Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, ordinanza 5 settembre 2024, n. 23874
PRINCIPIO DI DIRITTO
Le Sezioni Unite Civili, visti gli artt. 134 Cost. e 23 della L. 11 marzo 1953, n. 87, hanno dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 4, 32, 35, 11, 117 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604 nella parte in cui, nel prevedere che « Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’ essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale…», fa decorrere, anche nei casi di incolpevole incapacità naturale del lavoratore licenziato, processualmente accertata e conseguente alle sue condizioni di salute, il termine di decadenza dalla ricezione dell’atto anziché dalla data di cessazione dello stato di incapacità.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
- Con il primo motivo la ricorrente denuncia ex art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. «violazione e falsa applicazione degli artt. 1334 e 1335 c.c. in relazione alla decorrenza del termine di decadenza previsto dall’art. 6 della L. n. 604/66 s.m.i.».
Premette, in punto di fatto, che a causa di delicate e personalissime problematiche di natura familiare, era stata affetta, nel periodo estate 2015/maggio 2016, da grave crisi depressiva con dissociazione dalla realtà ed aveva riacquistato la pienezza delle facoltà cognitive e volitive solo all’esito del trattamento sanitario obbligatorio, disposto su sollecitazione del centro di salute mentale dell’Ospedale Ingrassia di Palermo.
Aggiunge che lo stato di assoluta incapacità di intendere e di volere era stato provato attraverso la produzione degli atti inerenti al giudizio promosso dall’ex compagno per l’affidamento esclusivo del figlio minore della coppia, ed in particolare della consulenza tecnica redatta in quella sede e della documentazione alla stessa allegata.
Le conclusioni alle quali il CTU era pervenuto in quel giudizio erano state confermate anche dall’ausiliare nominato dal Tribunale nella prima fase del giudizio di impugnazione del licenziamento, che aveva accertato la condizione di incapacità di intendere e di volere per l’intero periodo sopra indicato ed aveva evidenziato che il disturbo psicotico breve con stato paranoide aveva impedito «la formazione di una volontà cosciente, in particolare nel comprendere e contrastare adeguatamente il grave pregiudizio che le derivava dai comportamenti omissivi attuati nei confronti del lavoro».
Deduce la ricorrente che l’art. 1335 cod. civ. prevede una presunzione di tipo relativo, superabile dal destinatario che provi di non avere avuto notizia dell’atto senza sua colpa, e rileva che, poiché il «prendere notizia» equivale a conoscenza, non può essere ritenuta irrilevante, ai fini del superamento della presunzione, l’incapacità naturale determinata da problemi psichici, e più in generale da condizioni di salute, del destinatario dell’atto.
Rappresenta che il principio dell’affidamento, posto a tutela di interessi di natura economica rilevanti ex art. 41 Cost., non può spingersi fino ad annullare altri diritti fondamentali, quali sono il diritto alla salute ed il diritto di difesa nonché, nella materia lavoristica, il diritto al lavoro.
Deduce, anche richiamando il percorso argomentativo seguito da Cass. 23 maggio 2018 n. 12658, che occorre distinguere l’ipotesi in cui dalla consegna dell’atto recettizio non decorra alcun termine per il destinatario, da quella in cui la ricezione costituisce il dies a quo per il calcolo di un termine di decadenza, il cui inutile spirare arrecherebbe un pregiudizio all’incapace naturale. In detta ipotesi, infatti, il principio dell’affidamento e della certezza dei rapporti giuridici deve essere bilanciato con la tutela degli altri diritti fondamentali sopra richiamati.
- La seconda critica, ricondotta al vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., addebita alla Corte distrettuale l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ravvisato nel mancato apprezzamento della espletata consulenza tecnica d’ufficio medico legale.
Sostiene la ricorrente che le erronee considerazioni espresse nella sentenza qui impugnata derivano dall’omessa valutazione delle conclusioni rassegnate dall’ausiliare, alla luce delle quali andava esclusa l’applicabilità alla fattispecie del principio di diritto enunciato da Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2007 n. 5545, perché in quel caso il giudice di legittimità aveva evidenziato che la lavoratrice non aveva assolto all’onere della prova sulla stessa gravante e aveva omesso di allegare e provare di essere stata senza sua colpa impossibilitata a conoscere il contenuto della lettera di licenziamento.
