<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 18 aprile 2019 n. 95</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Lo scrutinio cui è chiamata la Corte ha, nel caso di specie, quale unico parametro, l’art. 3 Cost., che si assume violato a motivo dell’asserita manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di non prevedere, per un peculiare tipo di dichiarazione fiscale fraudolenta (perpetrata mediante fatture per operazioni inesistenti), soglie di punibilità omologhe a quelle prefigurate in rapporto al finitimo delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici: soglie la cui introduzione avrebbe ovviamente l’effetto di restringere il perimetro applicativo della fattispecie criminosa, rendendo penalmente irrilevanti i fatti che non attingano ai livelli quantitativi stabiliti. Le coordinate dello scrutinio risultano, dunque, segnate dalla nota e costante giurisprudenza della Corte, secondo la quale la configurazione delle fattispecie criminose e la determinazione della pena per ciascuna di esse costituiscono materia affidata alla discrezionalità del legislatore; gli apprezzamenti in ordine alla “</em>meritevolezza<em>” e al “</em>bisogno di pena<em>” – dunque, sull’opportunità del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa – sono, infatti, per loro natura, tipicamente politici (sentenza n. 394 del 2006), le scelte legislative in materia rivelandosi pertanto censurabili, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio (</em>ex plurimis<em>, sentenze n. 273 e n. 47 del 2010, ordinanze n. 249 e n. 71 del 2007, nonché, con particolare riguardo al trattamento sanzionatorio, sentenze n. 179 del 2017, n. 236 e n. 148 del 2016), come avviene quando ci si trovi a fronte di diversità di disciplina tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione (tra le altre, sentenze n. 40 del 2019, 35 del 2018, n. 79 e n. 23 del 2016, n. 185 del 2015 e n. 68 del 2012). Il confronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la ragionevolezza delle scelte legislative, presuppone, dunque, necessariamente l’omogeneità delle ipotesi in comparazione (sentenze n. 35 del 2018 e n. 161 del 2009; ordinanza n. 41 del 2009).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nel caso in esame, di là dai profili di omogeneità effettivamente esistenti, resta, peraltro, il fatto che, tramite la norma censurata, il legislatore ha inteso “</em>isolare<em>”, nell’ambito dell’ampia gamma dei mezzi fraudolenti utilizzabili a supporto di una dichiarazione mendace, uno specifico artificio, al quale viene annesso, sulla base dell’esperienza, uno spiccato coefficiente di “insidiosità” per gli interessi dell’erario. La disposizione denunciata punisce, infatti, chi, «</em>al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi<em>» (l’aggettivo «</em>annuali<em>», che originariamente qualificava in funzione limitativa il sostantivo «</em>dichiarazioni<em>», è stato soppresso dall’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23). In base alla norma definitoria di cui all’art. 1, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 74 del 2000, per «</em>fatture o altri documenti per operazioni inesistenti<em>» si intendono «</em>le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi<em>». Il fenomeno avuto di mira è, dunque, quello della falsa fatturazione intesa a comprovare operazioni in tutto o in parte non eseguite – in assoluto, o dai soggetti ai quali esse vengono riferite – ovvero con corrispettivi o IVA “</em>gonfiati<em>”, in funzione di una indebita deduzione di costi o detrazione di imposta da parte del contribuente; l’intento del legislatore di contrastare con rigore il fenomeno si è manifestato non soltanto nella mancata previsione di soglie di punibilità per il delitto </em>de quo<em> – che colpisce l’utilizzatore delle fatture – ma anche nella configurazione di uno speculare delitto in capo all’emittente, egualmente privo di soglie (art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000): delitto che si pone come una eccezionale deviazione rispetto alla fondamentale linea ispiratrice della riforma penale tributaria del 2000, rappresentata dall’abbandono dello schema del cosiddetto “</em>reato prodromico<em>” all’evasione d’imposta (caratteristico del sistema precedente); l’emissione di documentazione per operazioni inesistenti viene, infatti, punita ex se, indipendentemente dalla concreta utilizzazione del documento falso da parte di terzi a scopo di evasione fiscale; si è dunque di fronte a una precisa strategia, espressiva dell’ampia discrezionalità del legislatore in materia di politica criminale (con riguardo al delitto di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, sentenza n. 49 del 2002): strategia che, dopo la riforma del 2000, è stata ulteriormente ribadita e rafforzata: il comma 3 dell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 prevedeva infatti, originariamente, una pena decisamente più mite (la reclusione da sei mesi a due anni) quando l’ammontare degli elementi passivi fittizi esposti in dichiarazione sulla base delle false fatture fosse inferiore a euro 154.937,07; tale circostanza attenuante speciale (o ipotesi autonoma attenuata, secondo altra qualificazione) è stata, tuttavia, soppressa – al pari di quella speculare di cui al comma 3 dell’art. 8 del d.lgs. 74 del 2000 – dall’art. 2, comma 36-vicies semel, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), aggiunto dalla legge di conversione 14 settembre 2011, n. 148, nel quadro di un intervento di innalzamento del livello di “</em>attenzione penalistica<em>” in campo tributario.