Consiglio di Stato, sezione VII, sentenza 28 giugno 2024, n. 5714
PRINCIPIO DI DIRITTO
In caso di impossibilità di esercizio delle funzioni da parte dei soggetti preposti ad enti pubblici, ove specifiche disposizioni di legge, o i relativi statuti prevedano la figura del vicario, quest’ultimo, ove si verifichino le condizioni previste, è autorizzato ad esercitare tutte le attribuzioni proprie del sostituito, senza necessità di apposita delega, specificando, nell’atto posto in essere in tale qualità, il “titolo” (assenza, impedimento temporaneo o altro) che legittima l’esercizio della potestà. Quando, tuttavia, tale esplicitazione non emerga in alcun modo dall’atto, deve presumersi (con presunzione iuris tantum) che l’esercizio della potestà di sostituzione sia avvenuto nel rispetto delle condizioni previste dalla norma o dallo statuto, con la conseguenza che sono i terzi interessati a doverne dedurre e provare l’insussistenza.
Sebbene la firma apposta in calce ad un provvedimento o ad un atto amministrativo costituisca lo strumento per la sua concreta attribuibilità, psichica e giuridica, all’agente amministrativo che risulta averlo formalmente adottato, è pur vero che, anche in omaggio al più generale principio di correttezza e buona fede cui debbono essere improntati i rapporti tra Pubblica amministrazione e cittadino, che non solo la non leggibilità della firma, ma anche la stessa autografia della sottoscrizione non possono costituire requisiti di validità dell’atto amministrativo, ove concorrano elementi testuali (indicazione dell’ente competente, qualifica, ufficio di appartenenza del funzionario che ha adottato la determinazione, emergenti anche dal complesso dei documenti che lo accompagnano) che permettono di individuare la sua sicura provenienza; in conclusione l’atto amministrativo esiste come tale allorché i dati emergenti dal procedimento amministrativo consentano comunque di ritenerne la sicura provenienza dall’Amministrazione e la sua attribuibilità a chi deve esserne l’autore secondo le norme positive, salva la facoltà dell’interessato di chiedere al giudice l’accertamento dell’effettiva provenienza dell’atto stesso dal soggetto autorizzato a firmarlo.
La redazione del verbale non deve essere necessariamente contestuale allo svolgimento della seduta oggetto di verbalizzazione, né precedere la comunicazione del provvedimento finale, cosicché la tardività della redazione e della sottoscrizione del verbale non rende illegittimo il provvedimento deliberato. A quest’ultimo riguardo mette conto richiamare il principio pacifico per il quale salvo che non sia diversamente disposto, la redazione del verbale di una seduta di un organo collegiale non deve necessariamente avvenire contemporaneamente allo svolgimento della seduta oggetto di verbalizzazione o prima della comunicazione del provvedimento finale, con la conseguenza che la tardiva redazione e sottoscrizione del verbale non rende illegittimo il provvedimento deliberato.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
Viene in decisione l’appello presentato dalla prof.ssa -OMISSIS- contro la sentenza del T.A.R. Umbria che ha respinto i ricorsi riuniti da lei proposti avverso la sospensione cautelare obbligatoria dall’impiego per otto mesi e la sanzione disciplinare della sospensione per nove mesi, emesse nei suoi confronti dall’- OMISSIS-.
In via preliminare il Collegio sottolinea che dopo la reiezione, da parte del decreto presidenziale n. -OMISSIS-, dell’istanza dell’appellante di autorizzazione successiva al superamento dei limiti dimensionali del ricorso in appello previsti dal d.P.C.S. n. 167/2016, la stessa ha depositato in data 27 maggio 2023 un atto con cui ha provveduto ad espungere dal testo del ricorso alcune parti in modo da rientrare nei suddetti limiti.
Tale atto, sebbene intitolato “rinuncia ad argomenti e/o motivi del ricorso in appello”, non reca in realtà la rinuncia a nessuna delle censure formulate nell’appello, ma si limita ad espungere dal corpo del gravame l’epigrafe, la parte in fatto e parte delle rubriche dei motivi di diritto. Come tale, da un lato esso non può ritenersi conforme all’art. 7, comma 1, ultimo periodo, del d.P.C.S. n. 167/2016, che in caso di superamento non autorizzato dei limiti dimensionali ivi stabiliti, fa salva “la facoltà della parte di indicare gli argomenti o i motivi cui intende rinunciare”.
Tuttavia, non si può sostenere che con la predetta riformulazione la parte abbia presentato un nuovo e diverso ricorso, incorrendo nel divieto dei “nova” in appello ex art. 104 c.p.a.: la relativa eccezione, sollevata dalla difesa dell’-OMISSIS-, deve essere perciò respinta.
