La presente sentenza cita più volte il principio di non-refoulement. Questo principio può tradursi come “non respingimento” ed è un fondamento del diritto internazionale ai sensi dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra, secondo il quale ad un rifugiato non può essere impedito l’ingresso sul territorio, nè può essere deportato, espulso o trasferito verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate.
Il principio si applica indipendentemente dal fatto che il soggetto abbia formalizzato domanda di rifugiato o sia stato riconosciuto tale.
Il refoulement consiste, al contrario, in qualsiasi forma di allontanamento forzato verso un paese non sicuro.
Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 15 gennaio 2025 n. 935
PRINCIPIO DI DIRITTO
Nel procedimento di impugnazione delle decisioni di trasferimento dei richiedenti asilo ex art. 27 del Regolamento UE n. 604 del 26.6.2013, nonché ex art. 3 del D.Lgs. 28.1.2008 n. 25, e s.m.i. e ex art. 3, lettera e-bis del D.L. 17.2.2017 n. 13, convertito con modifiche in legge 13.4.2017 n. 46, il giudice adito non può esaminare se sussista un rischio, nello Stato membro richiesto, di una violazione del principio di non-refoulement al quale il richiedente protezione internazionale sarebbe esposto a seguito del suo trasferimento verso tale Stato membro, o in conseguenza di questo, sulla base di divergenze di opinioni in relazione all’interpretazione dei presupposti sostanziali della protezione internazionale, a meno che non constati l’esistenza, nello Stato membro richiesto, di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
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Ciò premesso, la Prima Sezione si interroga se, senza incrinare il sistema di fiducia reciproca, solennemente affermato dalla Corte di Giustizia, si possa consentire al cittadino straniero che abbia manifestato inequivocamente la volontà di richiedere la protezione internazionale, di non essere trasferito nello Stato membro richiesto per effetto dell’accettazione della ripresa in carico.
Ciò dal momento che, all’interno della domanda più ampia, nel nostro ordinamento devono essere vagliate le condizioni di riconoscimento del diritto alla protezione nazionale, quando sulla base delle allegazioni di fatto acquisite, si debba procedere anche ex officio a questa specifica verifica (art. 32, commi 3, 3.1 e 3.2 D.Lgs. n. 25 del 2008), secondo il sopra illustrato paradigma legislativo contenuto nell’art. 19 D.Lgs. n. 286 del 1998 che integra gli obblighi costituzionali ed internazionali assunti dal nostro Stato in tema di protezione dalle violazioni dei diritti umani.
Si chiede ancora la Prima Sezione se il complesso sistema di protezione nazionale interno, fondato sulla necessità di portare a compimento l’attuazione del diritto d’asilo costituzionale, essendo insufficiente al riguardo il solo sistema di protezione internazionale euro-unitario fondato sullo status di rifugiato e sulla protezione sussidiaria, possa essere qualificato come una modalità di esercizio della clausola discrezionale, così da ritenere che la decisione di trasferimento da parte dell’autorità statale che ha la facoltà di applicare la clausola in oggetto, manifesti un rifiuto tacito di avvalersene e ne consenta la sindacabilità, così come in concreto effettuato dal giudice del merito nella decisione di annullamento.
La Prima Sezione rileva infine che l’accertamento dello spazio applicativo della protezione nazionale presenta una peculiarità, legata al lungo tempo di attesa (dai 3 ai 4 anni) dei numerosi procedimenti oggetto di sospensione impropria dovuta ai rinvii pregiudiziali ora risolti dalla Corte di Giustizia, iato temporale nel quale possono essere profondamente modificate le condizioni soggettive dei richiedenti e le condizioni oggettive dei paesi terzi ove dovrebbe essere disposto il rimpatrio.
La conferma della decisione di trasferimento impedirebbe – secondo l’ordinanza interlocutoria – la valutazione attuale delle condizioni di applicazione del regime di protezione nazionale ratione temporis vigente, pur trattandosi di un sistema normativo, equi-ordinato sul piano delle fonti a quello regolativo del diritto alla protezione internazionale ma esterno al sistema di determinazione dello Stato competente dal Reg. Dublino.
