Tar Puglia, Bari Sezione III, sentenza 02.07.2024, n. 809
PRINCIPIO DI DIRITTO
La conclusione del contratto di cessione del bene espropriando è soggetta alla disciplina del contratto privatistico, caratterizzata non dalla posizione di preminenza dell’amministrazione espropriante, ma dall’incontro paritetico delle volontà: gli effetti traslativi della proprietà traggono quindi origine dal contratto, non da provvedimenti amministrativi, che pure parallelamente caratterizzano il perfezionamento della volontà dell’ente, nella fase dell’evidenza pubblica.
Il contratto di cessione del bene espropriando si configura come un contratto ad oggetto pubblico i cui elementi costituitivi, indispensabili per differenziarlo da un normale contratto di compravendita di diritto privato, sono: a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio; b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971; c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione.
Presupposto indispensabile perché si possa configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliare.
L’atto c.d. di cessione bonaria – ossia di cessione volontaria del bene espropriando con la corresponsione di prezzo non superiore al 50% dell’indennità provvisoria di espropriazione -, come previsto dall’art. 12 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, non deve rivestire forme diverse e particolari rispetto a quelle in generale richieste per ogni contratto di compravendita, ovvero quelle prescritte dall’articolo 1350 del codice civile. È quindi condizione essenziale e sufficiente di validità dell’atto traslativo della proprietà la sola forma scritta ad substantiam, e tale validità deve essere riconosciuta anche ad una scrittura privata, quando essa non sia stata disconosciuta, contestandosene la sottoscrizione o la provenienza mediante proposizione di querela di falso, ai sensi dell’art. 2702 cod. civ.
L’art. 17 r.d. n. 2440 del 1923 non postula in modo indefettibile che la conclusione del contratto tra amministrazione e privato debba realizzarsi tramite un unico documento sottoscritto dalle parti, onde l’esigenza della forma scritta per i contratti con gli enti pubblici non esclude che il complesso obbligatorio che astringe la pubblica amministrazione al privato possa risultare da un insieme di dichiarazioni scritte oggetto di scambio tra i contraenti, dichiarazioni che nella fase formativa del contratto si atteggiano come proposta e come accettazione tra assenti, così come avviene nella sfera della negoziazione comune.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
A.1. Le ricorrenti sono comproprietarie dei terreni nell’agro di Apricena, identificati in catasto al foglio 23, particelle 925, 930, 951, 952, 953 (ex particella 77) e aventi superficie di ha 0.32.05, ereditate dalla loro madre, signora -OMISSIS-, deceduta nel 1994.
Questi terreni sono stati oggetto della procedura espropriativa avviata dal Comune di Apricena in esecuzione del piano per l’edilizia economica e popolare di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167.
L’occupazione d’urgenza dei suoli veniva autorizzata con il decreto sindacale n. 5549 del 6 luglio 1982 e l’immissione in possesso avveniva in data 8 ottobre 1982, come attestato dal relativo verbale.
Nel 2017 le ricorrenti presentavano un’istanza all’Amministrazione di restituzione dei suoli e nel 2018 reiteravano la richiesta proponendo, in alternativa, l’attivazione della procedura di acquisizione ex articolo 42-bis del DPR 327/2001.
Con la nota del 15 novembre 2018, prot. 20117, il Responsabile del Settore LL. PP. e patrimonio respingeva l’istanza delle ricorrenti, stante l’avvenuta sottoscrizione da parte della loro dante causa, signora -OMISSIS-, del verbale di amichevole accordo, ratificato con la successiva delibera della Giunta comunale n. 752/1991.
A.2. Le proprietarie impugnano il suddetto atto deducendo i motivi così rubricati:
“Violazione e falsa applicazione dell’art. 13, comma 6, del D.P.R. n. 327/01.
Violazione e falsa applicazione dell’art. 45, comma 3, del D.P.R. n. 327 del 2001. Mancata adozione del decreto di esproprio ed assenza di efficace atto di cessione. Occupazione del bene oltre il termine di scadenza previsto dalla legge. Illecito permanente”.
