<p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Dire “</em>abuso<em>” equivale a dire “</em>uso oltre determinati limiti<em>”: ed il fatto che si sia (staticamente) titolari di un diritto soggettivo, e dunque di un interesse giuridicamente protetto, non può non recare seco la necessità che il dinamismo orientato alla soddisfazione del ridetto interesse si conformi, nei singoli casi di specie, ai circoscritti limiti entro i quali tale interesse può essere “</em>iure<em>” soddisfatto, qualsivoglia sconfinamento finendo con l’essere sanzionato dall’ordinamento in varia guisa, e dunque con atto “</em>abusivo<em>” nullo, annullabile, dannoso (e dunque capace di garantire tutela risarcitoria a chi lo subisce), inefficace, inopponibile; il tutto, nondimeno, sempre nello spettro del rapporto tra due o più soggetti, anche quando tutto sembra all’apparenza ruotare intorno ai limiti d’uso di determinati beni, come nel classico caso dei c.d. atti emulativi.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1865</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 giugno viene varato il R.D. n.2358, codice liberale Codacci Pisanelli, che conformemente alla tradizione romanistica e medioevale, non annovera una disposizione generale sul c.d. divieto di abuso del diritto. Non mancano però disposizioni particolari che richiamano il concetto di abuso, come nel caso dell’art.233, laddove si discorre di abuso della “<em>patria podestà</em>” da parte del genitore (che ne violi o ne trascuri i doveri, ovvero comunque che male amministri le sostanze del figlio); o dell’art. 516, onde l’usufrutto può “<em>anche cessare per l’abuso che faccia l’usufruttuario del suo diritto, o alienando i beni, o deteriorandoli, o lasciandoli andare in perimento per mancanza di ordinarie riparazioni</em>”, fattispecie particolarmente significativa perché fa riferimento per l’appunto ad un uso smodato di quello che dovrebbe invece essere un diritto di “<em>uso</em>” con ritrazione dei frutti (“<em>usufrutto</em>”) entro determinati e precisi limiti. La stessa proprietà viene assunta dall’art.436 quale diritto di godere e disporre delle cose “<em>nella maniera più assoluta</em>”, purché tuttavia “<em>non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti</em>”. Non si rinviene nel codice, all’opposto, veruna disposizione in tema di “<em>aemulatio</em>” e di c.d. atti emulativi imputabili al proprietario, stante la natura assoluta e quasi “<em>personale</em>” del diritto di proprietà che – sulla scorta della codificazione napoleonica – se può incontrare limiti di natura pubblicistica, non può invece essere in alcun modo compresso con la finalità di tutelare interessi di altri privati; non manca tuttavia, negli anni di vigenza del codice, un orientamento dottrinale inteso a “<em>funzionalizzare</em>” l’esercizio del diritto di proprietà sulla scorta del più generale principio di buona fede, dalla cui violazione può scaturire anche per il proprietario (che goda del proprio bene in modo “<em>emulativo</em>”) una forma di abuso del diritto dominicale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1900</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 gennaio entra in vigore il c.d. BGB, codice civile tedesco, che – oltre a prevedere al § 242 l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nell’esecuzione della prestazione – stabilisce al § 262 un generale divieto degli atti emulativi riconoscibile in capo al titolare di un diritto soggettivo (anche non dominicale), onde l’esercizio di tale diritto è sempre inammissibile se può avere il solo scopo di provocare danno ad altri. Si tratta di una norma generale sul divieto di abuso del diritto che influenzerà molte delle legislazioni codicistiche successive (ma non anche quella italiana).</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1907</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 10 dicembre viene varato il codice civile svizzero, secondo il cui art.2 da un lato ognuno è tenuto ad agire secondo la buona fede così nell’esercizio dei propri diritti come nell’adempimento dei propri obblighi (comma 1); dall’altro il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge (comma 2), onde all’obbligo della correttezza viene esplicitamente affiancato un divieto – ancora una volta generalizzato, a guisa di principio - di manifestamente abusare del proprio diritto.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1940</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 ottobre viene varato il R.D. n.1443, nuovo codice di procedura civile, secondo il cui importantissimo art.88 le <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3566.html">parti</a> e i loro <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3676.html">difensori</a> hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, in caso di mancanza (in particolare) dei difensori a tale dovere il giudice dovendo riferirne alle autorità che esercitano il potere disciplinare su di essi. In tema poi di “<em>frazionamento</em>” del diritto (e dell’azione), stando all’art.277 il <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3865.html">collegio</a> giudicante, nel deliberare sul <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3670.html">merito</a>, deve decidere tutte le <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3724.html">domande</a> proposte e le relative <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3661.html">eccezioni</a>, definendo il giudizio (comma 1) e tuttavia, anche quando il <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3799.html">giudice istruttore</a> gli ha rimesso la causa a norma dell'articolo <a href="https://www.brocardi.it/codice-di-procedura-civile/libro-secondo/titolo-i/capo-ii/sezione-ii/art187.html">187</a> primo comma, il collegio medesimo può limitare la decisione ad alcune domande, se riconosce che per esse soltanto non sia necessaria una ulteriore istruzione, e se la loro sollecita definizione è di interesse apprezzabile per la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3566.html">parte</a> che ne ha fatto istanza (comma 2); il successivo art.278 afferma che quando è già accertata la sussistenza di un diritto , ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3865.html">collegio</a>, su istanza di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3566.html">parte</a> , può limitarsi a pronunciare con <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3759.html">sentenza</a> la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3868.html">condanna generica</a> alla prestazione, disponendo con <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3763.html">ordinanza</a> che il processo prosegua per la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2424.html">liquidazione</a> (comma 1); in tal caso il collegio, con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte, può altresì condannare il debitore al pagamento di una <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/5924.html">provvisionale</a>, nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3744.html">prova</a> (comma 2).</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1942</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo viene varato il R.D. n.267, nuovo codice civile (entrato in vigore il 21 aprile), secondo il cui art.832 il proprietario ha <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1141.html">diritto di godere</a> e <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1142.html">disporre</a> delle cose in modo pieno ed esclusivo, e tuttavia – significativamente - entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico. Stando poi al successivo art.833, norma icona del c.d. abuso del diritto e rubricato “<em>atti di emulazione</em>”, il proprietario non può fare <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1143.html">atti</a> i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri e che siano, pertanto, disfunzionali rispetto alla soddisfazione dell’interesse del proprietario medesimo, sotteso al proprio dominio quale diritto soggettivo. Sul versante obbligatorio, fondamentale poi l’art.1175 alla cui stregua tanto il debitore quanto il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza: si tratta della norma sulla c.d. buona fede oggettiva, che impone ai protagonisti del rapporto obbligatorio di atteggiarsi in modo reciprocamente corretto e, dunque, senza abusare del proprio diritto; un esempio di tale abuso si rinviene nell’art.1206 e seguenti in tema di c.d. <em>mora credendi</em>, onde il creditore (titolare del pertinente diritto soggettivo) è in mora quando, senza motivo legittimo, non riceve il pagamento offertogli nei modi indicati dagli articoli seguenti o non compie quanto è necessario affinché il debitore possa <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1532.html">adempiere l'obbligazione</a>. Manca invece nel codice un principio generale di “<em>divieto di abuso del diritto</em>”, che pure era previsto nel progetto di codice italo-francese delle obbligazioni (secondo il cui art.74 veniva dichiarato tenuto al risarcimento del danno colui che avesse appunto cagionato danno ad altri “<em>eccedendo nell’esercizio del proprio diritto i limiti posti dalla buona fede e dallo scopo per il quale il diritto gli fu riconosciuto</em>”) e nel progetto definitivo dello stesso codice civile (stando al cui art.7 – che avrebbe dovuto essere inserito nel Libro I del codice con valenza dunque tutt’affatto generale - “<em>nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto gli fu riconosciuto</em>”) con norme entrambe imperniantisi sul tradimento dello scopo per il quale il diritto è stato (staticamente) riconosciuto, giusta relativo (dinamico) esercizio disfunzionale rispetto a tale scopo. Le ragioni per le quali tali norme non vengono recepite nel testo definitivo del codice civile risiedono fondamentalmente nella presenza (e presunta autosufficienza all’uopo) di altri principi generali, come quello della buona fede; nella necessità di preservare la certezza del diritto, a rischio di compromissione dinanzi a formule eccessivamente elastiche come quella, per l’appunto, del “<em>divieto di abuso del diritto</em>”; nella riconduzione di tale abuso – fedelmente ad una tradizione storica che risale al tardo diritto romano – ad una forma di riprovevolezza morale assai più che giuridica, secondo la concezione preponderante nell’epoca in cui il codice viene elaborato ed alfine varato. Altre norme del codice civile lambiscono, o financo investono, il concetto di abuso: l’art.330 secondo il quale il tribunale può pronunziare la decadenza dalla patria potestà quando il genitore viola o trascura con grave pregiudizio del figlio i doveri ad essa inerenti; l’art.1015, onde l'usufrutto può (anche) cessare per l'abuso che faccia l'usufruttuario del proprio diritto alienando i beni o deteriorandoli o lasciandoli andare in perimento per mancanza di ordinarie riparazioni, l'autorità giudiziaria potendo, secondo le circostanze, ordinare che l'usufruttuario abusivo dia garanzia, qualora ne sia esente, o che i beni siano locati o posti sotto amministrazione a spese di lui, o anche dati in possesso al proprietario con l'obbligo di pagare annualmente all'usufruttuario, durante l'usufrutto, una somma determinata (mentre i creditori dell'usufruttuario possono intervenire nel giudizio per conservare le loro ragioni, offrire il risarcimento dei danni e dare garanzia per l'avvenire); l’art.1059, comma 2, alla cui stregua la concessione della servitù fatta da uno dei comproprietari, indipendentemente dagli altri, obbliga il concedente e i suoi eredi o aventi causa a non porre impedimento all'esercizio del diritto concesso; l’art.1438, onde la minaccia di far valere un diritto può essere causa di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1780.html">annullamento</a> del contratto (solo) quando è diretta a conseguire vantaggi ingiusti; l’art.1993, comma 2, onde il debitore cartolare può opporre al possessore del titolo di credito le eccezioni fondate sui rapporti personali con i precedenti possessori soltanto se, nell’acquistare il titolo, il possessore abbia agito intenzionalmente a danno del debitore medesimo; l’art.2598 c.c. alla cui stregua, ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente; diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente; si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3052.html">azienda</a>; l’art.2793, onde se il creditore pignoratizio abusa della cosa data in pegno, il costituente può domandarne il sequestro. Su altro versante, interessante anche l’art.1181 alla cui stregua il creditore (salvo che la legge o gli <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4265.html">usi</a> dispongano diversamente) può rifiutare un <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1541.html">adempimento parziale</a> anche se la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1542.html">prestazione è divisibile</a>, onde secondo una certa interpretazione egli può anche (oltre che accettare) pretendere “<em>parzialmente</em>” e, dunque, “<em>frazionatamente</em>”, la prestazione dal debitore. Alcune norme sono poi rilevanti in tema di c.d. <em>exceptio doli generalis</em>: si tratta dell’art.1190, alla cui stregua il pagamento fatto dal debitore al creditore <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/800.html">incapace</a> di riceverlo non libera il debitore medesimo, se questi non prova che ciò che fu pagato è stato rivolto a vantaggio dell'incapace; dell’art.1227, comma 2, alla cui stregua il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore, vittima di un inadempimento del debitore, avrebbe potuto evitare usando l'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1533.html">ordinaria diligenza</a>; dell’art.1264, comma 2, onde in tema di cessione del credito, anche prima della notificazione, il debitore ceduto che paga al cedente non è <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1630.html">liberato</a>, se il cessionario prova che il debitore medesimo era a conoscenza dell'avvenuta cessione; dell’art.1359, alla cui stregua la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1722.html">condizione</a> si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all'avveramento di essa; del già menzionato art.1438, onde la minaccia di far valere un diritto può essere causa di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1780.html">annullamento</a> del contratto solo quando è diretta a conseguire vantaggi ingiusti; dell’art.1460, comma 2, alla cui stregua, in tema di eccezione di inadempimento, non può rifiutarsi la esecuzione della prestazione da parte della parte contrattuale non inadempiente se, avuto riguardo alle circostanze, il relativo rifiuto è contrario alla buona fede. Ancora, di rilievo l’art.2362 alla cui stregua in caso d'insolvenza della società per azioni, per le obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui le azioni risultano essere appartenute ad una sola persona, quest’ultima risponde illimitatamente.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1946</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 23 febbraio entra in vigore il codice civile greco che, sulla scia di quello tedesco, prevede un generale divieto di abuso del diritto all’art.281.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">La Costituzione repubblicana offre precisi addentellati al divieto di abuso del diritto, a cominciare dal principio solidaristico scolpito all’art.2, secondo il quale è notoriamente richiesto l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale: una disposizione che consente di illuminare di luce nuova lo stesso principio di buona fede e correttezza già presente nel codice civile in particolare all’art.1175 c.c. (oltre che in altre disposizioni ad esso dedicate). Rilevante anche l’art.3, comma 2, laddove si richiama il compito della Repubblica, e dunque di tutti e di ciascuno, di rimuovere ostacoli sul cammino della libertà e dell’eguaglianza effettive, isolando così in termini di relativa “<em>contrarietà al sistema</em>” comportamenti che si sostanzino in abuso delle posizioni giuridiche riconosciute e garantite dal sistema. Sul crinale dei rapporti economici, fondamentale l’art.41, comma 1 e 2, alla cui stregua se da un lato l'iniziativa economica privata è libera, dall’altro essa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Ancora, stando all’art.42, comma 2, la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale (oltre che di renderla accessibile a tutti), così costituzionalizzando appunto quei “<em>limiti</em>” alla proprietà privata dal cui superamento discende, più o meno direttamente, una forma di c.d. abuso del diritto. Sul crinale tributario sono poi importanti gli articoli 23, in tema di riserva di legge (relativa) per le prestazioni (personali e) patrimoniali imposte, e l’art.53 che richiede a tutti la partecipazione alla spesa pubblica in ragione, ciascuno, della propria capacità contributiva.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1957</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 marzo viene firmato a Roma il Trattato istitutivo della CEE, secondo il cui art.86 è da assumersi incompatibile con il mercato comune e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo. Si tratta di pratiche abusive possono consistere in particolare: a) nell'imporre direttamente od indirettamente prezzi d'acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque, b) nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori; c) nell'applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza; d) nel subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l'oggetto dei contratti stessi.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1960</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 novembre esce la sentenza della Sezione … della Cassazione n.3040 che si colloca nel filone giurisprudenziale, decisamente minoritario, orientato ad assumere configurabile un atto emulativo “<em>per omissionem</em>”. La Corte fa perno in particolare sul fronte processuale, e dunque della tutela giurisdizionale del diritto del cui esercizio si tratta, rappresentando come il mancato (o comunque anormale) utilizzo della facoltà di agire in difesa di un proprio diritto – e dunque della legittimazione ad agire o resistere in giudizio per tutelarlo – può implicare la mancata rimozione di una situazione che risulti dannosa non già solo per il titolare del diritto stesso (legittimato come tale a chiederne tutela in giudizio) ma anche di terzi.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1974</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 31 maggio viene varato il Decreto n.1836 che introduce nel codice civile spagnolo le disposizioni preliminari, tra le quali particolarmente significativo è l’art.7, comma 2, compendiante una clausola generale in tema di divieto di abuso del diritto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1975</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 giugno viene varata la Costituzione della Grecia, il cui art.25, comma 3, costituzionalizza il divieto dell’abuso del diritto, statuendo espressamente che “<em>l’esercizio abusivo di un diritto non è permesso</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1979</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 13 dicembre esce la sentenza della Corte di Giustizia europea in causa C-86/76, <em>Hoffman la Roche</em>, onde è “<em>abuso di posizione dominante</em>” quel fatto oggettivo che si sostanzia nel fatto che una determinata impresa si comporta in modo abusivo influendo sulla struttura di un mercato che ha foggia particolare in quanto il grado di concorrenza risulta già scemato a cagione della posizione dominante appunto dell’impresa considerata; si tratta di un contegno che finisce con l’ostacolare la conservazione del (ridotto) grado di concorrenza esistente nel ridetto mercato, ovvero il relativo sviluppo, avvalendosi di mezzi diversi da quelli sui quali si impernia la normale concorrenza, sfruttando appunto abusivamente la propria posizione dominante.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1981</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 dicembre esce la sentenza delle SSUU n.6594 alla cui stregua, inaugurando un orientamento pretorio che rimarrà granitico fino alla modifica della norma (e della soppressione del pertinente istituto), l’art.2362 c.c. sulla responsabilità illimitata dell’unico socio di società per azioni, per il tempo in cui è tale, è applicabile anche quando l'unico socio sia una persona giuridica o un'altra società per azioni e non una persona fisica. Si afferma infatti dalla Corte che la ratio della disposizione contenuta nell'art. 2362 c.c. sussiste anche nell'ipotesi in cui tutte le azioni di una società siano concentrate in un'altra società per azioni, sicché la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali grava su chiunque sia rimasto unico socio, sia se persona fisica che persona giuridica o società. Ciò al fine di scongiurare che lo schermo societario possa appunto escludere la responsabilità illimitata dell’”<em>unico socio</em>” quando questi abbia a propria volta forma societaria, così realizzando un abuso di personalità giuridica.