Corte costituzionale, sentenza 7 novembre 2024, n. 176
PRINCIPIO DI DIRITTO
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Trieste, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Il Tribunale di sorveglianza di Trieste dubita della legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit., nella parte in cui «non prevede a favore dei condannati cd. liberi sospesi, anteriormente all’entrata in vigore del D.Lvo 150/2022, la detenzione domiciliare per espiare una pena detentiva inflitta non superiore a quattro anni, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 1 [recte: di cui al comma 1 dello stesso art. 47-ter ordin. penit.], quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale e sempre che la misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati, avuto riguardo a comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale, di lavoro, o di salute del condannato, così come previste dall’art. 56 L. 689/81, sostituito dall’art. 71, comma 1, lett. c), D.Lvo 10/10/2022, n. 150, alle condizioni previste dall’art. 59 L. 689/81 come sostituito dall’art. 71, comma 1, lett. g) del D.Lvo 10.10.2022 n. 150, con le prescrizioni disciplinate all’art. 56-ter L. 689/81, introdotto dall’art. 71, comma 1, lett. d) del D.Lvo 10.10.2022 n. 150».
Il rimettente prospetta la violazione dell’art. 3 Cost., ritenendo sussistere una irragionevole disparità di trattamento fra i condannati definitivi cosiddetti liberi sospesi anteriormente al d.lgs. n. 150 del 2022 e i condannati non definitivi che abbiano la disponibilità di un’abitazione, i quali, a seguito della riforma operata dal citato decreto legislativo, possono essere ammessi alla detenzione domiciliare quale pena sostitutiva ai sensi dell’art. 56 della legge n. 689 del 1981, con le prescrizioni di cui al successivo art. 56-ter, laddove il giudice della cognizione ritenga di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di quattro anni.
La discriminazione in peius dei soggetti dianzi indicati sarebbe riscontrabile anche in relazione alla disciplina delle condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva, posto che l’art. 59, primo comma, lettera a), della legge n. 689 del 1981, come sostituito, «non preclude l’accesso alla pena sostitutiva a chi ha commesso un delitto non colposo durante l’esecuzione dell’affidamento in prova al servizio sociale».
Risulterebbe violato, inoltre, l’art. 27, terzo comma, Cost., giacché, nell’ipotesi oggetto dei quesiti di legittimità costituzionale, imporre l’ingresso in carcere del condannato costituirebbe soluzione contrastante con la finalità rieducativa della pena.
2.– In via preliminare, è opportuno precisare l’oggetto delle censure del rimettente e ricostruire, in sintesi, il panorama normativo che fa ad esse da sfondo. Di là dalla complessa articolazione del petitum – che non sarebbe in ogni caso vincolante per questa Corte, qualora ritenesse fondate le questioni (tra le molte, sentenze n. 138 del 2024, n. 221 del 2023 – i dubbi di legittimità costituzionale prospettati dal Tribunale di sorveglianza di Trieste si connettono, nella sostanza, al fatto che i condannati con sentenza irrevocabile prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, per i quali l’esecuzione della pena sia stata sospesa ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. (cosiddetti liberi sospesi), non possano beneficiare della detenzione domiciliare introdotta dal citato decreto legislativo quale pena sostitutiva della detenzione breve: istituto la cui disciplina risulta sotto vari aspetti più favorevole al reo di quella dell’omonima misura alternativa alla detenzione prevista dalla legge di ordinamento penitenziario.
Di tale diversità di regime questa Corte ha già avuto modo di occuparsi recentemente, in diversa prospettiva (sentenza n. 84 del 2024). Per quanto rileva agli odierni fini, vale in particolare ricordare come, dando attuazione alla delega legislativa conferita dall’art. 1, comma 17, della legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), l’art. 71 del d.lgs. n. 150 del 2022 abbia operato una riforma intesa a rivitalizzare e valorizzare le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi regolate dal Capo III della legge n. 689 del 1981, le quali vengono ora designate come «pene sostitutive».