Di qui le due questioni di massima di particolare importanza:
- I) “Il complesso sistema di protezione nazionale interno, fondato, come ampiamente illustrato, sulla necessità di portare a compimento l’attuazione del diritto d’asilo costituzionale, essendo insufficiente al riguardo il sistema di protezione internazionale euro-unitario, può essere qualificato come una modalità di esercizio della clausola discrezionale, così da ritenere che la decisione di trasferimento da parte dell’autorità statale che ha la facoltà di applicare la clausola di sovranità, evidenzi un rifiuto tacito di avvalersene e ne consenta la sindacabilità, così come in concreto effettuato dal giudice del merito nella decisione di annullamento?”
- II) “La deroga ai principi generali di determinazione della competenza di uno Stato membro ex UE n. 604 del 2013, desumibile dal combinato disposto dell’art. 3del Reg. UE n. 604 del 2013e dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE anche alla luce della risposta al quesito n. 2 da parte della Corte di Giustizia nella sentenza del 30 novembre 2023, può condurre a verificare non la necessità di procedere a una comparazione tra i due Stati (il richiedente, nella fattispecie l’Italia ed il richiesto ovvero quello di ripresa in carico) sulla valutazione del rischio di non refoulement indiretto dovuta al pericolo di rimpatrio conseguente al rigetto della domanda di protezione internazionale, ma la legittimità dell’interferenza del nostro sistema di rango costituzionale di protezione nazionale con la decisione di trasferimento, sulla base di un’indagine caso per caso o per determinate categorie di persone, tenuto conto della riconducibilità della vulnerabilità giuridicamente qualificata, cui si esporrebbe il richiedente in caso di rimpatrio coattivo verso il paese terzo, all’interno delle ipotesi tutelate dal nostro sistema di protezione nazionale?”.
- In primo luogo, nel rispetto dello ius litigatoris, la Corte deve esaminare le preliminari eccezioni di inammissibilità del ricorso proposte dalla parte controricorrente, che appaiono entrambe infondate.
12.1. Non sussiste, da un lato, la pretesa mancanza di specificità dei motivi di ricorso in violazione di quanto stabilito dall’art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c., in base al quale il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate.
Diversamente da quanto lamentato dal controricorrente, l’unico motivo denuncia chiaramente la violazione di legge (artt. 3.2 e 17 del Regolamento UE n. 604/2013) imputata al provvedimento impugnato con riferimento all’operatività della clausola discrezionale e al divieto del non-refoulement, garantito e previsto dalle leggi interne dei Paesi europei, poiché vige tra gli Stati membri il principio generale del mutual trust (fiducia reciproca), derogabile solo eccezionalmente a fronte della prova di gravi carenze nel sistema di asilo e accoglienza tali da giustificare il venir meno della presunzione di rispetto del sistema comune di asilo.
12.2. Per altro verso, è infondata anche la censura di non autosufficienza in quanto il ricorso adeguatamente chiarisce l’oggetto specifico della censura, con riferimento all’indebita applicazione della clausola discrezionale per scongiurare un pericolo di refoulement indiretto da parte di altro Paese membro.
- Prima di esaminare le questioni specificamente portate all’attenzione delle Sezioni Unite, appare opportuno mettere a fuoco le principali disposizioni normative relative al sistema di individuazione dello Stato competente a esaminare le domande d’asilo dei cittadini dei Paesi terzi o apolidi, in un primo tempo disciplinato dalla Convenzione di Dublino del 15.6.1990, prima che alla Comunità europea fossero attribuite competenze normative in materia di asilo.
A seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam nel 1999, è stata conferita alla Comunità la competenza a stabilire “criteri e meccanismi” per determinare quale sia lo Stato membro responsabile dell’esame della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato (cfr. art. 63, par. 1, lett. a), delTrattato CE, ora divenuto, dopo il Trattato di Lisbona, art. 78, par. 2, lett. c) TFUE). È stato così adottato il Regolamento (CE) n. 343/2003, noto anche come Regolamento “Dublino II”.
