normativo, rispettando la ratio della norma delegante (sentenze n. 250 e n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015 e n. 119 del 2013)» […].
Lo spazio della discrezionalità del legislatore delegato, pertanto, risente inevitabilmente, nella sua maggiore o minore ampiezza, dell’ambito oggetto di intervento, così che, per la complessità dei rapporti, la tecnicità e l’interconnessione delle regole che in esso operano, la disciplina oggetto di delega mal si presta ad esame ed approvazione diretta delle Camere (sentenze n. 84 e n. 22 del 2024), come avviene nell’area della codificazione, che è «quella elettiva della delegazione legislativa» (sentenza n. 22 del 2024). In questi casi, i principi e i criteri direttivi della delega «tracciano gli obiettivi ed esprimono le linee di fondo delle scelte del legislatore delegante, così da ampliare il potere e l’attività di riempimento demandati al legislatore delegato» (sentenze n. 96 e n. 22 del 2024).
La necessità di inquadrare i termini di esercizio della discrezionalità del legislatore delegato «entro [una] cornice unitaria emergente dalla delega interpretata anche in chiave sistematica e teleologica» (sentenza n. 182 del 2018) assume, inoltre, un particolare rilievo laddove, come nel caso di specie, «la questione della conformità alla delega di una specifica disposizione prevista dal provvedimento delegato in assenza di puntuali e dettagliate direttive […] de[ve] necessariamente plasmarsi in funzione delle soluzioni attuative che il legislatore delegato è chiamato ad effettuare in relazione alle discipline di diritto sostanziale cui la stessa delega si sia, invece, espressamente riferita» (sentenza n. 194 del 2015).
3.2.– Trasferendo la portata di tali precedenti al caso di specie, non si può dubitare che il criterio di delega vòlto all’introduzione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ben potesse implicare la necessità di una ulteriore specificazione della sua portata operativa, attraverso la previsione – tra l’altro – che la soglia edittale di pena detentiva debba essere calcolata tenendo conto di tutte le circostanze in grado di dare luogo a figure sostanzialmente autonome di reato, per lo specifico disvalore di cui queste sono espressione e che si traduce nell’inasprimento sanzionatorio eccedente il terzo della pena astrattamente comminata per il reato base (o l’inverso, in caso di circostanze attenuanti a effetto speciale).
In altre parole, è del tutto coerente con il riferito criterio direttivo della delega che il legislatore delegato, non affidandosi unicamente alla pena prevista per il reato base, abbia ritenuto che la tenuità è in re ipsa da escludere allorché un determinato reato – pur astrattamente riconducibile entro la soglia di pena prevista dal primo comma dell’art. 131-bis cod. pen. – integri, per la ricorrenza di una o più circostanze aggravanti a effetto speciale o autonome, un’ipotesi assimilabile ad una fattispecie autonoma di reato, connotata da particolare gravità proprio per il concorso di quelle aggravanti. Specularmente, rappresenta un piano svolgimento della ratio della delega il fatto che il legislatore delegante abbia consentito che beneficino della causa di non punibilità in parola gli imputati per reati puniti con pena superiore alla soglia fissata nel primo comma dell’art. 131-bis cod. pen., allorché ad essi accedano circostanze attenuanti ad effetto speciale.
3.3.– Né, a smentire quanto si è detto, hanno pregio gli argomenti addotti dal rimettente.
Non ha rilievo, in primo luogo, il fatto che nella disciplina dell’art. 168-bis cod. pen., introdotta dall’art. 3 della legge n. 67 del 2014, la pena detentiva per l’accesso al beneficio sia determinata unicamente sulla fattispecie base, senza prendere in considerazione le circostanze aggravanti, comprese quelle autonome o a effetto speciale.
Ancor prima della strutturale e ontologica diversità tra i due istituti, a rilevare è il fatto che la disciplina dell’art. 168-bis cod. pen. non è il frutto di alcuna delega legislativa, avendo proceduto direttamente il legislatore del 2014 a introdurre l’istituto in parola, con ciò dimostrando a contrario la fisiologica attribuzione al legislatore delegato di uno spazio discrezionale nello svolgimento della delega. Né è dato ravvisare alcuna necessaria continuità, in un impianto legislativo a contenuto così ampio e diversificato quale quello di cui alla legge n. 67 del 2014, in relazione a un aspetto così specifico quale il criterio di calcolo delle circostanze, di per sé suscettibile di svolgimenti diversificati e, pertanto, espressione di scelte discrezionali del legislatore soggette al limite della manifesta irragionevolezza.
In secondo luogo, e per le stesse ragioni, non può attribuirsi rilievo alla circostanza che, delegando il Governo a introdurre le pene della reclusione e dell’arresto domiciliare, l’art. 1, comma 1, lettere b), c) e g), della legge n. 67 del 2014 richiami il criterio del massimo della pena edittalmente previsto, calcolato ai sensi di quanto stabilito dall’art. 278 cod. proc. pen., secondo il quale «[a]gli effetti dell’applicazione delle misure […] non si tiene conto […] delle circostanze del reato, fatta eccezione della circostanza aggravante prevista al numero 5) dell’articolo 61 del codice penale e della circostanza attenuante prevista dall’articolo 62 n. 4 del codice penale nonché delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale».