Si tratta infatti, nella concezione del legislatore della riforma, di vere e proprie pene, sia pur diverse da quelle edittali, irrogabili dal giudice della cognizione contestualmente alla condanna al posto della pena carceraria, in funzione della rieducazione del condannato, oltre che di obiettivi di prevenzione generale e speciale.
La maggiore idoneità alla realizzazione del fine rieducativo rispetto alla detenzione di ridotta durata (di cui sono ben noti gli effetti desocializzanti) e l’attitudine a prevenire il pericolo di commissione di altri reati rappresentano, infatti, i criteri generali che orientano il potere discrezionale del giudice nell’applicazione e nella scelta delle pene sostitutive (art. 58, primo comma, della legge n. 689 del 1981).
Nell’indicata prospettiva di valorizzazione dell’istituto, il limite della pena detentiva sostituibile – fissato precedentemente in due anni – è stato raddoppiato, venendo così a coincidere con quello (quattro anni) entro il quale, ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., nel testo risultante a seguito della sentenza n. 41 del 2018 di questa Corte, il pubblico ministero deve, di norma, sospendere l’ordine di esecuzione della sentenza irrevocabile, onde consentire al condannato di chiedere al tribunale di sorveglianza una misura alternativa alla detenzione senza previo ingresso nell’istituto penitenziario.
La riforma mira, in questo modo, ad anticipare al giudizio di cognizione la decisione sull’alternativa al carcere, altrimenti rimessa alla magistratura di sorveglianza nella fase esecutiva. Le pene sostitutive vengono, al tempo stesso, configurate come «risposte sanzionatorie al reato certe, rapide ed effettive» (sentenza n. 84 del 2024): in relazione ad esse non possono essere, infatti, concesse né la sospensione condizionale (art. 61-bis della legge n. 689 del 1981), né misure alternative alla detenzione, fatta eccezione per l’ipotesi di cui al neointrodotto art. 47, comma 3-ter, ordin. penit., la quale presuppone comunque l’espiazione di almeno metà della pena (art. 67 della legge n. 689 del 1981).
Come emerge dalla relazione illustrativa del d.lgs. n. 150 del 2022, fra i risultati positivi che l’intervento aspira a conseguire vi è specificamente quello di arginare l’allarmante fenomeno della dilatazione della platea dei liberi sospesi.
In numerosi distretti, infatti, i tribunali di sorveglianza, per l’eccessivo carico di procedimenti, risultavano incapaci di rispondere in tempi ragionevoli alle istanze di concessione delle misure alternative, la decisione sulle quali interveniva non di rado a distanza di anni dalla sospensione dell’ordine di esecuzione: ciò, a discapito dell’efficienza della giustizia penale, la quale – come pure si osserva nella relazione – non può essere valutata unicamente in rapporto al processo di cognizione, trascurando i tempi di attivazione della fase esecutiva.
Anticipando al giudizio di cognizione la decisione sull’alternativa al carcere si rende possibile l’immediata applicazione di misure «che consentono anche di controllare l’eventuale pericolosità sociale del condannato sin dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna» (sentenza n. 84 del 2024), evitando di lasciare lungamente l’interessato in un “limbo”, fin tanto che il tribunale di sorveglianza si pronunci.
Ciò, di là dall’ulteriore obiettivo della riforma di conseguire una deflazione processuale della stessa fase cognitiva, incentivando «definizioni alternative del processo – attraverso la prospettiva di ottenere l’applicazione di pene sostitutive del carcere, anche per effetto degli sconti di pena connessi alla scelta dei riti alternativi» (sentenza n. 84 del 2024).