Successivamente, il 26.6.2013, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato, secondo la procedura legislativa ordinaria, il Regolamento (UE) 604/2013 (noto come “Dublino III”) che stabilisce i criteri e i meccanismi per l’individuazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide.
Quest’ultimo, entrato in vigore il 19.7.2013, abroga e sostituisce il Regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio, del 18.2.2003 (c.d. Dublino II).
Questo Regolamento (a sua volta abrogato a decorrere dal 1.7.2026 ad opera dell’articolo 83 del Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio 14.5.2024, n. 1351) è caratterizzato da molti elementi di continuità con la precedente disciplina (in particolare il principio dell’unicità della competenza e i contenuti e la gerarchia dei criteri di competenza).
Presenta, altresì, evidenti elementi di discontinuità, principalmente legati all’ambito di applicazione materiale e, per quel che rileva ai fini della trattazione delle questioni in esame, al rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti protezione.
La Corte di Giustizia, nella sentenza del 7.6.2016, causa C-63/15, Ghezelbash, con riferimento al profilo relativo al citato rafforzamento dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo nel c.d. sistema Dublino, contenuto nel Reg. 604/2013, e in particolare del diritto alla tutela giurisdizionale effettiva, ha affermato che “il legislatore dell’Unione, nell’ambito del Regolamento n. 604/2013, non si è limitato a fissare regole organizzative che disciplinano unicamente i rapporti tra gli Stati membri ai fini di determinare lo Stato membro competente, ma ha deciso di coinvolgere in tale procedura i richiedenti asilo, obbligando gli Stati membri a informarli dei criteri di competenza e a offrire loro l’opportunità di presentare le informazioni che consentano la corretta applicazione di tali criteri, nonché garantendo loro un diritto di ricorso effettivo avverso la decisione di trasferimento eventualmente adottata in esito al procedimento” (par. 51), precisando che tra i principi che ispirano il nuovo Regolamento vi è quello della “protezione offerta ai richiedenti, garantita in particolare dalla tutela giurisdizionale di cui questi ultimi godono” (par. 52).
L’obiettivo di limitare i movimenti secondari dei richiedenti protezione internazionale è perseguito, come si legge nel preambolo del Regolamento, attraverso la predisposizione di un meccanismo “(…) fondato su criteri oggettivi ed equi sia per gli Stati membri sia per le persone interessate” che “(…)dovrebbe, soprattutto, consentire di determinare con rapidità lo Stato membro competente al fine di garantire l’effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale e non dovrebbe pregiudicare l’obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale” (considerando n. 4 e 5 del Regolamento 604/2013).
Il considerando n. 3, nel prevedere che: “(…) gli Stati membri, tutti rispettosi del principio di non respingimento, sono considerati Stati sicuri per i cittadini di paesi terzi” esprime in tal modo la presunzione di sicurezza di tutti gli Stati membri che è espressione del principio della reciproca fiducia nei sistemi di asilo nazionali.
La presunzione di sicurezza ha l’obiettivo di precludere l’accertamento in concreto della tutela del diritto alla protezione internazionale, considerando equivalenti i sistemi di asilo degli Stati membri e dunque la loro competenza ad esaminare le domande di protezione presentate dai cittadini di Paesi terzi.
Nel considerando 17, poi, è previsto che: “uno Stato membro dovrebbe poter derogare ai criteri di competenza, in particolare per motivi umanitari e caritatevoli, al fine di consentire il ricongiungimento di familiari, parenti o persone legate da altri vincoli di parentela ed esaminare una domanda di protezione internazionale presentata in quello o in un altro Stato membro, anche se tale esame non è di sua competenza secondo i criteri vincolanti stabiliti nel presente Regolamento”.
Il considerando 19 dispone che “al fine di assicurare una protezione efficace dei diritti degli interessati, si dovrebbero stabilire garanzie giuridiche e il diritto a un ricorso effettivo avverso le decisioni relative ai trasferimenti verso lo Stato membro competente, ai sensi, in particolare, dell’articolo 47 della (Carta).