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1982</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 febbraio esce la sentenza della Sezione II della Cassazione n.688, alla cui stregua non compie alcun atto emulativo chi ponga in essere atti che, pur arrecando molestia o nocumento ad altri, siano soggettivamente intesi a procurargli un vantaggio, ancorché contrario all’ordinamento giuridico. In sostanza, per la Corte quando si configura una giustificazione di natura soggettivamente utilitaristica, va esclusa la configurabilità di un atto emulativo che presuppone, all’opposto, la consapevolezza in chi lo compie del difetto di qualunque utilità e ad un tempo la volontà di recare danno o molestia a terzi.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1990</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 26 febbraio esce la sentenza della Sezione … della Cassazione n.1439 alla cui stregua, in tema di c.d. <em>holding</em> societaria e dunque di collegamento tra società, la validità degli atti compiuti dall’organo amministrativo di una società in favore di altra ad essa collegata in senso non giuridico, ma piuttosto economico o dirigenziale, è sottoposta alla condizione dell’esistenza di un interesse giuridicamente ed economicamente rilevante in capo alla società agente, con conseguente abusività dell’atto in parola in difetto di un simile interesse.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 luglio viene varata la Direttiva n.90/434/CEE, secondo il cui art.11, in tema di regime fiscale applicabile alle fusioni, alle scissioni ed al conferimento di attivo in ambito societario, gli Stati membri sono autorizzati a presumere che tali operazioni, ove non siano effettuate per “<em>valide ragioni economiche</em>”, abbiano come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscale. Si tratta di uno dei primi casi in cui affiora una nozione comunitaria, sul crinale fiscale, dell’abuso del diritto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 ottobre viene varata la legge n.287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato, il cui art.3 vieta l’abuso di posizione dominante ricalcando, nella sostanza, la disciplina sovranazionale (art.86 del TCEE).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1991</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 aprile esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.4519 alla cui stregua nelle fattispecie di contratto autonomo di garanzia il garante autonomo, laddove sussistano prove evidenti o “<em>liquide</em>” (come tali non necessitanti di accertamenti particolarmente complessi) in ordine al carattere fraudolento o abusivo della richiesta di adempimento spiccata dal creditore beneficiario della garanzia (caso classico è quello in cui abbia già ottenuto l’adempimento dal debitore principale), può e deve rifiutare il pagamento richiesto (perdendo altrimenti l’azione di regresso nei confronti del debitore principale).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1992</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 gennaio entra in vigore il nuovo codice civile olandese, il cui art.13 introduce nell’ordinamento una norma generale in tema di divieto di abuso del diritto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 febbraio viene firmato a Maastricht il Trattato che trasforma la CEE in CE, e che riproduce all’art.82 (ex art.86) del TCE (ex TCEE) la fattispecie dell’abuso di posizione dominante.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1995</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 marzo esce la sentenza della Corte Suprema federale tedesca sul noto caso <em>Girmes</em>, in tema di c.d. abuso delle minoranze nell’ambito di una compagine societaria, fondato sul più generale dovere di correttezza e buona fede in ambito societario. Per il Giudice tedesco è da assumersi sanzionabile con la tutela risarcitoria la condotta di quei soci di minoranza che – con la finalità di ritrarre ingiusti vantaggi per sé – impediscano l’aumento del capitale (per il quale occorre una maggioranza qualificata e, dunque, anche il loro apporto in termini di voto favorevole) e con esso il risanamento ed il salvataggio di una società che invece, alfine, fallisce; la minoranza è infatti tenuta a tenere in considerazione gli interessi della maggioranza, sia pure nei limiti dettati dai principi di proporzionalità e di necessità. Per la Corte, al fine di assumere operante il dovere di correttezza in ambito societario, è sufficiente la capacità concreta del singolo azionista di influire su di una scelta che ha rilevanza vitale avuto riguardo all’investimento degli altri soci, indipendentemente dalla entità della partecipazione del socio in parola, della struttura degli assetti societari, nonché del grado di coesione o vicinanza tra loro dei soci nel contesto della medesima società alla quale appartengono. Un azionista di minoranza, in altri termini, non può – pena la violazione del canone di correttezza e buona fede - sfruttare opportunisticamente la propria posizione di “<em>ago della bilancia</em>” nell’ambito di assemblee conflittuali, giusta esercizio del diritto di voto finalizzato a conseguire vantaggi personali ed al quale si accompagna un pregiudizio patrimoniale per gli altri soci (c.d. responsabilità “<em>deliberativa</em>”).</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 ottobre esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.11151 che si occupa del c.d. abuso della maggioranza in seno ad una persona giuridica, ed in particolare in seno ad una società. Il Collegio fornisce in proposito una precisa definizione dell’abuso di maggioranza, che si consuma allorché la delibera dei soci risulti arbitrariamente o fraudolentemente preordinata al fine di perseguire interessi diversi da quelli societari o per ledere i diritti del singolo partecipante; in queste ipotesi, al cospetto delle quali la deliberazione in parola può essere impugnata per abuso di potere - il fenomeno va per la Corte ad un tempo collocato all’interno dei casi di violazione dei principi di correttezza e buona fede. Nel caso di specie, l’assemblea sociale ha deliberato lo scioglimento anticipato della società con l’unico scopo di estromettervi il socio di minoranza; in questi casi, per la Corte non trova applicazione la sola tutela caducatoria di cui all’art.2373 c.c. – alla cui stregua la deliberazione approvata con il voto determinante di coloro che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società è impugnabile a norma dell'articolo <a href="https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-quinto/titolo-v/capo-v/sezione-vi/art2377.html">2377</a> qualora possa recarle danno - quanto piuttosto, e del tutto innovativamente, la tutela risarcitoria derivante dalla violazione dei canoni di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c., assunti applicabili anche alla materia societaria ed anche a tutela di ciascun socio singolarmente inteso (<em>uti singulus</em>), in tal modo superandosi il precedente orientamento giurisprudenziale ispirato al modello pubblicistico del c.d. eccesso di potere (va tenuto conto peraltro che, nella specifica fattispecie, si sarebbe trattato di impugnare la delibera di una società ormai non più esistente perché sciolta anzitempo proprio attraverso la delibera impugnata). Per la Corte occorre muovere dalla società come contratto, per ricavarne il tipo di abuso di potere che potrebbe affettarla: poiché i soci stipulano appunto un contratto, il contratto di società, essi si vincolano (come accade con la stipula di qualunque altro contratto) a rispettare i principi di correttezza e buona fede di cui appunto, in particolare, agli articoli 1175 e 1375 c.c., disposizioni che hanno funzione integrativa del ridetto contratto di società ed impongono da parte di tutti i soci, compresi quelli di maggioranza, il rispetto di quegli equilibri di interessi che le parti avrebbero fatto oggetto di pattuizione laddove avessero previsto tutti gli sviluppi dei relativi futuri rapporti (ivi compresa la concreta formazione di maggioranze e di conseguenti minoranze), disciplinandoli con un accordo (che sarebbe stato) ispirato al particolare prototipo di comportamento etico che è proprio dell’ordinamento societario. Peraltro, il fatto che si configuri un dovere di correttezza e buona fede tra i soci è conclusione che discende non già solo dalle norme generali su obbligazioni e contratti, ma dalla stessa causa del contratto di società laddove – differentemente da quanto avviene nei contratti commutativi o di scambio – la soddisfazione dell’interesse di ciascuno dei soci è mediato per tutti dalla soddisfazione dell’interesse sociale; il contratto di società fa luogo infatti ad una comunione di interessi la cui sintesi è l’interesse sociale, circostanza tale da escludere che il diritto di voto possa essere legittimamente esercitato per realizzare finalità particolari (quand’anche dei soci della “<em>maggioranza</em>”), estranee alla finalità principale e comune che è quella della soddisfazione dell’interesse sociale. Peraltro, mentre la tradizionale tutela demolitoria di cui al combinato disposto degli articoli 2373 e 2377 c.c. impone di provare l’orientamento finalistico (una sorta di “<em>dolo specifico</em>”) dell’abuso della maggioranza a danno della società e, dunque, a danno dei soci di minoranza (che sono pur sempre soci della società danneggiata dal ridetto abuso), la tutela risarcitoria fondata sull’inadempimento al canone di correttezza e buona fede di cui agli art.1175 e 1375, riconosciuta dalla giurisprudenza a partire da questa pronuncia, consente – senza peraltro dover provare il ridetto comportamento della maggioranza intenzionalmente (e dunque dolosamente) diretto a ledere la minoranza, giusta lesione dell’interesse sociale – una tutela anche in caso di pregiudizio subito dai soci di minoranza <em>uti singuli</em>, e dunque non già come parte della ridetta minoranza, giacché il principio di correttezza e buona fede impone di salvaguardare l’interesse altrui (e dunque di ciascun socio, ancorché di minoranza), sia pure nella misura in cui rimanga ferma l’integrale soddisfazione dell’interesse proprio (di ciascun socio, o gruppo di soci, di maggioranza).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1997</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 febbraio esce la sentenza del Tribunale di Napoli alla cui stregua – secondo coordinate proprie anche di buona parte della giurisprudenza di legittimità - la configurabilità di un atto di emulazione ex art.833 c.c. presuppone il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell’assenza di utilità per il proprietario agente e nel danno o molestia altrui, e di un elemento soggettivo costituito dall’”<em>animus nocendi</em>”, ossia dall’intenzione di nuocere o recare molestia ad altri.</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 luglio esce la sentenza della I Sezione della Cassazione n.6900, che si occupa del caso in cui, a fronte di una prestazione (pecuniaria) originariamente unica siccome dedotta in obbligazione nel contesto di un unico contratto, il creditore chieda al debitore in giudizio la ridetta prestazione in modo frazionato; si tratta dunque dell’ipotesi in cui il credito derivi da un’unica fonte e sia unitario, ma venga richiesto in giudizio dal creditore in modo frazionato, fattispecie al cospetto della quale il problema è quello di verificare se il debitore convenuto possa spiccare <em>exceptio doli</em> o comunque far valere l’abuso del diritto perpetrato dal creditore in parola. Secondo la Corte, il canone generale di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. opera in primo luogo non già solo nella fase fisiologica del rapporto obbligatorio, ma anche in quella patologica di inadempimento o comunque di inesatta esecuzione della prestazione da parte del debitore; proprio per questo, non può considerarsi conforme al perimetro normativo il contegno di un creditore che – frazionando nel tempo in modo anomalo le proprie iniziative giudiziarie – finisca con il prolungare arbitrariamente il vincolo coattivo cui soggiace il debitore convenuto, così facendo luogo ad un vero e proprio abuso del diritto che subisce un pregiudizio non giustificato da un interesse oggettivamente apprezzabile e meritevole di tutela del creditore attore.</p> <p style="text-align: justify;">*L’8 agosto esce la sentenza della I Sezione della Cassazione n.7400, che si occupa del caso in cui, a fronte di una prestazione (pecuniaria) originariamente unica siccome dedotta in obbligazione nel contesto di un unico contratto, il creditore chieda al debitore in giudizio la ridetta prestazione in modo frazionato; si tratta dunque dell’ipotesi in cui il credito derivi da un’unica fonte e sia unitario, ma venga richiesto in giudizio dal creditore in modo frazionato, fattispecie al cospetto della quale il problema è quello di verificare se il debitore convenuto possa spiccare <em>exceptio doli</em> o comunque far valere l’abuso del diritto perpetrato dal creditore in parola. Secondo la Corte, il canone generale di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. opera in primo luogo non già solo nella fase fisiologica del rapporto obbligatorio, ma anche in quella patologica di inadempimento o comunque di inesatta esecuzione della prestazione da parte del debitore; proprio per questo, non può considerarsi conforme al perimetro normativo il contegno di un creditore che – frazionando nel tempo in modo anomalo le proprie iniziative giudiziarie – finisca con il prolungare arbitrariamente il vincolo coattivo cui soggiace il debitore convenuto, così facendo luogo ad un vero e proprio abuso del diritto che subisce un pregiudizio non giustificato da un interesse oggettivamente apprezzabile e meritevole di tutela del creditore attore.</p> <p style="text-align: justify;">L’8 ottobre viene varato il decreto legislativo n.358, recante riordino delle imposte sui redditi applicabili alle operazioni di cessione e conferimento di aziende, fusione, scissione e permuta di partecipazioni. L’importante art.7 di tale provvedimento, al comma 1, introduce dopo l'articolo 37 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, concernente il controllo delle dichiarazioni dei redditi, un articolo 37 bis significativamente rubricato “<em>disposizioni antielusive</em>”, alla cui stregua sono in primo luogo inopponibili all'Amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti (comma 1); l'Amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all'Amministrazione (comma 2); tali disposizioni si applicano tuttavia solo a condizione che, nell'ambito del comportamento di cui al comma 2, siano utilizzate una o più delle seguenti operazioni “<em>tipizzate</em>” (non rilevando dunque l’elusione fiscale al di fuori delle ridette, “<em>tipiche</em>” fattispecie): a) trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con utili; b) conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende; c) cessioni di crediti; d) cessioni di eccedenze d'imposta; e) operazioni di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 544, recante disposizioni per l'adeguamento alle direttive comunitarie relative al regime fiscale di fusioni, scissioni, conferimenti d'attivo e scambi di azioni; f) operazioni, da chiunque effettuate, incluse le valutazioni, aventi ad oggetto i beni e i rapporti di cui all'articolo 81, comma 1, lettere c), c -bis) e c -ter), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (comma 3). L'avviso di accertamento “<em>antielusivo</em>” va tuttavia emanato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente anche per lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni dalla data di ricezione della richiesta nella quale devono essere indicati i motivi per cui si reputano applicabili i commi 1 e 2 (comma 4). Fermo restando quanto disposto dall'articolo 42, l'avviso d'accertamento deve essere specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente e le imposte o le maggiori imposte devono essere calcolate tenendo conto di quanto previsto al comma 2 (comma 5). Le imposte o le maggiori imposte accertate in applicazione delle disposizioni di cui al comma 2 sono iscritte a ruolo, secondo i criteri di cui all'articolo 68 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecuniarie in pendenza di giudizio, unitamente ai relativi interessi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale (comma 6). I soggetti diversi da quelli cui sono applicate le disposizioni dei commi precedenti possono richiedere il rimborso delle imposte pagate a seguito dei comportamenti disconosciuti dall'Amministrazione finanziaria; a tal fine detti soggetti possono proporre, entro un anno dal giorno in cui l'accertamento e' divenuto definitivo o e' stato definito mediante adesione o conciliazione giudiziale, istanza di rimborso all'amministrazione, che provvede nei limiti dell'imposta e degli interessi effettivamente riscossi a seguito di tali procedure (comma 7). Infine, le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d'imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall'ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi, a tal fine dovendo egli presentare istanza al Direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l'operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione (comma 8): la norma rinvia poi ad un decreto del Ministro delle finanze - da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988 n. 400 – la disciplina delle modalità per la relativa applicazione.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 ottobre esce la sentenza della Sezione II della Cassazione n.10250 alla cui stregua ammettere la configurabilità di un atto emulativo “<em>per omissionem</em>” implica una violazione dell’art.833 c.c., che presuppone come tale solo “<em>atti</em>” e, dunque, condotte di tipo attivo. Per la Corte, a ragionare diversamente occorrerebbe ammettere che l’art.833 implicitamente determini in capo al proprietario, in taluni casi, un obbligo di fare la cui violazione (mancata omissione) integrerebbe per l’appunto un atto emulativo; poiché peraltro una condotta attiva implica sempre, di per sé, un costo in termini di spesa ovvero di esplicazione di energie psicofisiche, l’astensione da essa non può, di per sé, essere ispirata solo ed esclusivamente – come pure richiede l’art.833 c.c. – dall’<em>animus nocendi</em>, posto che essa rappresenterebbe comunque, proprio attraverso il “<em>non compiere</em>” una attività onerosa, una qualche utilità per il soggetto che scelga di rimanere inerte.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 14 novembre esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.11271, che si occupa del caso in cui, a fronte di una prestazione (pecuniaria) originariamente unica siccome dedotta in obbligazione nel contesto di un unico contratto, il creditore chieda al debitore in giudizio la ridetta prestazione in modo frazionato; si tratta dunque dell’ipotesi in cui il credito derivi da un’unica fonte e sia unitario, ma venga richiesto in giudizio dal creditore in modo frazionato, fattispecie al cospetto della quale il problema è quello di verificare se il debitore convenuto possa spiccare <em>exceptio doli</em> o comunque far valere l’abuso del diritto perpetrato dal creditore in parola. Secondo la Corte, il canone generale di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. opera in primo luogo non già solo nella fase fisiologica del rapporto obbligatorio, ma anche in quella patologica di inadempimento o comunque di inesatta esecuzione della prestazione da parte del debitore; proprio per questo, non può considerarsi conforme al perimetro normativo il contegno di un creditore che – frazionando nel tempo in modo anomalo le proprie iniziative giudiziarie – finisca con il prolungare arbitrariamente il vincolo coattivo cui soggiace il debitore convenuto, così facendo luogo ad un vero e proprio abuso del diritto che subisce un pregiudizio non giustificato da un interesse oggettivamente apprezzabile e meritevole di tutela del creditore attore.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 6 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 3552 secondo la quale al contratto cosiddetto di assicurazione fideiussoria (o cauzione fideiussoria o assicurazione cauzionale) - caratterizzato dall'assunzione di un impegno, da parte di una banca o di una compagnia di assicurazioni, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta da un terzo - sono applicabili le disposizione della fideiussione, salvo che sia stato diversamente disposto dalle parti. Per la Corte, più in specie, riveste carattere derogatorio rispetto alla disciplina della fideiussione, la clausola con la quale venga espressamente prevista la possibilità, per il creditore garantito, di esigere dal garante il pagamento immediato del credito "<em>a semplice richiesta</em>" o "<em>senza eccezioni</em>": in tal caso infatti, in deroga all'art. 1945, è preclusa al fideiussore l'opponibilità delle eccezioni che potrebbero essere sollevate dal debitore principale, restando in ogni caso consentito al garante di opporre al beneficiario "<em>l'exceptio doli</em>", nel caso in cui la richiesta di pagamento immediato risulti "<em>prima facie</em>" abusiva o fraudolenta. La pronuncia sembra pertanto porsi nella scia di quell’orientamento pretorio che assume l’inserimento della c.d. clausola di pagamento a prima richiesta quale indizio non necessariamente di una garanzia autonoma pura (contratto autonomo di garanzia), ma potenzialmente anche di una fideiussione atipica e derogatoria. Per la Corte in ogni caso, nelle fattispecie di contratto autonomo di garanzia il garante autonomo, laddove sussistano prove evidenti o “<em>liquide</em>” (come tali non necessitanti di accertamenti particolarmente complessi) in ordine al carattere fraudolento o abusivo della richiesta di adempimento spiccata dal creditore beneficiario della garanzia (caso classico è quello in cui abbia già ottenuto l’adempimento dal debitore principale), egli può e deve rifiutare il pagamento richiesto (perdendo altrimenti l’azione di regresso nei confronti del debitore principale).