Oltre all’annullamento dell’atto, le interessate avanzano le pretese meglio individuate in epigrafe.
In sintesi, le ricorrenti sostengono che l’occupazione dei suoli sia illegittima perché “non è mai stato emesso il decreto di esproprio, né è stato mai stipulato valido atto di cessione a favore del Comune di Apricena.
Ed invero, sotto quest’ultimo aspetto, deve ritenersi inefficace e, dunque, inidoneo al trasferimento della proprietà dei beni, il “verbale di amichevole accordo” sottoscritto in data 07/07/1988 e successivamente recepito nella delibera G.C. n. 752 del 06/11/1991” (come si legge nel ricorso, pagina 5).
La cessione volontaria non si sarebbe mai stata concretizzata in quanto mancherebbe “primo fra tutti il requisito della forma scritta a pena di nullità che può ritenersi osservato solo in presenza di un documento unitario che contenga in modo diretto la volontà negoziale delle parti, essendo stato redatto al fine specifico di manifestare la stessa e del quale si deve pertanto poter desumere la concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili determinazioni in ordine alle prestazioni a carico di ciascuna delle parti” (pagine 5-6).
A.3. Sulle conclusioni delle ricorrenti e del costituito Comune di Apricena, la causa è stata riservata per la decisione all’udienza del 26 giugno 2024.
B.1. Per una migliore comprensione della fattispecie concreta, è opportuno precisare alcuni aspetti della vicenda.
- La signora -OMISSIS- ha firmato il 7 luglio 1988 il “verbale di amichevole accordo per cessione d’immobile soggetto ad espropriazione”. Nel verbale, costituito da un prestampato da compilare, dichiara di “voler vendere al Comune di Apricena il terreno sopra descritto della superficie di mq 3205 al prezzo concordato e accettato di L. 5500 al metro quadrato e per la complessiva somma di L. 17.627.600”.
Viene precisato che “Il terreno viene ceduto allo stato di fatto di prova, libero da ipoteche, trascrizioni pregiudizievoli ed altri oneri reali” e che il verbale impegna immediatamente la parte privata, mentre sarà impegnativo per la parte privata solo dopo la relativa deliberazione dell’Ente divenuta esecutiva.
Il verbale veniva sottoscritto, oltre che dalla proprietaria, dal Sindaco, dal Segretario generale e da due testimoni.
- Con la deliberazione della Giunta comunale 6 novembre 1991, n. 752, preso atto della sottoscrizione di dieci consimili verbali di cessione, veniva deliberato “di acquistare suoli compresi nel P.E.E.P. i cui proprietari hanno convenuto con il Comune la cessione volontaria”, “di stipulare regolare atto notarile” e di pagare le somme pattuite.
- La somma convenuta a titolo di indennità è stata regolarmente riscossa come incontroverso tra le parti e attestato dal mandato di pagamento quietanzato.
- Non risulta agli atti la preannunciata stipula del contratto notarile.
B.2. Secondo la giurisprudenza amministrativa, non unanimemente condivisa dalla Cassazione, la cessione volontaria (nel caso in esame, ratione temporis, regolata dall’articolo 12 della legge 22 ottobre 1971, n. 865) “è un contratto pubblicistico, siccome originato da un procedimento espropriativo, la cui conclusione provvedimentale mira proprio a prevenire; essa cessione si perfeziona con l’incontro delle volontà delle parti, con oggetto il trasferimento del bene.
[…] E’, però, indubbio che la conclusione è soggetta alla disciplina del contratto privatistico, caratterizzata non dalla posizione di preminenza dell’amministrazione espropriante, ma dall’incontro paritetico delle volontà (Cass. 17.11.2000, n. 14901): gli effetti traslativi della proprietà traggono quindi origine dal contratto, non da provvedimenti amministrativi, che pure parallelamente caratterizzano il perfezionamento della volontà dell’ente, nella fase dell’evidenza pubblica” (Consiglio di Stato, sezione quarta, 7 aprile 2015, n. 1768, paragrafo 4.3.2).