Rileva, infine, che i giudici del merito, ritenendo maturata la decadenza dalla impugnazione, non hanno pronunciato sulla legittimità della sanzione espulsiva, che andava esclusa perché il C.C.N.L. di categoria, nel prevedere che l’assenza deve essere giustificata dal lavoratore entro i due giorni successivi, fa «salvi i casi di comprovato impedimento», da ravvisare nella fattispecie, in quanto anche l’assenza e l’omessa giustificazione dipendevano dall’incapacità naturale della lavoratrice la quale, come accertato dalla consulenza medico-legale, non era, all’epoca, in grado di comprendere il disvalore del comportamento tenuto, di astratto rilievo disciplinare.
- L’ordinanza interlocutoria sottopone al vaglio di queste Sezioni Unite la questione, rilevante ai fini della decisione del primo motivo di ricorso, così testualmente sintetizzata: «se uno stato di incapacità naturale, processualmente dimostrato e non contestato, sussistente nel momento in cui l’atto sia giunto all’indirizzo, rilevi ai fini del superamento, da parte del destinatario, della presunzione di conoscenza ex art. 1335 cc in quanto incidente sulla possibilità di averne notizia, senza sua colpa».
Premette che non è contestato nella fattispecie che la comunicazione del licenziamento fosse a suo tempo pervenuta all’indirizzo della destinataria, la quale non aveva mai negato di avere ricevuto l’atto.
Richiama, poi, l’orientamento consolidato espresso dalla Sezione Lavoro la quale, da tempo risalente, dopo avere ribadito la natura decadenziale del termine fissato dall’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604 nonché la conseguente inapplicabilità allo stesso della disciplina dettata in tema di interruzione e sospensione della prescrizione, ha escluso che il maturare della decadenza possa essere impedito valorizzando lo stato di incapacità naturale del lavoratore licenziato, atteso che l’art. 1335 cod. civ., dettato dal legislatore per garantire la certezza dei rapporti giuridici, non assegna alcun rilievo alle condizioni soggettive del destinatario, con la conseguenza che la presunzione opera indipendentemente dalla capacità dello stesso di apprezzare il contenuto ed il valore dell’atto ricevuto e di determinarsi di conseguenza ( Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2007 n. 5545; Cass. Sez. Lav. 1° dicembre 1989 n. 5279; Cass. Sez. Lav. 2 marzo 1987 n. 2197; Cass. Sez. Lav. 15 giugno 1985 n. 3612; Cass. Sez. Lav. 25 ottobre 1982 n. 5563).
Aggiunge che altre pronunce, egualmente risalenti nel tempo, hanno affermato che il termine perentorio decorre dal momento in cui la dichiarazione perviene all’indirizzo del lavoratore, fatta salva la dimostrazione, da parte di quest’ultimo, di essere stato impossibilitato, senza sua colpa, ad avere conoscenza della lettera di licenziamento (Cass. Sez. Lav. 23 aprile 1992 n. 4878; Cass. Sez. Lav. 2 luglio 1988 n. 4394; Cass. Sez. Lav. 10 gennaio 1984 n. 197).
Quanto all’interpretazione dell’art. 428 cod. civ., che secondo la giurisprudenza sopra richiamata sarebbe applicabile ai soli atti unilaterali posti in essere dall’incapace e ai contratti dallo stesso conclusi, l’ordinanza rileva che una più recente pronuncia della Corte (Cass. Sez. 6-3 26 maggio 2018 n. 12658) sembra paventare la possibilità che, qualora dalla comunicazione di un atto inizi a decorrere un termine il cui inutile spirare potrebbe arrecare un pregiudizio al destinatario, l’incapacità di quest’ultimo dovrebbe trovare tutela nella disposizione sopra citata, in un’ottica di equiparazione dell’atto commissivo dell’incapace a quello omissivo pregiudizievole per lo stesso.
Aggiunge ancora l’ordinanza che in relazione all’efficacia degli atti recettizi, a fronte della contrapposizione fra la teoria della cognizione, secondo la quale occorre che sia dimostrata l’effettiva conoscenza da parte del destinatario del contenuto dell’atto, e quella della spedizione, che ritiene sufficiente la comunicazione dell’atto medesimo, il legislatore ha adottato il criterio della ricezione, valorizzando la sola consegna dell’atto al domicilio del destinatario, ma temperando la regola con il consentire che quest’ultimo possa provare di essersi trovato, senza sua colpa, nella impossibilità di prendere conoscenza dell’atto medesimo.