</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 aprile esce la sentenza della Sezione II della Cassazione n.3814 che – andando in contrario avviso rispetto all’opposto orientamento – assume legittimo il comportamento del creditore che parcellizzi la pretesa inerente al proprio credito frazionandola in plurimi giudizi. Per la Corte, la facoltà (non esplicitamente prevista) del creditore di invocare (e quindi di pretendere) dal debitore un adempimento parziale deve assumersi speculare all’identica facoltà, per il creditore medesimo, di accettare un pagamento parziale (questa invece prevista espressamente dall’art.1181 c.c., al cospetto di una prestazione divisibile); quanto poi al pericolo di un aggravio di spese per il debitore che venga reso destinatario di una pluralità di decreti ingiuntivi, esso può essere escluso giusta facoltà del debitore medesimo di mettere in mora (<em>credendi</em>) il creditore in parola così offrendogli l’intero adempimento, ovvero di richiedere l’accertamento negativo del credito medesimo siccome integralmente considerato.</p> <p style="text-align: justify;">Il 18 giugno viene varata la legge n.192, recante disciplina della subfornitura nelle attività produttive, il cui art.9 disciplina il c.d. abuso di dipendenza economica. Stando alla disposizione, più in specie, è vietato l'abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei relativi riguardi, una impresa cliente o fornitrice, considerandosi dipendenza economica la situazione in cui un impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica va valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l'abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti e l'abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. Il patto attraverso il quale si realizzi l'abuso di dipendenza economica – ai sensi del comma 3 - e' nullo; il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni. Si tratta – per la dottrina, massime se di ispirazione liberista – di una fattispecie eccezionale di limitazione dell’autonomia privata nell’ambito dei rapporti tra imprese.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 19 ottobre esce la sentenza della Sezione II della Cassazione n.10326 che – andando in contrario avviso rispetto all’opposto orientamento – assume legittimo il comportamento del creditore che parcellizzi la pretesa inerente al proprio credito frazionandola in plurimi giudizi. Per la Corte, la facoltà (non esplicitamente prevista) del creditore di invocare (e quindi di pretendere) dal debitore un adempimento parziale deve assumersi speculare all’identica facoltà, per il creditore medesimo, di accettare un pagamento parziale (questa invece prevista espressamente dall’art.1181 c.c., al cospetto di una prestazione divisibile); quanto poi al pericolo di un aggravio di spese per il debitore che venga reso destinatario di una pluralità di decreti ingiuntivi, esso può essere escluso giusta facoltà del debitore medesimo di mettere in mora (<em>credendi</em>) il creditore in parola così offrendogli l’intero adempimento, ovvero di richiedere l’accertamento negativo del credito medesimo siccome integralmente considerato.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 5 novembre esce la sentenza della Sezione II della Cassazione n.11114 che – andando in contrario avviso rispetto all’opposto orientamento – assume legittimo il comportamento del creditore che parcellizzi la pretesa inerente al proprio credito frazionandola in plurimi giudizi. Per la Corte, la facoltà (non esplicitamente prevista) del creditore di invocare (e quindi di pretendere) dal debitore un adempimento parziale deve assumersi speculare all’identica facoltà, per il creditore medesimo, di accettare un pagamento parziale (questa invece prevista espressamente dall’art.1181 c.c., al cospetto di una prestazione divisibile); quanto poi al pericolo di un aggravio di spese per il debitore che venga reso destinatario di una pluralità di decreti ingiuntivi, esso può essere escluso giusta facoltà del debitore medesimo di mettere in mora (<em>credendi</em>) il creditore in parola così offrendogli l’intero adempimento, ovvero di richiedere l’accertamento negativo del credito medesimo siccome integralmente considerato.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1999</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 3964, onde, ai fini della configurabilità di un contratto autonomo di garanzia, oppure di un contratto di fideiussione, non è decisivo l'impiego o meno delle espressioni "<em>a semplice richiesta</em>" o "<em>a</em> <em>prima richiesta del creditore</em>", ma la relazione in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e l'obbligazione di garanzia. Per la Corte la caratteristica fondamentale che distingue il contratto autonomo di garanzia dalla fideiussione è l'assenza dell'elemento dell'accessorietà della garanzia, insito nel fatto che viene esclusa la facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni che spettano al debitore principale, in deroga alla regola essenziale della fideiussione, posta dall'art. 1945 cod. civ. La Corte decide peraltro su una fattispecie in tema di polizza fideiussoria cauzionale: i giudici di merito, con consonanti decisioni avevano qualificato in termini di autonomia la convenzione di garanzia stipulata, valorizzando la clausola secondo cui la società garante avrebbe dovuto pagare entro un breve termine dalla richiesta del creditore, dopo semplice avviso al debitore principale, di cui non era richiesto il consenso e che nulla avrebbe potuto eccepire in merito al pagamento, anche in sede di rivalsa del garante, e opinando, in particolare, che la stessa apposizione di un termine breve precludesse <em>a priori</em> qualsiasi possibilità, per il garante, di sollevare eccezioni in ordine al rapporto sottostante, non essendo immaginabile, in tempi estremamente ristretti, lo svolgimento delle necessarie indagini per l'accertamento in concreto dell'inadempimento dell'appaltatore e della legittimità della richiesta dell'Amministrazione garantita. Infine, la Corte rivede il proprio orientamento in tema di deroga delle parti all’art.1957 c.c. ritenendo che laddove le parti abbiano voluto un contratto autonomo di garanzia (atipico) in luogo di una fideiussione, tale circostanza non può implicitamente recare seco tale deroga, occorrendo l’esplicito accordo delle parti in difetto del quale occorrerà che il creditore coltivi la propria pretesa verso il debitore garantito entro 6 mesi dalla scadenza dell’obbligazione. Infine, la Corte si occupa dei casi in cui il garante autonomo può (e deve, se vuole salvaguardare il proprio regresso nei confronti del debitore garantito) spiccare nei confronti del creditore la c.d. <em>exceptio doli</em> per comportamento doloso, mala fede o comunque per abuso manifesto da parte del creditore medesimo, in veste di beneficiario della garanzia autonoma. Si tratta in primo luogo della ipotesi in cui risulti palmare, <em>prima facie</em>, il già avvenuto adempimento da parte del debitore principale; della ipotesi in cui risulti, del pari <em>prima facie</em>, l’inadempimento del creditore beneficiario (che tuttavia pretende fraudolentemente l’adempimento da parte del garante); della ipotesi in cui in effetti il debitore principale sia inadempiente, ma lo sia per palese fatto dello stesso creditore beneficiario della garanzia; della ipotesi in cui il rapporto principale di valuta sia stato risolto per fatto non imputabile al debitore garantito; più in generale, delle ipotesi in cui il creditore beneficiario della garanzia agisce intenzionalmente a danno del debitore principale, o comunque abusando del proprio diritto di credito. Nelle ipotesi in cui il garante (relativamente) autonomo può opporre al creditore l’<em>exceptio doli</em>, ed in particolare in quelle riconnesse al c.d. abuso del diritto di credito da parte del medesimo, per la Corte, il contegno del ridetto creditore deve risultare in modo palmare, <em>prima facie</em>, fraudolento, doloso, abusivo, non in modo presuntivo ma in modo documentato e manifesto (c.d. prove “<em>liquide</em>”, ovvero certe e non contestate): solo in simili circostanze, per la Corte, il rifiuto di adempiere da parte del garante autonomo può dirsi compatibile con la natura, per l’appunto, “<em>autonoma</em>” della garanzia. Per la Corte, in ultima analisi, nelle fattispecie di contratto autonomo di garanzia il garante autonomo, laddove sussistano prove evidenti o “<em>liquide</em>” (come tali non necessitanti di accertamenti particolarmente complessi) in ordine al carattere fraudolento o abusivo della richiesta di adempimento spiccata dal creditore beneficiario della garanzia (caso classico è quello in cui abbia già ottenuto l’adempimento dal debitore principale), egli può e deve rifiutare il pagamento richiesto (perdendo altrimenti l’azione di regresso nei confronti del debitore principale).</p> <p style="text-align: justify;">Il 01 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.10864, che si occupa in particolare della causa della c.d. clausola negoziale di garanzia “<em>a prima richiesta e senza eccezioni</em>”: in forza della medesima, il creditore può esigere dal garante il pagamento immediato del credito che egli vanta verso il debitore, senza che quegli possa eccepirgli né l’eventuale già avvenuto adempimento da parte del debitore principale medesimo, né l’eventuale giustificazione del relativo inadempimento per fatto della controparte creditoria medesima. Per la Corte si è al cospetto di una valida espressione di autonomia negoziale, che configura una fideiussione atipica nella quale vi è una chiara deroga al principio della accessorietà, ma che in ogni caso non fa venire meno (dal punto di vista causale) la connessione tra il rapporto di garanzia ed il rapporto principale (quello di valuta tra creditore e debitore), dovendo l’autonomia del contratto di garanzia assumersi non già assoluta, quanto piuttosto relativa. Quando poi il creditore escuta la garanzia dal garante autonomo in presenza dei presupposti che facoltizzano quest’ultimo a spiccare l’<em>exceptio doli</em>, in realtà per la Corte il garante ha l’onere di spiccare tale eccezione, riconducibile al principio di buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c., in quanto titolare di un dovere di protezione nei confronti del debitore principale, nei cui riguardi – in caso di mancata eccezione – perde il diritto di rivalsa (o di regresso), residuandogli solo l’azione di ripetizione dell’indebito nei confronti del creditore beneficiario (in una con l’eventuale azione di risarcimento del danno). La Corte ribadisce che nelle fattispecie di contratto autonomo di garanzia il garante autonomo, laddove sussistano prove evidenti o “<em>liquide</em>” (come tali non necessitanti di accertamenti particolarmente complessi) in ordine al carattere fraudolento o abusivo della richiesta di adempimento spiccata dal creditore beneficiario della garanzia (caso classico è quello in cui abbia già ottenuto l’adempimento dal debitore principale), egli può e deve rifiutare il pagamento richiesto (perdendo altrimenti l’azione di regresso nei confronti del debitore principale).</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 novembre viene varata la importantissima legge costituzionale n.2 che modifica, integrandolo, l’art.111 Cost. disciplinando il c.d. giusto processo. Più in particolare, secondo i nuovi comma da 1 a 3, la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge (comma 1); ogni processo si svolge nel <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/416.html">contraddittorio</a> tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/417.html">giudice</a> terzo e imparziale e la legge ne deve assicurare la ragionevole durata (comma 2). Il processo dunque deve ormai essere, per esplicita presa di posizione del legislatore costituzionale, “<em>giusto</em>”, e dunque “<em>non abusivo</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2000</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 gennaio esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.804 alla cui stregua va applicata direttamente, seppure in modo estensivo, la disposizione di cui all’art.2362 c.c. in tema di unico socio illimitatamente responsabile, alla fattispecie del c.d. socio sovrano. Per la Corte, la prova dell’intestazione fittizia o fraudolenta delle azioni di minoranza può essere fornita giusta dimostrazione di un comportamento tirannico del socio di maggioranza; a quel punto la ridetta dimostrazione dell’intestazione fittizia o fraudolenta delle azioni di minoranza consente di affermarne (e dichiararne) la nullità, con conseguente concentrazione nelle mani del socio tiranno della disponibilità di tutte le azioni e, a valle, la possibilità di predicarne la responsabilità illimitata anche col proprio patrimonio per le obbligazioni sociali.</p> <p style="text-align: justify;">Il 10 aprile esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.108 che si occupa della c.d. parcellizzazione della pretesa giudiziale del credito, risolvendo il contrasto insorto nella pertinente giurisprudenza. Per la Corte, dinanzi ad una pretesa creditoria rimasta inadempiuta, è legittimo il comportamento del creditore che frazioni le proprie iniziative giurisdizionali (massime chiedendo ed ottenendo plurimi e successivi decreti ingiuntivi) al fine di recuperare quanto dovutogli dal debitore. Per la Corte è ammissibile la domanda giudiziale con la quale il creditore di una data somma, derivante dall’inadempimento di un unico rapporto, chieda un adempimento parziale con riserva di azione per il residuo, trattandosi di un potere non negato dall’ordinamento, rispondente ad un interesse del creditore meritevole di tutela e che non sacrifica in alcun modo il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni. Per la Corte va considerato <em>in primis</em> come l’art.1181 c.c. consenta al creditore di rifiutare l’adempimento parziale (a meno che la legge o gli usi non stabiliscano diversamente), allo stesso modo non escludendo il potere di accettare tale adempimento (solo) parziale e, dunque, anche di richiederlo ed anche giusta iniziativa giurisdizionale “<em>frazionata</em>”. Il creditore ha nella sostanza diritto ad una prestazione unitaria, ma ciò non toglie che può frazionarne la pretesa giacché si tratta della deroga, da lui scelta, ad una garanzia che la legge appresta nel relativo interesse. Peraltro, prosegue la Corte, il creditore può sempre scegliere – in caso di inadempimento del debitore – per la risoluzione del pertinente contratto ovvero per l’adempimento (art.1453 c.c.), in quest’ultimo caso non vedendosi preclusa dalla legge civile la possibilità di invocare un adempimento parziale e frazionato nel tempo. Altri argomenti a favore della tesi abbracciata le SSUU ritraggono dal codice di procedura civile e, <em>in primis</em>, dagli articoli 277, comma 2, e 278, comma 2 che – in presenza di domande più ampie spiccate dal creditore – consentono nell’interesse del creditore medesimo di limitare la pronuncia a parte di tali più ampie domande o di condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, circostanza che conferma come il creditore possa da subito spiccare <em>ab origine</em> domande meno ampie e quindi con un <em>petitum</em> ridotto, alle quali ovviamente tali norme di rito non si applicano. La domanda giurisdizionale frazionata può poi per il Collegio sortire effetti positivi anche in ottica di celerità del processo, potendo l’attore creditore agire da subito limitatamente a quella parte del relativo credito che il debitore non contesta o che comunque è di pronta soluzione ed agire solo in prosieguo per accertare quella restante parte della propria pretesa eventualmente più bisognevole di tempo per il relativo, concreto accertamento.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 437 in tema di società in collegamento tra loro dal punto di vista (non giuridico, ma) economico o dirigenziale, stando alla quale vanno assunti abusivi ed illegittimi tutti quegli atti compiuti per favorire una società collegata senza che in capo alla società agente sia ravvisabile alcun apprezzabile interesse, o che fuoriescano completamente dal relativo oggetto sociale, o che siano rispetto ad essa financo pregiudizievoli.</p> <p style="text-align: justify;">Il 7 dicembre viene proclamata a Nizza la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea o Carta di Nizza (CDFUE), il cui Capo IV (articoli da 27 a 38) viene esplicitamente dedicato alla solidarietà, che assurge dunque a principio fondamentale nel diritto dell’Unione europea.</p> <p style="text-align: justify;">L’11 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.15592 alla cui stregua è da assumersi ammissibile, in quanto non costituisce abuso del relativo diritto, l’impugnazione proposta avverso la deliberazione assembleare di approvazione del bilancio da parte di un socio che, in veste di amministratore, aveva già precedentemente approvato il progetto di bilancio in consiglio di amministrazione. La sentenza è importante perché in qualche modo riconduce al concetto di abuso del diritto, e di connessa <em>exceptio doli generalis</em>, il c.d. divieto del <em>venire contra factum proprium</em>; ed è altresì importante perché tende a configurare l’accertamento di un abuso del diritto quale accertamento rigorosamente “<em>oggettivo</em>”, la Corte sottolineando a chiare lettere l’esigenza di disancorarne gli elementi costitutivi da aspetti e valutazioni schiettamente soggettive e di ricercare, da parte del giudice, più chiari e sicuri contorni di natura oggettiva; non si può negare infatti, prosegue la Corte, che una impostazione esclusivamente o prevalentemente soggettivistica rischierebbe di far sovrapporre (in modo pericolosamente “<em>eticizzante</em>”) la personale valutazione dell’interprete – e, in particolare, del giudice – alle regole di corretto svolgimento della vita dei singoli istituti giuridici, oggettivamente intesi. La Corte accenna anche alla possibile configurabilità di un abuso della “<em>minoranza</em>” in ambito societario, con particolare riguardo alle c.d. iniziative di disturbo, ed in particolare alla sistematica impugnativa delle delibere assembleari, con particolare riguardo a quella che approva il bilancio.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2001</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 aprile viene varata la Decisione della Commissione Europea, nel procedimento ex articolo 82 del trattato CE sul caso COMP D3/34493 - DSD, che ribadisce essere “<em>abuso di posizione dominante</em>” quel fatto oggettivo che si sostanzia nel fatto che una determinata impresa si comporta in modo abusivo influendo sulla struttura di un mercato che ha foggia particolare in quanto il grado di pertinente concorrenza risulta già scemato a cagione della posizione dominante appunto dell’impresa considerata; si tratta di un contegno che finisce con l’ostacolare la conservazione del (ridotto) grado di concorrenza esistente nel ridetto mercato, ovvero il relativo sviluppo, avvalendosi di mezzi diversi da quelli sui quali si impernia la normale concorrenza, sfruttando appunto abusivamente la propria posizione dominante.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 gennaio viene varato il decreto legislativo n.6 di riforma del diritto societario che sostituisce, modificandolo integralmente, il testo dell’art.2362 c.c. in tema di unico socio di s.p.a. e di relativa responsabilità illimitata, che nella sostanza non si atteggia più a tale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 16 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.15482, alla cui stregua – in tema di recesso e di abuso del diritto – in relazione ad una pluralità di rapporti contrattuali tra loro collegati per la realizzazione di un’unica operazione economica, la corrispondenza a buona fede dell’esercizio del diritto di recesso contrattualmente stabilito deve essere valutata nel complessivo contesto dei rapporti intercorrenti tra le parti, onde accertare se detto recesso sia stato o meno esercitato secondo modalità e tempi che non rispondono ad un interesse del titolare meritevole di tutela, ma soltanto allo scopo di arrecare danno all’altra parte, incidendo sulla condotta sostanziale che le parti sono obbligate a tenere per preservare il reciproco interesse all’esatto adempimento delle rispettive prestazioni.