Consiglio di stato, Adunanza Plenaria, sentenza, 20 novembre 2024 n. 16
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va considerato applicabile l’art. 105, comma 1, c.p.a., nella parte in cui prevede che il Consiglio di Stato deve rimettere la causa al giudice di primo grado se dichiara la nullità della sentenza, anche quando la sentenza appellata abbia dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, errando palesemente nell’escludere la legittimazione o l’interesse del ricorrente.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con ricorso al T.A.R. per la Sicilia – Sezione di Catania, notificato e depositato il 26.4.2022, l’appellante ha esposto che:
– è proprietario di un immobile situato nel territorio del Comune di Catania, posto al piano rialzato di Palazzo Zuccarello con prospetto anche su Largo Pascoli e via della Fiaccola, in cui ha domicilio e svolge l’attività professionale;
– sul lato prospicente su Largo Pascoli vi è un terreno, esteso circa 247 mq, dove era stato in esercizio un impianto di distribuzione carburanti della Esso Italiana s.r.l., dismesso con lavori ultimati nel mese di maggio 2017;
– da allora l’impianto era stato integralmente rimosso;
– avendo appreso che il Comune di Catania aveva rilasciato alla Petrol Company s.r.l. l’autorizzazione ai lavori di modifica e ripristino dell’impianto, egli ha eseguito l’accesso agli atti e chiesto l’annullamento in autotutela del provvedimento comunale e dell’autorizzazione rilasciata dall’Assessorato regionale;
– l’Assessorato, con nota 11.4.2022, prot. n. 18369, ha comunicato il rigetto dell’istanza di autotutela.
Il ricorrente ha impugnato il provvedimento del Comune di Catania 15.03.2022 n. 06/165, che ha autorizzato i lavori di modifica e ripristino del predetto impianto, unitamente a tredici atti presupposti, specificati nell’ordinanza di rimessione, ed ha anche chiesto l’accertamento dell’inefficacia del D.A. regionale 4.3.2014, n. 465, in quanto l’attività di gestione dell’impianto era stata sospesa per un periodo superiore a quello massimo consentito dall’art. 15 del D.A. 29.6.2016, n. 1947/8, come modificato dal D.A. 10.12.2018, n. 2284/1.S.
Con successivo ricorso per motivi aggiunti, l’appellante ha impugnato innanzi al T.A.R. ulteriori nove provvedimenti, specificati nell’ordinanza di rimessione, e ha inoltre chiesto l’accertamento dell’insussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’attività oggetto della s.c.i.a. 3.2.2021, prot. n. 80976, con cui la Petrol Company aveva comunicato l’esecuzione dei lavori di modifica e potenziamento dell’impianto, nonché la condanna del Comune di Catania a emettere i conseguenti provvedimenti inibitori.
Il ricorso di primo grado è affidato a tre motivi e quello per motivi aggiunti a sette motivi.
- Nel giudizio di primo grado il Comune di Catania ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione e di interesse, nonché la sua irricevibilità per tardività.
- Il T.A.R. ha dapprima accolto la domanda cautelare, disponendo incombenti istruttori, e con la successiva sentenza n. 1108/2023:
(i) ha accolto le eccezioni di difetto di legittimazione ad agire e di difetto di interesse al ricorso;
(ii) per l’effetto, ha dichiarato inammissibili il ricorso e i successivi motivi aggiunti;
(iii) ha compensato le spese di lite.
- Con ricorso in appello notificato e depositato l’8.5.2023, contenente domanda cautelare, l’originario ricorrente ha impugnato la menzionata sentenza innanzi al Consiglio di giustizia per la Regione siciliana (CGARS), lamentando l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e riproponendo tutte le censure dedotte in primo grado.
- Con la sentenza parziale e non definitiva n. 652/2024, il CGARS:
– ha accolto il primo motivo di appello, e, per l’effetto, ha ritenuto ammissibile il ricorso di primo grado e i successivi motivi aggiunti;
– ha rimesso all’esame dell’Adunanza Plenaria una questione pregiudiziale rispetto all’esame dei restanti motivi di appello.
- Nella fase scritta davanti a questa Plenaria, il Comune di Catania ha depositato due memorie in date 7-10.10.2024, con cui ha difeso il proprio operato, ha reiterato l’eccezione di tardività del ricorso quanto all’impugnazione del D.A. 4.3.2014, n. 465, già prospettata in primo grado e nella precedente fase davanti al CGARS, ed ha lasciato alle valutazioni dell’Adunanza Plenaria la questione di rito oggetto di rimessione.
La Petrol Company in data 10.10.2024 ha depositato documenti e memoria, difendendosi nel merito e lasciando alla valutazione dell’Adunanza Plenaria la questione rimessa dal CGARS, peraltro suggerendo di sottoporre l’esame dell’art. 105 c.p.a. alla Corte costituzionale, potendo esso risultare in parte incostituzionale.
L’appellante non ha depositato memorie.
- La causa è passata in decisione all’udienza pubblica del 13.11.2024, nel corso della quale l’appellante ha chiesto che sia confermato l’orientamento espresso dalla Adunanza Plenaria nel 2018 sull’interpretazione dell’art. 105 c.p.a. e che la causa sia quindi decisa nel merito. Le altre parti si sono rimesse ai propri scritti.
