Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza 9 luglio 2024, n. 27090
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il reato di peculato previsto e disciplinato dall’art. 314 c. p. non si configura quando i beni di una società privata, pur se incaricata dello svolgimento di un pubblico servizio, non divengono per ciò solo destinati all’adempimento della funzione pubblicistica, né vengono assoggettati a vincoli di indisponibilità. Al contempo, il soggetto che ha la disponibilità di tali beni, non potendo rivestire la qualifica di incaricato di pubblico servizio per il solo fatto di agire per conto della società che svolge un’attività di rilievo pubblicistico, non commette il reato di peculato qualora si appropri dei suddetti beni. Pertanto deve affermarsi il principio secondo cui l’appalto per lo svolgimento di un pubblico servizio, conferito ad una società privata, non imprime il vincolo di destinazione pubblicistica ai beni della stessa e, conseguentemente, non comporta l’attribuzione della qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo al soggetto che ne disponga, sicché la loro eventuale appropriazione non integra il delitto di peculato.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
- Con sentenza del ………………..la Corte di Appello di ….. ha ampiamente illustrato le ragioni per cui le singole e specifiche ricostruzioni in punto di fatto recepite dal primo giudice non fossero corrette sottoponendo ad analitica critica la motivazione della sentenza di primo grado, confrontandola con le effettive risultanze probatorie e fornendo idonea spiegazione delle diverse conclusioni cui è pervenuta; in tal modo realizzando appieno quel percorso argomentativo sinteticamente descritto con il concetto di “motivazione rafforzata”.
- Nel caso di specie, i ricorsi proposti da A. A. e B. B presentano aspetti comuni, ragion per cui le considerazioni svolte nei confronti del primo sono essenzialmente valide anche per il secondo dei predetti ricorrenti.
Motivi della decisione
- Nessuno dei motivi dei ricorsi merita accoglimento.
- Il ricorso proposto nell’interesse di A. A.
2.1 Passando all’esame nel merito del ricorso proposto nell’interesse di A. A. deve essere preliminarmente affrontato il quinto motivo, concernente l’invocata derubricazione del reato di concussione contestato al capo A) nella meno grave fattispecie del reato di induzione indebita di cui all’art. 319 c. p.. Sulla base dei complessi rapporti intercorsi tra il Sindaco A. A. e l’imprenditore D. D., è emerso come quest’ultimo fosse attivo in vari settori: in particolare mediante la “ATISALE S.r.l.”- società partecipata anche dal comune che si occupava della gestione delle saline- era impegnato anche nell’esecuzione di lavori pubblici di vario genere; la sua famiglia, inoltre, era titolare di terreni interessati dallo sviluppo urbanistico in atto. Le relazioni esistenti tra A. A. e D. D. erano contraddistinte da un abuso del ruolo rivestito da parte del primo, rispetto al quale, tuttavia, la posizione di D. D. non era quella del mero imprenditore concusso, posto che il predetto ha dichiaratamente ammesso di aver agito essenzialmente per garantirsi una posizione di favore rispetto alle plurime attività per le quali necessitava di confrontarsi con l’amministrazione comunale. La stessa Corte di Appello – nel compiere una esaustiva rivalutazione in fatto – non ha mancato di evidenziare come D. D., pur sottolineando le pressini esercitate da A. A., non avrebbe mai descritto una condotta di “minaccia”, bensì una forma di prospettazione della possibilità di un uso della funzione del Sindaco in senso favorevole o sfavorevole ai sui interessi, a seconda dell’atteggiamento di minore o maggiore accondiscendenza nei confronti delle richieste del sindaco.