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 20 ottobre esce la sentenza Sezione III della Cassazione n.20318 alla cui stregua, proprio in forza del divieto dell’abuso del diritto, vanno assunti nulli per difetto di causa quei contratti collegati di acquisto e rivendita di azioni secondo lo schema del c.d. <em>dividend washing</em> che non apportino ai relativi protagonisti (tra i quali normalmente anche un fondo di investimento o una SICAV) alcun vantaggio economico se non un risparmio fiscale. Si realizza nella sostanza un collegamento negoziale ed uno scambio delle prestazioni contrattuali rispettive che è privo di ragione e che - proprio perché tale - è da assumersi inefficace nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, onde l’acquirente dei titoli (e successivo rivenditore degli stessi) non può in realtà fruire di quel credito di imposta connesso al dividendo “<em>a valle</em>” (e collegato alla tassazione “<em>a monte</em>” della società che ha deliberato la distribuzione del dividendo ridetto) del quale fruirebbe invece se il tutto non fosse calato, per l’appunto, nel contesto di una operazione fiscalmente elusiva, e dunque abusiva. Peraltro, l’obiettivo esclusivo di ottenere un beneficio fiscale non dovuto rende il pertinente schema negoziale nullo per mancanza di causa, realizzandosi un collegamento negoziale che si prefigge il ridetto, esclusivo scopo del minor carico fiscale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 novembre esce la sentenza Sezione V della Cassazione n.22932 che dichiara nulli i contratti di cessione del diritto di usufrutto su azioni da parte di un soggetto non residente in Italia ad un altro residente in Italia (c.d. <em>dividend stripping</em>), laddove difetti la pertinente causa per essere tali contratti finalizzati esclusivamente ad ottenere un più favorevole regime di tassazione dei dividendi (non potendo il soggetto non residente fruire di quel credito di imposta del quale può invece fruire il soggetto residente).</p> <p style="text-align: justify;">*Il 14 novembre esce la sentenza Sezione V della Cassazione n.22938 alla cui stregua, proprio in forza del divieto dell’abuso del diritto, vanno assunti nulli per difetto di causa quei contratti collegati di acquisto e rivendita di azioni secondo lo schema del c.d. <em>dividend washing</em> che non apportino ai relativi protagonisti (tra i quali normalmente anche un fondo di investimento o una SICAV) alcun vantaggio economico se non un risparmio fiscale. Si realizza nella sostanza un collegamento negoziale ed uno scambio delle prestazioni contrattuali rispettive che è privo di ragione e che - proprio perché tale - è da assumersi inefficace nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, onde l’acquirente dei titoli (e successivo rivenditore degli stessi) non può in realtà fruire di quel credito di imposta connesso al dividendo “<em>a valle</em>” (e collegato alla tassazione “<em>a monte</em>” della società che ha deliberato la distribuzione del dividendo ridetto) del quale fruirebbe invece se il tutto non fosse calato, per l’appunto, nel contesto di una operazione fiscalmente elusiva, e dunque abusiva. Peraltro, l’obiettivo esclusivo di ottenere un beneficio fiscale non dovuto rende il pertinente schema negoziale nullo per mancanza di causa, realizzandosi un collegamento negoziale che si prefigge il ridetto, esclusivo scopo del minor carico fiscale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 febbraio esce la sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione, in causa C-255/02, <em>Halifax</em>, (assieme all’altra in causa C-223/03, <em>University of Huddersfield</em>) importantissima per quanto concerne l’abuso del diritto in ambito europeo. Per la Corte, che si pronuncia in sede pregiudiziale, va premesso che operazioni come quelle oggetto del procedimento principale in tema di IVA costituiscono cessioni di beni o prestazioni di servizi ed un'attività economica - ai sensi dell'art. 2, punto 1, dell'art. 4, nn. 1 e 2, dell'art. 5, n. 1, e dell'art. 6, n. 1, della VI direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, come modificata dalla direttiva del Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE - poiché soddisfano i criteri oggettivi sui quali sono fondate le dette nozioni, per quanto siano state effettuate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, senza altro obiettivo economico. Per il Collegio, la VI direttiva dev'essere interpretata come contraria al diritto del soggetto passivo di detrarre l’IVA assolta a monte allorché le operazioni che fondano tale diritto integrino un comportamento abusivo, precisando che perché possa parlarsi di comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l'applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della VI direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all'obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni; deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Per la Corte, infine, ove si constati un comportamento abusivo, le operazioni implicate devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato. Si tratta di una importante pronuncia che, con riguardo al settore dell’Iva, definisce il comportamento abusivo del contribuente in ambito tributario, configurabile allorché le operazioni fiscalmente rilevanti delle quali si controverte, pur formalmente facenti applicazione delle condizioni previste da una norma europea e dalla legislazione dello Stato membro che la recepisce, portano il contribuente medesimo ad ottenere un vantaggio fiscale la cui concessione è contraria allo scopo perseguito dalle ridette disposizioni. In sostanza, per qualificare un contegno come abusivo occorre che lo scopo perseguito dal contribuente sia, sul crinale oggettivo, un mero vantaggio fiscale, senza che il ridetto comportamento possa spiegarsi altrimenti, configurando operazioni che sono volute dal contribuente e sono valide, e tuttavia presentano essenzialmente lo scopo di conseguire un mero vantaggio fiscale, che non è il medesimo scopo in vista del quale le disposizioni applicate sono state emanate. La pronuncia è importante perché, rispetto al passato (norme e sentenze sovranazionali), sembra tendenzialmente ed in via generale identificare l’abuso non già nei soli casi in cui il comportamento del contribuente si ponga lo scopo “<em>esclusivo</em>” di conseguire un vantaggio fiscale, quanto piuttosto anche allorché tale scopo sia tale solo “<em>essenzialmente</em>”, e non già dunque in via esclusiva.</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5997 onde nel contratto autonomo di garanzia, il garante assume per la Corte l’obbligo di effettuare il pagamento di una determinata somma di denaro in favore del creditore beneficiario della garanzia per il solo fatto che tale soggetto, allegando l'inadempimento dell'obbligazione principale, ne faccia richiesta; nell'assumere tale obbligo – prosegue la Corte - il garante rinuncia a opporre al creditore le eccezioni inerenti al rapporto che lo avvince al debitore principale, anche se dirette a far valere l'invalidità del contratto dal quale deriva tale rapporto, a meno che non siano fondate sulla nullità per contrarietà a norme imperative o per illiceità della causa, dovendosi ritenere che in questo ultimo caso l'invalidità del contratto presupposto si propaga al contratto di garanzia, rendendone la causa, del pari, illecita. Sotto altro profilo, la buona fede, nell'ambito dei rapporti obbligatori, opera per la Corte su di un piano di reciprocità, quale fonte integrativa degli effetti degli atti di autonomia privata, integrando ovvero restringendo – a seconda dei casi - gli obblighi letteralmente assunti dalle parti o derivanti da specifiche norme di legge, onde il garante autonomo - tenuto a prima richiesta e senza eccezioni - quando esistano prove evidenti (c.d. prove liquide) del carattere fraudolento o anche solo abusivo della richiesta di pagamento avanzata dal beneficiario della garanzia, può (e deve) rifiutare il pagamento richiesto. Più in particolare, quando il creditore escuta la garanzia dal garante autonomo in presenza dei presupposti che facoltizzano quest’ultimo a spiccare l’<em>exceptio doli</em>, in realtà per la Corte quegli ha l’onere di spiccare tale eccezione, riconducibile al principio di buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c., in quanto titolare di un dovere di protezione nei confronti del debitore, nei cui riguardi – in caso di mancata eccezione – perde il diritto di rivalsa (o di regresso), residuandogli solo l’azione di ripetizione dell’indebito nei confronti del creditore beneficiario (in una con l’eventuale azione di risarcimento del danno).</p> <p style="text-align: justify;">Il 28 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.7029 e la gemella n.7030, che si occupano della c.d. concessione abusiva di credito da parte di una banca ad una impresa che la banca finanziatrice sa essere in fase di decozione, e che viene in tal modo surrettiziamente mantenuta in vita nel mercato di riferimento. Per la Corte, più in specie, il curatore fallimentare dell’imprenditore poi fallito non è legittimato a proporre, nei confronti del finanziatore responsabile (nella specie, per l’appunto una banca), l'azione da illecito aquiliano per il risarcimento dei danni causati ai creditori del ridetto imprenditore fallito dall'abusiva concessione di credito diretta a mantenere artificiosamente in vita una impresa decotta, suscitando così nel mercato la falsa impressione che si tratti di impresa economicamente valida. Nel sistema della legge fallimentare difatti, precisa la Corte, la legittimazione del curatore ad agire in rappresentanza dei creditori è limitata alle azioni c.d. di massa - finalizzate, cioè, alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella relativa funzione di garanzia generica ed aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo - al cui novero non appartiene l'azione risarcitoria in questione, la quale, analogamente a quella prevista dall'art. 2395 cod. civ., costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore (e non già della massa dei creditori), giacché, per un verso, il danno derivante dall'attività di sovvenzione abusiva deve essere valutato caso per caso nella relativa esistenza ed entità (essendo ipotizzabile che creditori aventi il diritto di partecipare al riparto non abbiano ricevuto pregiudizio dalla continuazione dell'impresa), e, per altro verso, la posizione dei singoli creditori, quanto ai presupposti per la configurabilità del relativo pregiudizio, è diversa a seconda che siano antecedenti o successivi all'attività finanziatrice medesima. Costituisce poi – precisa ancora la Corte - domanda nuova, inammissibile ove proposta per la prima volta in sede di legittimità, quella con la quale il curatore fallimentare - dopo aver richiesto, nei confronti della banca finanziatrice responsabile il risarcimento del danno da illecito aquiliano causato alla massa dei creditori dall'abusiva concessione di credito ad una impresa in stato di insolvenza, poi fallita, allo scopo di mantenerla artificiosamente in vita - deduca a fondamento della relativa pretesa la responsabilità (contrattuale) del finanziatore verso il soggetto finanziato per il pregiudizio diretto ed immediato causato al patrimonio di questo dall'attività di finanziamento, quale presupposto dell'azione che al curatore spetta come successore nei rapporti del fallito.</p> <p style="text-align: justify;">*Il 29 settembre esce la sentenza Sezione V della Cassazione n.21221 alla cui stregua, proprio in forza del divieto dell’abuso del diritto, vanno assunti nulli per difetto di causa quei contratti collegati di acquisto e rivendita di azioni secondo lo schema del c.d. <em>dividend washing</em> che non apportino ai relativi protagonisti (tra i quali normalmente anche un fondo di investimento o una SICAV) alcun vantaggio economico se non un risparmio fiscale. Si realizza nella sostanza un collegamento negoziale ed uno scambio delle prestazioni contrattuali rispettive che è privo di ragione e che proprio perché tale è da assumersi inefficace nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, onde l’acquirente dei titoli (e successivo rivenditore degli stessi) non può in realtà fruire di quel credito di imposta connesso al dividendo “<em>a valle</em>” (e collegato alla tassazione “<em>a monte</em>” della società che ha deliberato la distribuzione del dividendo ridetto) del quale fruirebbe invece se il tutto non fosse calato, per l’appunto, nel contesto di una operazione fiscalmente elusiva, e dunque abusiva. Peraltro, l’obiettivo esclusivo di ottenere un beneficio fiscale non dovuto rende il pertinente schema negoziale nullo per mancanza di causa, realizzandosi un collegamento negoziale che si prefigge il ridetto, esclusivo scopo del minor carico fiscale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 7 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5273, che si occupa della c.d. <em>exceptio doli generalis</em>, affermando più in specie che la c.d. "<em>exceptio doli generalis seu praesentis</em>" sanziona il dolo commesso nel momento stesso in cui l'azione viene proposta in giudizio e si offre come rimedio di carattere generale volto alla reiezione della domanda proposta in contrasto con i principi di correttezza e buona fede, e così ogniqualvolta sia accertato l'esercizio fraudolento o sleale dei diritti di volta in volta attribuiti dall'ordinamento; si tratta di un rimedio processuale a carattere generale, utilizzabile anche al di fuori delle ipotesi espressamente codificate compendiando, più specificamente, un rimedio inteso a precludere all’attore l’esercizio sleale e fraudolento di diritti di volta in volta attribuiti dal sistema, giusta paralisi dell’atto che di tali diritti costituisce la fonte o comunque giusta possibilità di ottenere il rigetto della domanda giudiziale siccome spiccata e fondata su tali diritti, massime quando l’attore abbia sottaciuto situazioni sopravvenute al contratto ed aventi forza modificativa o estintiva del diritto fatto valere, ovvero abbia avanzato richieste di pagamento già <em>prima facie</em> abusive o fraudolente, ovvero abbia violato il principio del divieto di <em>venire contra factum proprium</em>. Occorre peraltro – precisa la Corte - distinguere l'"<em>exceptio doli generalis seu praesentis</em>" dall'"<em>exceptio doli specialis seu praeteriti</em>", con quest'ultima venendo sanzionato il dolo commesso al tempo della conclusione del negozio, allorché siano posti in essere raggiri diretti a indurre un soggetto a concludere un negozio che non avrebbe concluso o che avrebbe concluso a condizioni diverse; con la "<em>exceptio doli specialis seu preteriti</em> si fa valere, tanto in via di azione che di eccezione, la sussistenza di raggiri impiegati per indurre un soggetto a concludere un determinato negozio, al fine di ottenere l’annullamento di tale negozio; con essa si denunzia anche la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione e predisposizione del contratto. Peraltro, quando dal dolo dipenda la conclusione di un negozio a condizioni più svantaggiose, il "<em>deceptus</em>" è ammesso a proporre una domanda diretta al risarcimento dei danni a titolo di dolo incidente (art. 1440 c.c.), giusta il quale viene fatta valere una responsabilità di tipo precontrattuale. In sostanza dunque, per la Corte mentre la <em>exceptio doli generalis</em> riguarda la valutazione secondo buona fede del comportamento di chi aziona un diritto in giudizio nel momento in cui appunto lo esercita azionandolo (“<em>seu presentis</em>”: attiene al presente, o al momento dinamico o funzionale del diritto), la <em>exceptio doli specialis</em> afferisce alla fraudolenza nel momento di formazione e stipula del negozio e, dunque, al momento in cui il diritto nasce “<em>seu preteriti</em>”: attiene al passato, o al momento statico e genetico del diritto), concernendo il dolo come causa di annullamento del contratto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 maggio esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n.11794, che torna a rimettere alle SSUU la questione in ordine alla legittimità del c.d. frazionamento giudiziale del credito unitario da parte del creditore al cospetto dell’inadempimento del debitore, sollecitandone una soluzione diversa rispetto a quella abbracciata nel 2000.</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 novembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.23726 che torna sulla c.d. parcellizzazione della pretesa creditoria in giudizio sconfessando il proprio precedente del 2000 e dunque giudicando inammissibile la tutela giudiziale frazionata di un credito unitario. Una simile operazione si pone, per la Corte, in frizione con il dovere inderogabile di solidarietà scolpito all’art.2 della Costituzione, che fonda il dovere di correttezza e buona fede e che fa assumere il frazionamento giudiziale di un credito unitario, sia esso contestuale ovvero sequenziale, in una forma di abuso del processo che rende appunto la domanda inammissibile, ostando al relativo esame nel merito. Per la Corte <em>in primis</em> il divieto dell’abuso del diritto va assunto quale principio generale immanente al sistema che implica il divieto di contegni ingiustificatamente vessatori della controparte, non sorretti da un interesse che giustifichi l’esposizione della controparte medesima al pertinente sacrificio; tra questi contegni va annoverato proprio quello di chi, creditore di una pretesa unitaria, artatamente la frazioni in giudizio senza una ragione giustificativa né tampoco un interesse concreto a così procedere, con il solo scopo di rendere più difficile la difesa giurisdizionale del convenuto debitore. Per la Corte deve ritenersi ormai certo come nell’ordinamento italiano ad essere “<em>limitati</em>” (o meglio, non illimitati) non sono soltanto i diritti reali – giusta divieto degli atti emulativi ex art.833 c.c. – ma anche i diritti di credito, i quali pure soffrono il limite teleologico dello scopo per il quale il diritto (di credito) viene riconosciuto e garantito dalla legge, onde ogni sviamento da tale scopo implica superamento del ridetto limite, come accade quando il creditore, violando il canone della buona fede, finisca con l’infliggere al proprio debitore un sacrificio che non trovi un contraltare nel proprio interesse lecito, morale e non emulativo. Né, sul crinale processuale, può essere dimenticato il c.d. giusto processo di cui al novellato art.111 Cost. che – letto in combinato disposto con la fondamentale norma di cui all’art.88 c.p.c. e sul prescritto dovere delle parti processuali di comportarsi con lealtà e probità – si declina in termini di giustezza del processo e di ragionevolezza della pertinente durata: tanto premesso, non può affiorare come “<em>giusto</em>” un processo che sia il precipitato di un abuso dell’attore che abbia esercitato il proprio diritto di azione in forme esorbitanti o comunque devianti rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale sotteso al medesimo diritto di azione, e che ne segna ad un tempo il pertinente limite di concreto esercizio; onde la parcellizzazione giudiziale di un credito, oltre che “<em>ingiusta</em>” nel senso anzidetto, si pone anche in frizione con il parallelo canone della ragionevole durata di un processo che non può per l’appunto “<em>durare ragionevolmente</em>” laddove parcellizzato in termini sequenziali, pur a fronte di una pretesa (da fonte) unitaria. Particolarmente significativo il collegamento che operano le SSUU tra il dovere di correttezza e buona fede e quello, inderogabile, di solidarietà di cui all’art.2 della Costituzione, onde il primo trova nel secondo una fonte di rango costituzionale che ne implementa, arricchendoli, i contenuti anche in termini di configurabilità degli obblighi di protezione della persona e delle cose del debitore e, in ambito processuale, della controparte, con riguardo dunque anche alla fase patologica del rapporto obbligatorio, già sfociata ormai in un processo, come peraltro dimostra lo stesso art.1227, comma 2, c.d. laddove – ad inadempimento già perpetrato e dunque quando ormai già si è in fase patologica – il creditore non può chiedere il risarcimento di quei danni che avrebbe potuto evitare o comunque ridurre giusta condotta ispirata a buona fede. Il Collegio rammenta come tanto la dottrina quanto la giurisprudenza abbiano ormai fatto assurgere il principio di buona fede quale strumento di controllo giudiziale del negozio, anche in ottica modificativa o integrativa, allo scopo di garantire il giusto equilibrio degli interessi consacrati nel negozio medesimo, circostanza che non fa che rafforzare la convinzione onde l’originario equilibrio dei ridetti interessi, siccome divisato dai contraenti nell’ambito di un rapporto obbligatorio, debba essere preservato dalle parti anche nella fase patologica successiva all’inadempimento di una di esse ed alla conseguente reazione dell’altra, non potendo tale equilibrio essere alterato da iniziative illegittime (perché abusive) del creditore a danno del debitore: il processo viene dunque additato dalla Corte come il bacino al cui interno da un lato il giudice (in senso correttivo o integrativo) e dall’altro le parti stesse (con contegni ispirati al principio di solidarietà e di buona fede) garantiscono per quanto possibile il mantenimento del ridetto equilibrio tra gli opposti interessi siccome scolpiti nel negozio fonte. Peraltro, che la parcellizzazione giudiziaria della pretesa creditoria incida in senso sfavorevole o comunque peggiorativo nella sfera del debitore discende dall’ovvia constatazione del prolungamento del relativo vincolo coattivo di assoggettamento al creditore (abusivo), peraltro con aggravio di spese ed onere di molteplici opposizioni a plurimi decreti ingiuntivi (contestuali o sequenziali), e con l’ulteriore rischio di formazione di giudicati contrastanti sulla medesima vicenda ovvero di pericolosi giudicati “<em>pregiudicanti</em>”, non potendosi <em>a priori</em> escludere che il debitore medesimo rinunzi ad opporsi ad un primo decreto ingiuntivo riferito ad una medesima ed unica pretesa per il <em>quantum</em> irrisorio che lo caratterizza per poi vedersi notificare ingenti decreti ingiuntivi connessi e successivi cui diventa difficile opporsi a cagione del giudicato <em>medio tempore</em> intervenuto sul primo decreto ingiuntivo non opposto. Né potrebbe predicarsi la legittimazione del debitore a mettere in mora (<em>credendi</em>) il proprio creditore, stante a tacer d’altro – afferma la Corte – come detta soluzione non sia per nulla percorribile ogni qual volta il presunto debitore convenuto si difenda affermando di non essere tale. Per le SSUU, in conclusione, non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, e ciò in quanto tale scissione del contenuto dell’obbligazione, operata dal creditore per relativa, esclusiva utilità con una unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede - che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento delle obbligazioni che ne scaturiscono – sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione di una unitaria pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del relativo interesse sostanziale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 dicembre viene firmato a Lisbona il Trattato che trasforma la CE in UE, e che riproduce all’art.102 (ex art.82) del TFUE (ex TCE) la fattispecie dell’abuso di posizione dominante.