3.– Per quanto più direttamente attiene all’odierno thema decidendum, la riforma ha modificato profondamente anche la compagine delle pene sostitutive. Alla pena sostitutiva pecuniaria sono state, infatti, affiancate quelle – di nuovo conio – della semilibertà, della detenzione domiciliare e del lavoro sostitutivo, sopprimendo la semidetenzione e la libertà controllata. Nell’indicata logica di anticipazione dell’alternativa al carcere al giudizio di cognizione, la semilibertà e la detenzione domiciliare sostituiva vengono evidentemente a porsi come ideale pendant delle misure alternative alla detenzione di egual nome previste dalla legge di ordinamento penitenziario. Il che non implica però una coincidenza di disciplina, quanto a presupposti e contenuti.
Ciò è vero in modo particolare per la detenzione domiciliare, cui ineriscono gli odierni quesiti di legittimità costituzionale. Dissimile, anzitutto, è la perimetrazione della relativa area oggettiva di fruibilità. La detenzione domiciliare sostitutiva può essere, infatti, applicata quando il giudice ritiene di dover determinare la pena detentiva entro il limite dei quattro anni (artt. 53, primo comma, della legge n. 689 del 1981 e 20-bis, secondo comma, cod. pen.).
Si tratta di limite più ampio di quello per l’accesso alla misura alternativa, laddove il condannato non versi né nelle condizioni che consentono di fruire della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies ordin. penit. (riservata ai soggetti che debbano accudire prole in tenera età), né nelle condizioni soggettive di particolare vulnerabilità indicate dai commi 01, 1 e 1-ter dell’art. 47-ter ordin. penit., che permettono di fruire della detenzione domiciliare ordinaria, secondo i casi, senza limiti di pena o nell’eguale limite dei quattro anni.
Fuori di tali ipotesi, il censurato comma 1-bis del medesimo art. 47-ter ordin. penit. prevede, infatti, che la detenzione domiciliare possa essere concessa solo quando, in assenza dei presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale, la pena da espiare non ecceda i due anni: limite che nel caso oggetto del giudizio a quo risulta superato (a differenza di quello relativo alla detenzione domiciliare sostitutiva), essendo stata inflitta al condannato una pena complessiva di due anni e dieci mesi di reclusione.
La detenzione domiciliare sostitutiva si presenta, poi, in generale più favorevole sul piano dei contenuti. L’art. 47-ter, comma 4, ordin. penit., rinviando all’art. 284 cod. proc. pen., prevede infatti che il condannato ammesso alla misura alternativa possa essere autorizzato dal giudice ad assentarsi dal luogo di esecuzione della misura per il tempo strettamente necessario a provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita o per esercitare un’attività lavorativa: ma ciò solo quando non possa provvedere altrimenti a quelle esigenze o versi in una situazione di assoluta indigenza.
Assai meno stringente risulta invece il disposto del novellato art. 56 della legge n. 689 del 1981, secondo il quale il condannato alla detenzione domiciliare sostitutiva è tenuto a rimanere nel luogo in cui la pena deve essere espiata per un periodo minimo di dodici ore al giorno, determinato dal giudice «avuto riguardo a comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale, di lavoro o di salute del condannato», ferma restando, in ogni caso, la possibilità per quest’ultimo di «lasciare il domicilio per almeno quattro ore al giorno, anche non continuative, per provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita e di salute, secondo quanto stabilito dal giudice»; il tutto tenendo conto anche del «programma di trattamento elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna, che prende in carico il condannato e che riferisce periodicamente sulla sua condotta e sul percorso di reinserimento sociale».
Si tratta di previsioni che il rimettente valorizza in rapporto al caso sottoposto al suo vaglio, rilevando come le prescrizioni che accompagnano la detenzione domiciliare sostitutiva consentirebbero, per la loro flessibilità, di salvaguardare le esigenze di cura, formazione professionale e lavoro del condannato istante, così da favorire la sua rieducazione, risultando al tempo stesso idonee – stanti anche le prescrizioni comuni a tutte le pene sostitutive diverse da quella pecuniaria, di cui all’art. 56-ter della legge n. 689 del 1981 – a prevenire il pericolo che egli commetta nuovi reati.