- Il quesito sottoposto dal CGARS all’esame dell’Adunanza Plenaria è formulato come segue:
“se l’annullamento della sentenza di inammissibilità (o di improcedibilità) del ricorso, disvelando che l’omessa trattazione del merito della causa in primo grado ha determinato una ingiusta compressione e dunque una ‘lesione del diritto di difesa’ del ricorrente – lesione che verrebbe ulteriormente perpetrata, per la sottrazione alla sua disponibilità di un grado di giudizio, ove la causa fosse trattata (nel merito) direttamente dal giudice d’appello – non determini la necessità di rimettere la causa, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a., al giudice di primo grado: e ciò, quantomeno, allorché la declaratoria di inammissibilità (o di improcedibilità) del ricorso, nella sua interezza, sia avvenuta ex ante e a prescindere dall’esame, seppur parziale, dei motivi dedotti dalla parte”.
L’ordinanza di rimessione:
– ha rammentato il principio di diritto espresso dall’Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 10, 11 e 15 del 2018, per il quale, in caso di erronea pronuncia di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado, il Consiglio di Stato non deve rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a., bensì deve esaminare, per la prima volta, nel merito la controversia;
– ha rilevato di non condividere integralmente tale principio di diritto e ne sollecita una rimeditazione, limitatamente al caso in cui la declaratoria di inammissibilità (o di improcedibilità), del ricorso, nella sua interezza, abbia precluso l’esame, seppur parziale, dei motivi dedotti dalla parte;
– ha richiamato e fatto proprie le considerazioni poste a base della sentenza non definitiva del CGARS n. 223/2018, che a suo tempo già rimise all’esame dell’Adunanza Plenaria la questione dell’inclusione o meno dell’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso nell’ambito di applicazione dell’art. 105 c.p.a.
A tali considerazioni il CGARS ha aggiunto ulteriori notazioni, facendo leva sulla costituzionalizzazione del doppio grado di giudizio per il processo amministrativo, per inferirne che nei casi di pronuncia di inammissibilità o improcedibilità dell’intero ricorso di primo grado, senza alcuno scrutinio del merito, si determinerebbe una “lesione del diritto di difesa”, che giustificherebbe la rimessione della causa al primo giudice.
L’ordinanza di rimessione individua quattro possibili argomenti contrari alla tesi per cui va disposto l’annullamento con rinvio ai sensi dell’art. 105 c.p.a., nei casi di erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso di primo grado, proponendone però il superamento.
- L’Adunanza Plenaria osserva che il CGARS formula il proprio quesito sia con riguardo alla riforma di una sentenza di inammissibilità che con riguardo alla riforma di una sentenza di improcedibilità.
Il caso concreto riguarda una pronuncia di inammissibilità del ricorso da parte del T.A.R. per difetto di legittimazione e interesse ad agire, e non anche un caso di erronea declaratoria di improcedibilità del ricorso.
L’Adunanza Plenaria ritiene di dover enunciare il principio di diritto solo con riferimento al caso di erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso, poiché il presupposto implicito per la rimessione di una questione alla Plenaria è la rilevanza della stessa rispetto alla res controversa, nel senso che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione (Cons. St., Ad. plen., 26.4.2023 n. 14; 19.4.2023 n. 13; 22.3.2024 n. 4).
- Va richiamata la cornice normativa e giurisprudenziale di riferimento.
10.1. L’art. 105, comma 1, del c.p.a. dispone che “Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio”.
10.2. Tra i casi di rimessione al T.A.R., non sono espressamente previsti da tale comma quelli in cui il Consiglio di Stato riforma la sentenza che abbia dichiarato l’irricevibilità, l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso di primo grado.
Si pone pertanto la questione se essi siano riconducibili, e con quali condizioni, alle ipotesi generali, elencate nell’art. 105, comma 1, di “mancanza del contraddittorio”, “lesione del diritto di difesa”, “nullità della sentenza”.
10.3. Si tratta di una questione già affrontata dall’Adunanza Plenaria nel 2018, con decisioni di cui va richiamato, in sintesi, il percorso argomentativo.
Il loro punto di partenza è che l’art. 105 del c.p.a. vada interpretato alla luce dell’art. 354 c.p.c., espressivo di principi processuali generali, rilevanti ai sensi dell’art. 39 c.p.a. (Cons. St., Ad. plen., 30.7.2018 nn. 10 e 11, § 12; 5.9.2018 n. 14, § 6; 28.9.2018 n. 15, § 6).
Secondo tali decisioni, le espressioni “lesione del diritto di difesa” e “mancanza del contraddittorio”, pur non costituendo un’endiadi (perché ciascuna nozione ha un suo significato autonomo che non si risolve in quello dell’altra), sarebbero ambedue riconducibili alla menomazione del contraddittorio lato sensu inteso, nel senso che in entrambi i casi è mancata la possibilità di difendersi nel giudizio-procedimento, con suo svolgimento irrimediabilmente viziato, sicché il giudice è pervenuto a una pronuncia la cui illegittimità va riguardata non per il suo contenuto, ma per il solo fatto che essa sia stata resa, senza che la parte abbia potuto esercitare il diritto di difesa o beneficiare dell’integrità del contraddittorio.
Nell’ambito di questa macro-categoria (di violazione del contraddittorio in senso lato), l’ulteriore distinzione tra mancanza del contraddittorio in senso stretto e violazione del diritto di difesa atterrebbe alla natura “genetica” o “funzionale” del vizio che ha inficiato lo svolgimento del giudizio-procedimento.
