Consiglio di Stato, Sezione II, sentenza 23 luglio 2024, n. 6666
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il delicato rapporto tra protezione dell’ambiente cittadino con caratteri di rilevanza storico, artistica, culturale ed ambientale e la disciplina della libertà di iniziativa economica, che ha portato da sempre a riconoscere uno specifico potere della p.a. di individuare su base territoriale ambiti e forme di protezione dell’ambiente urbano che si sostanzino in una interdizione – qualitativa o quantitativa – allo svolgimento di attività commerciali alle condizioni di legge (sul punto, v. Cons. Stato, sez. V, 17 luglio 2014, n. 3802) non può dunque risolversi, in assenza di una chiara indicazione regolatoria in tal senso, nella sostanziale neutralizzazione delle scelte effettuate in tema di arredo urbano commerciale
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il signor […], titolare di un pubblico esercizio di somministrazione di alimenti e bevande in Roma, in Via […], ha interposto appello nei confronti della sentenza n. 6876/2020, con la quale il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sez. II ter, ha respinto il suo ricorso avverso il provvedimento del Comune di Roma Capitale del 22 febbraio 2019 di diniego di concessione di occupazione di suolo pubblico, nonché avverso gli atti ad esso presupposti, tra cui, in particolare, i pareri della Polizia locale, Gruppo I Centro, del 17 luglio 2018 e del 20 dicembre 2018 e il preavviso di diniego di cui alla nota del 3 settembre 2018, prot. CA/162360. 1.1. In punto di fatto occorre chiarire che il ricorrente aveva avanzato la relativa istanza in data 11 gennaio 2018 al fine di fruire di uno spazio all’esterno del proprio locale e a corredo dello stesso e che aveva apportato modifiche al progetto originario, eliminando la pedana in precedenza prevista, per assecondare la condizione in tal senso posta dalla Soprintendenza speciale Archeologia, belle arti e paesaggio di Roma (nota prot. n. 2202 del 22 marzo 2018), allegata alla comunicazione ex art. 10- bis della l. n. 241 del 1990, che la riteneva elemento improprio, incompatibile con la natura di strada vincolata quale quella di cui è causa, e soprattutto non rientrante nelle previsioni del c.d. “Catalogo dell’arredo urbano” approvato con delibera della Giunta capitolina n. 193/2015.
1.2 Per contro, l’atto impugnato, motivato per relationem rispetto al parere della Polizia locale del 20 dicembre 2018, confermativo del precedente, dopo aver ricordato che «Via […] è strada a senso unico di marcia classificata (nel tratto in esame) viabilità locale dal regolamento viario allegato al vigente P.G.T.U.», ha considerato ostativa al rilascio proprio l’insistenza dell’occupazione «direttamente sulla sede stradale senza pedana, risultando in contrasto con quanto prescritto dall’art. 4-quater comma 4 lett-i) del vigente Regolamento COSAP», così da sottrarre «stalli riservati alla sosta tariffata comportando – qualora concessa – una variazione della Determinazione Dirigenziale di Traffico». […].1.3. Con il ricorso in primo grado l’interessato aveva lamentato il difetto di motivazione sotto plurimi punti di vista, in particolare rivendicando la possibilità di concedere occupazioni di suolo pubblico anche su aree soggette a regolazione tariffata (v. Cons. Stato, sez. V, 11 febbraio 2014, n. 660; id., 18 giugno 2015, n. 3123; 23 giugno 2015, n. 3181; 24 marzo 2016, n. 1207; 13 luglio 2017, n. 3452), nonché invocando a proprio favore le statuizioni della delibera di Giunta del 18 giugno 2015, n. 193, che vieta l’installazione di pedane su strade rientranti nella c.d. area UNESCO, dal che si sarebbe dovuta inferire l’avvenuta abrogazione implicita in parte qua della divergente previsione di cui all’allegato “B” alla delibera di Consiglio comunale n. 119/2005, più volte modificata, contenente la regolazione della disciplina delle concessioni di suolo pubblico.