Diversamente dal condannato ammesso alla misura alternativa, il condannato alla detenzione domiciliare sostitutiva può inoltre fruire di licenze (art. 69, primo comma, della legge n. 689 del 1981) ed è soggetto a una disciplina meno severa quanto alle conseguenze dell’ingiustificato allontanamento dal luogo di espiazione della pena (art. 72, primo comma, della legge n. 689 del 1981). Vale ricordare che questa Corte – chiamata a verificare la legittimità costituzionale delle discrepanze di disciplina ora ricordate – ha specificamente escluso che il nuovo testo dell’art. 56 della legge n. 689 del 1981 implichi una violazione dell’art. 76 Cost., per inosservanza del criterio di delega legislativa di cui all’art. 1, comma 17, lettera f), della legge n. 134 del 2021 (che richiedeva di mutuare per la detenzione domiciliare sostitutiva, ma solo «in quanto compatibile», la disciplina dell’omonima misura alternativa alla detenzione), dichiarando invece inammissibili, sotto vari profili, le ulteriori questioni sollevate (sentenza n. 84 del 2024).
4.– Il d.lgs. n. 150 del 2022 si occupa dei problemi di diritto transitorio connessi all’introduzione della nuova regolamentazione delle pene sostitutive nell’art. 95 (disposizione della quale il giudice a quo non fa peraltro menzione).
Ivi si stabilisce che le norme previste dal Capo III della legge n. 689 del 1981, se più favorevoli, si applicano anche ai procedimenti penali pendenti in primo grado o in grado di appello al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo.
Se il giudizio pende innanzi alla Corte di cassazione, il condannato a pena detentiva non superiore a quattro anni può presentare istanza di applicazione di una delle pene sostitutive al giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., entro trenta giorni dall’irrevocabilità della sentenza: soluzione giustificata dal fatto che la decisione sulla sostituzione della pena detentiva implica un giudizio di merito, estraneo all’ambito del sindacato di legittimità. In caso di annullamento con rinvio, provvede il giudice del rinvio.
Le sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata, già applicate o in corso di esecuzione al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, continuano ad essere disciplinate dalle disposizioni previgenti. Tuttavia, i condannati alla semidetenzione possono chiedere al magistrato di sorveglianza la conversione nella semilibertà sostitutiva.
Tali previsioni si pongono in linea con la regola generale in tema di successione di leggi penali nel tempo enunciata dall’art. 2, quarto comma, cod. pen., della quale costituiscono attuazione. In base ad esse, le disposizioni più favorevoli in tema di pene sostitutive si applicano ai fatti anteriormente commessi, anche se oggetto di giudizio, con l’unico limite rappresentato dalla formazione del giudicato di condanna a pena detentiva, non sostituita, in data antecedente all’entrata in vigore della riforma (Corte di cassazione, sezione sesta penale, 21 giugno-2 agosto 2023, n. 34091).
5.– Proprio questo limite è ritenuto, tuttavia, foriero di vulnera costituzionali dal giudice rimettente, nella misura in cui impedisce ai condannati liberi sospesi ante riforma, per i quali operi la disciplina di cui all’art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit., di beneficiare del più vantaggioso istituto della detenzione domiciliare sostitutiva.
Il Tribunale di sorveglianza triestino adombra in via primaria, al riguardo, la violazione dell’art. 3 Cost. per irragionevole disparità di trattamento, ritenendo che la preclusione censurata ponga i soggetti in questione in una posizione ingiustificatamente deteriore rispetto a quella dei condannati non definitivi alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, ammessi invece a fruire della pena sostitutiva in parola.