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La strategia legislativa rilevante nel caso di specie non può essere considerata manifestamente irragionevole o arbitraria, tenuto conto del particolare ruolo che la fattura e i documenti ad essa equiparati sul piano probatorio dalla normativa fiscale assolvono nel quadro dell’adempimento degli obblighi del contribuente, nonché della capacità di sviamento dell’attività accertativa degli uffici finanziari che l’artificio in questione possiede; la fattura assume un ruolo fondamentale nel sistema di applicazione dell’IVA – tributo armonizzato a livello di diritto dell’Unione europea (segnatamente, in base alla direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto) – perché garantisce l’attuazione del principio della neutralità dell’imposta rispetto ai soggetti passivi, mediante il meccanismo della rivalsa e della detrazione. In particolare, l’emissione della fattura, oltre a determinare l’insorgenza di un debito d’imposta in capo al cedente o al prestatore di servizio, legittima il cessionario o committente, che sia anche soggetto passivo, alla detrazione dell’IVA indicata nel documento o, eventualmente, a chiederne il rimborso all’amministrazione finanziaria (artt. 19 e seguenti del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, recante «</em>Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto<em>»). Meccanismo, questo, che si presta ad essere strumentalizzato per frodare il fisco. Anche con riguardo alle imposte dirette, peraltro, la fattura passiva (o documento equiparato) assolve un ruolo di rilievo, costituendo lo strumento tipico attraverso il quale il contribuente attesta il proprio diritto a dedurre voci di spesa dalla propria base imponibile o a effettuare detrazioni dall’imposta, in conformità a quanto previsto dalla legislazione tributaria; secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, d’altra parte, la fattura costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’IVA e alla deduzione dei costi: con la conseguenza che, a fronte di essa, spetta all’amministrazione finanziaria dimostrare il difetto delle condizioni per l’insorgenza di tale diritto. In particolare, nel caso in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerne operazioni inesistenti, è su di esso che grava l’onere di provare che l’operazione fatturata non è stata realmente effettuata, o che è stata effettuata tra soggetti diversi da quelli in essa indicati (</em>ex plurimis<em>, tra le ultime, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 15 dicembre 2017, n. 30148; ordinanze 19 ottobre 2018, n. 26453 e 5 luglio 2018, n. 17619).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Non può considerarsi arbitraria la scelta legislativa di riservare alla specifica fattispecie considerata un trattamento distinto e più severo – sul piano non della reazione punitiva, ma delle soglie di punibilità – di quello prefigurato in rapporto alla generalità degli altri artifici di supporto di una dichiarazione mendace (anche di tipo documentale): artifici dei quali si occupa l’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000 – costituente norma incriminatrice sussidiaria, come attesta la clausola di riserva con cui essa esordisce («[f]</em>uori dei casi previsti dall’articolo 2<em>») – e che comprendono, attualmente, il compimento di «</em>operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente<em>» e l’impiego «</em>di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria<em>». Escludendo che nell’ipotesi in esame la reazione punitiva resti collegata alla “</em>consistenza quantitativa<em>” dell’evasione, il legislatore ha inteso, in particolare, far emergere lo speciale disvalore “</em>di azione<em>” che, nel relativo apprezzamento – in sé non manifestamente irragionevole – la specifica fattispecie presenta. L’affermazione del giudice </em>a quo<em> – stando alla quale le condotte descritte dall’art. 3 potrebbero «</em>rappresentare, per la loro particolare insidiosità, un pericolo in concreto sicuramente eguale (se non più elevato) per il bene giuridico<em>», rispetto a quelle punite dall’art. 2 – appare in sé apodittica, non essendo accompagnata dal riferimento ad alcuna ipotesi che valga a dimostrare l’assunto. Non sarebbe utile, in ogni caso, richiamare la fattispecie dell’utilizzazione (anche in funzione di gonfiamento dei costi) di «</em>documenti falsi<em>» diversi dalla fattura (e privi di analogo valore probatorio), ora contemplata dall’art. 3; è agevole, in effetti, osservare che anche il sistema dei reati di falso, delineato dal codice penale, prevede tradizionalmente trattamenti differenziati in ragione della natura del documento su cui cade la condotta; e così, la falsità in testamento olografo, cambiale o altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore (art. 491 del codice penale) è punita più severamente della generica falsità in (qualsiasi altra) scrittura privata (art. 485 cod. pen.): fattispecie, quest’ultima, attualmente addirittura depenalizzata (art. 4, comma 4, lettera a, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7, recante «</em>Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67<em>»). La validità della conclusione non risulta inficiata dall’esistenza dei contrasti interpretativi, cui fa cenno la parte privata, relativi al trattamento da riservare all’uso di fatture materialmente false, ossia di fatture formate da soggetto diverso da colui che appare come emittente, ovvero alterate dopo l’emissione (ipotesi che non si deduce, peraltro, ricorrere nel giudizio principale). Secondo la giurisprudenza di legittimità più recente, tale condotta ricadrebbe nella sfera applicativa dell’art. 2, e non in quella, residuale, dell’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000. In base a tale soluzione interpretativa le due figure criminose si distinguono, infatti, non per la natura – ideologica o materiale – del falso, ma per le caratteristiche del documento impiegato: quello che qualifica l’ipotesi criminosa di cui all’art. 2 è la particolare efficacia probatoria, in base alle norme tributarie, della documentazione di cui il contribuente si avvale (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 10 novembre 2011-19 dicembre 2011, n. 46785; in senso analogo, altresì, da ultimo, Corte di cassazione, sezione terza penale, 25 ottobre 2018-11 febbraio 2019, n. 6360; sezione feriale, sentenza 31 agosto 2017-17 ottobre 2017, n. 47603). Conclusione che non contraddice, comunque sia, la ratio giustificatrice del trattamento differenziato dianzi posta in evidenza. Considerazioni analoghe, </em>mutatis mutandis<em>, possono formularsi con riguardo all’ulteriore rilievo, svolto tanto dal giudice </em>a quo<em>, quanto dalla parte privata, relativo alla sovrapposizione tra il concetto di «</em>operazioni inesistenti<em>» – sintagma presente nell’art. 2 e definito, come si è visto, dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 74 del 2000 – e il concetto di «</em>operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente<em>» – impiegato nell’attuale formulazione dell’art. 3 e definito della lettera g-bis) del citato art. 1 (aggiunta dall’art. 1, comma 1, lettera d, del d.lgs. n. 158 del 2015); a mente di quest’ultima, le operazioni «</em>simulate oggettivamente<em>» sono quelle «</em>apparenti<em> […] </em>poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte<em>»: con il che esse sembrano, in effetti, sovrapporsi alle «</em>operazioni oggettivamente inesistenti<em>», in quanto «</em>non realmente effettuate in tutto in parte<em>», cui fa riferimento la lettera a) del comma 1 dell’art. 1 del d.lgs. n. 74 del 2000; le operazioni «</em>simulate soggettivamente<em>» – che ai sensi della lettera g-bis) sono «</em>le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti<em>» – si sovrappongono alle «</em>operazioni soggettivamente inesistenti<em>», e cioè riferite «</em>a soggetti diversi da quelli effettivi<em>» (lettera a del comma 1 dell’art. 1 del d.lgs. n. 74 del 2000). Al riguardo, la Corte di cassazione ha già avuto modo, peraltro, di qualificare come «</em>totalmente infondata<em>» la tesi in forza della quale l’inserimento della nuova lettera g-bis) nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 74 del 2000 avrebbe comportato l’attrazione nell’ambito del delitto di cui all’art. 3 di ipotesi in precedenza ricomprese nella sfera applicativa del delitto di cui all’art. 2: ciò che discrimina le due fattispecie non è la natura dell’operazione, ma il modo in cui è documentata: si applica, cioè, l’art. 2 tutte le volte in cui alla realizzazione dell’operazione si accompagni l’emissione e l’utilizzazione di fatture o documenti analoghi (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 11 aprile 2017-1° agosto 2017, n. 38185); in tal modo, il ragionamento dianzi svolto trova nuova conferma: lo scarto di rilevanza tra le operazioni simulate documentate mediante fatture o documenti equipollenti e le operazioni simulate documentate in modo diverso trova spiegazione nella particolare capacità probatoria delle fatture e documenti analoghi e, di riflesso, nella maggiore capacità decettiva delle falsità commesse tramite tali documenti. Meno ancora, da ultimo, giova far riferimento a fattispecie riconducibili alla generica nozione di «</em>altri mezzi fraudolenti<em>» – a titolo di esempio, la tenuta di una “</em>contabilità nera<em>”, accompagnata da un sistema informatico di travisamento dei dati nel caso di controllo fiscale, o la creazione di “</em>società di comodo<em>”, sulle quali “</em>travasare<em>” i redditi del contribuente – ma che non hanno, in sé, alcuna “</em>assonanza<em>” con l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti: vale, infatti, in tal caso, il rilievo che si è a fronte di fattispecie eterogenee e, dunque, non utilmente comparabili al fine di farne discendere una violazione del principio di eguaglianza; la valutazione di uguale o maggiore pericolosità per l’erario delle condotte in questione, formulata dal giudice a quo, esprimerebbe una sua convinzione personale, che non potrebbe surrogarsi a quella del legislatore.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.2 del decreto legislativo 74.00 in tema di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, laddove tale disposizione non prevede soglie di punibilità, sollevata con riferimento all’art.3 Cost. in relazione ad altre figure di reato tributario per le quali dette soglie sono previste.</em></p>