Per quanto riguarda, poi, le ulteriori eccezioni di rito formulate dall’-OMISSIS-, il Collegio ritiene, in ossequio al criterio della “ragione più liquida”, espressione dei principi di economia processuale che governano il processo amministrativo, a loro volta espressione del canone costituzionale del giusto processo (cfr. C.d.S., A.P., 27 aprile 2015, n. 5; Sez. VII, 18 settembre 2023, n. 8398; id., 3 novembre 2022, n. 9596; Sez. III, 6 maggio 2021, n. 3534; Sez. IV, 27 agosto 2019, n. 5891), di prescindere dal relativo esame, attesa la complessiva infondatezza nel merito dell’appello. I) Iniziando dal primo motivo di gravame, con lo stesso l’appellante lamenta che il T.A.R. sarebbe incorso in errore nel disattendere il secondo motivo del ricorso R.G. n. -OMISSIS-, attraverso il quale era stata censurata la scelta della Prorettrice dell’- OMISSIS- per -OMISSIS-, all’indomani dell’ordinanza con cui il G.I.P. aveva temporaneamente interdetto la prof.ssa -OMISSIS-, di disporre nei confronti della stessa la sospensione dal servizio in sostituzione della Rettrice (a sua volta “colpita” dall’ordinanza del G.I.P.), pur in difetto di norme statutarie che le attribuissero tale potere sostitutivo. La sentenza ha disatteso la censura richiamando l’art. 9, comma 6, dello Statuto dell’Ateneo, da cui si ricava che il Prorettore è ex se investito di funzioni vicarie del Rettore e può così sostituirlo in caso di assenza o impedimento temporanei, ma – lamenta l’appellante – tale motivazione da una parte si porrebbe in contrasto con il principio di legalità, dall’altra non terrebbe conto del diverso iter seguito dalla Prorettrice nel procedimento disciplinare, per il quale si è fatta rilasciare apposita delega: di qui la censura di eccesso di potere per non avere seguito la stessa via anche ai fini della sospensione ex art. 91 del d.P.R. n. 3/1957.
La doglianza è priva di pregio.
L’art. 9, comma 6, dello Statuto dell’-OMISSIS- per -OMISSIS- dispone che “nell’esercizio delle proprie funzioni, il Rettore può nominare un Prorettore, nonché avvalersi di Delegati da lui scelti tra i docenti dell’-OMISSIS- e nominati con proprio decreto”.
A sua volta, l’art. 45 del Regolamento di Ateneo (emanato con il D.R. n. -OMISSIS- ), intitolato “Sostituzione del Rettore in caso di assenza o impedimento e delega di funzioni rettorali”, così recita: “1. Il Rettore può nominare con proprio provvedimento un Prorettore vicario, scelto tra i professori di ruolo. 2. Il Prorettore vicario sostituisce il Rettore in caso di impedimento o assenza di questi. 3. Nell’esercizio delle proprie funzioni, il Rettore può avvalersi di Delegati scelti tra i docenti dell’- OMISSIS- e, qualora non sia stato nominato il Prorettore vicario, il Rettore può di volta in volta delegare un professore di ruolo a sostituirlo nello svolgimento di un singolo compito suo proprio”. Orbene, le ora viste disposizioni distinguono nettamente, sia sul piano letterale, sia su quello logico-sistematico, la figura e i compiti del Prorettore, da un lato, e quella dei delegati dal Rettore, dall’altro lato.
Sotto il profilo letterale, l’art. 9 comma 6, dello Statuto differenzia le due figure attraverso l’utilizzo della congiunzione “nonché”.
Dal punto vista logico sistematico, poi la differenza tra le due figure è ancora più netta, poiché l’art. 45 del Regolamento di Ateneo affida al solo Prorettore, senza bisogno di alcuna delega, il compito di sostituire il Rettore in caso di impedimento o assenza di quest’ultimo, mentre il delegato necessita, per poter operare, di un’apposita delega dei poteri rilasciatagli dal titolare dell’organo (il Rettore) e viene chiamato a svolgere uno specifico compito del predetto titolare, non necessariamente in connessione con l’assenza o l’impedimento di costui.
Né l’art. 9, comma 6, dello Statuto, né l’art. 45 del Regolamento di Ateneo contemplano la necessità di alcuna delega al Prorettore per l’esercizio da parte sua delle funzioni vicarie. Se ciononostante la delega fosse ritenuta necessaria, le predette disposizioni sarebbero, perciò, inutiliter datae: ma “tra un’esegesi che esclude qualsiasi precettività a una disposizione e quella che garantisce l’immissione nell’ordinamento di una regola iuris ragionevole è senz’altro da preferire quest’ultima” (C.d.S., Sez. V, 12 giugno 2009, n. 3695; nello stesso senso cfr. C.d.S., Sez. II, 14 marzo 2022, n. 1789; Sez. IV, 16 maggio 2019, n. 3157; id., 25 marzo 2014, n. 1458; Sez. III, 3 luglio 2018, n. 4062; Sez. V, 31 agosto 2015, n. 4041; Sez. VI, 9 gennaio 2014, n. 42), atteso che il principio di conservazione degli atti e dei valori giuridici impone di considerare gli atti nel senso in cui possano avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, alla luce del brocardo “actus interpretandus est potius ut valeat quam ut pereat” (C.d.S., Sez. IV, 21 aprile 2021, n. 3229).