La “mancanza del contraddittorio” sarebbe così essenzialmente riconducibile all’ipotesi in cui doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte: il vizio sarebbe, quindi, genetico, nel senso che – a causa della mancata integrazione del contraddittorio o della erronea estromissione – una o più parti vengono in radice e sin dall’inizio private della possibilità di partecipare al giudizio-procedimento.
A sua volta, la “lesione del diritto di difesa” non sarebbe una categoria generale e aperta, ma quella individuabile secondo “criteri determinati e identificabili attraverso le singole e puntuali norme processuali che prescrivono, con sfumature diverse secondo l’incedere del processo, le garanzie del diritto di difesa”.
Essa farebbe riferimento ad un vizio non genetico, ma funzionale del contraddittorio, incidente sui diritti di difesa di una parte, che ha, tuttavia, preso parte al giudizio, perché nei suoi confronti il contraddittorio iniziale è stato regolarmente instaurato, ma, successivamente, nel corso dello svolgimento del giudizio, è stata privata di alcune necessarie garanzie difensive.
Rileverebbe al riguardo la giurisprudenza formatasi nella vigenza dell’art. 35 della legge n. 1034 del 1071, per il quale doveva esservi l’annullamento con rinvio al T.A.R. nei casi di “difetto di procedura”, in particolare nei casi di mancata concessione di termini a difesa o di mancata trasmissione di avvisi alle parti.
Le sopra citate sentenze dell’Adunanza Plenaria hanno pertanto escluso la sussistenza di una “lesione del diritto di difesa” nei casi di violazioni sostanziali in cui i ricorsi siano stati definiti con pronunce di mero rito, o anche di esame del merito con ‘omissioni gravi’.
In particolare, esse hanno escluso l’applicabilità dell’art. 105, comma 1, qualora l’erronea decisione di rito sia stata emessa dopo che la questione sia stata sottoposta al contraddittorio delle parti, nel rispetto di modalità e termini di rito: si è osservato che “la violazione del diritto di difesa in tutte queste ipotesi avviene nel giudizio-procedimento, dove la parte non ha potuto difendersi; l’errore si annida nella procedura, e non nel contenuto della sentenza: il diritto di difesa, quindi, è leso nel giudizio e non dal giudizio” (Cons. St., Ad. plen., nn. 10 e 11 del 2018).
10.4. Le stesse sentenze dell’Adunanza Plenaria hanno ritenuto che l’erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado potrebbe dare luogo a una rimessione al primo giudice solo nel caso di ‘nullità della sentenza’, sussistente quando essa sia ‘totalmente carente di motivazione’ o basata su una ‘motivazione apparente’.
- Nel decidere sul quesito formulato con l’ordinanza di rimessione dal CGARS, ritiene questa Adunanza Plenaria di dover confermare, nella sostanza, la soluzione seguita dalla Plenaria nel 2018, sia pure sulla base di un percorso argomentativo parzialmente diverso e con una integrazione, quanto alla individuazione delle ipotesi di ‘nullità della sentenza’.
11.1. Occorre muovere dalla conformazione costituzionale del processo amministrativo e dalla individuazione dei limiti entro cui le disposizioni del c.p.c. possono essere ad esso applicate.
11.2. Sotto il primo profilo, per il processo amministrativo il doppio grado di giudizio ha valore di regola costituzionale (art. 125 Cost.; Corte cost., 12.3.1975, n. 61, e 1.2.1982, n. 8; Cass., Sez. un., 15.12.1983, n. 7409), e i casi di giurisdizione in unico grado davanti al Consiglio di Stato devono ritenersi eccezionali e basarsi su una espressa previsione normativa, anche dopo la pronuncia della Corte cost. n. 395/1988.
Il principio costituzionale del doppio grado del giudizio va interpretato alla luce, da un lato, dei principi del giusto processo e del diritto a un ricorso effettivo (artt. 111, primo comma, Cost.; 13 CEDU; 1 c.p.a.), e, dall’altro lato, della previsione costituzionale del limitato sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo, circoscritto “ai soli motivi inerenti alla giurisdizione” (art. 111, ottavo comma, Cost.) e più ristretto del sindacato di legittimità che la Corte di cassazione esercita sulle sentenze del giudice civile per “violazione di legge” (art. 111, settimo comma, Cost. e art. 360 c.p.c.).
Il principio del doppio grado del giudizio amministrativo non implica che la parte abbia diritto a un pieno esame della causa nel merito in due gradi (Cons. St., Ad. plen., 30.6.1978, n. 18).
Esso comporta da un lato che, una volta che la causa sia stata decisa dal T.A.R., sia previsto il rimedio dell’appello, e, dall’altro lato che la causa debba essere esaminata nel merito in primo grado, in presenza dei relativi presupposti e sulla base dei principi del giusto processo e di effettività della tutela.
Una pronuncia di merito in primo grado potrebbe dal soccombente essere ritenuta persuasiva senza necessità di appello, così evitando i costi di un secondo giudizio e contribuendo alla ragionevole durata del processo.
Le erronee sentenze di primo grado di mero rito non sono solo sentenze “ingiuste” e come tali appellabili, ma, nella misura in cui l’ordinamento non consentisse mai una regressione del giudizio, recherebbero anche un vulnus al principio del giusto processo.