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2008</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 21 febbraio esce la sentenza della II Sezione della Corte di Giustizia CE in causa C-425/06, Ministero dell’Economia e delle Finanze c. <em>Part Service s.r.l.</em>, che – dipanando il pertinente dubbio insorto dopo le pronunce del 2006 – afferma come la nozione di abuso del diritto nell’ambito dell’ordinamento comunitario, con particolare riguardo al regime tributario dell’IVA, debba ricondursi all’inammissibilità per gli operatori di avvalersi fraudolentemente delle disposizioni del diritto comunitario, con contegno o comportamento abusivo che deve risultare da un insieme di elementi di natura obiettiva comprovanti l’esclusività dello scopo perseguito dalle operazioni economiche, volte essenzialmente all’ottenimento di un vantaggio fiscale. A tale fine, qualora le operazioni investano una pluralità di prestazioni, occorre per la Corte determinare se si versi nell’ipotesi di un <em>unicum</em> inscindibile ovvero di una sequenza di operazioni. Si tratta di un compito interpretativo che è da assumersi rimesso alla valutazione del giudice nazionale il quale ben può trarre il convincimento della realizzazione di una pratica abusiva analizzando i nessi giuridici, economici e personali dei soggetti partecipanti alle operazioni, anche riconoscendone il carattere fittizi. Il passaggio importante è quello nel quale la Corte chiarisce che al fine di configurare un abuso del diritto non occorre che il vantaggio fiscale costituisca lo scopo esclusivo del contribuente, potendo anche essere solo lo scopo “<em>essenziale</em>” (e dunque non esclusivo) dell’operazione ovvero delle operazioni controverse: quando concorrono a supportare il comportamento (presunto abusivo) del contribuente altre ragioni economiche, spetta al giudice nazionale verificare se – tutto considerato – al di là della apparente validità delle operazioni compiute per (del pari apparente) conformità alle disposizioni europee ed interne di recepimento, si sia in realtà al cospetto di una pratica abusiva. La dottrina di commento individua allora, ai fini della configurabilità dell’abuso del diritto in ambito fiscale comunitario, 3 specifici presupposti, ovvero: sul crinale soggettivo, la consapevolezza da parte dell’operatore economico della abusività della propria condotta, desumibile da circostanze oggettive; sul versante oggettivo, l’oggetto appunto di tale consapevolezza, ovvero l’aggiramento delle norme interne di recepimento facendo ricorso a libertà riconosciute dal diritto europeo; la sostanziale incoerenza tra quanto previsto in ambito europeo con le norme invocate dal contribuente e l’essenziale scopo (diverso) che questi si prefigge, ovvero aggirare la normativa interna e comunitaria per ottenere un vantaggio fiscale.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 15 aprile esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.9905 onde, con riguardo ad una fattispecie di società collegate, l’estraneità dell’atto compiuto dall’amministratore della società agente rispetto al pertinente oggetto sociale – come nel caso della concessione di ipoteca a garanzia della esposizione debitoria di altra società del gruppo – è da assumersi irrilevante a seguito e per effetto dell’adozione di una delibera di autorizzazione preventiva adottata dalla società, tale delibera impegnando la società medesima alla condotta che ne sia esecuzione, e che sia ad essa conforme, posta in essere dall’organo di gestione, idonea o meno che sia rispetto al perseguimento del ridetto scopo sociale. Secondo la Corte, in sostanza, una delibera presa all’unanimità dei soci consente all’amministratore di compiere atti anche estranei all’oggetto sociale della compagine “<em>collegata</em>” di che trattasi, che dunque non possono essere assunti abusivi.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 21 aprile esce la sentenza della sezione V tributaria della Cassazione n.10257, alla cui stregua l’attività economica svolta dal contribuente riconducibile all’essenziale ed esclusivo obiettivo del conseguimento di un vantaggio fiscale costituisce fattispecie di abuso del diritto ed i relativi effetti giuridici sono da assumersi irrilevanti nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, spettando al contribuente l’onere di dimostrare le ragioni economiche a suffragio del relativo contegno, le quali devono rivelarsi sostanziali e concrete e non meramente marginali o teoriche. Si tratta di una pronuncia che riconosce l'esistenza nel sistema italiano di un generale principio antielusivo, che è poi manifestazione specifica del divieto di abuso del diritto.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">*L’11 giugno esce la sentenza della Sezione III della Cassazione n.15476 che, sulla scia delle SSUU, ribadisce come non sia consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, e ciò in quanto tale scissione del contenuto dell’obbligazione, operata dal creditore per relativa, esclusiva utilità con una unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede - che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento degli obblighi che ne scaturiscono– sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione di una unitaria pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del relativo interesse sostanziale.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 17 ottobre esce la sentenza della Sezione tributaria della Cassazione n.25374 che, andando in contrario avviso rispetto ad altra giurisprudenza in tema di elusione fiscale ed abuso del diritto, afferma che l’individuazione dell’impiego abusivo di una forma giuridica, piegata al solo scopo di conseguire, da parte del contribuente, un risparmio di imposta, spetta all’Amministrazione finanziaria, che non può limitarsi ad una mera e generica affermazione dell’abuso, dovendo piuttosto individuare e precisare gli aspetti e le peculiarità che fanno assumere l’operazione priva di un reale contenuto economico che sia diverso dal risparmio di imposta.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 dicembre esce l’importantissima sentenza delle SSUU della Cassazione n.30055 che, unitamente alle gemelle 30056 e 30057, si occupa dell’abuso del diritto in ambito tributario, giusta elusione fiscale, con riferimento alle imposte dirette e, dunque, non armonizzate. La Corte affronta <em>in primis</em> la questione relativa alla natura del giudizio tributario e dei poteri di indagine del giudice tributario in ordine al rapporto d'imposta; poteri che - secondo la giurisprudenza della Corte medesima - sono necessariamente limitati al riscontro della consistenza della pretesa fatta valere dall'Amministrazione finanziaria con l'atto impositivo, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso enunciati (da ultimo, Cass. 20516/06). Siffatto principio, che si traduce nella tradizionale affermazione secondo cui l'Amministrazione è attore in senso sostanziale ed è perciò gravata dall'onere di provare la fondatezza della pretesa tributaria così come azionata con l'atto impositivo, merita di essere precisato. Affermare infatti, chiosa ancora la Corte, che nel giudizio tributario l'Amministrazione finanziaria (e, adesso, l'Agenzia delle Entrate) è attore e che la relativa pretesa è quella risultante dall'atto impugnato vuol dire riconoscere che l'erario aziona una specifica pretesa impositiva - e cioè accerta un determinato debito tributario in capo al contribuente e ne richiede il pagamento - e che il processo che nasce dall'impugnativa dell'atto autoritativo è, si, delimitato nei relativi confini, quanto a <em>petitum</em> e <em>causa petendi</em>, dalla pretesa tributaria, ma solo nel senso che il fondamento e l'entità di questa non possono avere latitudine diversa da quanto dedotto nell'atto impositivo. Se, in altre parole, l'Amministrazione - come nel caso di specie - fonda il proprio accertamento sull'integrale disconoscimento di una minusvalenza, la pretesa tributaria resta in tal modo individuata - cosicché la domanda dell'Amministrazione non può fondarsi su altro che il disconoscimento di tale minusvalenza - ma è evidente che il tema relativo all'esistenza, validità e opponibilità all'Amministrazione dei negozi (nella specie la combinazione tra i contratti di acquisto e di successiva vendita delle azioni) da cui si assume che origini la dedotta minusvalenza è acquisito al processo per effetto dell'allegazione da parte del contribuente, ovviamente gravato dell'onere di provare i presupposti di fatto per l'applicazione della norma (quella relativa alla valutazione delle componenti passive del reddito) da cui discende l'invocata diminuzione del reddito d'impresa imponibile; in conformità del resto alla costante giurisprudenza della Corte medesima in tema di onere della prova, in materia tributaria, quanto alle norme di beneficio (cfr. Cass. 14381/07, 13559/07, SSUU 27619/06). Se dunque l'oggetto della domanda è la pretesa impositiva e non l'accertamento dell'invalidità o dell'inefficacia di un atto negoziale, e se, al contrario, l'esistenza e l'efficacia del contratto sono dedotti dal contribuente al fine di paralizzare la pretesa dell'amministrazione, ne discende - in conformità alla giurisprudenza della Corte (Cass. 89/07, 11550/07, 12398/07) - la sicura rilevabilità d'ufficio delle eventuali cause di invalidità o di inopponibilità all'Amministrazione del contratto stesso, sempre che, ovviamente, ciò non sia precluso, nella fase di impugnazione, dal giudicato interno eventualmente già formatosi sul punto o (nel giudizio di legittimità) dalla necessità di indagini di fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Nel merito, ritengono poi le Sezioni Unite di dover aderire all'indirizzo di recente affermatosi nella giurisprudenza della Sezione tributaria (si veda, da ultimo, Cass. 10257/08, 25374/08), fondato sul riconoscimento dell'esistenza – per l’appunto - di un generale principio antielusivo; con la precisazione che la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria (come invece accade per i tributi c.d. armonizzati: IVA, accise, diritti doganali) quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l'ordinamento tributario italiano. Ed in effetti, chiosa ancora la Corte, i principi di capacità contributiva (art. 53 Cost., comma 1) e di progressività dell'imposizione (art. 53 Cost., comma 2) costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi, onde non può non ritenersi insito nell'ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale. Né contrasta con l'individuazione nell'ordinamento di un generale principio antielusione la constatazione del sopravvenire di specifiche norme antielusive, che appaiono anzi - come la Corte ha osservato - mero sintomo dell'esistenza di una regola generale (Cass. 8772/08). Che il legislatore, in epoca successiva a quella cui si riferiscono i fatti di causa - introducendo (con il D.L. n. 372 del 1992, art. 1 bis, convertito con modificazioni dalla L. n. 429 del 1992) l’art. 14, comma 6 bis, nel D.P.R. n. 917 del 1986 - abbia grandemente ridotto (ma non del tutto eliminato) la convenienza fiscale delle operazioni di <em>dividend washing</em>, espressamente escludendo il credito d'imposta per i dividendi relativamente alle azioni oggetto di acquisto da fondi comuni di investimento o SICAV, successivamente alla delibera di distribuzione degli utili stessi, è infatti circostanza idonea ad offrire indiretta conferma dell'illiceità fiscale di tali operazioni, atteso che, in caso contrario, la norma - che esclude taluni percettori di dividendi da un beneficio fiscale spettante a tutti gli altri - sarebbe palesemente illegittima per violazione del principio di eguaglianza. Il che evidentemente non è, proprio in ragione del fatto che esiste, nell'ordinamento costituzionale, un principio per il quale non è lecito utilizzare abusivamente, e cioè per un fine diverso da quello per il quale sono state create, norme fiscali (<em>lato sensu</em>) di favore, essendo d'altro canto, nel caso di specie, <em>in re ipsa</em> la elusività dell'operazione. Nè siffatto principio può in alcun modo ritenersi contrastante con la riserva di legge in materia tributaria di cui all'art. 23 Cost., in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell'ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali. La pacifica inapplicabilità alla fattispecie, <em>ratione temporis</em>, del menzionato comma 6 bis non esclude perciò la possibilità di rilevare l'abusività della condotta, tanto più che la norma in questione non contempla l'intera fattispecie c.d. di <em>dividend washing</em> ed ogni possibile beneficio fiscale indebito ad essa ricollegabile, ma prende in esame la sola operazione di acquisto di azioni, dopo la delibera di distribuzione degli utili, da un fondo di investimento o da una SICAV, al fine di escludere l'attribuzione del credito di imposta di cui dello stesso art. 14, comma 1. Come si è detto, per <em>dividend washing</em> si intende infatti la combinazione di un negozio di acquisto di azioni da un fondo di investimento o una SICAV con il successivo negozio di rivendita delle medesime azioni alla stessa società venditrice, dopo la percezione dei dividendi, al fine sia di godere del credito di imposta di cui altrimenti il fondo o la SICAV non godrebbe (ai sensi della L. 23 marzo 1983, n. 77, art. 9, comma 1), sia - come nel caso di specie - al fine di consentire all'acquirente-venditore di diminuire le componenti attive del reddito d'impresa mediante il computo della minusvalenza costituita dal differenziale tra il prezzo di acquisto delle azioni prima della distribuzione del dividendo ed il prezzo di vendita subito dopo la percezione del dividendo stesso. Che una specifica norma antielusiva abbia espressamente preso in considerazione uno dei benefici fiscali che tipicamente derivano dal negozio abusivo non vuol dire pertanto, prosegue la Corte, che il giudice tributario non possa, prendendo atto nella specie della valutazione espressa di elusività dell'operazione da parte del legislatore, utilizzare lo strumento dell'inopponibilità all'Amministrazione (adottato dallo stesso legislatore in numerose norme specifiche di carattere antielusivo, quali la L. n. 408 del 1990, art. 10, comma 1, - nel testo dapprima sostituito dalla L. n. 724 del 1994, art. 28, comma 1, e poi modificato dalla L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 26, - e il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, introdotto dal D.Lgs. n. 38 del 1997, art. 7) anche per ogni altro profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall'operazione elusiva, commessa anche in data anteriore all'entrata in vigore della norma suddetta. Come correttamente viene sottolineato nella sentenza n. 25374/08, l'esistenza di un principio generale non scritto volto a contrastare le pratiche consistenti in un abuso del diritto è d'altro canto riconosciuta dalla Corte anche in campi diversi dal diritto tributario. Ne è testimonianza la sentenza delle Sezioni Unite n. 23726/07, nella quale è definitiva come abusiva la pratica di frazionamento di un credito, nella fase giudiziale dell'adempimento, al fine, essenzialmente, di scelta del giudice competente (frazionando la pretesa si può infatti adire in via multipla, contemporanea o successiva, un giudice competente per valore minore rispetto a quello che sarebbe competente con riguardo alla pretesa unitariamente considerata). Nessun dubbio può d'altro canto sussistere per la Corte riguardo alla concreta rilevabilità d'ufficio, in sede di legittimità, della inopponibilità del negozio abusivo all'Erario, dovendosi ricordare che, per costante giurisprudenza della Corte medesima, sono rilevabili d'ufficio le eccezioni poste a vantaggio dell'Amministrazione in una materia, come è quella tributaria, da essa non disponibile (da ultimo, Cass. 1605/08); il carattere elusivo dell'operazione può d'altro canto agevolmente desumersi, senza necessità di alcuna ulteriore indagine di fatto, sulla base della compiuta descrizione che se ne rinviene in atti (in specie nella stessa sentenza impugnata) e, soprattutto, della esplicita valutazione proveniente dallo stesso legislatore. La sentenza impugnata - fondata sull'implicito presupposto della inesistenza nell'ordinamento di un generale principio antielusivo - risulta dunque per la Corte erronea e va cassata.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2009</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 18 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.20106 in tema di diritto di recesso, alla cui stregua più in generale si ha abuso del diritto soggettivo allorché, pur in difetto di divieti formali, il titolare lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali i poteri o le facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto dell’abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, e ciò giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso che di esso viene fatto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 19 maggio esce la sentenza della sezione tributaria della Cassazione n.12249 la quale preliminarmente richiama l'orientamento espresso da alcune pronunzie precedenti secondo cui deve escludersi che l'Amministrazione finanziaria possa (ri)determinare la natura di un contratto, prescindendo dalla volontà concretamente manifestata dalle parti (cfr. Cass. 5282/02, 11351/01, 9944/00). In proposito, precisa la Corte, deve osservarsi che il suddetto orientamento risulta sovvertito dalla più recente giurisprudenza della Corte medesima, per la quale l'Amministrazione finanziaria, facendosi rigorosamente carico del correlativo onere probatorio, ha il potere di riqualificare (prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) i contratti sottoscritti dal contribuente,ovvero di farne rilevare la simulazione o altri profili di invalidità, quale la nullità per mancanza di causa, ed applicare un trattamento fiscale meno favorevole di quello conseguente agli effetti ricollegabili allo schema negoziale impiegato (Cass. 1549/07, 17221/06, 20398/05, 20816/05, 7457/03). Ne consegue, per la Corte, che pur al cospetto di un contratto tipico stipulato dalle parti, non si può escludere l’abuso del diritto perpetrato da esse allorché la sottostante operazione economica sia destinata unicamente al perseguimento di vantaggi fiscali. Datane la prova, per la Corte l’Amministrazione finanziaria può riqualificare un contratto (prescindendo dalla volontà apparente espressa dalle parti in seno al contratto medesimo) facendone eventualmente rilevare la nullità o comunque l’invalidità onde imporre un trattamento fiscale meno favorevole di quello che conseguirebbe all’applicazione senza riserve dello schema contrattuale divisato dalle parti. Per la Corte, in particolare, va considerato ormai superato il precedente orientamento inteso a predicare l’inesistenza in ambito nazionale di una clausola generale anti-elusiva; l’Amministrazione finanziaria può infatti opporre alle parti di uno schema contrattuale anche tipico le categorie di diritto comune della invalidità e della inefficacia, stante anche la più recente recente europea dalla quale si evince una nozione generale di abuso del diritto (<em>abuse of right</em>) da assumersi applicabile anche all’imposizione diretta (oltre che all’Iva: il riferimento è in particolare alle sentenze <em>Halifax</em> e <em>Part Service</em>), e da assumersi configurabile allorché lo scopo della legge venga, nonostante la relativa formale osservanza, tutt’affatto vanificato onde ottenere un vantaggio fiscale, giusta creazione artificiosa delle condizioni giuridiche necessarie per ottenere tale vantaggio. Per la Corte, è il sistema costituzionale – attraverso l’art.53 e la nozione di partecipazione alla spesa pubblica in ragione della capacità contributiva di ciascuno – a consentire di rinvenire un solido fondamento giuridico al divieto di abuso del diritto in ambito tributario, con conseguente estensibilità di quanto afferma la Corte di Giustizia in materia di Iva anche alle imposte c.d. dirette, e come tali non armonizzate a livello europeo. Per la Corte laddove si ponga il problema del'applicabilità del principio dell'abuso del diritto, così come enunciato dalla Corte di Giustizia nelle sentenze <em>Halifax</em> e <em>Part Service</em> e