- Il T.a.r. per il Lazio ha motivato il rigetto del ricorso concentrandosi sulla ragione giustificativa del diniego costituita dalla mancanza di pedana: essa sarebbe sufficiente a supportarne la motivazione, ponendosi la richiesta occupazione di suolo pubblico (OSP) in contrasto con il chiaro tenore letterale dell’art. 4-ter del regolamento di settore, che impone, a tutela della sicurezza dell’occupazione medesima, tale elemento costruttivo. Quanto alla delibera di Giunta comunale n.193/2015 – che approva il Catalogo dell’arredo urbano commerciale, come scaturito dal “Tavolo tecnico per il decoro” istituito dall’accordo di collaborazione ex art. 15 della legge n. 241/1990, sottoscritto in data 17 aprile 2014 e protocollato in data 9 maggio 2014 – esso non si soffermerebbe sugli elementi caratteristici e di arredo, che resterebbero riconducibili alla deliberazione consiliare n. 104/2003 (e con precisione al relativo allegato). […]
2.1. […]».
- Il signor […] ha avanzato un unico articolato motivo di gravame, così rubricato: «Violazione e falsa applicazione dell’art. 4-quater del Regolamento in materia di occupazione di suolo pubblico (O.S.P.) adottato con delibere di Consiglio comunale nn. 119/2005, 75/2010 e 82/2018. Contraddittorietà tra atti del medesimo procedimento e motivazione perplessa. Travisamento ed erronea valutazione dei presupposti di fatto e delle risultanze istruttorie. Falsa applicazione dei principi in tema di abrogazione di norme. Eccesso di potere per carenza dei presupposti e travisamento dei fatti». In sintesi, ha contestato le argomentazioni del giudice di primo grado sull’eccepito eccesso di potere per contraddittorietà tra atti dello stesso procedimento, stante che la pedana, prevista nella domanda originaria, è stata eliminata proprio a seguito di sollecitazione in tal senso degli organi comunali, che hanno riferito in merito il parere contrario delle Soprintendenze sia statale cha capitolina. Non a caso quest’ultima, con nota del 30 novembre 2018, prot. n. […], inspiegabilmente non menzionata negli atti impugnati, ha rappresentato che a seguito della disamina della documentazione integrativa prodotta dalla parte, «per quanto di competenza, conferma il parere favorevole già espresso in quanto il richiedente ha recepito le osservazioni degli uffici preposti». La delibera n. 193/2015, diversamente da quanto affermato dal T.a.r., avrebbe disciplinato ex novo le tipologie di arredi installabili su suolo pubblico e non si sarebbe limitata ad integrare le previsioni del Regolamento Cosap del 2014. Essa, quindi, nell’escludere la possibilità di utilizzo delle pedane in alcune zone cittadine, limitandone la collocazione nell’area perimetrata come suburbio, di fatto avrebbe abrogato l’allegato “B” alla delibera consiliare n. 119/2005, come successivamente modificata. L’esigenza di salvaguardare i valori architettonici e ambientali dei luoghi UNESCO starebbe alle base dei contenuti della delibera n. 193/2015 e del suo “innesto” nelle altre discipline di settore.
3.1. […]
- Con atto depositato l’11 settembre 2020, si è costituito in giudizio il Comune di Roma Capitale, per resistere all’appello chiedendone il rigetto. Con memoria del 5 ottobre 2020 ha controdedotto alle argomentazioni di parte avversa, valorizzando il passaggio della sentenza che nel richiamare il parere negativo della Soprintendenza del Ministero per i beni culturali e il turismo, ne rimarca il riferimento alla inamovibilità della struttura, con ciò non escludendo che modalità progettuali diverse avrebbero potuto essere avallate.
- Con ordinanza n. 5954/2020 della sez. V del Consiglio di Stato sono stati disposti incombenti istruttori, giusta la rilevata contraddittorietà tra i due «assunti della Polizia Municipale [e] della Sovrintendenza capitolina (in disparte la valutazione della Soprintendenza statale), nonché, circa la collocazione/non collocazione della pedana, in modo tale da assicurare al cittadino sicurezza giuridica riguardo alla posizione sul tema di Roma Capitale».
5.1. […], 6. […], 7. […]
- In data 16 maggio 2024 ha presentato ulteriore memoria, richiamando giurisprudenza sopravvenuta a conferma della riconosciuta possibilità di rilasciare concessioni di suolo pubblico anche su aree regolate a regime di sosta tariffata (Cons. Stato, sez. V, 21 maggio 2019, n. 3243). […]8.1. […]
- All’udienza pubblica del 3 luglio 2024, la causa è stata trattenuta in decisione.[…]
- Il Collegio ritiene l’appello fondato.