Al riguardo il Collegio rimettente evidenzia che, se è vero che la presunzione non può essere superata valorizzando lo stato soggettivo di ignoranza del destinatario qualora questo non dipenda da fattori esterni oggettivamente idonei ad impedire la conoscenza, tuttavia nei casi di incolpevole incapacità naturale non può essere esclusa a priori una diversa lettura delle norme, che operi un bilanciamento tra il legittimo affidamento dei contraenti nello svolgimento dei rapporti negoziali e il diritto alla salute, specie se l’applicazione rigida della presunzione di conoscenza finisca per mortificare i diritti garantiti dagli artt. 24 e 25 Cost.
L’ordinanza interlocutoria, quindi, sollecita una rimeditazione da parte delle Sezioni Unite dell’orientamento espresso, da condurre in un’ottica di salvaguardia dei diritti del destinatario dell’atto, ove vengano in rilievo, da un lato, il principio della certezza dei rapporti giuridici, dall’altro il diritto alla salute, il diritto di difesa e, nella materia lavoristica, il diritto al lavoro.
- L’Ufficio della Procura Generale, nell’illustrare le ragioni delle conclusioni rassegnate nel senso del rigetto del ricorso, osserva in premessa che la questione posta è di ampio respiro, perché il principio di diritto da affermare, che nella specie si pone in relazione al termine di decadenza di cui all’art. 6 della legge n. 604 del 1966, è destinato ad operare in tutti i casi in cui al lavoratore è imposto l’onere di impugnare entro un dato termine l’atto datoriale ( è citato al riguardo l’art. 32 della legge n. 183 del 2010) nonché in ogni ipotesi in cui viene in rilievo un atto ricettizio.
Ricorda le ragioni sistematiche che stanno alla base della disciplina dettata dal legislatore con riferimento agli istituti in discussione (incapacità naturale – art. 428 cod. civ. -; presunzione di conoscenza – art. 1335 cod. civ. -; inapplicabilità alla decadenza delle cause di interruzione e sospensione della prescrizione – art. 2964 cod. civ.) e sottolinea che il legislatore ha inteso assicurare la certezza dei rapporti giuridici, da un lato equiparando la «conoscenza» alla «astratta conoscibilità», dall’altro rendendo quest’ultima oggetto di presunzione iuris tantum con l’effetto di esonerare il dichiarante dalla prova, difficile se non impossibile, della conoscenza soggettiva dell’atto da parte del destinatario.
La conoscenza di cui all’art. 1335 cod. civ. è dunque una conoscenza di tipo legale e non naturalistico, con la conseguenza che la stessa può essere esclusa solo in presenza di un «impedimento oggettivo» che non consenta la «conoscibilità». Analogamente alla tutela dell’affidamento è ispirata la disciplina degli atti posti in essere dall’incapace naturale e della decadenza, che non assegna alcun rilievo allo stato di incapacità naturale del soggetto che deve esercitare il diritto.
Evidenzia che la diversa lettura suggerita dalla ordinanza interlocutoria finirebbe per contrastare l’operatività dell’istituto della decadenza e con essa la sua ratio, che è quella di garantire la sicurezza e la certezza dei traffici giuridici, oltre che creare significativi problemi di ordine pratico, legati alla necessità di acquisire processualmente la prova, non solo dello stato di incapacità naturale, ma anche, con assoluta esattezza, del momento in cui lo stesso è insorto, posto che nessun rilievo potrebbe essere riconosciuto all’incapacità sopravvenuta alla ricezione della dichiarazione.
Rileva, in via conclusiva, che una interpretazione diversa da quella tradizionalmente data all’art. 1335 cod. civ., determinerebbe, non un bilanciamento tra interessi contrapposti, bensì il sacrificio integrale dell’autonomia negoziale e del legittimo affidamento del dichiarante, anch’essi tutelati dall’art. 41 Cost.
- Ritengono le Sezioni Unite che sia rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604, come riformulato dall’art. 32, comma 1, della legge 4 novembre 2010 n. 183, nella parte in cui, nel prevedere che « Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’ essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale,…», fa decorrere, anche nei casi di incolpevole incapacità naturale del lavoratore licenziato, processualmente accertata e conseguente alle sue condizioni di salute, il termine di decadenza dalla ricezione dell’atto anziché dalla data di cessazione dello stato di incapacità.
