Corte di Cassazione, Sez. I Civile, Ordinanza 2 gennaio 2025 n. 28
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va configurato come obbligazione naturale, nella ricorrenza anche degli altri requisiti previsti dall’art. 2034 c.c. (spontaneità, adeguatezza e proporzionalità) e avuto riguardo alla specificità del caso concreto, il dovere morale e sociale di assistenza materiale nei confronti dell’ex convivente more uxorio, anche dopo la cessazione del rapporto, in quanto si pone in linea coerente e conforme “alla valutazione corrente nella società” (cfr. Cass. 19578/2016 citata), stante l’affermarsi di una concezione pluralistica della famiglia.
Quanto sopra, in coerenza con il seguente principio di diritto ex art. 384 cod. proc. civ.: “Le unioni di fatto sono un diffuso fenomeno sociale, che trova tutela nell’art. 2 Cost., e sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale, di ciascun convivente nei confronti dell’altro, che possono concretizzarsi in attività di assistenza materiale e di contribuzione economica prestata non solo nel corso del rapporto di convivenza, ma anche nel periodo successivo alla cessazione dello stesso e che possono configurarsi, avuto riguardo alla specificità del caso concreto, come adempimento di un’obbligazione naturale ai sensi dell’art. 2034 c.c., ove siano ricorrenti pure gli ulteriori requisiti della proporzionalità, spontaneità ed adeguatezza.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- 1. […]
- […]
2.1. Tutte le suddette censure riguardano la questione della qualificazione della compravendita di un immobile avvenuta nel 2001 tra D.D. e la convivente more uxorio dell’epoca, madre del ricorrente.
Secondo la prospettazione di quest’ultimo, erroneamente la Corte d’Appello e prima ancora e soprattutto il Tribunale avevano qualificato come donazione quella compravendita, facendone discendere, a dire del ricorrente, l’insussistenza e dell’obbligo di restituzione di quanto versato o comunque corrisposto dalla donataria, madre del ricorrente, al donante, D.D., stante l’obbligo di legge della prima a prestare gli alimenti al secondo, donante, ai sensi dell’art.437 c.c..
2.2. Occorre rilevare che la statuizione della Corte d’Appello in ordine all’insussistenza del suddetto obbligo di restituzione è fondata su una precisa e ben argomentata ratio decidendi, secondo la quale l’irripetibilità derivava dalla natura dell’obbligazione, ricondotta al paradigma legale dell’art.2034 c.c..
È ben vero che la Corte di merito ha esaminato anche la questione della vendita simulata ed ha affermato che si era trattato di un “accertamento incidentale” effettuato dal Tribunale, stante l’assenza di una specifica domanda al riguardo.
Tuttavia, la Corte d’Appello non ha tratto conseguenze giuridiche da quest’ultima affermazione, non avendole in alcun modo esplicitate, sicché il percorso argomentativo della sentenza impugnata deve ritenersi basato unicamente sulla ratio della qualificazione dell’obbligazione ex art.2034 c.c., che è indubbiamente autonoma e idonea, da sola, a sorreggere la decisione.
Dalle suesposte considerazioni consegue che, in ordine alle questioni oggetto dei motivi di cui trattasi, difetta l’interesse ad impugnare del ricorrente, che non potrebbe conseguire alcun utile e concreto risultato dall’accoglimento di dette doglianze (tra le tante Cass. 12733/2024).
Con la memoria illustrativa il ricorrente replica all’eccezione di inammissibilità per carenza di interesse sollevata dal controricorrente affermando che il Tribunale aveva basato la propria decisione sulla questione della donazione.
All’evidenza la deduzione non coglie nel segno, poiché ora lo scrutinio di questa Corte riguarda, e non può che riguardare, la sentenza d’appello.
Il ricorrente aggiunge, sempre nella memoria, che la questione della donazione, nell’iter motivazionale della sentenza impugnata, non si configura come un obiter e che egli “ha certamente interesse all’annullamento della sentenza sul profilo in esame in quanto condizionante la decisione della Corte d’Appello nella parte non favorevole al Ricorrente stesso”.