11, 12, 13 […]
- Ciò detto, punto centrale della vicenda resta l’individuazione dell’esatto regime giuridico applicabile avuto riguardo alla tipologia di elementi di arredo urbano utilizzati e utilizzabili nel centro storico di Roma Capitale in ragione dell’intersecarsi non coordinato di distinte regolazioni. Il primo giudice, infatti, ha ritenuto corretto il riferimento alla portata ostativa dell’art. 4-quater del regolamento Cosap, nel contempo escludendo che la delibera di Giunta n. 193 del 2015 ne abbia in qualche modo integrato o eroso il contenuto.
- La ricostruzione non può essere condivisa.
15.1. Ritiene il Collegio che al fine di correttamente perimetrare la vicenda di cui è causa, si renda necessaria una ricostruzione sintetica del complesso quadro normativo sotteso alla disciplina delle concessioni di suolo pubblico. Solo individuando, infatti, l’intreccio di competenze e la stratificazione di ambiti di operatività che caratterizzano la materia è possibile mettere in luce l’innegabile contrasto intrinseco al procedimento seguito dal Comune di Roma Capitale e la conseguente (ulteriore) carenza motivazionale dell’atto impugnato.
- […]
- […]
- […] la tematica della concessione in uso del suolo pubblico […] non dà luogo ad un diritto soggettivo pieno e perfetto alla fruizione della superficie concessa, essendo soggetta ad una permanente regolamentazione da parte della p.a. relativa non solo all’ an, ma anche al quomodo, sicché ne resta ferma anche la revocabilità per ragioni di interesse generale, tra le quali rientrano certamente l’esigenza di tutela del decoro dell’ambiente urbano circostante e la sicurezza pubblica, come meglio chiarito nel prosieguo. Il principio, immanente alla disciplina del rapporto tra p.a. proprietaria del bene e privato titolare dell’attività che su tale bene insiste, implica cioè che nel bilanciamento degli opposti interessi (quello pubblico alla fruizione collettiva ed indifferenziata, ma anche qualificata, del suolo e quello privato a trarre utilità economica-imprenditoriale da un uso in regime di esclusiva dello stesso), non può essere trascurato il rilievo e la pregnanza del valore storico o artistico o più in generale urbano del contesto ove il suolo si colloca, che giustifica un più elevato grado di comprimibilità dell’interesse legittimo degli operatori economici, specie poi laddove questi ultimi abbiano avuto accesso alle relative utilità senza il discrimine di una procedura di evidenza pubblica.
- La cornice giuridica può inoltre essere diversa in ragione delle modalità di realizzazione dell’occupazione. Laddove la stessa avvenga ad esempio mediante strutture connotate da una certa consistenza e durata, essa può acquisire rilevanza sotto il profilo urbanistico-edilizio, ovvero paesaggistico; in relazione alla sua funzionalizzazione, entrerà invece in gioco la regolamentazione della specifica attività produttiva della quale costituisce ampliamento o luogo di esercizio esclusivo, ivi comprese le regole attinenti al profilo igienico-sanitario. In ogni caso, può assumere rilievo la sua configurazione estetica, che il Comune può pretendere in armonia col contesto, ovvero omogenea rispetto alle altre che insistono nella stessa zona, previamente individuata, in una logica di miglioramento dell’impatto visivo, ma anche di prevenzione/calmierazione di fenomeni di degrado, quali tipicamente la c.d. “movida molesta”. Ed è in ragione di tali variegate finalità che possono sovrapporsi le più disparate scelte generali di ciascun Comune in merito.[…]
- […]
- È di tutta evidenza l’impossibilità per la fonte regolamentare di derogare ai principi generali in materia urbanistico-edilizia e ambientale, avallando installazioni sostanzialmente permanenti, sol perché rispondenti alle indicazioni tipologiche proposte, ovvero per lo più imposte. La dizione, pertanto, di temporaneità e di asservimento alle esigenze stagionali resta quella declinata dal legislatore nazionale nel ricordato art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, pur con i difetti di coordinamento tra T.u.e. dell’edilizia, nella versione più volte novellata, e d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31, concernente, come già detto, sia i casi di esonero dall’autorizzazione paesaggistica che quelli per i quali la procedura semplificata è semplificata (v. al riguardo Cons. Stato, sez. II, 13 febbraio 2023, n. 1489).