ripreso dalla giurisprudenza della stessa Suprema Corte, anche nella materia dell'imposizione diretta, in relazione ad esso, pur avendo il pertinente principio lo stesso contenuto e lo stesso regime processuale, la matrice deve essere ricavata, non dal diritto comunitario, ma dal sistema costituzionale (Sez. Un., n. 30055 e 30057/08). Orbene, prosegue la Corte, la <em>ratio decidendi</em> della sentenza impugnata innanzi ad essa nel caso di specie consiste, essenzialmente, nella non sindacabilità, da parte dell'Amministrazione finanziaria, di un contratto tipico, privo di concrete finalità illecite e realmente voluto dalle parti: è del tutto evidente quindi, chiosa ancora la Corte, che il giudice deve porsi il problema della natura abusiva dell'operazione, emergente dall'inconsueto ricorso allo strumento (nel caso di specie) del comodato in una vicenda di gestione di affari economici e per la quale, secondo i principi della già citata giurisprudenza comunitaria e della Corte medesima, si pone a carico del soggetto che ne invoca l'applicazione ai fini fiscali l'onere di provare che l'impiego dello strumento contrattuale in contestazione non aveva il fine essenziale di conseguire un risparmio d'imposta. Nella specie, infatti, la società aveva invocato, oltre al la tipicità del contratto, realmente voluto dalle parti e in assenza di motivi illeciti e d'intento fraudolento, non ben precisati motivi di convenienza organizzativa per gestire l'esercizio di attività sportive. Sono manifeste le rilevanti ricadute fiscali della sostituzione del soggetto non imprenditore a quello originariamente titolare nell'esercizio di un'attività, attraverso l'utilizzazione di un complesso organizzato di beni e servizi costituente un'azienda. Per restare nel campo dell'i.v.a. – precisa la Corte - basterà considerare che le somme in danaro versate da coloro che utilizzano gl'impianti perdono, con la detta sostituzione, il loro carattere di corrispettivi imponibili. In proposito appaiono decisivi al Collegio i rilievi contenuti nella sentenza della Corte comunitaria <em>Part Service</em> e nella sentenza della Corte stessa resa nel medesimo procedimento, secondo cui ragioni economiche concorrenti di portata non rilevante o marginale non valgono ad escludere la natura abusiva dell'operazione; ed a maggior ragione non può avere alcuna valenza decisiva la prospettazione di finalità "<em>sportive</em>". In generale, si deve rilevare per la Corte che l'attribuzione dell'esercizio di un'attività economica di natura imprenditoriale ad un soggetto non imprenditore, tanto più quando avviene senza corrispettivo, senza modifiche strutturali dell'organizzazione e con la coincidenza tra soci fondatori dell'associazione e titolari delle quote della società di capitali, costituisce una regolamentazione negoziale del tutto inconsueta, che, per essere opposta al Fisco, deve trovare la propria giustificazione in rilevanti ed evidenti ragioni economiche, sì che la prova di queste ultime - nel quadro del controllo sulla natura abusiva dell'operazione - deve essere particolarmente rigorosa. Si consideri che, diversamente ragionando, qualunque attività di prestazione di servizi volti alla cura della persona o all'intrattenimento, svolta attraverso un'organizzazione di tipo imprenditoriale, potrebbe facilmente sfuggire al regime impositivo che gli è proprio attraverso l'impiego della forma contrattuale del comodato, potendosi affermare che l'espediente <em>de quo</em> potrebbe rappresentare un esempio di scuola di pratica abusiva. In sostanza, il fatto che il contratto sia tipico (nel caso di specie, un comodato), voluto come tale dalle parti ed apparentemente privo di finalità illecite non esclude di per sé la configurabilità di un vietato abuso del diritto, quando elementi oggettivi inducano a ritenere che si sia fatto ricorso ad esso essenzialmente (anche se non esclusivamente) allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale.</p> <p style="text-align: justify;">Il 01 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.10413 in tema di concessione abusiva di credito da parte di una banca ad una società, secondo la quale, in caso di successivo fallimento della società finanziata, il curatore è legittimato ad agire ai sensi dell’art.148 della legge fallimentare ed in relazione all’art.2393 c.c. (azione di responsabilità verso gli amministratori) nei confronti della banca finanziatrice (abusiva) quale responsabile solidale del danno cagionato – assieme agli amministratori – alla società fallita, a cagione dell’abusivo ricorso al credito intentato appunto dagli amministratori della ridetta società fallita, anche nel caso in cui il curatore non agisca ad un tempo anche nei confronti di tali amministratori infedeli. In sostanza, per la Corte al cospetto della solidarietà passiva risarcitoria (contrattuale) che il curatore fallimentare può azionare ed avente come protagonisti da un lato gli amministratori sociali infedeli e dall’altro la banca finanziatrice, tale curatore può agire anche solo nei confronti della banca finanziatrice, pur senza nel medesimo tempo agire anche contro gli amministratori che hanno divisato l’operazione di abusivo finanziamento. Ciò in particolare nel caso in cui l’amministratore infedele sia stato condannato per concorso in bancarotta fraudolenta e ricorso abusivo al credito, quale fattispecie di responsabilità dell’amministratore verso la società ex art.2393 c.c. che il curatore può far valere ai sensi dell’art.146 della legge fallimentare.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 agosto viene varato il decreto legislativo n.128, recante disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, in attuazione degli articoli 5, 6 e 8, comma 2, della legge 11 marzo 2014, n. 23. Particolarmente importante l’art.1 che, nell’abrogare l’art.37 bis del D.p.R. 600.73 in materia di elusione fiscale, ne riproduce il contenuto all’interno del nuovo art.10 bis della legge 212.00 (c.d. Statuto del contribuente), contestualmente introdotto e rubricato “<em>Disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale</em>”. Configurano – alla stregua di tale norma - abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all'Amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni. A tali fini, si considerano: a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali; sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell'utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato; b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario. Non si considerano invece abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente; resta altresì ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale. Importante il comma 5 alla cui stregua il contribuente può proporre interpello secondo la procedura e con gli effetti dell'articolo 11 della legge 212.00 per conoscere se le operazioni che intende realizzare, o che siano state realizzate, costituiscano fattispecie di abuso del diritto, con istanza che va presentata prima della scadenza dei termini per la presentazione della dichiarazione o per l'assolvimento di altri obblighi tributari connessi alla fattispecie cui si riferisce l'istanza medesima. Senza pregiudizio dell'ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti per i singoli tributi, l'abuso del diritto e' accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di 60 giorni, in cui sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto medesimo; la richiesta di chiarimenti e' notificata dall'Amministrazione finanziaria ai sensi dell'articolo 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, entro il termine di decadenza previsto per la notificazione dell'atto impositivo; tra la data di ricevimento dei chiarimenti ovvero di inutile decorso del termine assegnato al contribuente per rispondere alla richiesta e quella di decadenza dell'amministrazione dal potere di notificazione dell'atto impositivo intercorrono non meno di 60 giorni e, in difetto, il termine di decadenza per la notificazione dell'atto impositivo e' automaticamente prorogato, in deroga a quello ordinario, fino a concorrenza dei 60 giorni. Inoltre, fermo quanto disposto per i singoli tributi, l'atto impositivo e' specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente nel termine divisato. L'Amministrazione finanziaria ha l'onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d'ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2, mentre il contribuente ha l'onere di dimostrare l'esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3. In caso di ricorso, i tributi o i maggiori tributi accertati, unitamente ai relativi interessi, sono posti in riscossione, ai sensi dell'articolo 68 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, e, successive modificazioni, e dell'articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472. Ai sensi del comma 11, soggetti diversi da quelli cui sono applicate le disposizioni in parola possono chiedere il rimborso delle imposte pagate a seguito delle operazioni abusive i cui vantaggi fiscali sono stati disconosciuti dall'Amministrazione finanziaria, inoltrando a tal fine, entro un anno dal giorno in cui l'accertamento e' divenuto definitivo ovvero e' stato definito mediante adesione o conciliazione giudiziale, istanza all'Agenzia delle entrate, che provvede nei limiti dell'imposta e degli interessi effettivamente riscossi a seguito di tali procedure. In sede di accertamento l'abuso del diritto può peraltro essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie, e dunque solo in via residuale; inoltre le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie, e dunque non sono penalmente rilevanti, ferma tuttavia l'applicazione delle sanzioni amministrative tributarie.</p> <p style="text-align: justify;">Il 24 settembre viene varato il decreto legislativo n.156, il cui art.7, comma 14, modifica l’art.1, comma 3, del decreto legislativo n.128.15, onde le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d'imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall'ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non possono verificarsi; a tal fine il contribuente interpella l'amministrazione ai sensi dell'articolo 11, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente. Resta ferma la possibilità del contribuente di fornire la dimostrazione ridetta (nella particolare fattispecie gli effetti elusivi non possono verificarsi) anche ai fini dell'accertamento in sede amministrativa e contenziosa.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.4090 alla cui stregua – in presenza di diversi e distinti diritti di credito, quand’anche relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti – le pertinenti domande giudiziali possono anche essere proposte in separati processi (a differenza di quanto deve invece accadere in presenza di una pretesa unitaria, che non può essere artatamente frazionata). La Corte precisa nondimeno che qualora i distinti diritti di credito in parola – oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti – siano anche in proiezione inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato, o siano comunque fondati su di un medesimo fatto costitutivo, onde essi non potrebbero essere separatamente accertati se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale – la separatezza dei giudizi per le pertinenti domande giudiziali è ammessa solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente scandagliabile alla pertinente tutela processuale frazionata, in difetto del quale tale frazionamento non potendo che ridondare ancora una volta in (vietato) abuso del diritto.</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.9983 in tema di c.d. abusiva concessione di credito nei confronti di una società dipoi fallita. La Corte conferma la legittimazione del Curatore fallimentare ad agire, in virtù del combinato disposto dell’art.146 L. Fall. e dell’art.2393 c.c., anche nei confronti della Banca finanziatrice laddove la posizione a questa ascritta sia di terzo responsabile solidale del danno (“<em>contrattuale</em>”) cagionato alla società fallita per effetto dell’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore della società predetta. Nel caso di specie il curatore del fallimento di una s.r.l. ha convenuto in giudizio due amministratori della stessa, succedutisi in tale carica, unitamente a tre Banche, chiedendone la condanna in solido al risarcimento (ex art.2393 c.c.) dei danni cagionati alla società dalle concorrenti condotte degli amministratori richiedenti e delle banche concedenti il credito. Per il Collegio l’azione esercitata dal curatore è fondata sul concorso delle banche erogatrici nella responsabilità degli amministratori verso la società, dovendosi assumere sussistente la <em>legitimatio ad causam</em> del curatore del pertinente fallimento. Per la Corte, più in specie, non si può sostenere (come pure ha fatto dalla Corte d’Appello per cui ‘<em>l’erogazione del credito non poteva considerarsi come un’operazione in sé abusiva</em>’) che l’attività di concessione dei finanziamenti non sia mai di per sé abusiva, atteso come l’art.218 L.Fall. qualifichi non soltanto come illecito civile, ma altresì come reato il fatto degli amministratori (dei direttori generali, liquidatori e, in generale, degli imprenditori esercenti un’attività commerciale) che, anche al di fuori dai casi di bancarotta, ricorrono o continuano a ricorrere al credito, dissimulando il dissesto o lo stato di insolvenza. Per la Corte, se il ricorso abusivo al credito va oltre i confini dell’accorta gestione imprenditoriale quanto all’amministratore della società finanziata, la stessa erogazione del credito, ove (come dedotto nella specie) sia stata accertata la perdita del capitale di quella società, integra un concorrente illecito della banca; la quale deve seguire i principi di sana e prudente gestione valutando (art. 5 del T.u.b.) il merito di credito in base a informazioni adeguate, palesandosi come tutt’altro che remota l’eventualità che gli effetti di una abusiva concessione di credito si riflettano in danno della stessa società<em> </em>artificiosamente tenuta in vita, in forma di aggravamento del relativo dissesto, di lievitazione del pertinente passivo fallimentare, di preclusione di soluzioni concordate o altre misure salvifiche sull’impresa; una simile colpevole condotta ha peraltro una valenza plurioffensiva, al punto che risulta disincentivata mediante possibili responsabilità penali, oltre a far luogo ad un illecito civile. Per la Corte, il pregiudizio arrecato dalla concessione del credito da parte della banca finanziatrice non si può escludere <em>a priori</em> là dove si assuma come le banche siano tenute ad operare seguendo la regola di diligenza del <em>bonus argentarius</em>, dovendo dunque agire secondo la diligenza tipica dell’imprenditore bancario, come tale imperniantesi su professionalità ed elevata specializzazione della funzione svolta. Più nel dettaglio, in conformità con quanto stabilito dalle direttive della Banca d’Italia e, nello specifico, dalle Istruzioni di vigilanza per gli enti creditizi (Circolare n.229 del 21/04/1999 e successivi aggiornamenti), tutti gli istituti bancari sono tenuti ad operare un’attività istruttoria preliminare alla concessione del finanziamento, consistente nell’acquisizione di tutta la documentazione necessaria ad effettuare un’adeguata valutazione del merito creditizio, sia sotto il profilo patrimoniale che reddituale, in modo da giungere ad una corretta determinazione del rischio assunto, onde laddove l’attività di erogazione del pertinente credito possa effettivamente assumersi abusiva - così come l’attività di ricorso abusivo al credito può essere considerata quale fonte di responsabilità per gli amministratori ai sensi dell’art.218 L.Fall. ove si sia spinta oltre i confini dell’accorta gestione imprenditoriale – nella stessa misura anche l’erogazione del credito da parte delle Banche può integrare un illecito concorrente delle stesse, trattandosi di condotta dotata di estrinseca efficacia causale ed integrante un danno per la società in sé, oltre che per i creditori anteriori, conseguendone l’insorgere dell’obbligazione risarcitoria in via solidale ai sensi dell’art.2055 c.c., le banche finanziatrici essendosi rese compartecipi, per il tramite dell’erogazione dei finanziamenti, della fattispecie di responsabilità degli amministratori che hanno chiesto i finanziamenti pur essendo in presenza di una condizione economica tale da non giustificarli.</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.11798 che – nel ribadire principi già espressi in passato e nel dare ad essi autorevole continuità - esclude la legittimazione del curatore fallimentare ad agire nei confronti delle banche finanziatrici per il risarcimento del danno ai sensi dell’art.2043 c.c.. Conformemente a quanto già affermato dalle Sezioni Unite del 2006, l’azione aquiliana di danno da abusiva concessione del credito non è un’azione di massa a carattere indistinto, quanto piuttosto uno strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore, onde il curatore non è legittimato a proporre nei confronti del finanziatore responsabile l’azione da illecito aquiliano per il risarcimento dei danni causati ai creditori – <em>uti singuli</em> e quand’anche collettivamente intesi - dall’abusiva concessione del credito diretta a mantenere artificiosamente in vita un’impresa decotta, suscitando così nel mercato la falsa impressione che si tratti di un’impresa economicamente vitale (non atteggiandosi il curatore a rappresentante di tali creditori); ciò in quanto nel sistema della legge fallimentare la legittimazione del curatore ad agire in rappresentanza dei creditori è limitata unicamente alle azioni indistinte “<em>di massa</em>” con finalità conservative del patrimonio dell’impresa fallita, mentre nella fattispecie di concessione abusiva del credito la posizione di ciascun creditore può ben differire, anche per ragioni legate al tempo di insorgenza del pertinente credito, da quelle di ciascuno degli altri creditori. La Corte ribadisce, su altro versante, come la responsabilità della banca finanziatrice si basi piuttosto sul medesimo titolo della responsabilità (“<em>contrattuale</em>”) dell’amministratore, onde la condotta del finanziatore compendiantesi nella concessione (abusiva) del credito si appalesa concorrente con quella dell’amministratore che ricorre abusivamente ad esso, talché il titolo (“<em>contrattuale</em>”) di responsabilità dedotto in capo alla banca finanziatrice deve essere quello stesso che integra la c.d. <em>mala gestio </em>dell’organo gestorio.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che cosa s’intende per “<em>abuso del diritto</em>” e che funzione e consistenza presenta il relativo divieto in rapporto alle previsioni di cui al codice civile?