Al fine di garantire il rispetto del diritto internazionale è opportuno che un ricorso effettivo avverso tali decisioni verta tanto sull’esame dell’applicazione del presente Regolamento quanto sull’esame della situazione giuridica e fattuale dello Stato membro in cui il richiedente è trasferito”.
L’art. 3, par. 1, del Regolamento dispone che “gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio di qualunque Stato membro, compreso alla frontiera e nelle zone di transito. Una domanda d’asilo è esaminata da un solo Stato membro, che è quello individuato come Stato competente in base ai criteri enunciati al capo III”.
Il successivo par. 2, dispone che “qualora sia impossibile trasferire un richiedente verso lo Stato membro inizialmente designato come competente in quanto si hanno fondati motivi di ritenere che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, lo Stato membro che ha avviato la procedura di determinazione dello Stato membro competente prosegue l’esame dei criteri di cui al capo III per verificare se un altro Stato membro possa essere designato come competente.”
Con specifico riferimento alla clausola discrezionale, l’art. 17 (“Clausole discrezionali”) al paragrafo 1, prevede che “In deroga all’articolo 3, paragrafo 1, ciascuno Stato membro può decidere di esaminare una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel presente Regolamento.
Lo Stato membro che decide di esaminare una domanda di protezione internazionale ai sensi del presente paragrafo diventa lo Stato membro competente e assume gli obblighi connessi a tale competenza…”.
Il capo VI del Regolamento disciplina le “procedure di presa in carico e ripresa in carico”.
In particolare, si richiede allo Stato membro di accettare la responsabilità di esaminare la domanda, non solo allorché ne sia accertata la competenza sulla base dei criteri ivi stabiliti (c.d. presa in carico, art. 18, par. 1, lett. a)), ma anche ove una domanda sia già stata presentata in quello Stato (c.d. ripresa in carico, art. 18, par. 1, lettere b-d)).
In particolare “uno Stato membro presso il quale una persona di cui all’articolo 18, paragrafo 1, lettere b), c) o d), abbia presentato una nuova domanda di protezione internazionale che ritenga che un altro Stato membro sia competente ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 5, e dell’articolo 18, paragrafo 1, lettere b), c) o d), può chiedere all’altro Stato membro di riprendere in carico tale persona”.
L’obbligo di ripresa in carico si applica tanto nell’ipotesi in cui la valutazione sia ancora pendente, quanto nel caso in cui la domanda sia stata ritirata o sia già stata emessa una decisione negativa.
Il presupposto è la riproposizione della domanda di protezione ovvero la presenza nel territorio di un altro Stato membro (rispetto a quello in cui è stata presentata la domanda) senza un titolo di soggiorno.
La procedura c.d. di presa in carico trova invece applicazione nel caso in cui la domanda sia presentata per la prima volta, ma l’autorità, preposta allo svolgimento della verifica preliminare all’esame del merito (c.d. unità Dublino), ritenga che sia competente un altro Stato membro, in virtù dei criteri di cui al capo III del Reg. Dublino III.
A seguito dell’accettazione dello Stato richiesto, si procede al trasferimento del richiedente, “conformemente al diritto nazionale dello Stato membro richiedente, previa concertazione tra gli Stati membri interessati, non appena ciò sia materialmente possibile e comunque entro sei mesi a decorrere dall’accettazione della richiesta di un altro Stato membro di prendere o riprendere in carico l’interessato, o della decisione definitiva su un ricorso o una revisione in caso di effetto sospensivo ai sensi dell’articolo 27, paragrafo 3”.
L’art. 27 disciplina i “Mezzi di impugnazione”, prevedendo, al par. 1, che “il richiedente o altra persona di cui all’articolo 18, paragrafo 1, lettera c) o d), ha diritto a un ricorso effettivo avverso una decisione di trasferimento, o a una revisione della medesima, in fatto e in diritto, dinanzi a un organo giurisdizionale”.
- Nella prospettiva dello ius litigatoris, occorre esaminare il motivo di ricorso proposto dal Ministero, a cui va ascritta una rilevanza preliminare rispetto alle questioni poste con l’ordinanza interlocutoria, che ragiona implicitamente sul presupposto della sua fondatezza.