Nel senso ora visto si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. III, 12 maggio 2017, n. 11776), la quale ha richiamato il consolidato insegnamento giurisprudenziale, secondo cui, in caso di impossibilità di esercizio delle funzioni da parte dei soggetti preposti ad enti pubblici, ove specifiche disposizioni di legge, o i relativi statuti (com’è nel caso di specie) prevedano la figura del vicario, “quest’ultimo, ove si verifichino le condizioni previste, è autorizzato ad esercitare tutte le attribuzioni proprie del sostituito, senza necessità di apposita delega, specificando, nell’atto posto in essere in tale qualità, il “titolo” (assenza, impedimento temporaneo o altro) che legittima l’esercizio della potestà. Quando, tuttavia, tale esplicitazione non emerga in alcun modo dall’atto, deve presumersi (con presunzione iuris tantum) che l’esercizio della potestà di sostituzione sia avvenuto nel rispetto delle condizioni previste dalla norma o dallo statuto, con la conseguenza che sono i terzi interessati a doverne dedurre e provare l’insussistenza (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 5216 del 07/03/2007, Rv. 595181 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 4771 del 28/02/2007 Rv. 594907 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 3454 del 15/02/2007, Rv. 594905 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 12919 del 29/09/2000, Rv. 540607 – 01)”.
La sentenza in commento precisa che la presunzione dell’avvenuto rispetto delle condizioni previste dalla norma o dallo statuto deve farsi risalire a ciò che, “essendo la previsione normativa o statutaria del ruolo e delle attribuzioni del vicario orientata allo scopo di assicurare il “buon andamento” (e cioè, efficienza, efficacia, continuità) dell’attività amministrativa, colliderebbe con tali ragioni un’interpretazione della norma nel senso dell’assoggettamento dell’amministrazione all’onere di premunirsi, in occasione di ciascun atto da compiere, volta per volta, della prova documentale della ricorrenza delle condizioni che legittimano l’esercizio della potestà di sostituzione, e di doverla sistematicamente fornire ai terzi anche a fronte di contestazioni solo generiche al riguardo.
Con il risultato di paralizzare lo svolgimento dell’attività anche ordinaria dell’ente, in modo del tutto contrastante con la finalità della norma, che ha invece inteso garantirne comunque e rinforzarne la continuità mediante il riconoscimento di un ruolo istituzionale – quello appunto del vicario – e la diretta attribuzione allo stesso di un potere generale di sostituzione del titolare del potere” (v. pure Cass. civ., Sez. I, 29 settembre 2000, n. 12919).
Nel caso di specie non sussiste, pertanto, nessuna violazione del principio di legalità ed è altrettanto insussistente il dedotto vizio di eccesso di potere: infatti, la delega alla Prorettrice ai fini dell’avvio del procedimento disciplinare, contenuta nella comunicazione della Rettrice del -OMISSIS- della decisione di astenersi da qualsiasi attività valutativa sul punto, deve ritenersi del tutto superflua, visto che, come si legge nella comunicazione stessa, la Rettrice afferma di essersi trovata in una situazione di impedimento per ragioni di opportunità [il suo coinvolgimento nella vicenda]: ella dunque versava in una situazione in cui, ai sensi dell’art. 45, comma 2, del Regolamento di Ateneo, la Prorettrice era titolata ope legis a sostituirla. II).
Con il secondo motivo di gravame l’appellante contesta la sentenza di prime cure per avere questa disatteso il secondo e il quarto motivo del ricorso R.G. n. – OMISSIS-, mediante i quali era stata dedotta l’incompetenza, rispettivamente, della Decana ad emanare il decreto n. -OMISSIS- (di fissazione della decorrenza della sospensione) e della Prorettrice a disporre l’avvio del procedimento disciplinare.
Nello specifico, a confutazione del quarto motivo il T.A.R. ha richiamato ancora l’art. 9, comma 6, dello Statuto, che “copre” anche l’avvio del procedimento disciplinare e ha ritenuto che il legittimo impedimento della Rettrice derivasse da ragioni di opportunità, per essere anch’essa coinvolta nella vicenda, ma l’appellante lamenta l’erroneità di tale motivazione, perché: 1) sull’art. 9, comma 6, cit. prevarrebbero l’art. 10, comma 2, lett. b), della l. n. 240/2010 e l’art. 14 dello Statuto dell’Ateneo, che delineerebbero una competenza esclusiva del Rettore a dare avvio al procedimento disciplinare; 2) il primo giudice avrebbe ignorato la censura di eccessiva laconicità dell’atto di avvio emanato dalla Prorettrice.