La decisione in unico grado di merito innanzi al Consiglio di Stato, le cui sentenze non sono impugnabili per violazione di legge, non costituisce il modello del giudizio amministrativo disciplinato dagli articoli 111 e 125 Cost. e dal c.p.a., laddove hanno previsto il giusto processo e il doppio grado per i casi in cui il giudizio sia definito dall’organo di giustizia amministrativa di primo grado.
La mediazione tra il modello del ‘doppio grado di merito pieno’ – in cui tutti i motivi e tutte le questioni sono esaminati in due gradi – e l’evenienza pratica di un primo grado di mero rito, seguito da un unico grado di merito pieno in fase di appello, è lasciata al legislatore ordinario, chiamato a operare un ragionevole bilanciamento tra le esigenze del giusto processo e della sua ragionevole durata, e ad individuare, per il caso di erronee pronunce in rito, un modello intermedio tra un appello sempre cassatorio e un appello con effetto devolutivo pieno.
A tale bilanciamento il legislatore ordinario ha provveduto in modo differenziato nei diversi processi, con diversa ampiezza dei casi di regressione del giudizio in presenza di erronee pronunce in rito.
L’art. 105 c.p.a. prevede un novero di ipotesi di regressione del processo ben più ampio di quello contemplato dall’art. 354 c.p.c.
11.3. Quanto ai limiti entro cui le disposizioni del c.p.c. possono essere applicate nel processo amministrativo, l’art. 39, comma 1, c.p.a. stabilisce che “Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili o espressione di principi generali”.
Siffatta previsione consente l’applicazione del c.p.c. attraverso gli strumenti dell’analogia legis e dell’analogia iuris di cui all’art. 12, secondo comma, disp. prel. c.c.
Pertanto, l’operazione logica di trarre un principio generale dalle disposizioni del c.p.c., da applicarsi al processo amministrativo, ha come presupposto indefettibile che nel c.p.a. ci sia una lacuna, come già affermato dall’Adunanza Plenaria (Cons. St., Ad. plen., 22.3.2024, n. 4, § 21.2.f; 27.4.2015; n. 5; 10.12.2014, n. 33).
La circostanza che una disposizione del processo civile sia espressione di un principio generale non giustifica di per sé sola l’estensione del principio processualcivilistico al processo amministrativo o il suo utilizzo come criterio ermeneutico.
Invero, la regolamentazione di una fattispecie concreta mediante i principi generali piuttosto che mediante disposizioni puntuali, è consentita dall’ordinamento positivo solo (i) quando i principi siano gerarchicamente sovraordinati e siano pertanto prevalenti a prescindere da una lacuna dell’ordinamento (ad es. i principi eurounitari), (ii) o quando vi sia una lacuna normativa da colmare (analogia iuris ex art. 12, secondo comma, disp. prel. c.c.), (iii) o quando una legge stabilisca espressamente che i principi da essa enunciati prevalgono sulle sue regole puntuali o ne costituiscono criterio esegetico (v. ad es. art. 1, comma 4, d.lgs. n. 36/2023).
Nessuna di queste tre ipotesi è ravvisabile nel caso specifico, in quanto: (i) il c.p.c. non è una fonte del diritto sovraordinata al c.p.a., (ii) l’art. 105 c.p.a. non presenta alcuna lacuna, (iii) nessuna disposizione del c.p.a. affida ai principi del processo civile una valenza di canone esegetico del c.p.a.
Il c.p.a. non contiene alcuna lacuna, quanto ai casi di regressione del giudizio e al c.d. effetto devolutivo, recando un’autonoma e compiuta disciplina di tali profili nel combinato disposto dell’art. 101, comma 2, e dell’art. 105 c.p.a., che non necessita di alcuna integrazione o esegesi sistematica, sicché di per sé non rileva per il processo amministrativo l’art. 354 c.p.c.
In tal senso si è già pronunciata l’Adunanza Plenaria in sede di interpretazione dell’art. 35 della legge n. 1034 del 1971 (che ha disciplinato i casi di annullamento con rinvio al T.A.R., prima dell’entrata in vigore del c.p.a.), affermando che esso non contenesse lacune suscettibili di integrazione mediante il richiamo all’art. 354 c.p.c. (Cons. St., Ad. plen., 27.10.1987, n. 24).
E’ vero che l’art. 44, comma 1, l. n. 69/2009 individua tra le finalità del riassetto delle norme del processo amministrativo quella “di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali”, ma tale criterio della legge delega ha richiesto al legislatore delegato di effettuare una ricognizione e una trasposizione dei principi generali del processo all’interno del processo amministrativo, anche alla luce della pregressa prassi giurisprudenziale utilizzata al fine di colmare lacune della legge processuale amministrativa, e quindi individuando i principi generali del processo civile già ritenuti applicabili al processo amministrativo prima dell’entrata in vigore del c.p.a.
“Coordinamento” del c.p.a. con il c.p.c. non significa necessariamente pedissequa trasposizione, bensì adattamento alle peculiarità di un processo che risponde a diverse esigenze e ha una diversa struttura secondo la Costituzione.
In ogni caso, una volta esercitata la delega, i principi del processo civile possono regolare quello amministrativo solo alle condizioni stabilite dall’art. 39 c.p.a., ossia in presenza di una lacuna.