14.1. Il motivo appare palesemente fondato alla luce delle puntuali e inequivocabili indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la sentenza del 30.11.2023 n. 228, come osserva anche il Procuratore Generale.
14.2. Con tale pronuncia, fra l’altro, la Corte europea ha chiarito che:
- a) ciascun Stato membro può decidere, conformemente alla clausola discrezionale prevista dall’ 17del Regolamento Dublino III, di esaminare una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri enunciati dal Regolamento;
- b) spetta, tuttavia, allo Stato membro interessato determinare le circostanze in cui intende far uso di tale clausola e pertanto, il diritto dell’Unione non impone al giudice dello Stato membro richiedente di dichiararne la competenza allorché non condivida la valutazione dello Stato membro richiesto quanto al rischio di refoulement dell’interessato;
- c) solo in circostanze eccezionali il trasferimento è escluso qualora esponga il richiedente ad un trattamento inumano o degradante a motivo di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale nello Stato membro richiesto;
- d) il diritto dell’Unione poggia sul principio della fiducia reciproca tra gli Stati membri che trova fondamento sul presupposto per il quale ciascuno Stato membro condivide i valori di cui all’art. 2 TUE, riconoscendo che tutti gli altri Stati membri li rispettano;
- e) l’articolo 17, paragrafo 1, del Regolamento n. 604/2013/UE, in combinato disposto con l’articolo 27 di tale Regolamento nonché con gli articoli 4, 19e 47della Carta dei diritti fondamentali, quanto al rischio di refoulement dell’interessato, deve essere interpretato nel senso che non impone al giudice dello Stato membro richiedente di dichiarare tale Stato membro competente qualora non condivida la valutazione al proposito dello Stato membro richiesto;
- f) in assenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale nello Stato membro richiesto in occasione del trasferimento o in conseguenza di esso, il giudice dello Stato membro richiedente non può obbligare il proprio Stato a esaminare una domanda di protezione internazionale sul fondamento dell’articolo 17, paragrafo 1, del Regolamento n. 604/2013/UEper il motivo che esiste, secondo tale giudice, un rischio di violazione del principio di non-refoulement nello Stato membro richiesto;
- g) l’articolo 3, paragrafo 1, e paragrafo 2, secondo comma, del Regolamento n. 604/2013/UE, in combinato disposto con l’articolo 27 di tale Regolamento, nonché con gli articoli 4,19e 47della CDFUE, deve essere interpretato nel senso che il giudice dello Stato membro richiedente, adito da un ricorso avverso una decisione di trasferimento, non può esaminare se sussista un rischio, nello Stato membro richiesto, di una violazione del principio di non-refoulement al quale il richiedente protezione internazionale sarebbe esposto a seguito del suo trasferimento verso tale Stato membro, o in conseguenza di questo, quando tale giudice non constati l’esistenza, nello Stato membro richiesto, di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale;
- h) divergenze di opinioni tra le autorità e i giudici dello Stato membro richiedente, da un lato, e le autorità e i giudici dello Stato membro richiesto, dall’altro, in relazione all’interpretazione dei presupposti sostanziali della protezione internazionale non dimostrano l’esistenza di carenze sistemiche.
14.3. Il dictum della Corte europea è inequivoco nel negare ai giudici degli Stati membri il potere di sindacare l’esercizio della clausola discrezionale di cui all’art. 17 del Regolamento Dublino III da parte dell’Autorità competente del loro Stato allo scopo di tutelare il richiedente asilo dal rischio di refoulement indiretto, in assenza di carenze sistemiche della procedura di asilo e delle condizioni di accoglienza nel Paese altrimenti ordinariamente competente, sul presupposto di una diversa valutazione dei rischi connessi al rimpatrio nel Paese di provenienza.
Principio questo, per vero, già affiorato nella giurisprudenza di questa Corte con le ordinanze n. 23724 e 23727 del 28.10.2020 della Prima sezione, che era partita dalla giurisprudenza europea, per ricordare, da un lato, che le disposizioni del Regolamento Dublino III devono essere interpretate e applicate nel rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta, ambito all’interno del quale il divieto di pene o di trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 4, di carattere assoluto e strettamente connesso al rispetto della dignità umana previsto al precedente art. 1, è di importanza essenziale.