Anche in questo caso, il rimettente considera assimilabili fattispecie del tutto eterogenee, ricavando formalisticamente dal richiamo a tale criterio di calcolo della pena nel testo della legge delega la necessità che esso non dovesse essere previsto per la fattispecie dell’esimente per particolare tenuità del fatto.
3.4.– La questione di legittimità costituzionale proposta in via principale è dunque non fondata.
4.– Non fondata è, altresì, la seconda questione, prospettata in via subordinata, con la quale il rimettente assume che l’art. 131-bis, quinto comma, cod. pen. contrasti con l’art. 3 Cost., limitatamente alle parole «[i]n quest’ultimo caso ai fini dell’applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’articolo 69».
4.1.– Preliminarmente, occorre ricordare che «[p]er giurisprudenza costante, le cause di non punibilità costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, sicché la loro estensione comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono da un lato la norma generale e dall’altro la norma derogatoria, giudizio che appartiene primariamente al legislatore (sentenze n. 156 del 2020, n. 140 del 2009 e n. 8 del 1996). Da tale premessa discende che le scelte del legislatore relative all’ampiezza applicativa della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. sono sindacabili soltanto per irragionevolezza manifesta (sentenze n. 156 del 2020 e n. 207 del 2017)» (sentenza n. 30 del 2021).
Nel caso di specie, lo scopo della disposizione censurata, che ricalca analoghe previsioni contenute in altre parti del codice (e, in particolare, l’art. 157, terzo comma, cod. pen.), è evidentemente quello di valorizzare la strutturale diversità tra i profili oggettivi di applicabilità dell’esimente (relativi alla pena, alle modalità della condotta e all’esiguità del danno) e i profili inerenti alla persona del reo, che vanno valutati unicamente ai fini del riconoscimento delle circostanze (aggravanti o attenuanti) diverse da quelle considerate nel primo periodo del quinto comma dell’art. 131-bis cod. pen.
L’introduzione del secondo periodo nell’attuale quinto comma dell’art. 131-bis cod. pen., infatti, scaturisce da una sollecitazione avanzata dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati al Governo, il quale, in sede di presentazione dello schema di decreto delegato alle Camere per il parere, aveva evidenziato il carattere problematico dell’assenza di un divieto di bilanciamento, perché la considerazione di circostanze a effetto speciale sarebbe stata «destinata a soccombere per la prevalenza di circostanze ad effetto comune di segno opposto».
Proprio per reagire a tale inconveniente (che il rimettente, erroneamente, associa alla previsione di cui contesta la legittimità costituzionale), il Governo è stato invitato, come detto, a escludere il giudizio di bilanciamento, con l’unica eccezione – non recepita dal legislatore delegato – della circostanza attenuante di cui all’art. 62, numero 4), cod. pen., relativa al danno patrimoniale o al lucro di speciale tenuità.
4.2.– Poste tali premesse, e ribadito che le «[d]eroghe al bilanciamento […] sono possibili e rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore» (sentenza n. 88 del 2019, successivamente ripresa dalla sentenza n. 217 del 2023), non può ritenersi che la disposizione censurata abbia la natura di una scelta legislativa manifestamente irragionevole, almeno se riferita (come nell’ordinanza di rimessione) a un meccanismo generale che non consente la ponderazione tra categorie diverse di circostanze.
Innanzi tutto, è necessario chiarire che non si è davanti, nel caso di specie, a un’ipotesi di “ordinaria” inoperatività del bilanciamento di circostanze, quali quelle sovente prese in esame nella giurisprudenza anche recente di questa Corte (sentenze n. 217, n. 201, n. 197 e n. 188 del 2023).
L’art. 131-bis, quinto comma, secondo periodo, cod. pen. detta una regola riguardante l’esercizio dei poteri del giudice in vista dell’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, che rappresenta pur sempre un istituto derogatorio ed eccezionale, ma senza che il giudizio di bilanciamento resti precluso nel momento di applicazione della sanzione in concreto (analogamente, sentenze n. 217 del 2023 e n. 117 del 2021).
La disposizione censurata, pertanto, anche da questo punto di vista non si pone in contrasto con il principio di offensività, inteso tanto «come precetto rivolto al legislatore affinché limiti la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, esprimano un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (offensività “in astratto”)», quanto come «criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice affinché, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, eviti di ricondurre a quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (offensività “in concreto”) (tra molte, sentenze n. 139 del 2023 e n. 211 del 2022)» (sentenza n. 207 del 2023; in senso conforme, sentenza n. 28 del 2024).
Analogamente a quanto questa Corte ha ritenuto nella sentenza n. 260 del 2020 in relazione al divieto di bilanciamento per l’accesso al giudizio abbreviato, alla regola in scrutinio potrebbe anzi attribuirsi una «solida ragionevolezza», derivante dal fatto che «il legislatore fa dipendere la scelta relativa all’applicazione o non applicazione di un dato istituto […] dalla sussistenza di una circostanza aggravante che, comminando una pena distinta da quella prevista per la fattispecie base […], esprime un giudizio di disvalore della fattispecie astratta marcatamente superiore a quello che connota la corrispondente fattispecie non aggravata; e ciò indipendentemente dalla sussistenza nel caso concreto di circostanze attenuanti, che ben potranno essere considerate dal giudice quando, in esito al giudizio, irrogherà la pena nel caso di condanna».
4.3.– Anche la questione sollevata in via subordinata non è, dunque, fondata.