11.4. Ne consegue che il c.d. “effetto devolutivo” dell’appello, quale lo si desume, a guisa di principio generale, dall’art. 354 c.p.c. non può essere ricostruito, per il processo amministrativo, in modo identico a come viene ricostruito in quello civile, perché differiscono sia la cornice costituzionale (‘doppio grado di merito’ costituzionalizzato nel primo e non nel secondo, caratterizzato dalla ricorribilità in Cassazione), sia le disposizioni applicabili (rispettivamente gli artt. 101 e 105 c.p.a. e l’art. 354 c.p.c.).
L’effetto devolutivo dell’appello va delineato sulla base del quadro normativo vigente, dovendosi prendere atto che esso è conformato in modo diverso nelle diverse giurisdizioni.
In quella civile si ha una maggiore estensione di tale effetto devolutivo, con una minore correlata estensione dei casi di regressione del giudizio. Il d.lgs. n. 149/2022 ha finanche abrogato l’art. 353 c.p.c. che prevedeva la rimessione al primo giudice in caso di erronea dichiarazione di difetto di giurisdizione, laddove nel processo amministrativo siffatta fattispecie resta una delle ipotesi tipiche di regressione del giudizio.
Il codice di giustizia contabile, per i giudizi innanzi alla Corte dei conti, contiene un significativo ampliamento dei casi di regressione del giudizio, che includono non solo i casi di erronea declinatoria di giurisdizione o di nullità della sentenza o vizio del contraddittorio, ma anche “ogni caso” in cui, “senza conoscere del merito del giudizio, il giudice di primo grado ha definito il processo decidendo soltanto altre questioni pregiudiziali o preliminari. (…) su queste esclusivamente si pronuncia il giudice di appello. In caso di accoglimento del gravame proposto, rimette gli atti al primo giudice per la prosecuzione del giudizio sul merito e la pronuncia anche sulle spese del grado d’appello” (art. 199, comma 2, d.lgs. n. 174/2016).
Il paradigma del processo contabile è ben più vicino a quello del processo amministrativo di quanto non lo sia il processo civile, atteso che anche le decisioni del giudice contabile, al pari di quelle del giudice amministrativo, sono impugnabili per cassazione ‘per i soli motivi inerenti alla giurisdizione’, laddove nel processo civile vi sono indefettibilmente quanto meno due gradi di pieno esame di legittimità (art. 111 Cost.; artt. 382 e 383 c.p.c.).
11.5. Pertanto ogni questione esegetica circa il suo ambito applicativo va risolta considerando il solo art. 105 c.p.a. nella cornice del c.p.a. e dei principi costituzionali sopra ricordati.
Sul piano dell’interpretazione letterale, logica e sistematica dell’art. 105, il Collegio ritiene di dover analizzare e coordinare in modo armonico i seguenti “segmenti normativi”:
(a) “Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se”;
(b) “è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza”;
(c) “o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio”.
Il primo segmento normativo, con l’espressione “soltanto se”, comporta che l’elenco dei casi di rimessione al primo giudice è tassativo e pertanto insuscettibile di interpretazione analogica.
L’analisi comparata del secondo e terzo segmento normativo rende evidente che i casi di rimessione al primo giudice sono individuati con una tecnica legislativa non omogenea.
Invero, il secondo segmento normativo si riferisce a tre vizi – afferenti al processo e alla decisione – individuati mediante tre ‘categorie generali’ che non corrispondono a tre “singoli vizi”, ma a tre “serie di vizi”, sicché le tre categorie vanno riempite di contenuto attraverso una ricognizione delle ipotesi normative e delle fattispecie concrete riconducibili nelle categorie generali.
Invece, il terzo segmento normativo si riferisce a quattro ipotesi puntuali di decisioni di rito erronee, univocamente corrispondenti a fattispecie previste da disposizioni processuali (erronea declinatoria della giurisdizione; erronea declinatoria della competenza; erronea estinzione del giudizio; erronea perenzione).
Va ribadito quanto affermato dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria, sulla tassatività delle ipotesi previste dall’art. 105 e dunque sulla sua insuscettibilità di interpretazione analogica.
Tuttavia, dato che la previsione contempla tre “categorie generali” di vizi del procedimento o del giudizio di primo grado, l’interprete deve riempirle di contenuto.
Tale modus interpretandi è coerente con quanto deciso già prima dell’entrata in vigore del c.p.a. dall’Adunanza Plenaria, che, in ossequio al principio del doppio grado, ha accolto un’interpretazione estensiva della nozione di erronea declaratoria di incompetenza contenuta nell’art. 35 l. n. 1034/1971, ritenendovi inclusa anche la erronea declaratoria di difetto di giurisdizione (Cons. St., Ad. plen., 8.11.1996, n. 23).
Nell’individuazione delle fattispecie generali, occorre muovere dal rilievo che l’art. 105 non solo contempla distintamente le ipotesi in cui “è mancato il contraddittorio”, quella in cui “è stato leso il diritto di difesa di una delle parti”, e quella della “nullità della sentenza”, ma soprattutto contiene una formulazione ben più ampia di quella dell’art. 354 c.p.c., in cui la rimessione al primo giudice è prevista nei casi di mancata integrazione del contraddittorio, erronea estromissione di una parte e nullità della sentenza nel solo caso di cui all’art. 161, secondo comma, c.p.c.