- L’occupazione di suolo pubblico a servizio di attività commerciali non necessita sempre di vere e proprie strutture (i dehors, […]), ben potendo concretizzarsi in elementi “di arredo” in uso ai clienti quali tavoli, sedie e ombrelloni o comunque parasole, o ad abbellimento delle stesse, come fioriere e simili. Per tali elementi si parla genericamente di “arredo urbano”, a significare strutture assimilabili a quelle che il Comune stesso utilizza per abbellire o rendere maggiormente fruibile una determinata zona (quali panchine e simili). […]
- A tale riguardo, con decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, convertito dalla legge 18 aprile 2017, n. 48, infatti, valorizzando la potestà regolamentare dei comuni in materia di “sicurezza delle città” (comma 7-ter dell’art. 50 del d.lgs. n. 267 del 2000, Testo unico degli enti locali), si è ammesso che la stessa venga utilizzata per rimediare alle «situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche». Ai regolamenti comunali di polizia urbana è stato riconosciuto poi il potere di «individuare aree urbane su cui insistono scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli ovvero adibite a verde pubblico», nell’ambito delle quali applicare a chi ponga in essere condotte che ne impediscono l’accessibilità e la fruizione, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, una determinata sanzione amministrativa pecuniaria e il contestuale ordine di allontanamento. L’art. 5, comma 1, lett. c), del d.l. n. 14/2017 rimette infine a “patti” per l’attuazione della sicurezza urbana la auspicata collaborazione interistituzionale tra le amministrazioni competenti, anche allo scopo di coadiuvare l’ente locale nell’individuazione delle aree urbane da sottoporre alla particolare tutela di cui alle norme sopra richiamate. A ciò consegue che regole relative alla fruizione del suolo pubblico – recte, al divieto di concessione dello stesso – trovino spazio anche all’interno dei regolamenti che si occupano di sicurezza urbana.
- Nel complicato gioco di rimandi riveniente dalle numerose clausole di rinvio agli illeciti previsti dalle varie norme richiamate, l’art. 9, comma 3, del d.l. n. 14/2017fa poi espressamente salva l’applicazione dell’art. 52, comma 1-ter, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali) e dell’art. 1,comma 4, del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, ovvero, rispettivamente, le disposizioni sulla revoca delle concessioni di aree pubbliche per ragioni di interesse generale e la sottrazione ai regimi autorizzatori semplificati delle attività che si svolgono in determinate zone tutelate.
- L’intersecarsi di norme che, almeno in parte, disciplinano il medesimo potere degli enti territoriali, rischia di generare una certa confusione sul piano della scelta della procedura corretta da seguire. Lo stesso legislatore statale, infatti, nel riproporre disposizioni volte a legittimare forme di controllo qualitativo sulle attività commerciali e sull’uso del suolo pubblico, non sempre ha utilizzato la medesima formula, sicché il potere di iniziativa sembra talvolta attribuito ai Comuni in esclusiva (art. 52, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004); talaltra (anche) agli uffici periferici del Ministero, con coinvolgimento nell’intesa della Regione (art. 52, comma 1-ter del medesimo Codice dei beni culturali) ovvero delle associazioni di categoria (art. 1, comma 4, d.lgs. n. 222/2016).
26, 27 […]
- D’altro canto, con riferimento alle concessioni di suolo pubblico, anche la giurisprudenza si è fatta interprete da tempo dell’esigenza di mantenere all’organo di governo locale una certa discrezionalità nel valutare la compatibilità col contesto delle realizzazioni richieste. Si è pertanto affermato che alle stesse, ove insistano in aree vincolate, quali per lo più i nostri centri storici, non si attaglia la disciplina del silenzio assenso, non potendo la mera presentazione della domanda costituire titolo per l’occupazione di suolo pubblico (neppure provvisoriamente, nelle more cioè della definizione del relativo procedimento concessorio). «Il semplice decorso del tempo stabilito dal regolamento comunale non è idoneo al perfezionamento del c.d. silenzio – assenso, exart. 20 della legge n. 241 del 1990, che non trova applicazione nel caso di specie trattandosi “…atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico [e] l’ambiente […]» (C.G.A.R.S., 9 ottobre 2019, n. 887, che richiama Cons. Stato, sez. V, 13 settembre 2016, n. 3857; id., 12 giugno 2017, n. 2800; v. anche Cons. Stato, sez. VI, 6 febbraio 2019, n. 895).