SULLA RILEVANZA
- Nello storico di lite si è evidenziato che la Corte d’appello di Palermo, condividendo le conclusioni alle quali il Tribunale era già pervenuto, ha rigettato il reclamo valorizzando unicamente la mancata impugnazione della sanzione nel termine di decadenza previsto dalla citata legge n. 604/1966, giacché nella fattispecie non poteva essere messa in dubbio la «ricezione» dell’atto, documentalmente provata dalla sottoscrizione dell’avviso di ricevimento della lettera raccomandata con la quale il licenziamento era stato intimato, lettera pervenuta al domicilio dell’ il 10 settembre 2015.
La Corte distrettuale, richiamando l’orientamento consolidato formatosi nella giurisprudenza della Sezione Lavoro di questa Corte a partire da Cass. Sez. Lav. 25 ottobre 1982 n. 5563, ha escluso in radice che potesse assumere rilievo, ai fini del decorso del termine di decadenza, l’incapacità naturale del ricevente l’atto e, pertanto, non ha esaminato né la documentazione depositata dalla ricorrente per dimostrare la momentanea incapacità di intendere e di volere né la consulenza tecnica disposta nella fase sommaria del rito ex art. 1 della legge n. 92/2012, dalla quale era emerso che, a partire dall’estate del 2015 e sino al maggio 2016, l’ «non era in condizioni di intendere e di volere a causa di un episodio psicotico breve….che…non permise la formazione di una volontà cosciente, in particolare nel comprendere e contrastare adeguatamente il grave pregiudizio che ne derivava dai comportamenti omissivi attuati nei confronti del lavoro».
6.1. Poiché, dunque, la sentenza impugnata è fondata in via esclusiva sulla ritenuta applicabilità dell’art. 6 della legge n. 604/1966 e sulla maturazione del termine di decadenza, che il giudice del merito ha fatto decorrere dalla data di ricezione della lettera di licenziamento, così come previsto dalla disposizione normativa citata, e poiché il ricorso per cassazione censura l’esito al quale è pervenuta la Corte territoriale, sussiste il requisito richiesto dall’art. 23, comma 2, della legge 11 marzo 1953 n. 87, ossia l’effettivo e concreto rapporto di strumentalità fra la risoluzione della questione di legittimità costituzionale prospettata e la definizione del giudizio pendente dinanzi a questa Corte.
Difatti, nel rispetto dell’ordine logico e giuridico delle questioni imposto dall’art. 276 cod. proc. civ., la decisione sull’idoneità della documentazione prodotta e della consulenza tecnica a dimostrare l’effettiva sussistenza dello stato di incapacità naturale nonché l’apprezzamento di detto stato ai fini della valutazione della responsabilità disciplinare (secondo la prospettazione della ricorrente anche l’illecito disciplinare sarebbe stato commesso in assenza di imputabilità) saranno possibili solo se ed in quanto la disposizione oggetto del giudizio incidentale venga dichiarata incostituzionale nella parte in cui, ai fini dell’individuazione del dies a quo e della maturazione della decadenza, non assegna rilievo allo stato di incapacità naturale del ricevente l’atto.
SULLA NON MANIFESTA INFONDATEZZA
- Si è già anticipato nei punti che precedono e nello storico di lite che la motivazione della sentenza in questa sede impugnata è fondata sulla ritenuta condivisione da parte della Corte territoriale dell’orientamento consolidato espresso dalla Sezione Lavoro di questa Corte secondo cui «il termine di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione dell’atto di licenziamento, che la L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, fissa per l’impugnazione del licenziamento stesso da parte del lavoratore, è dichiaratamente ed inequivocabilmente un termine di decadenza e come tale, insuscettibile, a norma dell’art. 2964 c.c., sia di interruzione sia, in mancanza di disposizione contraria, di sospensione, senza che a termini dell’art. 1335 c.c., possano rilevare le condizioni soggettive del destinatario, ed in specie la sua capacità di intendere e di volere, salva la tutela nei limiti dell’art. 428 c.c..
