Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 6 settembre 2024, n. 33986
PRINCIPIO DI DIRITTO
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
- Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Torino confermava la sentenza con cui il Tribunale di Vercelli, in data 7.11.2022, aveva condannato A.A. alla pena ritenuta di giustizia, oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile, B.B., in relazione al reato di cui all’art. 612 bis c.p., in rubrica ascrittogli.
- Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l’imputato, lamentando:
1) violazione di legge in relazione agli artt. 516, 520, 521 c.p.p., in quanto la pronuncia di condanna è stata fondata su fatti diversi e ulteriori rispetto a quelli enunciati nel capo d’imputazione, formulato attraverso una contestazione in forma chiusa della condotta illecita in oggetto, commessa in Vercelli tra il 6.11.2020 e il 30.11.2020, laddove, come si evince dalla lettura della motivazione della sentenza di secondo grado, l’affermazione di responsabilità del A.A. è stata pronunciata anche per fatti anteriori all’inoltro dei due “post” di cui si fa rifermento nel capo d’imputazione, fatti che hanno formato oggetto di un autonomo procedimento penale, avente a oggetto sempre il reato ex art. 612 bis, c.p., definito dalla corte di appello di Roma con sentenza resa in data 14.12.2023, di assoluzione del ricorrente, previa diversa qualificazione del fatto nel reato di minaccia grave, in riforma della sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale di Latina;
2) vizio di motivazione alla luce di quanto stabilito dalia corte di appello di Roma con la richiamata sentenza del 14.12.2023, con conseguente palese ipotesi di potenziale contrasto tra giudicati;
3) vizio di motivazione sull’esistenza dell’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 612 bis, c.p., posto che la condotta in contestazione è stata realizzata attraverso l’inoltro di due “post” sulla bacheca “facebook” dell’imputato, nei confronti di un soggetto, che, non solo non possedeva un proprio profilo, ma non ha mai nemmeno fatto ingresso nella piattaforma social in questione, sicché non può affermarsi che il A.A. abbia voluto colpire proprio il B.B. con i suddetti “post”.
- Con requisitoria scritta del 10.4.2024, da valere come memoria perché nelle more è stata chiesta la trattazione in forma orale del proposto ricorso, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, dott.ssa Francesca Ceroni, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.
- Il ricorso va rigettato, essendo sorretto da censure, per un verso inammissibili, per altro verso infondate.
4.1. Inammissibile appare il primo motivo di ricorso, in quanto, come si evince dall’atto di appello e dall’incontestata sintesi dei relativi motivi operata dalla corte territoriale, la violazione di legge denunciata dal ricorrente in relazione agli artt. 516, 520 e 521 c.p.p., costituisce motivo nuovo, non sollevato innanzi al giudice di appello, in quanto tale inammissibile, ai sensi dell’art. 606, co. 3, c.p.p.
Come affermato, infatti, dal costante e uniforme orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di ricorso per cassazione non sono deducibili questioni non prospettate nei motivi di appello – ad eccezione di quelle rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio e di quelle che non sarebbe stato possibile proporre in precedenza -sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunziarsi perché non devolute alla sua cognizione (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Rv. 269745; Sez. 2, n. 8890 del 31/01/2017, Rv. 269368).
Si tratta, peraltro, di un rilievo manifestamente infondato, come, del resto, quello articolato nel secondo motivo di impugnazione.
E invero il giudice di secondo grado, a fronte del rilievo difensivo con cui si chiedeva l’assoluzione dell’imputato, con la formula perché il fatto non sussiste o non costituisce reato, sul presupposto che il A.A. è stato condannato dal Tribunale di Vercelli sulla base di fatti che avevano già formato oggetto di valutazione da parte del Tribunale di Latina (con sentenza resa nell’ambito di un diverso procedimento penale, ancora sub judice, perché, all’epoca, non era ancora intervenuta la sentenza della corte di appello di Roma richiamata nei motivi di ricorso), per cui, se il Tribunale di Vercelli avesse delimitato il proprio thema decidendum a quanto oggetto del capo d’imputazione, si sarebbe imposta una pronuncia assolutoria in favore dell’imputato, ne ha correttamente rilevato l’infondatezza.
Ciò sul presupposto che nel capo d’imputazione si fa espresso riferimento agli atteggiamentie alle condotte minacciose poste in essere dal A.A. in danno della persona offesa, “formanti oggetto di sperato procedimento presso il Tribunale di Latina”, che, tuttavia, esulano dalla contestazione sulla quale si sono pronunciati il Tribunale di Vercelli e la corte di appello di Torino, relativa unicamente alle condotte persecutorie poste in essere attraverso l’inserimento da parte del A.A. sulla propria bacheca facebook” dei due “post” riportati nel capo d’imputazione, in data 6.11.2020 e 22.11.2020.
Di conseguenza, come rilevato dalla corte territoriale con motivazione affatto manifestamente illogica, carente o contraddittoria, il riferimento ai pregressi comportamenti del A.A. riguarda esclusivamente il contesto fattuale in cui si inseriscono le due specifiche condotte oggetto di autonoma contestazione nell’ambito del procedimento incardinato presso l’autorità giudiziaria di Vercelli, delineando un’accesa conflittualità tra il A.A. e il B.B., protrattasi nel tempo, che emerge con assoluta chiarezza anche dalla motivazione della sentenza della corte di appello di Roma, allegata al ricorso, anche in considerazione della ripetuta consumazione da parte del A.A. di fatti di violenza e di ingiuria in danno della moglie, a sua volta figlia del B.B., che avevano condotto alla condanna dell’imputato per il delitto di cui all’art. 572 c.p.