Quanto poi al secondo motivo, l’incompetenza della Decana si evincerebbe dal d.lgs.lgt. n. 264/1944, che legittimerebbe il Decano a sostituire il Rettore in caso di revoca e non di dimissioni (come nella fattispecie per cui è causa): il T.A.R. ha ritenuto di assimilare le dimissioni alla revoca in forza del principio di continuità dell’esercizio delle funzioni amministrative, ma tale assimilazione – sottolinea l’appellante – contrasterebbe con il principio di legalità amministrativa, il quale non ammetterebbe eccezioni al di fuori del caso della revoca. Le censure non sono suscettibili di positivo apprezzamento.
Anzitutto, le argomentazioni dell’appellante provano troppo, poiché, a rigor di logica, ne deriva che, in caso di impedimento del Rettore diverso dalla revoca, non sarebbe possibile avviare, né portare a compimento un procedimento disciplinare: ma questo è, all’evidenza, un corollario eccessivo e che pecca di irragionevolezza.
La tesi della competenza esclusiva del Rettore ai sensi dell’art. 10 della l. n. 240/2010 non considera poi i passaggi motivazionali della sentenza gravata in cui si dà conto delle necessità che giustificano nel caso di specie l’astensione della Rettrice, cioè l’esigenza di evitare che la prima valutazione (che l’art. 10 cit. assegnava alla Rettrice) della gravità dei fatti ascritti alla prof.ssa -OMISSIS- potesse essere condizionata dal diretto coinvolgimento in tali fatti della medesima Rettrice.
Anche per questo verso, pertanto, ipotizzare una competenza esclusiva della Rettrice conduce a una paralisi operativa che non è conforme ai canoni di buona amministrazione, oltre a peccare di illogicità e irragionevolezza.
Peraltro, si è già visto che il potere della Prorettrice di sostituire la Rettrice in caso di impedimento o di assenza di costei risulta delineato con chiarezza, oltre che dall’art. 9, comma 6, dello Statuto, dall’art. 45, comma 2, del Regolamento di Ateneo. Del tutto ragionevole risulta, poi, il richiamo operato dalla sentenza appellata al principio di continuità delle funzioni amministrative (C.d.S., Sez. V, 26 aprile 2018, n. 2535) per giustificare l’attribuzione alla Decana del potere di provvedere: del resto, la tesi dell’incompetenza della Decana in ipotesi di dimissioni della Rettrice condurrebbe ancora una volta alla conclusione inaccettabile di una paralisi operativa dell’Ateneo nella suddetta ipotesi.
Da ultimo, non corrisponde al vero che il T.A.R. abbia ignorato la doglianza di “laconicità” dell’atto di avvio del procedimento emanato della Prorettrice, avendo la sentenza sottolineato come l’incolpata avesse correttamente inteso il contenuto e la funzione di tale atto e avesse conseguentemente potuto esercitare le proprie prerogative nel corso del procedimento. III).
Venendo al terzo motivo di appello, con esso la prof.ssa -OMISSIS- lamenta che il Tribunale avrebbe errato nel disattendere il primo motivo del ricorso R.G. n. -OMISSIS- e il punto 4.4. dei motivi aggiunti, aventi a oggetto la mancata sottoscrizione della deliberazione del Consiglio di Amministrazione n. -OMISSIS- e del connesso verbale, cioè degli atti (a cui la Decana ha poi dato esecuzione) con i quali è stata irrogata alla docente la sanzione della sospensione di nove mesi.
La sentenza ha rigettato la doglianza di nullità/inesistenza di tali atti per il difetto di sottoscrizione, ma – deduce l’appellante – in realtà la deliberazione sarebbe priva di sottoscrizione autografa, nonché di attestazione di conformità al presunto originale; ed anche l’art. 41, comma 3, del Regolamento di Ateneo statuisce che la presenza del verbale, firmato da Presidente e Segretario, è requisito essenziale dell’atto collegiale, la cui inesistenza comporta l’inesistenza della stessa volontà collegiale.
Sarebbe vano il richiamo, da parte della sentenza, all’art. 39, comma 6, del Regolamento di Ateneo e all’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 39/1993, poiché la sottoscrizione autografa sarebbe non un formalismo, ma un elemento di sostanza del provvedimento amministrativo, come chiarito dalla giurisprudenza, e lo stesso varrebbe per l’attestazione di conformità all’originale.
Il motivo è infondato nascendo esso da un equivoco in cui è incorsa l’appellante circa la motivazione formulata dal T.A.R. per disattendere la doglianza ora in esame.
Detta motivazione, infatti, è assai più articolata di quanto si sostiene nell’appello. Innanzitutto, la sentenza impugnata rammenta che, ai sensi dell’art. 39, comma 6, del Regolamento di Ateneo, “la deliberazione collegiale si perfeziona non con la sottoscrizione del relativo verbale, ma con la proclamazione del risultato da parte del presidente a seguito dell’accertamento dell’esito del voto e dell’esistenza e validità delle condizioni che hanno concorso alla formazione della volontà del collegio”. In secondo luogo, essa richiama la sicura attribuibilità al Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo della deliberazione di irrogazione della sanzione disciplinare, dimostrata dagli atti successivi adottati dall’-OMISSIS-, che hanno dato esecuzione alla deliberazione stessa (si pensi, per es., all’atto della Decana).