In sostanza, secondo il giudice a quo non vi sarebbe ragione per trattare in modo meno benevolo i soggetti condannati con sentenza irrevocabile, i quali siano in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza riguardo alla concedibilità di una misura alternativa al carcere, rispetto a coloro che, alla medesima data, sono stati del pari condannati, ma con sentenza non ancora passata in giudicato.
La questione non è fondata.
5.1.– È di immediata evidenza come – malgrado l’assenza di ogni espresso riferimento alla tematica nell’ordinanza di rimessione – il problema di fondo evocato dalla prospettazione del giudice a quo sia quello della legittimità dei limiti al principio di retroattività della lex mitior in materia penale: principio che rinviene proprio nell’art. 3 Cost. il suo diretto fondamento costituzionale (di là da quello indiretto offerto da norme sovranazionali atte a fungere da norme interposte rispetto all’art. 117, primo comma, Cost.).
Per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, il principio in parola resta estraneo alla sfera di tutela dell’art. 25, secondo comma, Cost., il quale si limita a sancire il distinto principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli, finalizzato primariamente a tutelare la libertà di autodeterminazione individuale, garantendo al singolo di non essere sorpreso dall’inflizione di una sanzione penale per lui non prevedibile al momento della commissione del fatto.
Garanzia che non è posta in discussione dall’applicazione di una norma penale, pur più gravosa di quelle entrate in vigore successivamente, ma comunque vigente quando il fatto fu realizzato (sentenze n. 238 del 2020, n. 63 del 2019 e n. 394 del 2006).
Il fondamento costituzionale della retroattività in mitius riposa piuttosto nel principio di eguaglianza, che «impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice» (sentenza n. 394 del 2006). Ciò in quanto, in via generale, «[n]on sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve)» (sentenza n. 236 del 2011; in senso analogo, sentenze n. 238 del 2020, n. 63 del 2019 e n. 230 del 2012).
La riconduzione del principio di retroattività della lex mitior nell’alveo dell’art. 3 Cost., piuttosto che in quello dell’art. 25, secondo comma, Cost., comporta peraltro che il relativo statuto costituzionale risulti meno energico di quello del principio di irretroattività in peius.
Mentre, infatti, quest’ultimo costituisce un valore assoluto e inderogabile, la regola della retroattività in mitius è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli (sentenze n. 278 e n. 238 del 2020, n. 63 del 2019, n. 236 del 2011, n. 394 e n. 393 del 2006).
Ed è appunto questa l’evenienza che ricorre nel caso in esame. A prescindere dall’anomalia della soluzione proposta dal rimettente per rimuovere il vulnus denunciato – consistente in un innesto a carattere transitorio sulla norma di ordinamento penitenziario delle regole inerenti alla detenzione domiciliare sostitutiva –, vale osservare come l’inapplicabilità delle norme più favorevoli in tema di pene sostitutive ai condannati con sentenza irrevocabile prima dell’entrata in vigore della riforma (siano o no liberi sospesi), malgrado le stesse norme operino in relazione a soggetti che, per fatti anteriormente commessi, abbiano giudizi in corso a tale data (anche se raggiunti da pronunce di condanna, ma non definitive), è assetto che rispecchia, come già accennato, la regola generale espressa dall’art. 2, quarto comma, cod. pen.: regola per cui, nel caso di successione di leggi penali modificative, l’applicazione retroattiva della norma più mite trova un limite nella formazione del giudicato.
Come già affermato da questa Corte, l’esigenza di salvaguardare la stabilità della res iudicata è suscettibile di costituire, in generale, adeguata ragione di deroga al principio considerato (sentenze n. 230 del 2012 e n. 74 del 1980; ordinanza n. 330 del 1995), senza che ciò implichi alcuna frizione con la dimensione sovranazionale del principio stesso, quale risultante, in particolare, dall’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, la quale mostra di escludere che il principio sia destinato ad operare oltre il limite del giudicato (sentenza n. 236 del 2011, con particolare riguardo alle affermazioni rese dalla grande camera della Corte EDU nella sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; nel senso della manifesta infondatezza, in base a tale rilievo, di questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto l’art. 95 del d.lgs. n. 150 del 2022, Corte di cassazione, sezione terza penale, 26 settembre-23 novembre 2023, n. 47042).