Proprio alla luce di tale contesto l’inoltro dei “post” indicati nel capo d’imputazione, nella valutazione dotata di intrinseca coerenza logica, operata dalla corte territoriale, ha acquisito un’oggettiva capacità persecutoria, incidendo sulle abitudini di vita della persona offesa e sulla sua serenità, come evidenziato dal giudice di secondo grado, anche alla luce del contributo fornito dalle prove dichiarative assunte (cfr. pp. 7-9 della sentenza oggetto di ricorso), profili che il ricorrente non affronta se non in termini assolutamente generici nel quadro delle censure di cui si è già rilevata la manifesta infondatezza.
Sentenza, quella appena citata della corte di appello di Roma, in cui, non può, inoltre, non rilevarsi che, a ulteriore riprova della manifesta infondatezza della censura del ricorrente e a differenza di quanto indicato da quest’ultimo, il giudice di appello non ha affatto assolto il A.A. dal delitto di cui all’art. 612 bis, c.p., di cui al capo B), ma ha diversamente qualificato il fatto originariamente contestato in tal guisa, in quello di minaccia grave del A.A. in danno del B.B., senza, tuttavia, assolvere l’imputato, come appare evidente dalla parte della relativa motivazione dedicata alla determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio nei confronti dell’imputato.
Se ciò è vero, come è vero, non solo non è minimante ipotizzabile una violazione del principio di correlazione contenuto dell’imputazione e contenuto della sentenza di condanna, ma nemmeno un potenziale contrasto tra giudicati, idoneo a fondare un’ipotesi di revisione, posto che il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili, di cui all’art. 630, comma 1, lett. a), c.p.p., deve essere inteso con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze, nel caso in esame non configurabile, e non alle divergenti valutazioni in ordine ad elementi normativi della fattispecie, fondate sulla medesima ricostruzione in punto di fatto (cfr. Sez. 6, n. 34927 del 17/04/2018, Rv. 273749).
Va, infine, sottolineato come la corte territoriale abbia fatto buon governo dei principi affermati dall’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui integrano il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis° c.p., anche due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo, idonee a costituire la “reiterazione” richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 33842 del 03/04/2018, Rv. 273622; Sez. 5, Sentenza n. 46331 del 05/06/2013, Rv. 257560).
4.2. Infondato deve ritenersi il terzo motivo di ricorso, con cui il ricorrente, preso atto della possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte che il delitto di atti persecutori sia integrato da un’opera di reiterata delegittimazione della persona offesa realizzata dal soggetto attivo attraverso una serie protratta di condotte diffamatorie e moleste realizzate attraverso l’invio di numerosi “post” diffamatori su “social network” (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 1813 del 17/11/2021, Rv. 282527), si concentra sull’impossibilità di configurare nel caso in esame l’elemento soggettivo del reato, essendo l’imputato consapevole che la persona offesa non poteva accedere al suo profilo, vale a dire all’ambiente telematico dove aveva inviato i “post” incriminati.
Invero, come affermato dall’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, nel delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale di evento, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione (cfr., ex plurims, Sez. 1, n. 28682 del 25/09/2020, Rv. 279726; Sez. 5, n. 20993 del 27/11/2012, Rv. 255436) sicché, decisiva, nell’accertamento che il giudice di merito deve svolgere sul punto, appare la ricostruzione delle modalità dell’azione criminosa.
La consapevolezza delle più condotte di minaccia o di molestia a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, implica necessariamente la cognizione che tali condotte siano percepibili dai destinatari della minaccia o della molestia.
Sul punto la giurisprudenza della Suprema Corte ha da tempo affermato il condivisibile principio, secondo cui integra il delitto di atti persecutori la reiterata ed assillante comunicazione di messaggi di contenuto persecutorio, ingiurioso o minatorio, oggettivamente irridenti ed enfatizzanti la patologia della persona offesa, diretta a plurimi destinatari ad essa legati da un rapporto qualificato di vicinanza, ove l’agente agisca nella ragionevole convinzione che la vittima ne venga informata e nella consapevolezza, della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 8919 del 16/02/2021, Rv. 280497; Sez. 3, n. 1629 del 06/10/2015, Rv. 265809).
Ed alla luce di tali principi va letta anche la sentenza citata dal ricorrente a sostegno della propria censura (cfr. Sez. 5, n. 19363 del 17.5.2021), in cui è sì vero che viene operata una distinzione del caso in cui i messaggi persecutori siano inviati al profilo della persona offesa da quello in cui, pur avendo come destinataria una determinata persona, i messaggi in questione siano pubblicati sul profilo dell’imputato, ma è altrettanto vero che, in tale ultima evenienza, rileva la Suprema Corte, occorrerà verificarne la conoscibilità, “certamente scontata quando il profilo sia ampiamente accessibile”, come avvenuto nel caso che ci occupa.
Orbene la corte di appello ha fato buon governo di tali prìncipi, osservando come il A.A. abbia “usato il proprio profilo per pubblicare contenuti chiaramente diretti a B.B. e alla figlia, con modalità certo tali da fondare la conoscibilità da parte loro o comunque anche di altre persone a loro legate; così B.B. non avendo un profilo Facebook è stato avvisato dalla propria sorella della pubblicazione di quei contenuti”, posto che C.C., potendovi accedere, era in grado di leggerne i contenuti, riferendoli alla persona offesa, che di essi era perfettamente a conoscenza.
- Al rigetto del ricorso, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616A c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento. Va, infine, disposta l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento, ai sensi dell’art. 52, co. 5, D.Lgs. 30/06/2003 n. 196