“Tale fattispecie sostanzia un contratto ad oggetto pubblico “i cui elementi costituitivi, indispensabili per differenziarla da un normale contratto di compravendita di diritto privato, sono: a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio; b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971; c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione”. […] Pertanto, presupposto indispensabile perché si possa configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliare” (Consiglio di Stato, sezione seconda, 4 gennaio 2021, n. 794, paragrafo 3).
Con riguardo a un caso analogo alla fattispecie concreta, è stato evidenziato “che l’atto c.d. di cessione bonaria – ossia di cessione volontaria del bene espropriando con la corresponsione di prezzo non superiore al 50% dell’indennità provvisoria di espropriazione -, come previsto dall’art. 12 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, non deve rivestire forme diverse e particolari rispetto a quelle in generale richieste per ogni contratto di compravendita”, ovvero quelle prescritte dall’articolo 1350 del codice civile.
“È quindi condizione essenziale e sufficiente di validità dell’atto traslativo della proprietà la sola forma scritta ad substantiam, e tale validità deve essere riconosciuta anche ad una scrittura privata, quando – come nel caso di specie – essa non sia stata disconosciuta, contestandosene la sottoscrizione o la provenienza mediante proposizione di querela di falso, ai sensi dell’art. 2702 cod. civ.
Sotto tale aspetto, è principio consolidato che l’eventuale riproduzione nella forma di atto pubblico di un contratto con effetto traslativo della proprietà già perfezionato con scrittura privata non possa conferire alla seconda effetti meramente obbligatori […]”.
Di conseguenza, “un accordo di cessione bonaria, costituente contratto con efficacia traslativa, […] realizza il trasferimento stesso “contestualmente o a decorrere da un momento successivo”, “senza necessità di ulteriori manifestazioni di volontà” […] con diretti e immediati effetti traslativi” (Consiglio di Stato, sezione quarta, 16 marzo 2020, n. 1888, paragrafi 4.3.3.1, 4.3.3.2, 4.3.3.3, 4.3.3.5 e 4.3.4).
Sulla forma scritta imposta per i contratti stipulati dai comuni, il Consiglio di Stato ha di recente osservato che, nonostante l’assenza nel diritto vigente di una norma espressa su tale obbligo (dopo l’abrogazione del R.D. n. 383 del 1934 – in particolare, degli articoli 87 e 140 – ad opera dell’articolo 274, lett. a), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267) essa rappresenta un “principio generale finalizzato al controllo istituzionale e della collettività sull’operato dell’ente pubblico (territoriale) e, quindi, funzionale all’esigenza di assicurare l’imparzialità ed il buon andamento della pubblica amministrazione (Cass., 7 luglio 2007, n. 1752)” (Cass. civ., Sez. unite, 25 marzo 2022 n. 9775)”.
La medesima pronuncia ha ricordato che la Cassazione ha inteso tale forma in modo rigoroso, “precisando che la volontà dell’ente pubblico, la quale deve essere manifestata all’esterno e dall’organo autorizzato a rappresentarlo, deve tradursi in un unico documento, sottoscritto da entrambi i contraenti e contenente tutte le clausole disciplinanti il rapporto, non avendo rilevanza, a tal fine, la delibera emessa dall’organo collegiale, che opera soltanto nei rapporti interni dell’ente pubblico (Cass., Sez. II, 7 settembre 2004, n. 17986; Cass., Sez. I, 23 aprile 2008, n. 10553; Cass., Sez. I, 20 marzo 2014, n. 6555)”.
La stessa Corte però, “pronunciandosi a Sezioni Unite (25 marzo 2022, n. 9775), ha affermato che l’art. 17 r.d. n. 2440 del 1923 “non postula in modo indefettibile che la conclusione del contratto tra amministrazione e privato debba realizzarsi tramite un unico documento sottoscritto dalle parti […]”, ritenendo “preferibile l’orientamento che «afferma che l’esigenza della forma scritta per i contratti con gli enti pubblici “non esclude che il complesso obbligatorio che astringe la pubblica amministrazione al privato possa risultare da un insieme di dichiarazioni scritte oggetto di scambio tra i contraenti, dichiarazioni che nella fase formativa del contratto si atteggiano come proposta e come accettazione tra assenti, così come avviene nella sfera della negoziazione comune”» (Consiglio di Stato, sezione quarta, 30 gennaio 2024, n. 935, paragrafo 9.4.2).