5.2.– Nell’ipotesi in esame vi sono però ulteriori e specifiche considerazioni che avvalorano la conclusione. Di là dalla stretta connessione logico-sistematica delle pene sostitutive con il giudizio di cognizione (sulla disomogeneità, per questo verso, tra le categorie dei liberi sospesi e dei condannati con sentenza definitiva successiva all’entrata in vigore della riforma, Corte di cassazione, sezione prima penale, 7 luglio-31 agosto 2023, n. 36379), occorre infatti tener conto delle specifiche ragioni che hanno indotto il legislatore della riforma a prevedere una disciplina della detenzione domiciliare sostitutiva più “liberale” di quella della corrispondente misura alternativa alla detenzione.
In ossequio ai criteri di delega legislativa (art. 1, comma 17, lettera b, della legge n. 134 del 2021) – difformi, sul punto, rispetto alle proposte della Commissione di studio istituita con decreto ministeriale 16 marzo 2021, servite di base per la riforma – il d.lgs. n. 150 del 2022 non ha incluso, tra le nuove pene sostitutive, una figura corrispondente alla più favorevole tra le misure alternative alla detenzione contemplate dalla legge di ordinamento penitenziario, vale a dire l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 ordin. penit.).
Tale circostanza, se per un verso ha reso necessario subordinare in via generale al consenso dell’imputato l’applicazione delle pene sostitutive diverse da quella pecuniaria (art. 58, terzo comma, della legge n. 689 del 1981), per un altro verso ha fatto emergere l’esigenza di evitare un effetto disincentivante che rischiava di compromettere a priori il conseguimento degli obiettivi della riforma, a partire da quello di contenimento del fenomeno dei liberi sospesi (ma anche l’altro di promuovere l’accesso ai riti alternativi: sul punto, sentenza n. 84 del 2024).
L’imputato potrebbe trovare, infatti, non conveniente assoggettarsi a pene sostitutive che dovrà effettivamente e immediatamente scontare una volta divenuta definitiva la condanna, preferendo puntare sull’ottenimento della più vantaggiosa misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale nella condizione di libero sospeso.
La previsione di una disciplina della detenzione domiciliare sostitutiva più “elastica” rispetto a quella dell’omonima misura alternativa alla detenzione mira anche e proprio ad attenuare tale effetto disincentivante, oltre che ad incrementare la capacità della pena sostitutiva di rispondere a finalità di rieducazione e recupero sociale del condannato (ancora, sentenza n. 84 del 2024).
Se da un lato, infatti, il limite di fruibilità di tale pena sostitutiva risulta allineato a quello dell’affidamento in prova, dall’altro, la disciplina dei suoi contenuti finisce, di fatto, per avvicinarla in modo significativo a quest’ultima misura.
Si comprende allora come sarebbe del tutto ingiustificato estendere tale disciplina più favorevole a soggetti che, al momento dell’entrata in vigore della riforma, siano già stati raggiunti da una sentenza di condanna irrevocabile e si trovino nella condizione – quella di liberi sospesi – che la riforma stessa mira a prevenire, ma che, proprio per questo, hanno la possibilità di fruire, quando ne ricorrano i presupposti, della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, priva di diretta corrispondenza nella griglia delle pene sostitutive.
6.– La censura di violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost. appare, nella prospettiva del rimettente, priva di autonomia, presentandosi come meramente ancillare rispetto a quella di violazione dell’art. 3 Cost., e ne segue pertanto la sorte. 7.– Alla luce delle considerazioni svolte, le questioni vanno dichiarate quindi non fondate.
Corte costituzionale, sentenza 7 novembre 2024, n. 176