Dall’altro, che tutti gli Stati membri sono vincolati, nella sua applicazione, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nonché dall’art. 4 della Carta. Già queste pronunce avevano ritenuto che i giudici del merito non potessero, preso atto dell’esaurimento in termini definitivi e negativi della procedura volta al riconoscimento della protezione internazionale nello Stato riconosciuto come competente alla sua valutazione, trarne la convinzione che il trasferimento dello straniero implicherebbe con certezza il suo rimpatrio nel Paese in cui correrebbe gravi rischi.
Così ragionando, infatti, essi non avrebbero tenuto in alcun conto il quadro normativo di riferimento in cui il trasferimento viene disposto e primariamente il tenore dei “considerando” 32 e 39 del Regolamento 604/2013, che prevedono sia che “per quanto riguarda il trattamento di persone che rientrano nell’ambito di applicazione del presente Regolamento, gli Stati membri sono vincolati dagli obblighi che a essi derivano dagli strumenti giuridici internazionali, compresa la pertinente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”, sia che “il presente Regolamento rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti dalla Carta.
In particolare, il presente Regolamento intende assicurare il pieno rispetto del diritto d’asilo garantito dall’articolo 18 della Carta, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della stessa. Il presente Regolamento dovrebbe pertanto essere applicato di conseguenza”.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a sua volta, prescrive che “il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea” (art. 18), che “nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti” (art. 19, rubricato “Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione”).
Inoltre, “le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione.
Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’Unione nei trattati” (art. 51).
Inoltre l’art. 33 della Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, rubricato “Divieto d’espulsione e di rinvio al confine”, al suo paragrafo 1 prevede che “nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”.
Infine, l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4.11.1950, e l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, rubricato “Proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti”, sanciscono, all’unisono, che “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
14.4. In sostanza, già questa Corte, prima dell’intervento chiarificatore della Corte di Giustizia, aveva affermato che l’esaurimento della procedura di riconoscimento della protezione internazionale non comporta affatto in via automatica la disapplicazione del principio di non refoulement e della tutela da esso accordata in sede di espulsione contro il rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o a trattamenti inumani e degradanti; non solo lo Stato italiano, ma ogni altro Stato membro, è tenuto al rispetto di tali principi nell’applicazione del diritto dell’Unione, quale è il Regolamento 604/2013.
Lo Stato membro di trasferimento, quindi, non può essere considerato Paese insicuro sotto questo profilo, posto che, a mente del “considerando” n. 3, gli Stati membri, tutti tenuti al principio di non respingimento, sono considerati Stati sicuri per i cittadini di paesi terzi, allorché non ricorrano le condizioni previste dall’art. 3, par. 2.
Inoltre il riconoscimento della protezione internazionale nei Paesi dell’Unione è basato su un sistema comune di asilo (art. 78 T.F.U.E.), che postula un principio generale di reciproca fiducia tra i sistemi di asilo nazionali e il mutuo riconoscimento delle decisioni emesse dalle singole autorità nazionali, che si fonda su di un sistema comune di valori e di regole che li incarnano e che tutti gli Stati membri sono chiamati a rispettare. La determinazione dello
Stato competente in uno diverso dallo Stato italiano non produce l’effetto di sospendere l’applicazione del diritto dell’Unione in quello Stato membro e, conseguentemente, detto diritto, di cui fanno parte il sistema europeo comune di asilo, nonché la fiducia reciproca e la presunzione di rispetto, da parte degli Stati membri, dei diritti fondamentali, continua ad essere pienamente vigente in tale Stato membro fino al suo effettivo recesso.