Peraltro la validità o l’efficacia degli atti recettizi (fra i quali rientra il licenziamento) prescinde dall’eventuale stato di incapacità naturale del soggetto cui sono rivolti, atteso che la disciplina di tali atti – in ordine ai quali il legislatore si è dato cura di dettare regole (art. 1335 cit.) che consentono di stabilire la certezza giuridica della loro conoscenza da parte dei destinatari indipendentemente dalla capacità degli stessi di apprezzarne il valore e di determinarsi in conseguenza – è informata al principio dell’affidamento e che l’art. 428 c.c. prevede l’annullabilità soltanto degli atti unilaterali posti in essere dallo stesso incapace naturale (v. Cass. 18.1.1979 n. 352; Cass. 25.10.1982 n. 5563; Cass.15.6.1985 n. 3612; Cass. 2.3.1987 n. 2197; Cass. 1.12.1989 n. 5279).» ( Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2007 n. 5545).
Si tratta, dunque, di un orientamento che, da un lato, valorizza il chiaro tenore letterale dell’art. 6 della citata legge n. 604/1966, sia in relazione alla qualificazione del termine sia con riferimento alla individuazione del dies a quo, fatto coincidere con la ricezione dell’atto e non con il momento in cui dell’atto stesso il lavoratore abbia avuto effettiva conoscenza; dall’altro richiama la disciplina generale dell’incapacità naturale nonché il principio della conoscenza legale, fissato per tutti gli atti recettizi dall’art. 1335 cod. civ., principio con il quale la norma lavoristica, nell’assegnare rilievo alla ricezione dell’atto, si armonizza.
- L’art. 1335 cod. civ. è stato costantemente interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte in sostanziale adesione alla teoria cosiddetta della ricezione, secondo cui rileva non la conoscenza in senso proprio, ma la conoscibilità dell’atto, ravvisata in conseguenza di una circostanza oggettivamente verificabile, qual è la consegna dell’atto al domicilio del destinatario, consegna dalla quale viene desunta quella che altrimenti, per i suoi connotati soggettivi ed individuali, sarebbe impossibile dimostrare, ossia l’avvenuta conoscenza della dichiarazione altrui.
E’, dunque, la conoscibilità quella che rileva, che va misurata sempre su un piano oggettivo, e ciò costituisce il fondamento dell’orientamento, egualmente risalente nel tempo e mai smentito, secondo cui la prova contraria alla presunzione, che il destinatario deve offrire per vincere la stessa, si deve muovere anch’essa su un piano oggettivo e riguardare circostanze che attengano, non alle condizioni soggettive del ricevente, bensì a fattori esterni ed oggettivi che, in quanto attinenti al collegamento del soggetto con il luogo di consegna, siano idonei ad escludere la conoscenza nei termini intesi dal legislatore, ossia, sostanzialmente, la conoscibilità dell’atto.
La conoscenza legale di cui all’art. 1335 cod. civ. è, pertanto, la risultante di un’equivalenza giuridica (che in quanto tale non ammette prova contraria), perché il legislatore equipara alla conoscenza la conoscibilità, e di una presunzione iuris tantum, che fa derivare quest’ultima dalla consegna dell’atto al domicilio del destinatario, presunzione che può essere vinta dimostrando che, per fatti oggettivi ed incolpevoli, nonostante che l’atto sia pervenuto nel luogo di destinazione, lo stesso non sia entrato nella sfera di conoscibilità del destinatario.
Ed è significativo in tal senso lo stesso tenore letterale dell’art. 1335 cod. civ. che, appunto, nell’indicare quale debba essere la prova contraria che il destinatario della dichiarazione è tenuto a dare, fa riferimento alla «impossibilità di averne notizia» e non alla conoscenza effettiva del contenuto dell’atto né, tanto meno, alla sua comprensione.
8.1. L’orientamento espresso dalla Sezione Lavoro, del quale l’ordinanza di rimessione sollecita una rimeditazione, non può essere superato sulla base di una diversa lettura dell’art. 1335 cod. civ. che, facendo leva sugli artt. 24, 32 e 35 Cost., attribuisca rilievo allo stato di incapacità naturale del richiedente per inferirne il superamento della presunzione di conoscenza, ai fini del decorso del termine di decadenza per l’impugnazione del licenziamento.
La disposizione del codice, applicabile a tutti gli atti ricettizi, è posta a presidio della certezza dei rapporti giuridici ed esprime un preciso bilanciamento di interessi operato dal legislatore, inerente all’intero complesso delle relazioni obbligatorie e contrattuali, sicché non è predicabile una interpretazione costituzionalmente orientata che, varcando i confini letterali del testo, muova dalla considerazione solo di una determinata tipologia di atti (quelli recettizi dalla cui conoscenza decorre il termine per il compimento di un’attività) e di interessi che, seppure costituzionalmente rilevanti, vengono in rilievo nel rapporto di lavoro ma non in altre relazioni giuridiche e contrattuali, che da quella norma sono disciplinate.