B.3. Il nucleo della controversia consiste in definitiva nell’interpretazione e nella qualificazione del “verbale di cessione” a cui il Comune attribuisce e le ricorrenti negano un effetto traslativo.
B.4.a. Rispetto al caso concreto, occorre osservare che le modalità di redazione del detto verbale sono caratterizzate da una certa solennità: sono presenti due testimoni ed è sottoscritto dal Sindaco, ovvero dall’organo autorizzato a rappresentare l’ente locale, assistito dal Segretario comunale.
In base agli articoli 87 e 89 del testo unico delle leggi comunali e provinciali del 1934 (regio decreto 3 marzo 1934, n. 383), quest’ultimo poteva “rogare nell’esclusivo interesse dell’amministrazione comunale gli atti e contratti di cui all’art. 87”, “riguardanti alienazioni, locazioni, acquisti, somministrazioni od appalti di opere”. Competenza poi estesa a tutti i contratti dall’articolo 17, comma 68, della legge Bassanini (15 maggio 1997, n. 127) e confermata dall’articolo 97, comma 4, lettera c), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
B.4.b. Chiarito così che, al contrario di quanto sostenuto dalle interessate, il verbale conteneva tutti gli elementi formali atti a produrre validamente l’effetto traslativo del bene, occorre verificare se tale verbale integrasse in sé la cessione oppure rappresentasse una mera promessa di cessione, con effetti obbligatori.
Tale verifica non può che essere condotta, per i principi già ricordati dalle pronunce di cui al paragrafo precedente, alla luce degli articoli 1362 e seguenti del codice civile, sicché innanzitutto “si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole”, a tal fine valutando “il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.
In concreto, né nel verbale di cessione né nella successiva delibera di acquisto 6 novembre 1991, n. 752, che contengono gli elementi essenziali (riferimento alla procedura espropriativa, individuazione dei suoli e determinazione dell’indennità), si accenna ad un differimento della loro efficacia (eventualmente al momento della stipula dell’atto notarile, che dunque assumerebbe un ruolo riproduttivo); anzi si desume dal verbale che l’impegno per la parte privata è immediato mentre per il Comune si perfeziona con la delibera di acquisto.
In forza di tali atti lo scopo dell’operazione è stato realizzato, per la parte privata, con l’ottenimento dell’indennità concordata e, per la parte pubblica, con l’esecuzione del piano di edilizia popolare, comprensivo della destinazione dei terreni oggetto del verbale di cessione, come risulta dalla nota del Comune 10 aprile 2017, prot. 6980.
Il tutto senza che la dichiarante, signora -OMISSIS-, abbia mai contestato successivamente la validità o la regolarità degli stessi atti ovvero gli effetti da questi prodotti.
Infatti i contenziosi instaurati dinanzi al giudice civile, documentati dal Comune con la produzione in data 16 maggio 2024, sono di molto successivi al decesso dell’originaria proprietaria cedente.
B.5. In conclusione, non emerge dal contraddittorio processuale alcun’illegittimità dell’impugnata nota del 15 novembre 2018, prot. 20117, stante la piena validità ed efficacia degli atti di cessione. Di conseguenza, non si ravvisa l’illegittimità dell’occupazione dei suoli coinvolti e ciò comporta il rigetto di tutte le pretese attorie.
Peraltro, per completezza si deve aggiungere che, anche nella denegata ipotesi che il verbale di cessione possa mai qualificarsi come contratto preliminare con effetti obbligatori, seguendo l’argomento delle ricorrenti, la domanda risarcitoria desterebbe comunque perplessità, visto il comportamento inadempiente delle eredi rispetto al relativo impegno.
[…]