- […]
- […] la stratificazione di norme che c’è stata non ha mai messo in discussione quella cardine del sistema, della quale si è caso mai ribadito la compatibilità con i principi eurounitari, ovvero l’art. 52, comma 1, del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42(Codice dei beni culturali), che prevede che i Comuni, con le deliberazioni di cui alla normativa in materia di riforma della disciplina relativa al settore del commercio, «sentito il soprintendente, individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l’esercizio del commercio».
30.1. Si è già detto della successiva introduzione nel medesimo art. 52 dei commi aggiuntivi (v. §§ 24 e 25). Va ora ricordato in maggior dettaglio come il comma 1-bis, poi rinominato 1-ter, inserito dal d.l. 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 ottobre 2013, n. 112 e modificato dal d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito dalla l. 29 luglio 2014, n. 106, nel demandare ai competenti uffici del Ministero il compito di adottare, «d’intesa con la Regione e i Comuni» una disciplina al fine di vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, richiama espressamente anche «[…]l’uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico». Con riferimento alla prevista possibilità di revoca di ridette concessioni per motivi di interesse pubblico generale ne individua lo scopo nell’esigenza di «rafforzare le misure di tutela del decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti».
30.2. La disposizione dunque riconnette in maniera esplicita la disciplina di tutela dei beni aventi rilievo storico, artistico e culturale (che è qualificante il regime di protezione e fruizione di tali beni, costitutiva di un loro speciale status di conformazione delle attività di conservazione, manutenzione, destinazione e disposizione), con quella – di ordine commerciale – che presiede la regolazione delle attività di libera iniziativa economica, per quanto qui interessa, su area pubblica. Connessione necessariamente sottesa anche alle scelte effettuate in materia dai singoli comuni.
- […]
- La somministrazione di alimenti e bevande, pur rientrando anche nella generica dizione di “commercio”, è invece oggetto da sempre (anche) di una sua autonoma disciplina. Sempre a livello di principi generali, giusta l’attribuzione della competenza esclusiva in materia di commercio alle Regioni, la legge 25 agosto 1991, n. 287, che ha stralciato dal T.u.l.p.s. le autorizzazioni (ancora di polizia) dei pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, nella parte rimasta in vigore dopo le abrogazioni operate dal d.lgs. n. 59/2010, si limita a ricordare che «Le attività di somministrazione di alimenti e di bevande devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, fatta salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate».
- A ciò consegue che mentre per le attività di commercio su aree pubbliche la fonte “locale” ove inserire le limitazioni previste dall’art. 52 del d.lgs. n. 42 del 2004è tipica, e ravvisabile nella pianificazione di settore già prevista dal d.lgs. del 1998, indi ribadita nelle varie leggi regionali di settore, lo stesso non è a dire avuto riguardo all’ampliamento della superficie dei bar, ristoranti e simili (pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande), che invece tipicamente avviene mediante la collocazione di strutture, precarie o meno, o meri elementi di arredo urbano.
- Le considerazioni fin qui svolte rendono di tutta evidenza come il regime giuridico delle o.s.p., specie nelle aree urbane, è un ambito di incidenza e di compresenza di una pluralità di interessi pubblici e, conseguentemente, di molte discipline amministrative, oltre a quella, specifica, di concessione onerosa dei suoli, che non sempre si palesano di immediata percepibilità e inquadramento da parte dei cittadini. Molte di esse, come visto, sono contenute in piani e programmi tipici, di natura urbanistico-edilizia, della circolazione stradale, paesaggistici, tributari; altre si rinvengono in strumenti atipici, che comunque sono accomunati agli altri dall’obiettivo di tutela dei beni culturali attraverso il controllo della tipologia degli insediamenti di qualunque genere su area normalmente in uso alla collettività. La diversità degli interessi in gioco, che, ancor più dopo la recente novella dell’art. 9 della Costituzione, individua il paesaggio come oggetto primario di tutela, quale contenitore ampio di connotati paesaggistici e antropologici-culturali sinonimo di bellezza, giustifica ad esempio il ricordato diverso livello di tolleranza delle vere e proprie strutture, nel senso che ciò che può stare sul suolo (seppur tutelato) per un certo lasso di tempo sotto il profilo edilizio, non necessariamente può restarvi per lo stesso identico tempo senza essere considerato esteticamente impattante e dunque da sottoporre al vaglio preventivo di qualità dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo. Giustifica altresì la differente collocazione della relativa disciplina, nella regolamentazione edilizia, ovvero in atti a carattere generale più genericamente mirati alla salvaguardia del territorio, ovvero in quelli di pianificazione commerciale pure previsti dalla normativa di settore, nazionale e/o regionale.