Inoltre, il ritenere che lo stato di incapacità naturale sia idoneo ad impedire la conoscenza dell’atto, ai fini e per gli effetti previsti dall’art. 1335 cod. civ., finirebbe per aprire la strada alla rilevanza di situazioni meramente soggettive, minando alla radice il principio di affidamento e di certezza dei rapporti giuridici che è posto alla base della previsione normativa, e si risolverebbe, altresì, nella introduzione di una causa di sospensione della decadenza, in violazione della disciplina dettata dall’art. 2964 cod. civ. nonché dagli artt. 2941 e 2942 cod. civ. che, sia pure con riferimento alla prescrizione, non attribuiscono alcun rilievo all’incapacità naturale del soggetto tenuto al compimento dell’atto.
8.2. Escluso, quindi, che, in tema di impugnazione del licenziamento, si possa pervenire ad attribuire rilevanza all’incapacità naturale del lavoratore attraverso una rilettura dell’art. 1335 cod. civ., parimenti è da escludere che la tutela dell’incapace possa essere in tal caso assicurata dall’art. 428 cod. civ., che l’ordinanza interlocutoria ed il primo motivo di ricorso evocano attraverso il richiamo alla motivazione di Cass. Sez. 6-3 23 maggio 2018 n. 12658.
Quest’ultima disposizione, nel disciplinare l’azione di annullamento degli atti compiuti da persona incapace di intendere e di volere e nel distinguere, quanto alle condizioni che devono ricorrere, l’atto unilaterale dal contratto (richiedendo per l’atto unilaterale solo il grave pregiudizio per l’autore, per il contratto anche la malafede dell’altro contraente), non si presta ad essere estesa ai comportamenti omissivi, ossia all’inerzia dell’incapace che, in ragione dell’incapacità, non agisca a tutela dei propri diritti.
Anche in tal caso, quindi, ostano all’interpretazione costituzionalmente orientata, che l’ordinanza di rimessione invoca, il chiaro tenore letterale della norma e le medesime ragioni già evidenziate nel punto che precede.
- La riflessione deve, allora, rimanere circoscritta alla disposizione che il termine di decadenza qui rilevante prevede, ossia all’art. 6 della legge n. 604/1966 che, come già anticipato, al primo comma impone al lavoratore di rendere nota al datore, con atto scritto ed entro il termine di decadenza di sessanta giorni decorrenti dalla ricezione della comunicazione del recesso, la volontà di impugnare il licenziamento.
Inoltre, nel testo riformulato dall’art. 32, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183 e successivamente modificato dall’art. 1, comma 38, della legge 28 giugno 2012, n. 92, attualmente vigente, la disposizione prescrive che l’impugnazione stragiudiziale diviene inefficace se non seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.
Si tratta, dunque, di una disciplina che, derogando a quella generale delle azioni di nullità e di annullamento degli atti negoziali, persegue l’obiettivo, ritenuto dal legislatore meritevole di tutela, di far emergere in tempi brevi il contenzioso sull’atto datoriale (Corte Cost. n. 14 ottobre 2020 n. 212).
9.1. Va detto subito che il tenore letterale della disposizione in commento, assolutamente chiaro nel far decorrere il termine per l’impugnazione dalla «ricezione» della comunicazione del licenziamento e, quindi, dalla conoscenza legale di cui all’art. 1335 cod. civ., non consente di percorrere utilmente la strada, invocata dalla ricorrente e suggerita dall’ordinanza interlocutoria, della interpretazione adeguatrice, innanzitutto perché «l’univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale» ( Corte Cost. 26 novembre 2020 n. 253), ed inoltre valgono al riguardo le considerazioni già svolte al punto 8.1. quanto alle conseguenze, sul piano dei principi, di una lettura che, per superare la presunzione di conoscenza, valorizzi situazioni meramente soggettive.