Anche detta deduzione difensiva non coglie affatto nel segno, poiché, come già evidenziato, la Corte d’Appello non solo non ha menzionato, né tantomeno applicato l’art. 437 c.c., ma neppure ha dato conto, esplicitandola, di alcuna conseguenza giuridica derivante dalla qualificazione della compravendita come donazione, in ordine all’insussistenza dell’obbligo di restituzione.
- Il quinto motivo è infondato e in parte inammissibile.
3.1. Per chiarezza espositiva occorre premettere che, in base alla ricostruzione della Corte di merito, peraltro corrispondente a quella del ricorso, la madre del ricorrente C.C. era deceduta nel mese di luglio 2018, e l’odierno ricorrente, in qualità di erede della madre, aveva agito nei confronti del fratello maggiore, odierno controricorrente, anche per ottenere il rimborso di quanto pagato o corrisposto dalla sua dante causa al padre D.D. fino al momento in cui egli era stato ricoverato in RSA (a dicembre 2016; a partire da questo periodo l’odierno ricorrente aveva iniziato a corrispondere in proprio la retta e le anticipazioni per il mantenimento del padre). Il ricorrente deduce che la relazione tra i due conviventi era pacificamente cessata nel 2006, e che “la natura di obbligazione naturale è tutt’altro che pacifica, atteso che possono facilmente essere così qualificati – a certe condizioni – gli esborsi in costanza della convivenza di fatto, non i pagamenti successivi’. Inoltre contesta la proporzionalità e adeguatezza degli esborsi, che dipendono dalla condizione economica del solvens, e rimarca che la madre aveva mantenuto per dieci anni D.D., mettendogli a disposizione una casa di campagna e sostenendo in favore dello stesso esborsi considerevoli, pari all’importo complessivo di decine di migliaia di Euro (quasi Euro 100.000,00).
3.2. Tanto precisato, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte che il Collegio intende qui ribadire, la sussistenza dell’obbligazione naturale ex art. 2034, comma 1, c.c., postula una duplice indagine, finalizzata ad accertare se ricorra un dovere morale o sociale, in rapporto alla valutazione corrente nella società, e se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso (tra le altre Cass. 19578/2016).
Inoltre questa Corte ha avuto modo di chiarire (cfr. da ultimo Cass. 16864/2023) che le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell’art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro.
Tali doveri si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale, sicché le attribuzioni finanziarie a favore del convivente more uxorio, effettuate nel corso del rapporto per far fronte alle esigenze della famiglia (nella specie, versamenti di denaro sul conto corrente del convivente con quindici bonifici per un importo complessivo di Euro 74.000), configurano l’adempimento di un’ obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza.
Per la valutazione di questi requisiti occorre tener conto di tutte le circostanze fattuali, oltre che dell’entità del patrimonio e delle condizioni sociali del solvens.
3.3. La questione oggetto del contendere e oggetto della specifica censura di cui si sta trattando concerne la configurabilità dei doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro in relazione ad attribuzioni economiche o patrimoniali effettuate non nel corso del rapporto di convivenza more uxorio, ma dopo la cessazione dello stesso, e su detto specifico profilo non constano pronunce di questa Corte.
Ritiene il Collegio che sia corretta la soluzione adottata dalla Corte territoriale, che ha ritenuto di poter ricondurre nell’alveo dei doveri sociali e morali, in rapporto alla valutazione corrente nella società, quello solidaristico nei confronti dell’ex-convivente more uxorio, ravvisato, cioè, sussistente e meritevole di tutela anche nel periodo successivo alla cessazione del rapporto, avuto riguardo alla specificità del caso concreto.
Occorre osservare che le convivenze di fatto sono un diffuso fenomeno sociale, anche se di origine relativamente recente, poiché dai dati statistici risulta la “moltiplicazione delle unioni libere”, che ormai sopravanzano, in numero, le famiglie fondate sul matrimonio, come affermato anche dalla Corte costituzionale, da ultimo con la pronuncia n. 148/2024, che ha ricostruito in dettaglio l’evoluzione del quadro normativo e tratteggiato le caratteristiche salienti dell’ampliamento progressivo del rilievo dato dal legislatore alle unioni di fatto.