Al riguardo si può aggiungere che, per consolidata giurisprudenza, “sebbene la firma apposta in calce ad un provvedimento o ad un atto amministrativo costituisca lo strumento per la sua concreta attribuibilità, psichica e giuridica, all’agente amministrativo che risulta averlo formalmente adottato, è pur vero che, anche in omaggio al più generale principio di correttezza e buona fede cui debbono essere improntati i rapporti tra Pubblica amministrazione e cittadino, che non solo la non leggibilità della firma, ma anche la stessa autografia della sottoscrizione non possono costituire requisiti di validità dell’atto amministrativo, ove concorrano elementi testuali (indicazione dell’ente competente, qualifica, ufficio di appartenenza del funzionario che ha adottato la determinazione, emergenti anche dal complesso dei documenti che lo accompagnano) che permettono di individuare la sua sicura provenienza; in conclusione l’atto amministrativo esiste come tale allorché i dati emergenti dal procedimento amministrativo consentano comunque di ritenerne la sicura provenienza dall’Amministrazione e la sua attribuibilità a chi deve esserne l’autore secondo le norme positive, salva la facoltà dell’interessato di chiedere al giudice l’accertamento dell’effettiva provenienza dell’atto stesso dal soggetto autorizzato a firmarlo” (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 16 aprile 2024, n. 3442; Sez. V, 2, gennaio 2024, n. 29; id., 28 maggio 2012, n. 3119; Sez. VII, 17 aprile 2023, n. 3829; Sez. II, 24 gennaio 2023, n. 793).
In terzo luogo, la motivazione della sentenza di prime cure richiama l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 39/1993, da cui “si ricava la regola dell’equipollenza alla sottoscrizione autografa della indicazione a stampa del soggetto responsabile, eventualmente preceduta, come nel caso di specie, dalla dicitura “f.to”” (cfr. Cass. civ., Sez. VI, 13 maggio 2015, n. 9815; Sez. I, 12 ottobre 2006, n. 21918; id., 31 maggio 2005, n. 11499).
Ancora, il T.A.R. invoca l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui la redazione del verbale non deve essere necessariamente contestuale allo svolgimento della seduta oggetto di verbalizzazione, né precedere la comunicazione del provvedimento finale, cosicché la tardività della redazione e della sottoscrizione del verbale non rende illegittimo il provvedimento deliberato. A quest’ultimo riguardo, a conferma di quanto affermato dal primo giudice, mette conto richiamare il principio pacifico, per il quale “salvo che non sia diversamente disposto, la redazione del verbale di una seduta di un organo collegiale non deve necessariamente avvenire contemporaneamente allo svolgimento della seduta oggetto di verbalizzazione o prima della comunicazione del provvedimento finale, con la conseguenza che la tardiva redazione e sottoscrizione del verbale non rende illegittimo il provvedimento deliberato” (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. III, 20 febbraio 2013, n. 1136; Sez. VI, 30 marzo 2004, n. 1711; id., 23 aprile 2002, n. 2199): ciò si spiega con la necessità di non fare confusione tra la manifestazione di volontà, che costituisce il contenuto della deliberazione, e la verbalizzazione che riproduce tale manifestazione, attestandone l’esistenza (cfr. C.d.S., Sez. VI, 11 dicembre 2001, n. 6208).
Infine, il T.A.R. ricorda come l’art. 41, comma 4, del Regolamento di Ateneo ammetta l’approvazione del verbale in una seduta successiva a quella di adozione della deliberazione. IV)
Con il quarto motivo l’appellante si duole della reiezione, da parte del T.A.R., del terzo motivo del ricorso R.G. n. -OMISSIS-, attraverso il quale la docente aveva lamentato che tutti gli atti irrogativi della sanzione disciplinare (incluso il decreto della Decana del -OMISSIS-) avrebbero omesso di scomputare dal periodo di sospensione disciplinare di nove mesi (decorrente dal -OMISSIS-) il periodo di sospensione cautelare già scontato (che aveva iniziato a operare dal 4 dicembre 2020): ciò, in violazione dell’art. 96, primo comma, del T.U. n. 3/1957, che avrebbe previsto tale scomputo sia per la sospensione cautelare facoltativa sia per quella obbligatoria, di tal ché la sentenza sarebbe incorsa in errore nel ritenere l’art. 96, primo comma, cit. applicabile unicamente alla sospensione facoltativa.
Il motivo è privo di fondamento.
L’art. 96, primo comma, del d.P.R. n. 3/1957 stabilisce che “qualora a seguito del procedimento disciplinare venga inflitta all’impiegato la sospensione dalla qualifica, il periodo di sospensione cautelare deve essere computato nella sanzione”. La sentenza appellata ha puntualmente motivato in proposito, ricordando che secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza (Cass. civ., Sez. lav., 18 settembre 2014, n. 19676), l’art. 96 del T.U. n. 3/1957 riguarda solo la sospensione facoltativa e non anche quella obbligatoria.