9.2. Nell’interpretare, ad altri fini, la disposizione in parola, queste Sezioni Unite hanno evidenziato che l’esigenza di assicurare la certezza delle situazioni giuridiche non è estranea al rapporto di lavoro subordinato ed infatti «l’imposizione al lavoratore del breve termine di decadenza entro cui l’impugnazione del licenziamento deve essere formulata esprime l’esigenza di contemperare il diritto del prestatore all’eliminazione delle conseguenze dell’illegittimo recesso datoriale con l’interesse del datore di lavoro alla continuità e stabilità della gestione dell’impresa ma è da notare che siffatta esigenza è soddisfatta subordinando la tutela del lavoratore alla circostanza che questi tempestivamente si attivi, sì che in mancanza di pronta iniziativa del prestatore il diritto di questo alla legittimità degli atti datoriali di gestione recede a fronte della stabilizzazione delle conseguenze del licenziamento.».
Hanno, però, significativamente aggiunto che «tale eventuale conseguenza non discende tuttavia dal consolidarsi degli effetti del licenziamento illegittimo in ragione della tutela dell’affidamento del datore di lavoro sul protrarsi dello stato di fatto che trae origine dal licenziamento, bensì deriva dall’esito negativo del vaglio di concreta meritevolezza dell’interesse del lavoratore, che non abbia tempestivamente dato impulso agli strumenti che l’ordinamento gli appresta al fine di impugnare e caducare un atto di gestione dell’impresa, quale il licenziamento, che sia stato posto in essere in carenza dei relativi presupposti di legittimità. » (Cass. S.U. 14 aprile 2010 n. 8830).
Sulla base di detto presupposto, nonché del rilievo dato alla necessità di assicurare in relazione al licenziamento «un equo e ragionevole equilibrio degli interessi coinvolti» fra la previsione del termine breve di decadenza (teso a garantire il consolidamento delle situazioni giuridiche) ed il diritto del prestatore «a conservare il posto di lavoro e a mantenere un’esistenza libera e dignitosa (artt. 4 e 36 Cost.)», le Sezioni Unite sono pervenute ad estendere all’atto di impugnazione stragiudiziale del licenziamento il principio della scissione degli effetti processuali, che, invece, più in generale ed in relazione ai termini di prescrizione nonché ad altri termini di decadenza, si è ritenuto operante solo in materia processuale ( Cass. S.U. 9 dicembre 2015 n. 24822).
9.3. La motivazione della pronuncia citata, seppure relativa ad altra questione controversa che in quel caso veniva in rilievo, è utile per sottolineare la particolare natura degli interessi contrapposti che vengono in rilievo rispetto all’impugnazione del licenziamento, che trascendono quelli dei quali sono portatori nella normalità del diritto dei contratti i contraenti, perché il recesso nel contratto di lavoro incide su diritti fondamentali della persona, più volte evidenziati dalla giurisprudenza costituzionale secondo cui «L’affermazione sempre più netta del «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.), affiancata alla «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.), si sostanzia nel riconoscere, tra l’altro, che i limiti posti al potere di recesso del datore di lavoro correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro.
Il forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata – qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele.» (Corte Cost. 8 novembre 2018 n.194)».
In altri termini « l’esercizio arbitrario del potere di licenziamento….lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore» ( Corte Cost. 24 febbraio 2021 n.59).
9.4. È costante l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale secondo cui «sebbene in materia di conformazione degli istituti processuali il legislatore goda di ampia discrezionalità, e il controllo di costituzionalità debba limitarsi a riscontrare se sia stato o meno superato il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, nel relativo sindacato deve essere verificato che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale.
Tale giudizio deve svolgersi proprio attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti (ex plurimis, sentenze n. 71 del 2015, n. 17 del 2011, n. 229 e n. 50 del 2010, n. 221 del 2008 e n. 1130 del 1988; ordinanza n. 141 del 2001). » (Corte Cost. 4 ottobre 2020 n. 212).
9.5. È alla luce dei richiamati principi che queste Sezioni Unite dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge n. 604/1966 nella parte in cui, facendo decorrere in ogni caso il termine di decadenza dalla data di ricezione della comunicazione del licenziamento, preclude l’azione al lavoratore licenziato che, in ragione dell’incolpevole stato di incapacità di intendere e di volere derivato da patologia fisica o psichica, non si sia attivato nel termine di legge e l’abbia fatto, una volta recuperata la piena capacità, tempestivamente rispetto a detto successivo momento temporale.