- Va ora ricordato come per supportare i propri uffici periferici, il Ministro dei beni culturali e del turismo ha a suo tempo adottato apposita direttiva, 10 ottobre 2012, pubblicata sulla G.U. n. 262 del 9 novembre 2012, opportunamente evocata dall’appellante, dichiaratamente riferita «all’esercizio di attività commerciali ed artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su posteggio nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale».
Pur essendo anche tale direttiva incentrata essenzialmente sulla tematica del commercio su aree pubbliche, talune indicazioni attengono più in generale alle misure di tutela del patrimonio culturale, la cui messa in pericolo può conseguire anche alla mera apposizione di elementi di arredo urbano. Non a caso, tra le premesse vengono richiamati, oltre all’art. 52, anche l’art. 20 («Interventi vietati») e 45 («Prescrizioni di tutela indiretta») del d.lgs. n. 42/2004, che vietano l’uso non compatibile con il carattere storico o artistico del bene, ovvero consentono di prescrivere misure dirette ad evitare, tra l’altro, che sia «danneggiata la prospettiva o la luce» del bene culturale, ovvero che «ne siano alterate le condizioni di ambiente e decoro».
35.1. Il § 3.1., nel declinare in maggior dettaglio le linee di intervento degli uffici periferici del Ministero, individua quale strumento idoneo a garantire l’esercizio congiunto con i Comuni del potere regolamentare l’accordo tra pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Il riferimento in rubrica alla sola dizione “commercio su aree pubbliche”, peraltro, non può essere ritenuto ostativo dell’estensione della relativa disciplina a qualsivoglia modalità di esercizio dello stesso previa concessione in uso del suolo pubblico.
- L’art. 15 della l. n. 241 del 1990 costituisce, come noto, la forma privilegiata nella quale racchiudere lo svolgimento in collaborazione di funzioni riservate a più attori pubblici di un sistema multilivello. Le amministrazioni cioè possono farvi ricorso ogni qualvolta la competenza a trattare una certa questione sia distribuita fra più autorità, fra il centro e la periferia, fra lo Stato e gli enti locali. La necessità del coordinamento delle competenze dei soggetti pubblici con obiettivi evidenti di semplificazione procedimentale rappresenta dunque la fondamentale ragione genetica di siffatte figure di accordo, per ricompattare secondo logiche ed obiettivi di efficienza e di efficacia presso centri omogenei di governo e di amministrazione un ordine troppo frammentato di attribuzioni multilivello.
- La ricostruzione effettuata consente di rimarcare come le regolamentazioni amministrative che attingono la materia del suolo pubblico possono essere ricondotte a varie fonti, esclusive o concorrenti, statali, regionali e comunali. È necessario, dunque, delineare – nei suoi termini essenziali-il “sistema regolatorio” della materia, sia in senso “orizzontale” (delle diverse discipline amministrative compresenti), sia in senso “verticale” (delle varie competenze normative concorrenti). In generale, va ricordato che per quanto già sopra detto, esso incontra il limite costituzionale della tutela della libertà d’impresa (e del lavoro da essa generato) in un mercato regolato, ma senza eccessi di restrizioni pubbliche della concorrenza.
- In tale complessa cornice, si inseriscono poi le peculiarità di quelle zone cittadine denominate “UNESCO” (quale quella di cui è causa). Ad onor del vero la relativa qualifica deriva esclusivamente dall’avvenuta inclusione in un elenco elaborato in attuazione della Convenzione per il Patrimonio Mondiale ratificata nel novembre del 1972, che prevede, appunto, una «Lista del Patrimonio Mondiale o World Heritage List – WHL», ovvero l’individuazione di tutti i beni a cui l’apposito Comitato del patrimonio mondiale riconosce ufficialmente un valore eccezionale universale (Outstanding Universal Value – OUV). Il giudice delle leggi ha già avuto modo di chiarire (Corte cost., 13 gennaio 2016, n. 22) come essi non godano, anche a causa della loro notevole diversità tipologica, di forme di protezione differenziate da quelle apprestate ai beni culturali e paesaggistici, secondo le loro specifiche caratteristiche. Pertanto, ove si tratti appunto di un bene paesaggistico, tenuto conto dell’obbligo di rispettare le convenzioni internazionali in materia di conservazione e valorizzazione del paesaggio (art. 132, rubricato «Convenzioni internazionali»), essi possono, a seconda dei casi, essere oggetto di apposizione di vincolo in sede provvedimentale, rientrare già nelle aree tutelate ex lege, ovvero essere salvaguardati con la pianificazione paesaggistica. Tale sembra essere l’indicazione residuale, ma propulsiva, riveniente dall’art. 135, comma 4, che stabilisce che «Per ciascun ambito i piani paesaggistici definiscono apposite prescrizioni e previsioni ordinate», tra l’altro, «alla individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio, in funzione della loro compatibilità con i diversi valori paesaggistici riconosciuti e tutelati, con particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO».