Nel caso in esame si trattava, invece, della sospensione obbligatoria, per la quale lo scomputo non è applicabile, tenuto conto che la stessa non è assimilabile a una misura disciplinare anticipata, ma mira a salvaguardare in via immediata interessi essenziali della P.A. e del lavoratore in presenza del fatto oggettivo dell’assenza dal servizio del dipendente e della mancata prestazione lavorativa da parte di costui.
È solo la sospensione dal servizio disposta in sede di irrogazione della sanzione disciplinare ad assolvere a una funzione sanzionatoria e per la stessa – conclude il T.A.R. – correttamente l’Ateneo ha individuato il dies a quo della sua efficacia nel giorno della comunicazione alla docente della sua inflizione, tenuto conto della regola generale, ai sensi della quale il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti del destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata (art. 21-bis della l. n. 241/1990).
Il percorso argomentativo del primo giudice si mostra corretto e condivisibile, considerate le diverse finalità cui assolvono la sospensione cautelare obbligatoria (v. C.d.S., Sez. V, 15 novembre 2012, n. 5774) e la sanzione disciplinare della sospensione.
Vero è, infatti, che questo Consiglio, con decisione della Sezione V, n. 138 del 20 gennaio 2004, ha affermato che il periodo di tempo assoggettato al regime della sospensione cautelare del servizio deve essere computato nell’ulteriore periodo di irrogazione della sanzione disciplinare della sospensione effettiva, in quanto, pur avendo i due istituti regime, natura e finalità diversi, nondimeno il primo deve essere computato nel secondo per ragioni di ordine equitativo, altrimenti il dipendente verrebbe penalizzato ingiustamente per una duplice negativa valutazione dello stesso evento.
La successiva decisione della Sezione IV n. 1648 dell’11 aprile 2007 ha precisato, tuttavia, che tale precedente è applicabile nel solo caso di sospensione facoltativa, ma non anche in quello di sospensione cautelare obbligatoria.
In questa seconda ipotesi, infatti, vanno applicati i generali principi civilistici diretti a disciplinare il dispiegarsi dei rapporti contrattuali di tipo sinallagmatico, qual è quello di lavoro, con l’attribuzione, per intero a carico dell’impiegato, della responsabilità dell’interruzione del sinallagma tra la prestazione lavorativa e quella retributiva, con conseguente esclusione del diritto del dipendente al ripristino dello status quo ante.
Sul punto occorre aggiungere che l’applicabilità dell’art. 96 del T.U. n. 3/1957 alla sola sospensione cautelare facoltativa e non anche a quella obbligatoria, affermata dalla giurisprudenza amministrativa più risalente (cfr. C.d.S., Sez. VI, 14 giugno 2004, n. 3862, con i precedenti ivi richiamati), è stata confermata da quella più recente (C.d.S., Sez. II, 5 settembre 2022, n. 7691).
- V) Si passa ora alla disamina del quinto motivo di appello, attraverso il quale la docente contesta la decisione impugnata per avere essa disatteso la censura dedotta con il sesto motivo del ricorso R.G. n. -OMISSIS-, incentrata su una presunta violazione dell’art. 51 c.p.c.: in particolare, detta violazione andrebbe ravvisata, a giudizio dell’appellante, nel comportamento tenuto da due componenti (su tre) del Collegio di Disciplina, i quali, poco prima di esprimere il parere disciplinare del – OMISSIS- sulla prof.ssa -OMISSIS-, avrebbero partecipato a un Consiglio di corso in cui sarebbe stato espresso all’unanimità apprezzamento per la docente, tanto da invitarla a ritirare le dimissioni da Presidente del corso stesso.
La sentenza ha escluso la sussistenza di violazioni dell’art. 51 c.p.c. in quanto l’invito a ritirare le dimissioni era motivato dal riconoscimento dell’impegno profuso dalla docente nell’organizzazione del corso e non da valutazioni sulla vicenda che ha dato origine al procedimento disciplinare a suo carico, ma, ribatte l’appellante, in realtà il Consiglio di corso si è tenuto il -OMISSIS-, quando la vicenda era già “scoppiata” ed il procedimento disciplinare era già stato avviato (dal precedente 8 ottobre), cosicché la violazione dell’art. 51 c.p.c. sarebbe da ravvisare sul piano sia dello spirito della norma, sia della sua lettera.
La doglianza deve ritenersi priva di pregio.
In atti è presente la e-mail del -OMISSIS- a firma del dott. -OMISSIS-, appartenente al settore della -OMISSIS-, indirizzata alla prof.ssa -OMISSIS-, in cui si comunica a quest’ultima che alla riunione del Consiglio del -OMISSIS-(Italiano per -OMISSIS- ) svoltosi nella stessa data per procedere all’elezione del Presidente del Corso per il successivo triennio, il Consiglio ha deliberato, all’unanimità dei presenti, di non procedere alla suddetta elezione e di formulare l’invito alla citata appellante a ritirare le sue dimissioni dalla carica, presentate il 20 ottobre 2020: ciò, in ragione dell’apprezzamento per l’impegno garantito durante il periodo in cui aveva svolto tale ruolo e del fatto che le dimissioni erano avvenute su base volontaria e di opportunità.