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>ogni diritto sottende un interesse giuridicamente tutelato;</li> <li>tutto quello che è disfunzionale rispetto alla soddisfazione di tale interesse tutelato costituisce un “<em>abuso</em>” del diritto stesso;</li> <li>la giurisprudenza tende a correggere simili abusi evocando la figura generale (ed elastica) del “<em>divieto di abuso del diritto</em>”, senza che tuttavia affiori dal sistema alcuna norma che ne discorra in termini così generali;</li> <li>tale divieto “<em>generale</em>” si ricava allora, per astrazione, da tutta una serie di disposizioni specifiche che, seppure episodicamente e <em>ratione materiae</em>, sembrano configurarlo come espressione appunto di un canone generale del sistema;</li> <li>occorre muovere allora dal concetto di diritto soggettivo, di finalità per le quali il sottostante interesse viene protetto, di limiti previsti dalla legge per l’esercizio di tale diritto e, sul crinale patologico, di “<em>sviamento</em>” dalle ridette finalità di legge giusta esercizio che travalichi i ridetti limiti; ciò al fine di stabilire se esiste, al di là delle singole ipotesi “<em>tipiche</em>” di abuso del diritto (e di relativo divieto), un principio generale dell’ordinamento che impone al portatore del diritto stesso di non esercitarlo oltre i limiti della finalizzazione alla soddisfazione del pertinente interesse protetto;</li> <li>si fronteggiano sul punto diverse opzioni ermeneutiche: f.1) la tesi minoritaria della “<em>tipizzazione</em>”, onde si può parlare di divieto di abuso del diritto solo nelle fattispecie – sparse nel codice civile - che prevedono espressamente tale figura, non potendosi all’opposto configurare un pertinente principio generale, circostanza che implicherebbe incertezze in ordine al “<em>come</em>” un diritto (per il quale non sia espressamente previsto appunto il divieto di abuso) vada esercitato per la soddisfazione del sotteso interesse giuridicamente tutelato; la regola è dunque quella per cui l’esercizio di un diritto va assunto sempre tutelato, non potendo mai configurare un illecito, salve le ipotesi, parcellizzate, in cui il codice civile (o comunque la legge) qualifica il ridetto esercizio come “<em>abusivo</em>”; f.2) la tesi, maggioritaria in dottrina e giurisprudenza, alla cui stregua – proprio sulla scorta della molteplici disposizioni codicistiche che in qualche modo lo supportano, peraltro in materie tutt’affatto diverse tra loro - è ritraibile dal sistema ordinamentale un principio generale di divieto di abuso del diritto, il quale ultimo non può mai essere esercitato oltre i limiti legalmente previsti, in caso contrario cessando di ricevere tutela (ed impegnando piuttosto la responsabilità di chi lo esercita abusivamente); muovendo dalla considerazione onde il diritto soggettivo attribuisce a chi ne è portatore – sul piano statico - una posizione di libertà e di forza giuridicamente tutelata cui corrisponde - sul crinale dinamico – un potenziale di esercizio tendenzialmente pieno ed assoluto, esso, proprio perché tale, soffre in termini di relativo esercizio un limite che gli è esterno, non potendo essere per l’appunto esercitato o rivendicato, e dunque dinamicamente posto “<em>in azione</em>”, allorché non rechi seco alcun vantaggio (od alcun vantaggio ulteriore) per chi ne è titolare “<em>esercitante</em>” o “<em>rivendicante</em>”, implicando piuttosto e ad un tempo – consapevolmente ed intenzionalmente - un pregiudizio (o un maggior pregiudizio) per il soggetto destinatario del ridetto esercizio o della ridetta revindica; l’interesse “<em>prevalente</em>”, che sottende il diritto soggettivo in un determinato contesto sociale non può dunque – giusta esercizio “<em>abusivo</em>” – prevaricare l’interesse recessivo oltre il limite della soddisfazione del primo e del(l’all’uopo) correlato sacrificio del secondo, superandosi il confine dell’abuso quando non vi è (o non vi e più) soddisfazione delle interesse protetto e vi è solo ultroneo sacrificio (e, dunque, inutile pregiudizio) dell’interesse che gli si giustappone; si ha abuso del diritto quando lo si esercita, secondo la tesi maggioritaria in parola, senz’altro scopo che sia quello di ledere o nuocere o comunque arrecare danno o molestia a terzi, debordando dalla finalità per la quale è previsto il potere di esercizio del diritto stesso, ovvero la soddisfazione dell’interesse ad esso sottostante, e dunque, nella sostanza, facendo luogo ad uno “<em>sviamento</em>” di potere giuridicamente conferito;</li> <li>la teoria maggioritaria rinviene un preciso fondamento normativo al divieto di abuso del diritto nell’art.833 c.c., laddove esso vieta i c.d. atti emulativi, ovvero quelli attraverso i quali il proprietario non ha altro scopo che nuocere o recare molestia a terzi; si tratta di una norma che: g.1) parte della dottrina interpreta alla luce del disposto di cui all’art.1175 c.c. in tema di correttezza e buona fede in seno al rapporto obbligatorio, onde il proprietario compie atti emulativi quando tali atti si atteggiano ad anti-economici e, per l’effetto, riprovevoli laddove non comportano alcun vantaggio per l’interesse del proprietario che li compie, risolvendosi piuttosto solo in un pregiudizio (in termini di danno ovvero di semplice molestia) per l’interesse del proprietario che li subisce; g.2) maggioritaria giurisprudenza ed altra parte della dottrina interpreta invece come implicante la necessaria compresenza di due precisi presupposti, il primo di carattere oggettivo compendiantesi nel difetto della benché minima utilità prodotta dall’atto compiuto dal proprietario (da questo punto di vista, anche una utilità minima può infatti escludere la natura emulativa dell’atto considerato); il secondo di carattere soggettivo compendiantesi nell’<em>animus aemulandi</em> o <em>animus nocendi</em>, e dunque nella precisa intenzione del proprietario che compie il divisato atto di nuocere o comunque recare molestia a terzi (i quali devono nondimeno provare tale specifica inclinazione della volontà del proprietario agente), come si evince dall’espressione onde gli atti considerati non devono appunto avere “<em>altro scopo</em>” (soggettivo) che quello di nuocere o recare molestia a terzi; g.3) altra parte della dottrina, ancora, interpreta giusta valorizzazione del principio di proporzionalità, onde in particolare l’elemento oggettivo di un atto emulativo consta della sproporzione tra l’<em>utilitas</em> che il proprietario ne ritrae e il pregiudizio che esso arreca al terzo; sarebbe questa dunque la chiave di lettura – oggettiva e non già soggettiva – nel cui spettro andrebbe collocato lo “<em>scopo</em>” di nuocere o recare molestia a terzi di cui all’art.833 c.c., che è tale non perché si configura nella mente del proprietario agente, quanto piuttosto perché oggettivamente si realizza, si invera, in tale “<em>sproporzione</em>” tra vantaggio ritratto dall’atto e pregiudizio con esso arrecato ad altri, sicché il proprietario può andare responsabile (massime in termini risarcitori) di un atto “<em>emulativo</em>” anche quando non lo abbia voluto e/o lo abbia commesso per errore, quando l’atto compiuto si atteggi oggettivamente a tale, così affiorando una sorta di vera e propria responsabilità oggettiva; g.4) altra parte della dottrina, infine, vede come norma operativa solo in difetto di coeva sussistenza, in capo al proprietario agente, di altri interessi socialmente apprezzabili, considerando come – in casi estremi – perfino il danneggiamento o la molestia al vicino potrebbero risolversi per chi compie gli atti presunti “<em>emulativi</em>” in un diletto e, dunque, in un vantaggio capace di escluderne, per l’appunto, la natura emulativa; in sostanza, l’art.833 c.c. può dirsi non operante solo al cospetto di un vantaggio o comunque di una utilità per il proprietario agente che, pur soggettiva, sia comunque socialmente apprezzabile, stante anche il disposto dell’art.1322 c.c. che – in ambito contrattuale – consente alle parti di forgiare contratti atipici, ma solo per soddisfare interessi che siano meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico;</li> <li>l’atto emulativo si compendia normalmente in una condotta attiva, mentre si discute se possa configurarsi un atto emulativo giusta inerzia od omissione, la tesi maggioritaria propendendo per la risposta negativa sulla scorta di una denunciata incompatibilità logica tra gli atti emulativi e le omissioni, dacché né un <em>non facere</em>, né un <em>pati</em> potrebbero configurare un “<em>atto</em>”, per l’appunto, emulativo, potendo quest’ultimo solo essere “<em>attivo</em>”; del resto, si soggiunge, l’atto emulativo deve sempre comportare un <em>deficit</em> di vantaggio per il proprietario che lo pone in essere, mentre il “<em>non agire</em>” in genere implica tale vantaggio dacché chi non agisce risparmia in termini di energia psico-fisica, ovvero comunque in termini economici.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si declina, più in particolare, il divieto di abuso del diritto nel prisma del dovere generale di correttezza e buona fede?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>il portatore di un diritto, ed in particolare di una pretesa, è titolare di tutta una serie di poteri e facoltà;</li> <li>tali poteri e facoltà non sono illimitati;</li> <li>la buona fede in senso oggettivo è un canone attraverso il quale si individuano dei limiti ai poteri e alle facoltà spettanti al creditore, o comunque al titolare di un diritto soggettivo;</li> <li>si tratta in particolare del disposto degli articoli 1175 e 1375 c.c., onde la cornice dei poteri e delle facoltà attribuite al titolare del diritto (in particolare, di credito) è strettamente avvinta alla finalizzazione per la quale tale diritto viene riconosciuto dal sistema: qualunque sviamento da tale finalizzazione (soddisfazione dell’interesse sotteso al diritto in parola) rileva in termini di violazione del canone di c.d. buona fede;</li> <li>in sostanza, un diritto viene riconosciuto e garantito dall’ordinamento sempre condizionatamente ad un determinato scopo; laddove il pertinente esercizio debordi da tale scopo, viene perpetrata una violazione del principio di buona fede, atteso come i poteri e le facoltà del titolare del diritto in parola non possano assumersi illimitati ed incondizionati, ma piuttosto circoscritti dal canone della correttezza comportamentale e dunque della buona fede;</li> <li>recente terreno di elezione della buona fede come limite all’esercizio del diritto, e di conseguente abuso di tale diritto laddove venga superato tale limite, è quello del c.d. frazionamento del credito, con conseguente possibile abuso del diritto di azione laddove artificiosamente frazionato per invocare tutela giurisdizionale di una pretesa unitariamente intesa.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa distingue l’abuso del diritto dall’eccesso del diritto?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>l’abuso del diritto si configura laddove il comportamento del soggetto agente afferisca formalmente ad un proprio diritto, ma ne ecceda i limiti di esercizio; qui il contegno è apparentemente conforme al contenuto del diritto pertinente, salvo in realtà superarne i limiti di esercizio, seppure in misura non smaccata;</li> <li>l’eccesso del diritto si configura laddove il comportamento del soggetto agente è totalmente al di fuori da quelli giustificati dal novero dei diritti che possono riconoscergli; qui il contegno non è neppure apparentemente conforme al contenuto del diritto pertinente, scaturendone una illiceità comportamentale <em>ictu oculi</em> percepibile; vi vengono ricondotte le fattispecie, in particolare, degli abusi dell’usufruttuario ex art.1015 c.c. e di quelli del creditore pignoratizio ex art.2793 c.c.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare della c.d. <em>exceptio doli generalis</em>?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>si tratta di un istituto che affonda le proprie radici nel diritto romano e che ha lo scopo di sanzionare il comportamento abusivo del titolare di un diritto, con particolare riguardo al creditore;</li> <li>non si rinviene in nessuna specifica disposizione del codice civile, potendosi tuttavia evincere da talune di esse, che la dottrina ricollega al principio di buona fede, al canone del divieto di abuso del diritto ovvero ad entrambi tali principi ritraibili dal sistema; non manca chi la ricollega al divieto del <em>venire contra factum proprium</em> (principio di non contraddizione) o comunque all’esigenza di negare tutela giuridica a chi intenda trarre vantaggio da un proprio precedente contegno scorretto;</li> <li>trattandosi di una eccezione, essa opera all’interno di un processo ed è finalizzata a contrastare una pretesa che, quantunque in astratto fondata, viene esercitata in modo malizioso e si propone l’obiettivo di raggiungere una finalità fraudolenta;</li> <li>si tratta di garantire il contenimento di azioni giudiziarie che siano pretestuose o comunque palesemente malevole, essendo state intraprese dal relativo titolare all’esclusivo fine di arrecare pregiudizio a terzi, o comunque contro ogni legittima ed incolpevole aspettativa altrui; ciò sulla scorta di dati oggettivi, e non già meramente soggettivi sul crinale della riconducibilità alla parte che invoca l’<em>exceptio doli generalis</em> o al giudice che la eroga;</li> <li>mentre la <em>exceptio doli generalis</em> riguarda la valutazione secondo buona fede del comportamento di chi aziona un diritto in giudizio nel momento in cui appunto lo esercita azionandolo (“<em>seu presentis</em>”: attiene al presente, o al momento dinamico o funzionale del diritto), la <em>exceptio doli specialis</em> afferisce alla fraudolenza nel momento di formazione e stipula del negozio e, dunque, al momento in cui il diritto nasce (“<em>seu preteriti</em>”: attiene al passato, o al momento statico e genetico del diritto), concernendo il dolo come causa di annullamento del contratto;</li> <li>l’<em>exceptio doli generalis</em>, ed il divieto di abuso del diritto ad essa avvinto, rileva in particolare nell’ambito del c.d. contratto autonomo di garanzia, allorché il creditore – che è consapevole del fatto che l’obbligazione è stata già estinta giusta adempimento del debitore principale, ovvero che si tratta di una pretesa illecita - escuta comunque la garanzia c.d. “<em>a prima richiesta</em>” chiedendo l’adempimento anche al garante autonomo, il quale come noto non può opporgli le eccezioni che derivano dal rapporto che il creditore ha con il debitore principale; trattasi di tentativo di indebita locupletazione da parte del creditore, giusta contegno abusivo del proprio diritto; in simili evenienze il garante autonomo, laddove sussistano prove evidenti o “<em>liquide</em>” (come tali non necessitanti di accertamenti particolarmente complessi) in ordine al carattere fraudolento o abusivo della richiesta di adempimento spiccata dal creditore beneficiario della garanzia (caso classico è quello in cui abbia già ottenuto l’adempimento dal debitore principale), egli può e deve rifiutare il pagamento richiesto (perdendo altrimenti l’azione di regresso nei confronti del debitore principale), tale rifiuto palesandosi giustificato dal principio di buona fede e la connessa <em>exceptio doli generalis</em>, che è opponibile al cospetto dei due requisiti, da un lato, della condotta abusiva e contraria a buona fede del creditore attore e, dall’altro, della prova “<em>liquida</em>” del carattere abusivo del ridetto contegno, non necessitante di accertamenti complessi e dunque, nella sostanza, tale da rendere l’abuso del creditore particolarmente evidente.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale rapporto avvince il divieto dell’abuso del diritto e la responsabilità civile?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>un atto di esercizio del diritto che resti nell’ambito dei confini che la legge traccia al diritto stesso nella relativa dimensione dinamica è atto lecito, e gli eventuali danni prodotti a terzi restano (normalmente) improduttivi di effetti;</li> <li>un atto di esercizio del diritto che invece superi i ridetti confini legalmente definiti, orientandosi a perseguire uno scopo diverso da quello per il quale il diritto viene dalla legge riconosciuto al titolare ed immeritevole di tutela, diventa un atto abusivo e dunque – secondo la terminologia propria della responsabilità civile - un atto “<em>ingiusto</em>” perché potenzialmente lesivo “<em>non iure</em>” di situazioni giuridiche di terzi, obbligando al risarcimento del pertinente danno;</li> <li>i valori di solidarietà, di eguaglianza e di libertà impongono infatti di contemperare l’egoistico esercizio di un diritto “<em>a 360 gradi</em>” ed il sacrificio delle situazioni giuridiche di terzi che tale esercizio può involgere; oltre un certo limite infatti la tollerabilità di tale sacrificio trasmuta in intollerabilità, il contegno del soggetto agente da lecito (e meritevole di tutela) diviene “<em>illecito</em>” (ed immeritevole di tutela) e non può che scaturirne, a relativo carico, una responsabilità civile;</li> <li>l’abuso del diritto incrocia allora la responsabilità civile proprio nel punto di rottura di un determinato equilibrio nei rapporti intersoggettivi, laddove il (fino ad allora) tollerabile diviene (ormai) intollerabile ed il contegno di lecito esercizio del diritto diviene illecito civile che espone a responsabilità il soggetto agente, reso destinatario dei rimedi che – al fine di ripristinare il ridetto equilibrio - l’ordinamento appresta a beneficio del soggetto “<em>agito</em>”, che ne risulti in concreto leso;</li> <li>se si esclude la peculiare ipotesi dei c.d. atti emulativi ex art.833 c.c., per predicare la responsabilità civile di chi abusi del proprio diritto in occasione del relativo esercizio non occorre, secondo la tesi dominante (ed “<em>anti-eticizzante</em>”), che questi sia assistito da un (soggettivo) “<em>intento riprovevole</em>”, e ciò in quanto storicamente l’abuso del diritto viene riguardato in termini di fattispecie di responsabilità oggettiva, come conferma sul crinale sistematico il fatto che a venire in evidenza – in quanto violato – è in realtà il principio di correttezza o di buona fede in senso oggettivo, onde quando la legge tutela un dato interesse attribuendo un potere o comunque una facoltà a chi ne sia portatore, è sufficiente la difformità dei comportamenti tenuti rispetto a quelli “<em>normali</em>” e doverosi (perché rispettosi dei limiti di esercizio del dato diritto) per configurare – laddove accertato dal giudice - un “<em>abuso</em>” e con esso una responsabilità civile di chi “<em>abusa</em>”, in disparte l’eventuale “<em>intento riprovevole</em>” riconoscibile in capo a questi;</li> <li>quanto poi al titolo della responsabilità, se l’abuso si consuma nell’economia di un rapporto contrattuale o comunque obbligatorio, la norma di riferimento per il risarcimento del danno è l’art.1218 c.c., mentre al di fuori del vincolo obbligatorio il ridetto titolo non può che ancorarsi all’art.2043 c.c. in tema di illecito aquiliano;</li> <li>non sempre l’abuso del diritto viene sanzionato attraverso la tutela risarcitoria, non mancando fattispecie specifiche in cui la sanzione si atteggia a del pari specifica, come nel caso di cui all’art.330 in tema di abuso – e di conseguente perdita – della potestà genitoriale; tanto che in dottrina non mancano voci orientate ad assumere – in relazione alle diverse fattispecie di abuso del diritto che affiorano dal sistema – “<em>normale</em>” la tutela in forma specifica, anche in termini di inefficacia od inopponibilità a terzi (che peraltro, in taluni casi, consente di tenere parzialmente in vita l’atto abusivo, limitandosi solo a correggerne, per l’appunto, il “<em>quantum abusivo</em>” e la distorsione effettuale che ne deriva) e solo residuale quella risarcitoria per equivalente.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare dell’abuso del diritto in relazione a figure del diritto commerciale e, in particolare, del diritto societario?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>il discorso si inquadra <em>in primis</em> nel più ampio dibattito sul c.d. “<em>abuso di personalità giuridica</em>”, quale espressione che parte della dottrina ha definito “<em>ellittica</em>” e che fa riferimento in modo onnicomprensivo all’abuso di quei diritti che si inscrivono nell’ambito della vita e della operatività di una persona giuridica e delle persone fisiche che la animano;</li> <li>in particolare la società di capitali viene assunta a schermo dietro al quale le ridette persone fisiche – avvalendosi della responsabilità limitata propria del regime giuridico per l’appunto delle società – svolgono attività imprenditoriale singolarmente, ovvero collettivamente, ovvero comunque in modo da non far apparire chi sia l’imprenditore singolo o collettivo;</li> <li>laddove vi sia una cesura tra chi appare imprenditore e chi lo è realmente, si ha esercizio indiretto dell’impresa che, normalmente, si realizza attraverso l’abuso della personalità giuridica e, in particolare, giusta abuso della figura e del “<em>tipo</em>” societario che viene distorto ad uso e consumo di chi è di fatto (e in termini di vantaggi ritratti) imprenditore e resta, di diritto (in termini di potenziali svantaggi sopportabili), irresponsabile trincerandosi appunto dietro lo schermo societario e la limitazione di responsabilità ch esso reca seco, con particolare riguardo alle obbligazioni contratte nell’esercizio dell’impresa;</li> <li>poiché la apparente dissociazione tra persona giuridica e persone fisiche che la animano e la gestiscono si atteggia a sostanziale <em>fictio iuris</em>, quando tale fattispecie si connota di abusività occorre superare lo schermo della personalità giuridica (in Gran Bretagna si parla di “<em>piercing – or lifting - the veil of in corporation</em>”; in Germania di “<em>Durchgriff”</em>); e l’ordinamento appresta all’uopo degli specifici rimedi che producono, a valle, la responsabilità illimitata degli imprenditori “<em>di fatto</em>” e la relativa assoggettabilità a fallimento in caso di insolvenza;</li> <li>si ha abuso di personalità giuridica nella fattispecie del c.d. “<em>socio sovrano</em>”, che è il socio che detiene pressoché la totalità del capitale sociale, con la conseguenza onde la partecipazione o le partecipazioni di minoranza si atteggiano a fittizie o comunque a fraudolente; qui il “<em>socio sovrano</em>” utilizza lo schermo societario con la finalità di approfittare della responsabilità limitata che ne deriva, e dunque al fine di escludere la propria responsabilità illimitata, che tuttavia viene fatta riaffiorare sanzionandone il comportamento, onde egli è assunto responsabile sul crinale civile e penale, oltre che illimitatamente responsabile con garanzia per i creditori costituita anche dal proprio patrimonio;</li> <li>diverso dall’”<em>abuso di personalità giuridica</em>” è poi l’abuso “<em>nella persona giuridica</em>”, che si riconnette al più generale principio di correttezza e buona fede ed attiene agli eventuali abusi che – con riguardo ad una delibera assembleare – perpetra con il proprio voto la maggioranza dei soci, il cui interesse si atteggi in conflitto con quello della persona giuridica (della quale essa è appunto “<em>maggioranza</em>”); l’interesse della maggioranza non può infatti che essere in perfetta linea con quello della persona giuridica, ed in particolare della società, della quale tale gruppo di soci costituisce appunto la maggioranza (decisionale), onde si consuma un abuso laddove tale gruppo di soci di maggioranza persegua non già interessi sociali (e dunque della società), quanto piuttosto interessi dei ridetti singoli soci, sia pure collettivamente intesi come “<em>maggioranza</em>”, ed in danno dei soci di “<em>minoranza</em>”, giusta (abusivo) esercizio del diritto di voto in assemblea; pur in difetto infatti di una specifica norma che stigmatizzi il c.d. “<em>abuso della regola della maggioranza</em>”, è lo stesso ordinamento societario a vietare, dal punto di vista sistematico, tale abuso, dacché normalmente le deliberazioni (salvo rarissime eccezioni) sono assunte appunto