- L’evidenziato difetto di coordinamento fra norme statali conseguito alla rimarcata preoccupazione del legislatore di mantenere possibilità di intervento che evitino che la tutela indiscriminata della concorrenza si risolva in un generalizzato decadimento del tessuto urbano di pregio, ovvero della sua vivibilità (la “sicurezza” in accezione moderna), non giustifica un analogo difetto di coordinamento tra organi statali e regionali, nonché, a maggior ragione, tra distinti uffici della stessa amministrazione. La rete di rimedi che possono essere messi in campo, che spaziano dalle misure ministeriali di tutela indiretta (art. 45 del d.lgs. n. 42/2004), alle regole imposte nei più disparati atti di governo del territorio, attengano essi all’urbanistica-edilizia, ovvero al tessuto commerciale, ovvero alla polizia urbana lato sensu intesa, devono convergere nella stessa direzione, e non porsi in irrimediabile contrasto. È infatti impensabile rimettere al singolo la corretta esegesi del rapporto di gerarchia o di competenza funzionale fra norme distinte afferenti la medesima materia, a maggior ragione laddove la lettura proposta da un ufficio diverga totalmente da quella propugnata ed esplicita da un altro. Quale che sia lo o gli strumenti che il Comune sceglie di adottare, elementari esigenze di certezza del diritto, oltre che di correttezza e buona fede tra le parti, i relativi contenuti devono essere tra di loro armonici comprensibili. Il che non è accaduto nel caso di specie, giusta l’obiettivo contrasto tra obbligo di apposizione delle pedane a corredo di un’occupazione di suolo pubblico su viabilità locale, propugnato a fini di tutela ambientale, e divieto di collocazione delle stesse per pretese esigenze di sicurezza viabilistica. Di tal che non è chiaro ancora oggi quale sia il regime giuridico delle stesse nell’area UNESCO del centro storico.
- […], 41 […].
- 42. Il delicato rapporto tra protezione dell’ambiente cittadino con caratteri di rilevanza storico, artistica, culturale ed ambientale e la disciplina della libertà di iniziativa economica, che ha portato da sempre a riconoscere uno specifico potere della p.a. di individuare su base territoriale ambiti e forme di protezione dell’ambiente urbano che si sostanzino in una interdizione – qualitativa o quantitativa – allo svolgimento di attività commerciali alle condizioni di legge (sul punto, v. Stato, sez. V, 17 luglio 2014, n. 3802) non può dunque risolversi, in assenza di una chiara indicazione regolatoria in tal senso, nella sostanziale neutralizzazione delle scelte effettuate in tema di arredo urbano commerciale. Le indicazioni del c.d. catalogo, dunque, in quanto frutto di apposito tavolo tecnico condiviso con l’amministrazione statale, non possono non innestarsi nelle pianificazioni commerciali, seppure ciò non sia avvenuto formalmente con il coinvolgimento dell’organo consiliare, ovvero trovare applicazione laddove neppure sia stata chiarita l’esatta cornice regolatoria di riferimento. Di ciò è perfettamente consapevole la difesa civica che pur rivendicando l’operatività della disposizione limitativa sulla COSAP, non afferma mai che quella di senso diametralmente opposto riveniente dalla delibera di Giunta del 2015 non trova applicazione, sì da dover essere considerata tamquam non esset e come tale disapplicata non limitatamente all’area UNESCO ma sull’ intero territorio comunale.
- Per tutto quanto sopra detto l’appello deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza del T.a.r. per il Lazio n. 6876 del 2020, deve essere accolto il ricorso di primo grado.
- La complessità e la parziale novità della materia trattata giustifica la compensazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.