Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, ordinanza 20.11.2024 n. 29842
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va ritenuto che il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione non comprende il sindacato su errores in procedendo o in iudicando, il cui accertamento rientra nell’ambito dei limiti interni della giurisdizione.
PARTE RILEVANTE DELLA DECISIONE
- – Giovanni e Ludovica Malagò hanno proposto ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato n. 10062/2023 del 23 novembre 2023. La Regione Lazio e il Comune di Sabaudia resistono con distinti controricorsi. Le parti hanno depositato memorie.
- – Assume rilievo pregiudiziale la circostanza che la Prima Presidente, ravvisata la inammissibilità dell’unico motivo di ricorso per revocazione, aveva proposto la definizione del giudizio a norma dell’art. 380-bis c.p.c., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 149 del 2022.
In data 25 giugno 2024 era stato quindi pronunciato decreto di estinzione del giudizio di cassazione, affermandosi che la proposta era stata comunicata ai difensori delle parti il 7 maggio 2024 e che non era stata chiesta la decisione entro quaranta giorni da detta comunicazione, agli effetti del secondo comma del medesimo art. 380-bis c.p.c.
Con istanza depositata lo stesso 25 giugno 2024, i ricorrenti hanno tuttavia domandato “che sia revocata l’ordinanza di estinzione n. 17481/2024 del 25.6.2024 e fissata l’adunanza per la decisione del ricorso”, allegando e comprovando di aver depositato in data 14 giugno 2024 istanza di decisione secondo il modello di cui all’art. 380- Corte di Cassazione – copia non ufficiale 3 di 10 bis, comma 2, c.p.c., deposito da intendere perfezionato con le ricevute di avvenuta consegna e di accettazione da parte della cancelleria.
- – L’istanza depositata dai ricorrenti il 25 giugno 2024, per ottenere la “revoca” dalla “ordinanza di estinzione”, va qualificata come richiesta di fissazione dell’udienza ai sensi del terzo comma dell’art. 391 c.p.c., norma operante per il procedimento ex art. 380-bis c.p.c. in forza del richiamo contenuto nell’ultima parte del secondo comma di tale disposizione.
La giurisprudenza di questa Corte interpreta il terzo comma dell’art. 391, in forza del quale “[i]l decreto ha efficacia di titolo esecutivo se nessuna delle parti chiede la fissazione dell’udienza nel termine di dieci giorni dalla comunicazione”, come sollecitazione, soggetta all’indicato termine perentorio, alla fissazione dell’udienza per la decisione collegiale, non avente natura di impugnazione del provvedimento, quanto di atto che rimette alla Corte di valutare se l’estinzione sia stata correttamente dichiarata.
In caso contrario, la Corte deve valutare di elidere qualsiasi valore del decreto di estinzione ai fini della definizione del giudizio di cassazione (Cass. Sez. Unite n. 9611 del 2024 e n. 19980 del 2014; Cass. Sez. 2° n. 19234 del 2024).
- – Nella memoria depositata in data 29 ottobre 2024 dal Comune di Sabaudia, si replica che non vi è prova che la mancata ricezione della terza e della quarta PEC necessarie per il perfezionamento del deposito della istanza di decisione effettuato venerdì 14 giugno 2024 fosse imputabile effettivamente ad un malfunzionamento del servizio, e che comunque i ricorrenti si sarebbero poi attivati intempestivamente per rimediare soltanto il 25 giugno 2024, richiedendo la revoca dell’estinzione.
Tali rilievi possono superarsi giacché nella istanza di revoca del provvedimento di estinzione si è fatto riferimento alla notizia Corte di Cassazione – copia non ufficiale 4 di 10 pubblicata lunedì 17 giugno 2024 sul Portale dei servizi telematici del Ministero della Giustizia, ove appunto si riferiva di forti rallentamenti del servizio PEC ministeriale del dominio giustiziacert.it., che avrebbero potuto rendere non funzionanti le ricevute di consegna e le ricevute di esito dei controlli relative ai depositi telematici.
Peraltro, pur ribadita la struttura di fattispecie progressiva del procedimento di deposito telematico delineata nell’ordinanza n. 28403 del 2023 di queste Sezioni Unite, secondo cui il definitivo consolidarsi dell’effetto prodottosi, in via anticipata, con la ricezione della RdAC è condizionato dalla ricezione della terza e della quarta p.e.c., deve osservarsi quanto segue.