L’affermarsi di una concezione pluralistica della famiglia, dapprima nella società e quindi nella giurisprudenza, grazie anche all’impulso dato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia), ha trovato un approdo legislativo nella legge n. 76 del 2016, che in un unico e lungo articolo, suddiviso in 69 commi, contempla due modelli distinti:
il primo, quello dell’unione civile, cui sono dedicati i primi 35 commi, è riservato alle coppie formate da persone dello stesso sesso; il secondo, quello della convivenza di fatto, è aperto a tutte le coppie, eterosessuali e omosessuali.
Quanto al secondo modello (la convivenza di fatto), la legge n. 76 del 2016 abbandona la rigida alternativa tra tutela, o no, parametrata a quella riservata alla famiglia fondata sul matrimonio e valorizza l’esigenza di speciale regolamentazione dei singoli rapporti, siano essi quelli che vedono coinvolti i conviventi tra di loro, ovvero quelli tra genitori e figli o che si sviluppano con i terzi (così la sentenza citata n.148/2024).
La convivenza di fatto, trovando copertura di rango costituzionale nell’art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle “formazioni sociali” ove si svolge la sua personalità, esige una tutela che si affianca a quella che l’art. 29, primo comma, Cost. riserva alla “famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (sentenze n. 269 del 2022, n. 170 del 2014 e n. 138 del 2010 della Corte Cost.).
Dunque, la convivenza di fatto implica un “legame affettivo di coppia” e plurime disposizioni di legge, nel tempo, ne hanno sancito il rilievo sotto molteplici e disparati profili (per una puntuale elencazione cfr. la citata sentenza n.148/2024; tra le più recenti cfr. la legge 27 dicembre 2017, n. 205 in tema di caregiver familiare; il decreto legislativo 30 giugno 2022, n. 105, che richiama la figura del convivente di fatto come possibile beneficiario dei permessi per assistere persone disabili; il decreto legislativo n. 105 del 2022, nella parte in cui prevede che al coniuge convivente sono equiparati, ai fini dei riposi e permessi per assistere i figli con handicap grave, sia la parte di un’unione civile, sia il convivente di fatto).
Resta da aggiungere che, come rimarcato dal Giudice delle leggi, pure nell’ambito della cornice normativa dettata dalla legge n. 76 del 2016 e dai provvedimenti legislativi settoriali successivi, restano ancora affidati alla spontaneità dei comportamenti tutti quegli aspetti che caratterizzano la gestione delle esigenze della coppia, quali coabitazione, collaborazione, contribuzione ai bisogni comuni, assistenza morale e materiale, determinazione dell’indirizzo familiare e fedeltà, durata della relazione.
3.4. Dalle considerazioni che precedono e dal contesto valoriale che ne risulta deve trarsi la conclusione che il dovere morale e sociale di assistenza materiale nei confronti dell’ex convivente more uxorio, anche dopo la cessazione del rapporto, si ponga in linea coerente e conforme “alla valutazione corrente nella società” (cfr. Cass. 19578/2016 citata), stante l’affermarsi di una concezione pluralistica della famiglia, e sia pertanto idoneo a configurarsi come obbligazione naturale, nella ricorrenza anche degli altri requisiti previsti dall’art.2034 c.c. (spontaneità, adeguatezza e proporzionalità) e avuto riguardo alla specificità del caso concreto.
Nella specie la Corte di merito ha accertato che:
- a) D.D. e C.C. avevano avuto un lungo percorso di vita insieme, con una convivenza pacificamente durata fino al 2006, caratterizzata dalla nascita di un figlio (A.A., l’odierno appellante, nel 1988);
- b) nonostante la cessazione della convivenza more uxorio, vi era, comunque, anche dopo il 2006, un legame di affetto tra i due, come dimostrato dalla messa a disposizione della casa di compagna di lei a favore di lui e dalle spese da lei sostenute in favore dell’ex compagno, che si trovava in stato di bisogno e con difficoltà di salute, pure in assenza di un qualsiasi obbligo giuridico;
- c) tale comportamento, proprio in assenza di un obbligo giuridico, denotava la volontà e la consapevolezza di adempiere ad un obbligo morale verso una persona con cui vi era stata condivisione di anni di vita comune, cementata dalla nascita di un figlio, fino a quando la C.C. aveva potuto, ovvero fino al 2016;
- d) mai, non essendovene nè allegazione nè traccia documentale, la C.C. aveva pensato di richiedere il rimborso delle somme spese per l’assistenza economica prestata al D.D., e nessuna richiesta in tale senso era mai stata formulata, né all’ex compagno, né ai suoi figli.