2.2 L’individuazione dell’esatto discrimine tra il reato di concussione e quello di induzione indebita ha dato luogo a contrasti giurisprudenziali rispetto ai quali la pronuncia delle Sezioni Unite, con la sentenza “Maldera”, ha offerto elementi di valutazioni dotati di adeguata idoneità classificatoria. Si è ritenuto che il rato di cui all’articolo 319- quater c.p. presuppone un pubblico agente che “induca” il privato alla dazione, facendo valere la propria qualità o l’esercizio dei poteri pubblicistici, tuttavia, il risultato dell’induzione deve perfezionarsi per la concomitante sussistenza di un vantaggio indebito per il privato, elemento questo che funge da motivazione concorrente alla scelta di promettere o dare l’utilità richiesta dal pubblico agente. La differenza tra i predetti reati, pertanto, viene essenzialmente individuata nella contrapposizione tra un male ingiusto, connotante la violenza o minaccia costrittiva, e l’indebito vantaggio che, invece, consegue all’azione induttiva. Le Sezioni Unite, nella consapevolezza della difficoltà di individuare criteri astratti, hanno affermato che il delitto di concussione è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319- quater c.p., la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario, il quale disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale. La Corte ha precisato che nei casi ambigui, l’indicato criterio distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio indebito va utilizzato, all’esito di un’approfondita ed equilibrata valutazione del fatto, cogliendo di quest’ultimo i dati più qualificati idonei a contraddistinguere la vicenda concreta (Sezioni Unite, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Mandera, Rv. 258470).
2.2 I principi sopra enunciati si attagliano appieno alla fattispecie in esame, connotata da una evidente ambiguità del rapporto che, nel corso degli anni, si è instaurato tra il sindaco A. A. e l’imprenditore D.D.: il primo forte della sua posizione verticistica nell’amministrazione comunale e, il secondo, altrettanto consapevole del rilevante ruolo imprenditoriale svolto sul territorio.
2.3 il fatto, così come ricostruito dalla sentenza della Corte di Appello, appare pienamente riconducibile alla fattispecie dell’induzione indebita e non al delitto di concussione, il che determina l’intervenuta prescrizione, trattandosi di condotte risalenti al settembre 2006.
- Il ricorso presentato nell’interesse di B. B.
3.1 Per le medesime ragioni deve ritenersi infondato anche il primo motivo di ricorso proposto da B. B. con riguardo al reato di induzione indebita formulata al capo B) per il quale è stata pronunciata condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile.
3.2 Quanto sopra esposto consente di ritenere che, così come per il capo A) anche per il capo B) appare maggiormente corretta la qualificazione della condotta in termini di induzione indebita, dal che ne consegue l’intervenuta prescrizione, pur considerando l’amplissimo periodo di sospensione dei termini. In considerazione dell’avvenuta condanna in favore della parte civile, deve precisarsi che la ricostruzione in punto di fatto operata dalla Corte di Appello non presenta profili di manifesta illogicità o contraddittorietà tali da consentire l’annullamento, sia pur ai limitati fini civilistici, dell’accertamento delle condotte di reato. Pertanto, ne consegue che le statuizioni civili devono essere mantenute ferme.
3.3 La Corte di Appello, si è pronunciata, al riguardo, affermando che i motivi del ricorso espressamente dedicati agli aspetti ricostruttivi in fatto, si risolvono ne tentativo, non consentito in questa sede, di una rivalutazione del merito. Inoltre, non è sindacabile il giudizio di piena attendibilità reso nei confronti di dell’imprenditore D. D., con la conseguenza che le richieste di denaro e altre utilità da medesimo puntualmente riferite devono ritenersi adeguatamente provate.
- Il reato di peculato contestato agli imputati A. A. e B. B.
4.1 Passando all’esame del reato di peculato contestato dai predetti imputati al capo c), occorre premettere che la ricostruzione in punto di fatto è immune da censure, avendo entrambi i giudici di merito ritenuto provato che A. A .e B. B. si siano appropriati di carburante appartenente alla società “ASPICA S.r.l” avvalendosi del concorso materiale del signor C. C., dipendente della predetta società. Le sentenze di primo e secondo grado divergono, tuttavia, in merito al riconoscimento della sussistenza del reato di peculato.
4.2 In primo grado, il peculato era stato escluso sul presupposto che le appropriazioni di carburante fossero inidonee a causare un danno di rilevante entità per la pubblica amministrazione, anche in considerazione che la società “ASPICA S.r.l.” ha natura privatistica. La Corte di Appello ha disatteso tale valutazione, ritenendo che l’appropriazione, avendo ad oggetto un bene di valore comunque apprezzabile, integrerebbe in ogni caso il reato di peculato, ritenuto configurabile per il solo fatto che la suddetta società, pur essendo privata, svolge un pubblico servizio, quale quello della raccolta della nettezza urbana.