14.5. Occorre conformarsi al principio enunciato dalla Corte di Giustizia, secondo cui:
– il diritto dell’Unione poggia sulla premessa fondamentale secondo cui ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda, così come precisato all’articolo 2 TUE, e tale premessa implica e giustifica l’esistenza della fiducia reciproca tra gli Stati membri nel riconoscimento di tali valori e, dunque, nel rispetto del diritto dell’Unione che li attua nonché nel fatto che i rispettivi ordinamenti giuridici nazionali sono in grado di fornire una tutela equivalente ed effettiva dei diritti fondamentali, riconosciuti dalla Carta, segnatamente agli articoli 1 e 4 di quest’ultima, che sanciscono uno dei valori fondamentali dell’Unione e dei suoi Stati membri, ossia la dignità umana che include segnatamente il divieto di trattamenti inumani o degradanti (par. 130);
– il principio di fiducia reciproca tra gli Stati membri riveste un’importanza fondamentale nel diritto dell’Unione, per quanto riguarda, in particolare, lo spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia che l’Unione realizza e a titolo del quale, quest’ultima, conformemente all’articolo 67, paragrafo 2, TFUE, garantisce che non vi siano controlli sulle persone alle frontiere interne e sviluppa una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi.
In tale contesto, il principio della fiducia reciproca impone a ciascuno di tali Stati di ritenere che, tranne in circostanze eccezionali, tutti gli altri Stati membri rispettino il diritto dell’Unione e, più in particolare, i diritti fondamentali riconosciuti da quest’ultimo (par. 131);
nell’ambito di un sistema europeo comune di asilo si deve presumere che il trattamento riservato ai richiedenti protezione internazionale in ciascuno Stato membro sia conforme a quanto prescritto dalla Carta, dalla Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, nonché della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (par. 132);
– poiché non si può escludere che tale sistema incontri gravi difficoltà di funzionamento in un determinato Stato membro, cosicché sussisterebbe un grave rischio che taluni richiedenti protezione internazionale siano, in caso di trasferimento, trattati in modo incompatibile con i loro diritti fondamentali, il giudice investito di un ricorso avverso una decisione di trasferimento, se dispone di elementi prodotti dall’interessato per dimostrare l’esistenza di un tale rischio, è tenuto a valutare, sulla base di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati, e alla luce del livello di tutela dei diritti fondamentali garantito dal diritto dell’Unione, l’esistenza di carenze sistemiche o generalizzate o che colpiscono determinati gruppi di persone (par. 133.135, 136);
– in assenza di fondati motivi di ritenere che sussistano carenze sistemiche nello Stato membro competente per l’esame della domanda di asilo, tale disposizione può essere invocata qualora non sia escluso che, in una fattispecie concreta, il trasferimento di un richiedente asilo nel quadro del Regolamento Dublino III comporti un rischio reale e comprovato che tale richiedente sarà, in tal modo, sottoposto a trattamenti inumani o degradanti, ai sensi di detto articolo (par. 138);
– la differenza di valutazione da parte dello Stato membro richiedente, da un lato, e dello Stato membro competente, dall’altro, del livello di protezione di cui può beneficiare il richiedente nel suo paese di origine, ai sensi dell’articolo 8 della direttiva “qualifiche”, o dell’esistenza di minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, ai sensi dell’articolo 15, lettera c), di tale direttiva, è, in linea di principio, irrilevante ai fini del controllo della validità della decisione di trasferimento.
Tale interpretazione è l’unica compatibile con gli obiettivi del Regolamento Dublino III, che mira segnatamente a stabilire un metodo chiaro e operativo di determinazione dello Stato membro competente e a prevenire movimenti secondari di richiedenti asilo tra gli Stati membri.
Tali obiettivi escludono che il giudice che esamina la decisione di trasferimento effettui una valutazione nel merito del rischio di refoulement in caso di rinvio. Tale giudice deve infatti ritenere acquisito il fatto che l’autorità competente in materia di asilo dello Stato membro competente valuterà e determinerà correttamente il rischio di refoulement, nel rispetto dell’articolo 19 della Carta, e che il cittadino di paese terzo disporrà, conformemente alle prescrizioni derivanti dall’articolo 47 della Carta, di mezzi d’impugnazione effettivi per contestare, se del caso, la decisione di detta autorità al riguardo (par. 140 e 141).
14.6. Il provvedimento impugnato, che pure è espressione di un allora diffuso orientamento interpretativo di merito, non è allineato a questi principi, ormai inequivocabilmente acquisiti per effetto dell’intervento chiarificatore della Corte di Giustizia.