L’art. 354 c.p.c. menziona due sole fattispecie specifiche di mancanza del contraddittorio, non fa riferimento alcuno alla lesione del diritto di difesa e individua la nullità della sentenza con rinvio all’art. 161, secondo comma, c.p.c., così circoscrivendola al solo difetto di sottoscrizione.
Invece l’art. 105 c.p.a. si riferisce alla nullità della sentenza tout court, includendovi, oltre che il vizio formale di sottoscrizione, anche errori di giudizio, come hanno già rilevato dalle sentenze nn. 10, 11 e 15 del 2018 dell’Adunanza Plenaria.
Del resto, non può ritenersi che l’art. 105 abbia inteso riprodurre solo la previgente disciplina basata sulla distinzione tra gli “errores in procedendo” e gli “errores in iudicando”.
Nelle fattispecie, sia generali che puntuali, ivi previste, molte ipotesi sono di “errores in iudicando”, così la ‘nullità della sentenza’, l’erronea declinatoria della giurisdizione o della competenza, l’erronea dichiarazione di estinzione o di perenzione del giudizio.
11.6. Già nel 1987, l’Adunanza Plenaria rilevò che – pur se si poteva ammettere un’approssimativa coincidenza fra l’ipotesi generica (“difetto di procedura”) dell’art. 35 n. 1034 del 1971, e le ipotesi specifiche elencate nell’art. 354 c.p.c. – il legislatore aveva utilizzato tecniche normative diverse: nel c.p.c., quella “dell’elencazione tassativa” che non può essere che di stretta interpretazione, e, nell’art. 35 della legge n. 1034 del 1971, quella della “formula generica”, la quale, se pur sostanzialmente coincidente, lasciava all’interprete la possibilità di aggiungere ulteriori ipotesi non previste dall’art. 354 c.p.c. (Cons. St., Ad. plen., 27.10.1987, n. 24).
Inoltre, come già ricordato, la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 23/1996 ammise un’interpretazione estensiva, se non analogica, dell’art. 35 l. n. 1034/1971, includendo nell’erronea dichiarazione di difetto di competenza anche l’erronea dichiarazione di difetto di giurisdizione.
L’approccio seguito dall’Adunanza Plenaria nel 1987 e nel 1993 deve essere ora ribadito, anche alla luce di quanto sopra osservato circa l’autonoma portata normativa dell’art. 105 c.p.a. rispetto all’art. 354 c.p.c.
Così come già l’art. 35 della legge n. 1034 del 1971 aveva utilizzato la tecnica delle “categorie generali”, anche il vigente art. 105 c.p.a. ha indicato, da un lato, ipotesi specifiche di annullamento con rinvio, e, dall’altro lato, tre ‘categorie generali’.
Inoltre, mentre il medesimo art. 35 menzionava espressamente il “difetto di procedura” tra i casi di annullamento con rinvio, tale locuzione non compare nell’art. 105.
Le stesse pronunce dell’Adunanza Plenaria del 2018, con riferimento alla categoria della “nullità della sentenza”, vi hanno attribuito un contenuto “misto” tale da includere sia errori procedurali, quale il difetto di sottoscrizione, sia errori di giudizio, quale quello della motivazione mancante o apparente.
11.7. Venendo al caso di erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso per difetto di una condizione dell’azione, oggetto dell’ordinanza di rimessione, il CGARS propone di incasellarlo, quanto meno nel caso di mancato esame di tutti i motivi di ricorso, nella categoria della “lesione del diritto di difesa” di cui all’art. 105, da intendersi come comprensiva non solo di errori processuali, ma anche di errori di giudizio.
Questa Adunanza Plenaria ritiene che gli argomenti prospettati dal CGARS abbiano adeguatamente posto in evidenza come, nell’impianto dell’art. 105, tra i casi di regressione del giudizio rientrano non solo errori processuali, ma anche errori di giudizio, e come l’espressione “lesione del diritto di difesa”, per la sua ampia formulazione, potrebbe essere interpretata nel senso che si sia riferita non solo ad errori del processo, ma anche ai macroscopici errori di giudizio.
11.8. Tuttavia, ad avviso del Collegio non occorre, nel caso di specie, approfondire la questione della portata esegetica della “lesione del diritto di difesa” rispetto alla “mancanza del contraddittorio”, e neppure è necessario verificare se essa si sia riferita anche agli errori di giudizio, al pari della “nullità della sentenza” e delle altre quattro ipotesi specifiche previste dall’art. 105 c.p.a.
Invero, l’erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso per difetto di una condizione dell’azione – con il consequenziale mancato esame della totalità dei motivi di ricorso – ben può integrare la ‘nullità della sentenza’, in armonia con i principi enunciati dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria nn. 10 e 11 del 2018, § 47 e ss., e n. 15/2018 § 7.3, sia pure con alcune precisazioni.