Tra i componenti del Consiglio di corso che ha adottato la deliberazione in parola vi erano anche la prof.ssa -OMISSIS- e la prof.ssa -OMISSIS-, che, quali componenti del Collegio di Disciplina incaricato del procedimento disciplinare relativo all’appellante, hanno successivamente partecipato alla redazione del parere di cui al verbale n. 6 della seduta del -OMISSIS-. Orbene, dalla e-mail ora citata emerge che – come rileva giustamente il T.A.R. – la deliberazione del Consiglio del -OMISSIS-, con cui è stato chiesto alla prof.ssa – OMISSIS- di ritirare le proprie dimissioni, era motivata dal riconoscimento dell’impegno profuso dalla docente nell’organizzazione del corso e non certo da valutazioni relative alla vicenda dalla quale è originato il procedimento disciplinare nei confronti della medesima.
Non corrisponde al vero, perciò, quanto si afferma nell’appello, ossia che due componenti del Collegio di Disciplina, prima di stilare il parere disciplinare, si sarebbero esposte pubblicamente in un altro consesso su questioni strettamente connesse con i lavori del Collegio, in quanto la riunione del Consiglio del -OMISSIS-svoltasi il -OMISSIS- si è incentrata su un profilo (l’impegno della docente quale Presidente di detto Corso) estraneo alla vicenda disciplinare che l’ha riguardata. Inoltre, a tutto voler concedere, nella riunione del Consiglio di corso del -OMISSISla prof.ssa -OMISSIS- e la prof.ssa -OMISSIS- si sono espresse a favore e non contro la prof.ssa -OMISSIS-, cosicché non si comprende a che titolo costei possa dolersi di tale espressione di voto (cfr. Cass. civ., Sez. Un., ord. 2 febbraio 2006, n. 2343, che condiziona la fondatezza dell’istanza di ricusazione di un giudice alla presenza di decisioni sfavorevoli al ricorrente, oltre che agli altri presupposti di legge).
Ad abundantiam, l’appellante non ha allegato alcun elemento da cui si potessero ricavare indizi circa un condizionamento della valutazione espressa dal Collegio di Disciplina in ragione di un pregiudizio da parte delle succitate componenti dell’organo, meno che mai scaturito dalla pregressa deliberazione del Consiglio di corso.
Dunque, la condotta serbata dalle due componenti del Collegio di Disciplina non è riconducibile sotto nessun punto di vista alle ipotesi contemplate dall’art. 51 c.p.c.: in particolare, non è riconducibile né alle ipotesi contemplate dal primo comma del citato art. 51 (e in specie a quella elencata al n. 1), cui l’appellante fa richiamo), né a quella residuale contemplata dal secondo comma del predetto art. 51, anch’essa richiamata – in modo invero generico – dall’appellante.
Non vi sono elementi, infatti, né per sostenere che la prof.ssa -OMISSIS- e la prof.ssa -OMISSIS- avessero “interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto”, né per desumere un ipotetico eccesso di potere dall’asserita – ma in realtà inesistente – violazione dell’art. 51, secondo comma, c.p.c.; neppure si può “forzare” l’elenco dell’art. 51 c.p.c. per farvi rientrare le condotte di cui si duole l’appellante.
È utile aggiungere, in argomento, che per giurisprudenza costante le cause di incompatibilità sancite dall’art. 51 c.p.c., estensibili in conformità al principio costituzionale di imparzialità a tutti i campi dell’azione amministrativa, rivestono carattere tassativo e, come tali, sfuggono a qualsiasi tentativo di estensione analogica, stante l’esigenza di assicurare la certezza dell’azione amministrativa (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VII, 9 settembre 2022, n. 7867; Sez. VI, 10 luglio 2017, n. 3373; id., 30 luglio 2013, n. 4015; id., 5 maggio 1998, n. 631). VI) Da ultimo, con il sesto motivo l’appellante contesta la sentenza di prime cure, per avere questa disatteso le censure dedotte con i motivi aggiunti al ricorso R.G. n. -OMISSIS-, volte a lamentare la violazione del principio di segretezza a causa della mancata attestazione del luogo in cui si trovavano i componenti degli organi collegiali, in violazione della disciplina contenuta nell’art. 4, comma 2, del Regolamento di Ateneo per le riunioni telematiche. Sarebbe stato violato, altresì, l’art. 4, comma 3 del citato Regolamento, che vieta agli organi collegiali l’utilizzo di modalità telematiche per le sedute ove siano in discussione questioni per le quali le decisioni devono essere assunte a scrutinio segreto.