Alla luce di tali risultanze, la Corte di merito ha ritenuto che il contributo dato dalla C.C. al padre di suo figlio fosse stato da lei considerato un adempimento di un obbligo morale “verso una persona che ha avuto sicuramente un ruolo importante nella sua vita”.
La connotazione concreta dell’atteggiarsi del rapporto affettivo descritta nella sentenza impugnata risulta pienamente corrispondente al contesto valoriale di cui si è detto, poiché è espressione di un vincolo solidaristico derivante dalla pregressa unione di fatto, “formazione sociale” tutelata dall’art. 2 Cost., e ciò in conformità anche “alla valutazione corrente nella società”, stante l’affermarsi, in misura progressivamente sempre più estesa, di una concezione pluralistica della famiglia.
Pertanto, sotto tale profilo ed anche in ordine al requisito della spontaneità, pure adeguatamente motivato dalla Corte territoriale, è infondata la censura, che è incentrata, in punto di diritto, sulla deduzione che non potrebbe configurarsi alcun obbligo morale di un convivente nei confronti dell’altro, una volta cessata l’unione di fatto.
3.5. La doglianza è inammissibile nella parte in cui si contesta la sussistenza dei requisiti dell’adeguatezza e proporzionalità.
La Corte di merito ha accertato che non vi era stata allegazione né prova di eccessi o richieste esulanti dalla mera sussistenza alimentare dell’ex compagno, a cui la madre del ricorrente aveva anche dato un alloggio dove abitare (casa di campagna inutilizzata), a fronte dell’incontroversa situazione di precarietà economica e di salute in cui egli versava.
Per contro la censura sul punto è generica, poiché nel ricorso non risultano minimamente precisate le condizioni economiche e sociali della madre (solvens), non si confronta con il percorso argomentativo della sentenza impugnata e si risolve impropriamente in una critica alla valutazione fattuale.
- La Corte ritiene di dover enunciare il seguente principio di diritto ex art. 384 cod. proc. civ.: “Le unioni di fatto sono un diffuso fenomeno sociale, che trova tutela nell’art. 2 Cost., e sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale, di ciascun convivente nei confronti dell’altro, che possono concretizzarsi in attività di assistenza materiale e di contribuzione economica prestata non solo nel corso del rapporto di convivenza, ma anche nel periodo successivo alla cessazione dello stesso e che possono configurarsi, avuto riguardo alla specificità del caso concreto, come adempimento di un’obbligazione naturale ai sensi dell’art. 2034 c.c., ove siano ricorrenti pure gli ulteriori requisiti della proporzionalità, spontaneità ed adeguatezza.
Il vincolo solidaristico e affettivo che trae origine dalla pregressa unione di fatto trova rispondenza nel mutato contesto valoriale di riferimento e si pone in lineare rapporto con la valutazione corrente nella società, stante l’affermazione, progressivamente sempre più estesa, di una concezione pluralistica della famiglia”.
- Il sesto motivo è inammissibile.
Il ricorrente denuncia, peraltro genericamente, la violazione degli artt. 115 e 116, deduce di aver “depositato in primo grado 164 documenti che dal n. 18 al n. 158 riguardano i pagamenti effettuati da C.C. o da A.A.. I pagamenti effettuati da C.C. (doc. da 18 a 72) recano in calce la ricevuta di pagamento dell’ente percettore (Utenze e imposte). Affermare che manca la prova del pagamento non corrisponde alla risultanza documentale”.
La censura per un verso impropriamente sollecita il riesame di risultanze probatorie e per altro verso e soprattutto, ancora una volta, non si confronta compiutamente con il percorso argomentativo della sentenza impugnata, dal momento che la Corte d’Appello ha ritenuto mancante non la prova dei pagamenti, ma la prova che fosse stato l’odierno ricorrente ad effettuarli.
- In conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato.
Stante la novità della principale questione di diritto trattata, ricorre un grave ed eccezionale motivo di compensazione delle spese di lite del presente giudizio, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. n. 132 del 2014 e dalla sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 2018.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, ove dovuto (Cass. S.U. n.5314/2020). Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.