4.3 La Corte ritiene che la sentenza di merito e, in particolare, quella di secondo grado, non hanno adeguatamente valutato la configurabilità del reato di peculato. Occorre premettere che la “ASPICA S.r.l.” era la società affidataria del servizio di raccolta dei rifiuti urbani, elemento che è stato valorizzato al fine di attribuire natura pubblicistica all’ente, pur se si trattava di un soggetto di diritto privato. In particolare, la Corte di Appello ha operato una sostanziale equiparazione che non appare corretta, posto che l’espletamento di un pubblico servizio non può determinare la trasformazione della natura giuridica – da privata in pubblica- della società che lo gestisce.
4.4 in linea generale, deve ribadirsi che gli enti che, pur costituiti in forma privata, esercitano un pubblico servizio in rapporto concessorio assumono sicuramente la qualifica pubblicistica, proprio per effetto della natura traslativa della concessione e limitatamente allo svolgimento della stessa. Peraltro, anche in relazione agli enti sostanzialmente pubblici, una parte della giurisprudenza ritiene che gli artt. 357 e 358 c.p. non consentono di desumere la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio dalla mera natura dell’ente di appartenenza, in quanto la funzione pubblica e il pubblico servizio possono essere svolti sia da soggetti privati che da soggetti pubblici. Si è sostenuto, infatti, che il criterio oggettivo – funzionale, delineato dalle richiamate norme, impone di avere riguardo all’attività concretamente esercitata dal soggetto attivo, piuttosto che alla natura pubblica, o a prevalente partecipazione pubblica, dell’ente di appartenenza (Sez. 6 n. 24598 dell’8/2/2023, Bartolomei, Rv. 284914; Sez. 6 n. 18837 dell’8/2/2023, Orlando, Rv. 284620)
4.5 Maggiori problemi si pongono nei casi in cui un’attività astrattamente di interesse pubblicistico venga svolta, al di fuori di un rapporto concessorio, da un soggetto che ha veste non solo formalmente, ma anche sostanzialmente privatistica. L’equivoco che deve essere evitato, pertanto, concerne la presunta equiparazione tra l’espletamento di un’attività avente rilevanza di pubblico servizio e l’automatica attribuzione all’ente che se ne occupa e, in conseguenza, ai soggetti che per esso agiscono della qualifica pubblicistica richiesta per la configurabilità dei reati contro la pubblica amministrazione. Valorizzando il criterio oggettivo- funzionale, deve affermarsi che il mero svolgimento, da parte di un ente formalmente e sostanzialmente privato, di un servizio di pubblico interesse non comporta necessariamente l’attribuzione della qualifica pubblicistica ai soggetti che per esso agiscono, dovendosi valutare in concreto l’attività posta in essere e la sua diretta finalità pubblicistica.
4.6 Parimenti non può ritenersi corretta l’equiparazione operata dalla Corte di Appello secondo cui lo svolgimento di un pubblico servizio comporta che i beni dell’ente che ne è incaricato assumano valenza pubblicistica, con la conseguenza che l’eventuale appropriazione degli stessi determinerebbe il reato di peculato, il concetto di “appropriazione” comprende anche la condotta di “distrazione” in quanto imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene (Sez. 6, n. 25258 del 4/6/2014. Cherchi, Rv. 260070), tale principio non è applicabile al caso in esame.
4.7 la condotta in esame potrebbe astrattamente integrare il reato di appropriazione indebita, ma ciò presupporrebbe una rivalutazione circa la consapevolezza o meno, da parte dell’organo amministrativo della società, dei rifornimenti di carburante eseguiti in favore degli imputati. Tale accertamento di merito, tuttavia, risulterebbe superfluo, posto che il reato di appropriazione indebita dovrebbe essere dichiarata prescritta.
- Alla luce di quanto fin qui esposto, deve richiamarsi il condivisibile principio secondo cui la riqualificazione, operata dalla Corte di Cassazione, a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, del delitto di concussione in quello di indebita induzione non fa venir meno il diritto alla restituzione e al risarcimento del danno a favore di colui che, al momento della commissione del fatto, era da considerarsi persona offesa dal reato (Sez. 6, n. 31957 del 25/172013, Cordaro, Rv. 255598).