In siffatta ipotesi, che è quella prospettata nella fattispecie (nella quale lo stato di incapacità naturale derivante da patologia psichica era stato documentato dalla ricorrente ed avvalorato dalla consulenza tecnica d’ufficio disposta nella fase sommaria del giudizio di primo grado), l’operatività del termine di decadenza finisce per valorizzare unicamente l’interesse della parte datoriale al consolidamento degli effetti dell’atto adottato e per comprimere oltre misura il diritto di azione del lavoratore, riferito al diritto al lavoro, che la Carta Costituzionale espressamente tutela agli artt. 24, comma 1, 4, comma 1, e 35, comma 1.
La scelta espressa dal legislatore di non riconoscere meritevole di tutela il lavoratore licenziato che non si attivi tempestivamente, pur a fronte di un atto che coinvolge fortemente la qualità della vita propria e familiare, si appalesa irragionevole quando è riferita anche all’incapace che non abbia impugnato il recesso per l’assoluta incolpevole incapacità di comprendere e di autodeterminarsi.
Non operando in tal caso alcun bilanciamento, la previsione normativa si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo della ragionevolezza, sia con riferimento al principio di eguaglianza, non potendo la situazione dell’incapace essere equiparata a quella del soggetto che tale non è.
9.6. L’omessa considerazione dello stato di incapacità naturale derivante da malattia ai fini della individuazione del dies a quo del termine di decadenza, si pone, inoltre, in contrasto con la tutela della salute garantita dall’art. 32, comma 1, Cost. nonché, nei casi in cui la menomazione, seppure non permanente, sia duratura (nei termini precisati da Corte di Giustizia 1° dicembre 2016, Mohamed Daouidi, in causa c- 395/15) con gli artt. 117 e 11 Cost., perché si risolve in una discriminazione in danno della persona disabile, in violazione degli obblighi imposti dalla Convenzione O.N.U del 13 dicembre 2006, ratificata con legge 3 marzo 2009 n. 18, e dalla Direttiva 2000/78/CE, che impongono, fra l’altro, di assicurare al disabile l’esercizio dei propri diritti (art. 27, lett. c, della Convenzione) e di adottare misure adeguate per ovviare agli svantaggi provocati dalla applicazione di una disposizione che, seppure apparentemente neutra, determina una disparità con gli altri lavoratori.
- L’intervento additivo che si sollecita non appare a queste Sezioni Unite in sé incoerente con la disciplina generale dettata in tema di decadenza dall’art. 2964 cod. civ. perché la norma, pur escludendo che possano operare le cause di sospensione della prescrizione, fa salve disposizioni speciali, disposizioni che il legislatore, in effetti, ha dettato con riferimento a singole azioni (artt. 245, 489 cod. civ.), in considerazione della particolare natura del diritto al quale il termine di decadenza si riferisce e, quindi, per ragioni che, tenuto conto di quanto osservato al punto 9.2., possono essere ritenute ricorrenti anche in relazione all’impugnazione del licenziamento, ossia ad un atto che coinvolge direttamente la persona del lavoratore e pone in discussione interessi che trascendono quelli meramente economici rilevanti nei rapporti contrattuali di durata.
Nei casi sopra citati il legislatore ha ritenuto di dover attribuire rilievo allo stato di incapacità legale del titolare del diritto ed è significativo che, chiamata a pronunciare sull’art. 245 cod. civ., nel testo antecedente alla riformulazione operata dal d.lgs. 28 dicembre 2013 n. 154, la Corte Costituzionale abbia equiparato all’incapacità legale quella naturale derivante da grave infermità di mente, finché la stessa perduri (Corte Cost. 25 novembre 2011 n. 3229), sottolineando, peraltro, la necessità di offrire nel processo la prova rigorosa di detto stato e della sua durata.
Analoga precisazione può valere nella fattispecie, per escludere il rischio paventato dal Pubblico Ministero nelle sue conclusioni, sicché, ad avviso di queste Sezioni Unite, la questione, nei termini prospettati, non mina il principio della certezza dei rapporti giuridici, perché la diversa decorrenza del termine di impugnazione richiederà che nel processo la parte, oltre a dimostrare lo stato di assoluta incapacità di intendere e di volere sussistente al momento della ricezione della comunicazione del licenziamento, fornisca anche la prova della data in cui lo stesso è cessato.
- In via conclusiva, il Collegio ritiene non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 6 della legge n. 604/1966 nei termini sopra prospettati e, pertanto, dispone la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.