Per le citate sentenze nn. 10 e 11 del 2018, la ‘nullità della sentenza’ è ravvisabile non solo nel caso di motivazione “radicalmente assente”, ma anche nel caso di motivazione “meramente apparente”, che si ha quando essa è “palesemente non pertinente rispetto alla domanda proposta”, o “tautologica o assertiva, espressa attraverso mere formule di stile” o “richiama un generico orientamento giurisprudenziale senza illustrarne il contenuto”. “Più in generale, la motivazione è apparente quando sussistono anomalie argomentative di gravità tale da porre la motivazione al di sotto del minimo costituzionale che si ricava dall’art. 111, comma 5 Cost. (…) tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica, oppure obiettivamente incomprensibile (…) La motivazione apparente non è sindacabile dal giudice, in quanto essa costituisce un atto d’imperio immotivato e dunque non è nemmeno integrabile, se non con il riferimento alle più varie, ipotetiche congetture, ma una sentenza “congetturale” è, per definizione, una non-decisione giurisdizionale – o, se si preferisce e all’estremo opposto, un atto di puro arbitrio – e, quindi, un atto di abdicazione alla potestas iudicandi.. (…). La nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione riguarda non solo le sentenze di rito (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità), ma anche quelle che recano un dispositivo di merito (…) non sorretto da una reale motivazione.”. (…) “Il difetto assoluto di motivazione deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso, e non in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso”.
Quando l’esclusione della legittimazione o dell’interesse a ricorrere è frutto di un palese errore, per effetto del quale è mancato l’esame della totalità dei motivi di ricorso, si determina per il ricorrente una situazione più grave rispetto all’erroneo diniego di giurisdizione o di competenza o all’errore in procedendo, posto che nelle prime due ipotesi non è negata la tutela giurisdizionale della posizione giuridica soggettiva e la parte può riassumere il giudizio davanti al giudice indicato come avente giurisdizione o competenza, così conservando i due gradi di merito, e nel caso di errore in procedendo la sentenza esamina i motivi di ricorso, mentre nel caso di erronea declaratoria del difetto di legittimazione o di interesse è più radicalmente negata la sussistenza di una posizione tutelabile (e dunque non vi è alcun esame del merito, né la possibilità di ottenerlo riassumendo il giudizio davanti ad altro giudice di primo grado).
Il ricorrente, se vuole ottenere il riconoscimento della sussistenza di una posizione giuridica tutelabile in sede giurisdizionale (e dunque ottenere una pronuncia di merito), è pertanto onerato di proporre appello, con i relativi costi e tempi.
La sentenza che nega la sussistenza della legittimazione o dell’interesse al ricorso – e dunque ravvisa l’assenza di una posizione giuridica tutelabile, malgrado vi sia stata l’impugnazione di un provvedimento autoritativo incontestabilmente devoluta alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo – deve basarsi su una motivazione adeguata, ragionevole e coerente con i principi processuali, che tenga conto dei fatti di causa e delle censure dedotte in relazione alla lesione prospettata, e deve consentire di far comprendere in modo chiaro in fatto e in diritto l’effettiva sussistenza della ragione giuridica, posta a base della declaratoria di inammissibilità.
Per individuare il ‘chi’ possa impugnare il provvedimento autoritativo, la motivazione della sentenza deve tenere adeguatamente tenere conto della potenziale lesività dell’atto (ad esempio, sul patrimonio, sulla salute o anche sugli aspetti morali del ricorrente) e non è dunque sufficiente una riproduzione pedissequa dei fatti di causa e dei motivi di ricorso prospettati dalla parte, priva di vaglio critico da parte del giudice, né è sufficiente riportare gli orientamenti della giurisprudenza sulle condizioni dell’azione, ingiustificatamente negando la sussistenza di una posizione soggettiva tutelabile.
Occorre una motivazione puntuale sulla specifica posizione dedotta in giudizio dalla parte ricorrente tenendo conto della situazione fattuale.
Qualora la statuizione di inammissibilità si basi su una motivazione tautologica o sia frutto di un errore palese, in fatto o in diritto, che abbia per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso, si concreta il vizio di ‘nullità della sentenza’, che, secondo quanto statuito dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria nel 2018, “deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso”.
È appunto il confronto tra una motivazione di puro rito frutto di un errore palese e il ricorso proposto unitariamente inteso che rende evidente il grave difetto argomentativo di una tale motivazione rispetto al ricorso.
11.9. L’ordinanza di rimessione ha richiamato sia le ipotesi di mancato “esame del merito”, sia quelle di mancato esame di tutti i motivi di ricorso.
Questa Adunanza Plenaria rileva che della nozione di “merito processuale” possono darsi diverse accezioni, come “fatti processuali” o come “motivi di ricorso”, esaminati nella sostanza, in contrapposizione ad una pronuncia di “rito” che non esamina il “merito”.
Le decisioni in rito di inammissibilità di un ricorso di primo grado, possono atteggiarsi in vario modo.
Viene in considerazione la seguente principale casistica:
(a) decisioni di inammissibilità, che hanno omesso l’esame del merito inteso come fatti di causa, ossia decisioni che non prendono in considerazione la specifica situazione fattuale (ad es., nelle controversie in materia edilizia, la concreta ubicazione del bene di proprietà del ricorrente ai fini della verifica della vicinitas, della legittimazione e dell’interesse al ricorso, le concrete caratteristiche dell’immobile costruendo);
(b) decisioni di inammissibilità, che non esaminano il merito inteso come motivi di ricorso;
(c) decisioni con doppia motivazione, in rito e in merito, che, pur dichiarando inammissibile un ricorso, esaminano “comunque” i motivi di ricorso;
(d) decisioni di inammissibilità in cui la declaratoria di inammissibilità è il risultato di una disamina di tutti o di alcuni motivi di ricorso.