I ricorrenti, ricevuta comunicazione del decreto di estinzione il 25 giugno 2024 (undici giorni dopo l’avvio del deposito della richiesta di decisione e otto giorni dopo la scadenza del termine ex art. 380-bis, comma 2, c.p.c.), e dunque appreso in tale data altresì l’esito negativo del deposito operato, si sono immediatamente attivati per provvedere ad un nuovo deposito.
- Risultando, dunque, che i ricorrenti avevano depositato in data 14 giugno 2024 istanza di decisione ex art. 380-bis, comma 2, c.p.c., senza che il procedimento di deposito telematico si fosse perfezionato per causa loro non imputabile, e dovendosi perciò rimettere in termini le parti in forza dell’istanza del 25 giugno 2024, l’estinzione non può dirsi correttamente dichiarata, sicché, ai sensi dell’art. 391, comma 3, c.p.c., va tolta efficacia al decreto di estinzione pronunciato il 25 giugno 2024 e deve decidersi il ricorso.
- Il Consiglio di Stato ha rigettato gli appelli riuniti, formulati avverso diverse sentenze, tutti riguardanti gli interventi edilizi realizzati sulla medesima area sita in Sabaudia, via Lungomare n. 102, soggetta ai vincoli imposti dal d.lgs. n. 42/2004 (Tutela paesaggistica-ambientale), dal d.P.R. 4 aprile 2005 istitutivo dell’Ente Parco nazionale del Circeo e dal R.D.L. n. 3267/1923 (Vincolo Corte di Cassazione – copia non ufficiale 5 di 10 idrogeologico), nonché ricompresa nella perimetrazione delle zone di protezione speciale stabilita con D.G.R. Lazio del 19 marzo 1996, in attuazione della Direttiva 92/43/CEE.
I vari giudizi riuniti, svoltisi in primo grado dinanzi al TAR Lazio, hanno avuto ad oggetto l’impugnazione di un’ordinanza di demolizione e di svariati provvedimenti di rigetto di domande di condono.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 10062/2023, quanto, in particolare, al motivo di appello relativo alla violazione dell’art. 10-bis della l. n. 241 del 1990, per la discordanza tra il contenuto del preavviso di rigetto e quello del provvedimento di diniego, stanti la mancata menzione nel primo dello strumento urbanistico e la conseguente mancata deduzione dell’incremento di volumetria consentito dal P.R.G., ha risposto che:
- la natura dell’abuso, comportante nuovi volumi e superfici fruibili in area vincolata, escludeva ex lege in radice la possibilità di aver accesso al beneficio del cd. terzo condono, senza alcun margine di discrezionalità da parte dell’amministrazione e a prescindere dall’ulteriore istruttoria invocata dall’appellante e dai profili attinenti alla conformità urbanistica delle opere;
- pur ritenuta l’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 10-bis della l. n. 241 del 1990 nei procedimenti vincolati di sanatoria o di condono edilizio, la violazione di tale norma comporta l’illegittimità del provvedimento impugnato solo se il privato indichi gli elementi che, ove introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale dello stesso;
- nella specie, il provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato, a prescindere dall’astratto aumento di volumetria consentito dal P.R.G., con Corte di Cassazione – copia non ufficiale 6 di 10 conseguente applicabilità dell’art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990.
- – Il ricorso per cassazione denuncia la violazione delle prerogative della Pubblica Amministrazione e, pertanto, lo straripamento da parte del giudice amministrativo nell’area di competenza dell’amministrazione attiva.
I ricorrenti, evidenziato come in appello avessero lamentato la violazione dell’ultima parte dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 (secondo cui non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis la previsione di non annullabilità ove l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto di esso non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato), lamentano che il Consiglio di Stato “si è sostituito all’Amministrazione – usurpandone il potere attribuitole dalla legge –.
Tale usurpazione è riscontrabile nel valutare l’idoneità delle argomentazioni, adducibili dal ricorrente, ad incidere sul contenuto del provvedimento che l’Amministrazione avrebbe potuto adottare all’esito del contraddittorio procedimentale; potere del quale l’Amministrazione è stata illegittimamente privata.
Allo stesso modo, la parte privata è stata altrettanto illegittimamente privata della chance che la legge le offriva di far conoscere all’Amministrazione le ragioni fattuali e giuridiche che, a suo avviso, potevano indurla ad assumere una diversa determinazione”.
Ed ancora: “la legge riconosce un potere all’Amministrazione il cui esercizio è soggetto alla successiva valutazione di legittimità del giudice amministrativo, ma del cui esercizio il giudice amministrativo non può appropriarsi stabilendo, a priori e in astratto, come l’Amministrazione avrebbe dovuto esercitarlo; laddove il Consiglio di Stato – dichiarando che trova applicazione proprio il precetto che, per espressa disposizione di legge, non è applicabile nel caso di specie – Corte di Cassazione – copia non ufficiale 7 di 10 ha usurpato un potere riservato espressamente dalla legge all’Amministrazione”.
Nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c., i ricorrenti illustrano la censura spiegando ulteriormente che la impugnata decisione del giudice amministrativo ha comportato una consumazione del potere procedimentale spettante alla P.A. per esercizio “da parte di chi avrebbe dovuto, invece, limitarsi a controllare la legittimità dell’operato del titolare del potere”.
- – Il motivo di ricorso è inammissibile.
- – Il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione non comprende il sindacato su errores in procedendo o in iudicando, il cui accertamento rientra nell’ambito dei limiti interni della giurisdizione (Cass. Sez. Unite, n. 15573 del 2021; n. 27770 del 2020; n. 19675 del 2020; n. 8311 del 2019; n. 20529 del 2018).
- – I ricorrenti lamentano, in sostanza, che l’impugnata sentenza del Consiglio di Stato abbia violato il secondo periodo del secondo comma dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, come modificato dal d.l. n. 76 del 2020, convertito nelle legge n. 120 del 2020, finendo per estendere, contro la chiara volontà del legislatore, alla fattispecie del preavviso di rigetto, di cui all’art. 10-bis, la norma in tema di prova di resistenza dettata per l’annullabilità del provvedimento in caso di mancata comunicazione dell’avvio del procedimento.
Il Consiglio di Stato avrebbe sovrapposto i due istituti, ritenendoli espressivi di una identica funzione di garanzia dell’interesse partecipativo dei privati al procedimento amministrativo, e quindi regolati dal criterio della inoffensività delle violazione ogni qualvolta il risultato raggiunto non avrebbe potuto essere diverso, mentre le norme citate depongono per la maggiore gravità dell’inadempimento formale attinente alla comunicazione del preavviso di rigetto.
- – La censura si riduce comunque alla allegazione di un error in iudicando, che non integra motivo inerente alla giurisdizione, denunciabile ai sensi dell’art. 362 c.p.c., giacché imputa al Consiglio di Stato di non aver perseguito un vizio procedimentale che inficia la legittimità dell’operato della P.A..
Inoltre imputa al Consiglio di Stato di aver optato per una interpretazione sostanzialista, secondo cui la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non determina comunque l’annullamento del provvedimento laddove l’instaurazione di un pieno e leale contraddittorio sul punto non avrebbe scalfito i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
– La pronuncia di rigetto del giudice amministrativo si esaurisce, del resto, nella conferma del provvedimento impugnato e non si sostituisce ad esso – conservando l’autorità che lo ha emesso tutti i poteri che avrebbe avuto se il provvedimento non fosse stato impugnato, eccetto la possibilità di ravvisarvi i vizi di legittimità ritenuti insussistenti dal giudice -, sicché non è ipotizzabile in tale tipo di pronuncia uno sconfinamento nella sfera del merito e quindi della discrezionalità e opportunità dell’azione amministrativa (Cass. Sez. Unite, n. 32619 del 2018; n. 7207 del 2019).
- Il ricorso va perciò dichiarato inammissibile, con condanna dei ricorrenti a rimborsare a ciascuno dei controricorrenti le spese del giudizio di cassazione negli importi liquidati in dispositivo.
Essendo il giudizio definito in conformità alla proposta di definizione anticipata, trovano applicazione il terzo ed il quarto comma dell’art. 96 c.p.c., ai sensi dell’art. 380-bis, comma 3, c.p.c.
La conformità dell’ordinanza che definisce il giudizio rispetto alla sintetica proposta può, infatti, ravvisarsi allorché – come qui avviene – l’ordinanza decida sul ricorso per le stesse ragioni, inerenti alle medesime questioni di diritto ed ai medesimi fatti, poste a base della proposta stessa.
L’integrale conformità dell’esito decisorio alla proposta ex art. 380-bis c.p.c. costituisce, poi, indice della colpa grave della condotta processuale dei ricorrenti, per lo svolgimento di un giudizio di cassazione rivelatosi del tutto superfluo, con conseguente condanna degli stessi al pagamento di una somma equitativamente determinata in favore dei controricorrenti, nonché di somma in favore della cassa delle ammende, negli importi indicati in dispositivo (Cass. Sez. Unite, sentenza n. 9611 del 2024; ordinanze n. 36069, n. 27195, n. 28540 e n. 27433 del 2023).
Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione dichiarata inammissibile.