Il Consiglio di Amministrazione ha deliberato a voto palese, in violazione delle norme regolamentari che avrebbero prescritto il voto a scrutinio segreto. Aggiunge l’appellante che il T.A.R. ha respinto tali censure, perché, da un lato, l’art. 10 della l. n. 240/2010 impone al Consiglio di Amministrazione di uniformarsi al parere del Collegio di Disciplina, dall’altro, al parere emesso da quest’ultimo organo non si applica l’art. 39, comma 2, del Regolamento di Ateneo (avente a oggetto il voto segreto per le questioni attinenti alla sfera di riservatezza delle persone), che riguarda le sole deliberazioni; quanto, poi, all’omessa menzione del luogo nei verbali della riunioni telematiche, il T.A.R. l’ha declassata a mera irregolarità.
Tali motivazione, però, sarebbero tutte erronee, alla luce della giurisprudenza espressasi in materia: viene richiamata, sul punto, la sentenza di questo Consiglio, Sezione VI, n. 759 del 3 febbraio 2022. Lamenta l’appellante che l’operato dell’- OMISSIS- sarebbe stato illegittimo, atteso che: il Collegio di Disciplina, essendosi espresso sulle qualità morali della prof.ssa -OMISSIS-, avrebbe dovuto rispettare la disciplina sul voto segreto; il Consiglio di Amministrazione non sarebbe stato tenuto a uniformarsi al parere del Collegio, ma avrebbe avuto margini di apprezzamento sullo stesso; la menzione del luogo in cui si trovavano i componenti degli organi collegiali sarebbe servita a certificare che la sede della riunione fosse tale da garantire la necessaria riservatezza.
Le doglianze non possono essere condivise. In realtà, la sentenza di prime cure ha spiegato in modo ragionevole e convincente i motivi per i quali non è possibile applicare ai pareri quelle regole di segretezza del voto che caratterizzano taluni tipi di deliberazioni: nel caso dell’emissione del parere, infatti, alla redazione di questo sono chiamati a cooperare tutti i membri dell’organo collegiale e tale modalità di redazione dell’atto non è compatibile con l’espressione della volontà dell’organo mediante voto segreto.
Aggiunge il T.A.R. che neppure può sostenersi che, onde garantire la segretezza dell’espressione del voto, la redazione del parere possa essere affidata a uno dei membri del Collegio per consentire poi agli altri membri dell’organo di votarlo con scheda segreta, poiché la regola della segretezza dovrebbe allora garantire tutti i componenti del Collegio e quindi dovrebbero essere disciplinate modalità di lavoro collegiale dell’organo che, invece, non sono state indicate né dalla legge, né da atti dell’Ateneo interessato.
Tale considerazione va senz’altro condivisa, poiché, qualora si fosse affidata la redazione del parere ad uno dei componenti del Collegio e poi gli altri fossero stati chiamati ad esprimersi su di esso con voto segreto, comunque la segretezza non sarebbe stata rispettata per l’estensore del parere, l’avviso del quale, evidentemente, sarebbe risultato noto agli altri membri.
Non convince neppure l’ipotesi di affidare a ciascuno dei componenti del Collegio la stesura di una bozza di parere da sottoporre al voto segreto dell’organo collegiale, perché una simile evenienza avrebbe richiesto l’esistenza di una previa disciplina idonea a indicare la soluzione nel caso di parità di voti tra più bozze di segno diverso, ma – come nota giustamente il T.A.R. – di detta disciplina non vi è traccia.
Ancora, la ratio dell’assenza di discrezionalità in capo al Consiglio di Amministrazione nell’adottare la delibera di recepimento del parere spiega perché non vi fosse necessità del voto segreto per tale delibera, non dovendosi tutelare la libertà di coscienza di alcuno.
La mancata menzione del luogo in cui si trovavano i componenti degli organi collegiali non può avere portata viziante dell’atto adottato, ma assurge al rango di mera irregolarità dell’atto stesso.
Quanto, infine, alle modalità telematiche utilizzate, le stesse si spiegano in ragione del periodo a cui risalgono gli atti (in piena emergenza pandemica da COVID-19), il che rende inconferenti i richiami dell’appellante alla disciplina ordinaria in materia di votazioni con le suddette modalità telematiche.
Per la stessa ragione risulta altresì irrilevante l’ultima produzione documentale dell’appellante, visto che il Regolamento emanato con D.R. n. -OMISSIS- non riguarda situazioni di emergenza pandemica: esso, anzi, corrobora le difese dell’-OMISSIS-, poiché, come da questa rilevato nell’ultima replica, all’art. 7, comma 3, contempla una clausola di salvaguardia della validità delle sedute degli organi collegiali dell’Ateneo “tenutesi, in qualsiasi forma” prima dell’emanazione del Regolamento stesso. Dunque, anche le doglianze di cui al motivo in esame, al pari delle precedenti, sono infondate. In conclusione, per le ragioni esposte l’appello è nel suo complesso infondato e deve essere respinto, dovendo la sentenza di prime cure essere confermata. Le spese del giudizio di appello seguono la soccombenza e sono liquidate a carico dell’appellante e a favore dell’Ateneo appellato nella misura di cui al dispositivo.