a maggioranza dei voti dei soci, maggioranza che deve operare, al cospetto della complementare minoranza, avendo sempre ben presente il sostrato comune dell’interesse sociale, che funge da imprescindibile “<em>mediatore</em>” tra gli interessi della maggioranza e quelli della minoranza dei soci; la società è pur sempre un contratto che va eseguito secondo correttezza e buona fede, in modo consono alla pertinente causa e dunque all’interesse sociale che i soci si sono impegnati reciprocamente a sostenersi nel perseguire, onde si concretizza un abuso della regola della maggioranza quando l’unico obiettivo che la maggioranza dei soci persegue non è l’interesse sociale (o comunque anche l’interesse sociale), quanto piuttosto l’aggravio della posizione dei soci di minoranza, circostanza che affiora prepotentemente allorché la delibera votata ed approvata dalla maggioranza dei soci non trovi alcuna giustificazione di nessun tipo nell’interesse della società, per essere piuttosto sorretta da un interesse personale (del gruppo) dei soci di maggioranza ridetti che è contrastante con quello sociale, ovvero comunque che si proponga il solo fine di ledere i diritti di partecipazione o i diritti patrimoniali che spettano ai soci di minoranza singolarmente intesi; si tratta di fattispecie nelle quali, pur essendo ormai operativa la tutela risarcitoria sulla base del canone della c.d. buona fede oggettiva, resta comunque sempre attiva anche la <em>chance</em> della tutela demolitoria, potendo il socio di minoranza leso impugnare la illegittima delibera frutto dell’abuso del diritto di voto da parte della maggioranza, e dovendo tuttavia provare egli tale abuso facendo perso sui sintomi di “<em>abusività</em>” anteriori alla delibera e/o sui comportamenti successivi alla ridetta adozione, capaci di rivelare o di confermare il ridetto abuso; mentre tuttavia la tutela demolitoria di cui al combinato disposto degli articoli 2373 e 2377 c.c. – pur consentendo ormai di sindacare il “<em>merito</em>”, e dunque l’opportunità, della delibera stessa – impone di provare l’orientamento finalistico (una sorta di “<em>dolo specifico</em>”) dell’abuso della maggioranza a danno della società e, dunque, a danno dei soci di minoranza (che sono pur sempre soci della società danneggiata dal ridetto abuso), la tutela risarcitoria fondata sull’inadempimento al canone di correttezza e buona fede di cui agli art.1175 e 1375, riconosciuta dalla giurisprudenza a partire dal 1995, consente – senza peraltro dover provare il ridetto comportamento della maggioranza intenzionalmente (e dunque dolosamente) diretto a ledere la minoranza, giusta lesione dell’interesse sociale – una tutela anche in caso di pregiudizio subito dai soci di minoranza <em>uti singuli</em>, e dunque non già come parte della ridetta minoranza, giacché il principio di correttezza e buona fede impone di salvaguardare l’interesse altrui (e dunque di ciascun socio), sia pure nella misura in cui rimanga ferma l’integrale soddisfazione dell’interesse proprio (di ciascun socio o gruppo di soci);</li> <li>una figura di “<em>abuso</em>”, oltre che alla maggioranza, è altresì potenzialmente (e quantunque più raramente) imputabile alla “<em>minoranza</em>”, sempre con riguardo ad una delibera assembleare ed al cospetto di un solo apparente rispetto delle pertinenti disposizioni, che cela in realtà un irragionevole (e, per l’appunto, “<em>abusivo</em>”) assetto degli interessi coinvolti nelle vicende della persona giuridica, ed in particolar modo della società; una figura maggiormente dissodata in Germania e in Francia, che si compendia nelle ipotesi in cui la minoranza sfrutta in modo opportunistico la necessità del proprio voto favorevole con riguardo a fattispecie in cui occorrono maggioranze qualificate (come allorché occorra aumentare il capitale al fine di risanare la società e scongiurarne il fallimento) per trarre vantaggi personali per i relativi soci con pregiudizio per l’investimento dei soci di maggioranza; in quelle (c.d. iniziative di disturbo) in cui viene usato in modo strumentale il diritto di parola in assemblea, o in modo anomalo un potere statutario, ovvero si provvedere ad impugnare sistematicamente le delibere assembleari, con particolare riferimento a quella che approva il bilancio;</li> <li>infine, sempre in ambito “<em>endo-societario</em>”, seppure “<em>allargato</em>”, una figura di abuso può riscontrarsi nell’ambito delle c.d. <em>holding</em> di fatto, e dunque delle società collegate tra loro in senso non giuridico, ma economico e di <em>management</em> (e dunque dirigenziale), allorché una società, senza avere un interesse apprezzabile dal punto di vista giuridico od economico, o addirittura avendone interesse contrario, compia atti vantaggiosi per la società collegata e ad un tempo, per essa, inutili o financo dannosi;</li> <li>venendo all’ambito “<em>eso-societario</em>”, si discute se configuri un abuso del diritto il c.d. abuso di dipendenza economica tra imprese di cui all’art.9 della legge 98 in tema di subfornitura; se infatti si configura comunque un contegno sleale dell’impresa che la perpetra, parte della dottrina fa osservare come si sia in realtà al cospetto non già di un uso distorto di un diritto già appartenente al relativo titolare, quanto piuttosto di condotte che si estrinsecano nella fase pre-contrattuale, compendiandosi in rifiuto di contrarre se non a condizioni particolarmente vantaggiose per l’impresa “<em>forte</em>”, che impone di fatto le proprie regole al negozio giuridico <em>in itinere</em>; e se non manca chi fa rilevare come si assista in ogni caso a situazioni di abuso di situazioni giuridiche soggettive, la dottrina più accreditata esclude la riconducibilità dell’abuso di dipendenza economica alla più generale categoria dell’abuso del diritto, dacché ad un contratto (fonte del diritto medesimo) potrebbe financo non giungersi laddove l’impresa “<em>debole</em>”, proprio a cagione delle iniquità prospettate dall’impresa “<em>forte</em>”, assuma di non voler procedere alla pertinente stipula; va tuttavia osservato che l’abuso di dipendenza economica può anche sostanziarsi nella “<em>interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto</em>”, e dunque in ingiustificate cesure a rapporti contrattuali in corso che riconducono alla figura del recesso, quale istituto che è possibile bacino di potenziali fattispecie proprio di “<em>abuso del diritto</em>”;</li> <li>sempre in ambito “<em>eso-societario</em>” rileva lo sfruttamento abusivo di posizione dominante, oggi previsto dall’art.102 del TFUE, onde la posizione dominante di una determinata azienda non può essere sfruttata in modo abusivo incidendo negativamente sui rapporti commerciali tra Stati membri, e finendo sostanzialmente con l’alterarli; stando alla giurisprudenza comunitaria, è “<em>abuso di posizione dominante</em>” quel fatto oggettivo che si sostanzia nel fatto che una determinata impresa si comporta in modo abusivo influendo sulla struttura di un mercato che ha foggia particolare in quanto il grado di concorrenza risulta già scemato a cagione della posizione dominante appunto dell’impresa considerata; si tratta di un contegno che finisce con l’ostacolare la conservazione del (ridotto) grado di concorrenza esistente nel ridetto mercato, ovvero il relativo sviluppo, avvalendosi di mezzi diversi da quelli sui quali si impernia la normale concorrenza, sfruttando appunto abusivamente la propria posizione dominante; tanto per ragioni tecniche quanto per ragioni economiche può dunque insorgere, all’interno di un mercato, una posizione dominante di una determinata impresa che, tuttavia, non può sfruttarla in modo abusivo, sostanzialmente operando in modo da evitare che il normale funzionamento delle regole del mercato di riferimento possa ripristinare gli equilibri tra i diversi operatori, tanto che si tratti di altre imprese, quanto che si tratti dei consumatori.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare – in particolare - della c.d. abusiva concessione di credito?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>una banca conosce la situazione di insolvenza di un imprenditore;</li> <li>nonostante questa consapevolezza, essa fa credito all’imprenditore che sa essere insolvente;</li> <li>i terzi, dinanzi al nuovo finanziamento bancario, si rappresentano erroneamente la situazione finanziaria dell’imprenditore come solida e non vicina al dissesto;</li> <li>la c.d. “<em>abusiva concessione di credito</em>” concerne allora i rischi che è chiamato a valutare il creditore o comunque il finanziatore che fa credito ad un imprenditore, rischi che concernono: d.1) lo stesso creditore o finanziatore, che potrebbe non rientrare del credito erogato ad un soggetto imprenditoriale del quale conosce la precarietà o comunque la potenziale (o financo attuale) insolvenza; d.2) i terzi che operano nel mercato di riferimento: un mercato che può subire delle ripercussioni negative da concessioni di credito che – col procrastinare l’insolvenza ed il conseguente fallimento dell’impresa già in dissesto ma comunque finanziata – finiscono con l’indurre in errore gli operatori economici pertinenti, persuadendoli in ordine ad una solvibilità che è tuttavia meramente apparente dell’impresa (surrettiziamente) finanziata, la quale viene tenuta economicamente in vita mentre – in difetto del finanziamento del parola – verrebbe piuttosto espulsa dal mercato per far posto ad operatori economici più capaci;</li> <li>la fattispecie di abusiva concessione di credito, secondo la tesi dominante in giurisprudenza, produce un illecito pregiudizievole anche prima ed a prescindere dall’eventuale fallimento dell’impresa finanziata, l’impresa concorrente danneggiata potendo spiccare azione risarcitoria (aquiliana) nei confronti della banca finanziatrice anche prescindendo, per l’appunto, dall’evento “<em>fallimento</em>” dell’impresa surrettiziamente finanziata;</li> <li>dal punto di vista del titolo di responsabilità, occorre – con la giurisprudenza - distinguere: f.1) i “<em>terzi</em>” in generale rispetto al rapporto di finanziamento, ed in specie i creditori dell’impresa finanziata e gli imprenditori di essa concorrenti: la responsabilità è da intendersi di natura aquiliana; si è al cospetto di un abuso del diritto (di finanziare gli operatori economici presenti sul mercato) laddove l’elemento soggettivo del dolo o della colpa subiscono una sorta di “<em>oggettivizzazione</em>” della responsabilità derivante proprio dalla pertinente riconducibilità “<em>oggettiva</em>” a quello sviamento dai fini propri del diritto nel quale si concreta il pertinente abuso, onde – secondo l’opzione ermeneutica dominante – si è in qualche modo tra la soggettiva “<em>culpa</em>” e l’oggettiva “<em>iniuria</em>”; laddove il soggetto finanziatore (normalmente una banca) sia convinto di poter sanare la situazione di potenziale difficoltà dell’impresa finanziata attraverso l’erogata sovvenzione, si è al cospetto di una erogazione lecita perché rientrante nei confini di un ragionevole tentativo di risolvere la temporanea crisi che morde l’imprenditore finanziato, stante la previsione – ragionevole per l’appunto – di un recupero dell’impresa finanziata e di un conseguente vantaggio per i terzi che la circondano (con particolare riguardo ai relativi creditori); l’erogazione in parola è invece abusiva e dunque illecita allorché la banca finanziatrice sia ragionevolmente consapevole dello stato di dissesto ormai irreversibile dell’impresa finanziata, così surrettiziamente allungandone la vita economica in danno dei ridetti terzi (creditori; operatori concorrenti); la valutazione del contegno del soggetto finanziatore come lecito o, al contrario, come abusivo ed illecito va operata con riguardo alla prevedibile evoluzione della situazione economica dell’impresa finanziata nel momento in cui viene varato il relativo piano di recupero da parte del soggetto finanziatore, senza che possano rilevare evoluzioni peggiorative non prevedibili <em>ex ante</em>; l’azione può essere spiccata ex art.2043 ovvero anche – nel caso del socio o del terzo - ai sensi dell’art.2395 c.c., secondo cui il socio o il terzo, singolarmente considerati e direttamente danneggiati dal comportamento abusivo del soggetto finanziatore, possono invocare il risarcimento dei danni (aquiliani) per gli atti dolosi o colposi degli amministratori, compiuti da essi in accordo con il soggetto finanziatore ridetto; f.2) la stessa società finanziata, con riguardo ai danni subiti dal pertinente patrimonio: la responsabilità è da intendersi “<em>contrattuale</em>”, perché riconducibile in via immediata e diretta al rapporto di finanziamento, e può essere fatta valere dalla società il cui patrimonio sia stato fatto oggetto di pregiudizio, ancora una volta, tanto nei confronti degli amministratori, quanto nei confronti del soggetto finanziatore, quali protagonisti della complessiva operazione di finanziamento pregiudizievole; una volta fallito l’imprenditore individuale o la società, tale azione spetta al curatore fallimentare, quale successore nei rapporti del fallito e quale soggetto che ha il compito di conservare il patrimonio del debitore fallito giusta esercizio delle azioni “<em>di massa</em>” a vantaggio anche dei creditori (non potendo invece agire a livello aquiliano in rappresentanza, neppure collettiva, dei creditori sociali, non configurandosi appunto come un rappresentante dei ridetti creditori, né tampoco di alcuni di essi singolarmente considerati).</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare in particolare del divieto di abuso del diritto in ambito fiscale e tributario?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>occorre fare riferimento al principio generale antielusivo, riconosciuto dalle SSUU nel 2008, in forza del quale il contribuente non può ottenere vantaggi fiscali utilizzando in modo distorto – seppure senza entrare in frizione con alcuna specifica disposizione tributaria – gli strumenti giuridici che ha a disposizione allo scopo di ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta;</li> <li>ciò si verifica in specie quando l’operazione complessivamente posta in essere dal contribuente non abbia a proprio fondamento ragioni economicamente apprezzabili che siano diverse dalla mera aspettativa dei ridetti benefici fiscali, onde l’operazione in parola serve esclusivamente ad ottenere tali benefici, così sottraendosi al rispetto del principio di concorso alla spesa pubblica in ragione della propria capacità contributiva;</li> <li>trattandosi di un principio generale che informa la materia tributaria, il canone antielusivo si applica dunque in ogni caso di “<em>elusione</em>”, anche se non si rientra nei casi di cui all’art.37 bis, comma 3, del D.p.R. 600.73 e, ora, dell’art.10 bis dello Statuto del contribuente (legge 212.00);</li> <li>esso si fonda sull’art.53 Cost. in tema di capacità contributiva quale misura di contribuzione di ciascuno alla spesa pubblica secondo, normalmente, criteri di progressività; e non è impedito dalla riserva di legge di cui all’art.23 Cost., in quanto riconoscere un generale divieto “<em>antielusivo</em>” in ambito tributario, quale epifania di abuso del diritto, non si traduce nell’imporre al contribuente obblighi patrimoniali per lui ulteriori e non previsti dalla legge, quanto piuttosto disconoscere gli effetti abusivi di negozi da lui posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione delle norme fiscali (e dunque – nella sostanza - di sterilizzare il principio di capacità contributiva);</li> <li>tra le figure tradizionali di abuso del diritto con foggia di elusione fiscale, campeggia in particolare il c.d. <em>dividend washing</em> (lavaggio del dividendo), che consiste nella sostanza in una particolare compravendita di azioni, capace di far conseguire un risparmio fiscale a chi la pone in essere e scandita secondo il seguente procedimento: un fondo di investimento o una SICAV (società di investimento a capitale variabile) vende azioni alla società di capitali acquirente prima di percepire il dividendo connesso a tali azioni (la cui distribuzione è stata deliberata dalla pertinente società); l’acquirente di tali azioni, che ne percepisce il dividendo, le rivende poi al medesimo fondo o alla medesima SICAV che gliele ha vendute originariamente, circostanza che consente a tale acquirente (rivenditore) di diminuire le componenti positive del proprio reddito di impresa giacché – rivendendo le azioni dopo la percezione del dividendo, e dunque ad un prezzo più basso, avendole acquistate prima, e dunque ad un prezzo più alto – matura una minusvalenza (deducibile) che incide appunto in senso negativo sul proprio reddito di impresa; la minusvalenza per la società di capitali acquirente e poi nuovamente alienante corrisponde peraltro ad una plusvalenza per il fondo o la SICAV prima alienanti (ad un prezzo più alto) e poi nuovamente acquirenti (ad un prezzo più basso); attraverso questa operazione peraltro il fondo o la SICAV - che per legge non possono fruire (quali soci della società delle cui azioni si sta provvedendo a distribuire il dividendo) della ritenuta a titolo di acconto e del credito di imposta (afferenti alla tassazione sempre della società alle cui azioni pertiene il dividendo in distribuzione), ma che sarebbero destinatari di una più gravosa ritenuta a titolo di imposta – si liberano temporaneamente del dividendo “<em>pulendolo</em>” e trasferendolo, per breve lasso di tempo, alla società di capitali acquirente che invece, come tale, può ben fruire del congegno della ritenuta a titolo d’acconto e del credito di imposta; in tal modo, la complessa operazione realizza una elusione fiscale perché è posta in essere al solo scopo di consentire ai relativi protagonisti un risparmio di imposta;</li> <li>altra figura tradizionale di abuso del diritto in termini di elusione fiscale è quella del c.d. <em>dividend stripping </em>(spoliazione del dividendo), dove l’operazione si sostanzia non già nella vendita di azioni, quanto piuttosto nella costituzione sulle medesime di un diritto di usufrutto, che riguarda azioni o quote di una società italiane possedute da un soggetto non residente (e non avente stabile organizzazione in Italia), il quale ultimo costituisce appunto (o cede) un diritto di usufrutto su tali azioni a favore di un soggetto residente in Italia; quest’ultimo può infatti beneficiare del credito d’imposta (sempre legato al fatto che viene tassata a monte la società del cui dividendo si tratta) del quale non potrebbe beneficiare il soggetto estero che peraltro, qualora conservasse le azioni del cui dividendo si tratta, subirebbe una ritenuta a titolo di imposta (senza appunto poter contare sul meccanismo del credito di imposta), mentre il cessionario del diritto di usufrutto (residente in Italia) subisce sul dividendo una ritenuta a titolo di acconto che si abbina al credito di imposta secondo il regime ordinario; ancora una volta, l’operazione ha il solo scopo di far conseguire un risparmio fiscale dacché, cessato l’usufrutto, le azioni tornano in mano al proprietario delle medesime;</li> <li>sul versante della sanzione civilistica, la Cassazione assume nulle per difetto di causa quelle operazioni negoziali, singole o collegate tra loro, che abbiano il solo scopo di far giungere i relativi protagonisti ad un minor carico fiscale, e che violino dunque il canone del divieto di abuso del diritto (come nel caso del <em>dividend washing</em> e del <em>dividend stripping</em>); orientamento criticato tuttavia da quella parte della dottrina secondo la quale non sarebbe a rigore corretto nel caso di specie discorrere del difetto di una valida ragione economica da riconoscere a fondamento di tali operazioni negoziali, dovendosi assumere quello avente ad oggetto il risparmio fiscale un interesse idoneo a sorreggere interamente le medesime, potendo ai sensi dell’art.1322 c.c. le parti perseguire anche interessi meramente privatistici, senza che sia necessario per le stesse perseguire anche un risultato socialmente utile o di pubblico interesse (quale appunto quello connesso al prelievo fiscale);</li> <li>sul crinale tributaristico, l’elusione fiscale ed il connesso abuso del diritto sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria e dunque – in disparte il regime civilistico dei sottostanti negozi e della relativa sorte – non consentono al contribuente di sottrarsi al carico fiscale che egli ha inteso (abusivamente) eludere; dal punto di vista probatorio, è il contribuente a dover provare, di regola, l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che abbiano carattere reale, e non già meramente teorico o comunque marginale, onde egli ha utilizzato una data forma giuridica non già solo per conseguire un vantaggio fiscale, ma anche perché egli si è prefisso un reale scopo economico (ulteriore); non manca tuttavia giurisprudenza intesa ad addossare, contestualmente e in senso opposto, l’onere della prova dell’abuso sull’Amministrazione finanziaria, né pronunce orientate al rilievo d’ufficio della nullità dei negozi e della conseguente inopponibilità al Fisco del conseguito risparmio di imposta; il tutto sembra tuttavia ormai superato dall’10 bis, comma 9, dello Statuto del contribuente, legge 212.00, alla cui stregua l'Amministrazione finanziaria ha l'onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d'ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2, ed il contribuente ha invece l'onere di dimostrare l'esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p>