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, la prima e la seconda ipotesi sopra delineate danno luogo ad una pronuncia di annullamento con rinvio, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., in ragione della nullità della sentenza per motivazione apparente, come già rilevato dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria, o in ragione di un errore palese di rito che ha per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso.
Nella terza e quarta ipotesi sopra delineate, vi è stato comunque un esame dei motivi di ricorso, che, anche se solo parziale, non giustifica un annullamento con rinvio, in ragione dell’effetto devolutivo dell’appello, come si desume anche dall’art. 101, comma 2, c.p.a.
11.10. Tale ricostruzione del quadro normativo consente di rendere coerenti tra loro le fattispecie disciplinate dall’art. 105 c.p.a., in quanto sia nel caso della ‘nullità della sentenza’ (per palese errore di giudizio sulle condizioni dell’azione) che in quelli di erronea declinatoria di giurisdizione o competenza, erronea estinzione o perenzione, viene in rilievo non qualsivoglia errore di giudizio, ma quell’errore di giudizio che ha per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso.
11.11. Siffatta interpretazione consente anche di evitare disparità di trattamento tra i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma 2, c.p.a. (che impongono l’annullamento con rinvio) e i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma 1, c.p.a., non espressamente richiamati dall’art. 105 c.p.a., non risultando ragionevole il trattamento differenziato di chi subisce un’erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso e di chi subisce un’erronea dichiarazione di estinzione del giudizio.
La disparità di trattamento di situazioni equivalenti sarebbe del resto vistosa nel caso (non espressamente previsto dall’art. 105) di erronea declaratoria di irricevibilità del ricorso perché notificato o depositato oltre il termine massimo, rispetto al caso di erronea declaratoria di estinzione del processo perché il ricorso è stato riassunto mediante notifica o deposito oltre il termine massimo (che impone la regressione del giudizio).
In entrambi i casi si disputa di una notifica o di un deposito tardivi dell’originario ricorso o del medesimo originario ricorso “riassunto”.
- Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, non sono condivisibili gli argomenti addotti a sostegno dell’interpretazione che nega la regressione del giudizio quando il T.A.R. abbia errato nell’individuare il ‘chi’ possa impugnare l’atto autoritativo ed abbia quindi errato nell’escludere una delle condizioni dell’azione.
12.1. Non risulta persuasivo l’argomento secondo cui il giudice di primo grado avrebbe esercitato e consumato comunque il suo potere, anche con la semplice pronunzia di rito, posto che questo si verifica anche nei casi di “nullità della sentenza” (già considerati dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria), di erronea declinatoria di giurisdizione o competenza, erronea dichiarazione di estinzione del processo o di perenzione.
In tutti tali casi, ciò che giustifica la regressione del processo è il mancato esame di qualsivoglia motivo di ricorso.
12.2. Quanto all’obiezione che l’interessato ha comunque avuto la possibilità di esperire entrambi i gradi di giudizio, rileva quanto sopra esposto su quale sia la effettiva portata del principio del doppio grado del giudizio amministrativo.
12.3. Quanto all’obiezione che il carattere devolutivo dell’appello imporrebbe un’interpretazione restrittiva della normativa sui casi di rimessione al T.A.R., rileva quanto sopra esposto sulla portata dell’effetto devolutivo dell’appello amministrativo e al significato della “tassatività” delle fattispecie previste dall’art. 105.
12.4. Non risulta persuasivo nemmeno l’argomento secondo cui l’estensione delle ipotesi di rimessione al primo giudice pregiudicherebbe la ragionevole durata del processo,
L’art. 105, comma 2, e l’art. 85, comma 3, c.p.a. disciplinano il rito camerale, più celere di quello ordinario, per gli appelli contro le sentenze dei T.A.R. che hanno declinato la giurisdizione o la competenza e contro le ordinanze rese sull’opposizione a decreti di estinzione o improcedibilità. Tuttavia, un appello avverso una pronuncia di inammissibilità, in cui si lamenti la ‘nullità della sentenza’ nei sensi sopra visti, si può comporre con un solo motivo (volto a far rilevare l’ammissibilità del ricorso) ed è destinato o al rigetto o all’accoglimento con annullamento con rinvio, senza esame del merito da parte del giudice di appello.
Trovano pertanto applicazione gli articoli 72 e 72-bis c.p.a. sulla fissazione con priorità dell’udienza pubblica, trattandosi di un ricorso vertente su un’unica questione, e sulla trattazione in camera di consiglio con i termini propri del rito cautelare, trattandosi di un appello suscettibile di immediata definizione.
La parte appellante ha inoltre la possibilità di chiedere l’abbreviazione dei termini, sicché l’appello contro la statuizione di inammissibilità può essere definito rapidamente, senza nocumento per la ragionevole durata del processo.
- In conclusione, l’Adunanza Plenaria, ad integrazione di quanto statuito con le sentenze sopra citate del 2018, enuncia il seguente principio di diritto in ordine alle ipotesi di “nullità della sentenza”: “l’art. 105, comma 1, c.p.a., nella parte in cui prevede che il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado se dichiara la nullità della sentenza, si applica anche quando la sentenza appellata abbia dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, errando palesemente nell’escludere la legittimazione o l’interesse del ricorrente”.
- Enunciato il principio di diritto, per la sua applicazione al caso concreto la causa va restituita alla Sezione rimettente.