Infatti, il Tribunale di Firenze, senza accertare alcuna forma di carenza sistemica nel sistema di esame delle domande e di accoglienza austriaco, si è avvalso della clausola di discrezionalità, per formulare proprio quella valutazione che il diritto europeo, come chiarito dalla sentenza “Ministero dell’Interno” della Corte di Giustizia del 30.11.2023, non consente: ossia delibare un rischio di respingimento indiretto in un Paese di origine (il Pakistan) sulla base di una differente valutazione del livello di protezione di cui può beneficiare colà il richiedente, ignorando la regola della fiducia reciproca e la soggezione di tutti i Paesi membri al principio di non respingimento.
- Ciò comporta la cassazione del decreto impugnato in relazione al motivo accolto e il rinvio della causa al Tribunale di Firenze per l’esame degli altri motivi di impugnazione (cfr par. 1), implicitamente ritenuti assorbiti in non dichiarata, ma inequivoca, applicazione della regola della “ragion più liquida”.
15.1. Non è dunque ipotizzabile nel presente procedimento l’alternativa della cassazione senza rinvio della pronuncia impugnata e tantomeno di una decisione di questa Corte nel merito del ricorso, che necessita di ulteriori accertamenti in fatto, non eseguiti dal Tribunale gigliato.
15.2. In questa prospettiva appare assorbita la questione, neppur considerata dal provvedimento impugnato, dell’eventuale incidenza del diritto alla protezione complementare di diritto nazionale, quale causa ostativa al trasferimento, sindacabile sotto il profilo dell’esercizio della clausola discrezionale.
15.3. Non risulta peraltro che il richiedente si sia opposto al trasferimento sotto quel profilo allorché ha impugnato il provvedimento di trasferimento e tantomeno che abbia formulato allegazioni in fatto a tal proposito.
Perciò le questioni prospettate dall’ordinanza interlocutoria e nelle memorie del controricorrente avrebbero rilievo nel giudizio di rinvio solo se il giudice dell’impugnazione del trasferimento se le debba porre ex officio, come parrebbe ipotizzare l’ordinanza interlocutoria della Prima Sezione, ancorché si riferisca anche alle allegazioni del richiedente e successivamente, nel formulare il secondo quesito, prospetti “un’indagine caso per caso o per determinate categorie di persone” e consideri una “vulnerabilità giuridicamente qualificata, cui si esporrebbe il richiedente in caso di rimpatrio coattivo verso il paese terzo, all’interno delle ipotesi tutelate dal nostro sistema di protezione nazionale”, in qualche modo suggerendo la necessità di una deduzione specifica.
- A tal riguardo occorre precisare che la Sezione remittente imposta il proprio ragionamento su di una affermazione preliminare, pur esatta, ma meritevole di alcune puntualizzazioni e delimitazioni.
16.1. L’ordinanza interlocutoria sottolinea, cioè, che la decisione sul trasferimento in applicazione dei criteri di determinazione dello Stato membro competente ex Reg. UE n. 604 del 2013 si inserisce nel procedimento volto all’esame della domanda di protezione internazionale da parte dello Stato membro richiedente e richiama la pronuncia delle Sezioni Unite n. 8044 del 2018 (in tema di giurisdizione sul ricorso avverso trasferimento ai sensi del Regolamento Dublino).
Secondo tale pronuncia: “la determinazione dello Stato competente ex reg. n. 604 del 2013 costituisce non un diverso e autonomo procedimento, bensì una fase, necessariamente preliminare, all’interno del procedimento di riconoscimento dello status di protezione internazionale. Ne deriva che l’accertamento della competenza all’esame della domanda e la decisione sulla domanda medesima, pur costituendo fasi distinte, sono inserite in un procedimento unitario attivato dalla manifestazione di volontà del cittadino straniero o apolide alle autorità competenti.”
16.2. Le Sezioni Unite hanno chiarito che ogni decisione di trasferimento impone all’autorità amministrativa, e al giudice in caso di ricorso, di valutare sia che le procedure di asilo e le condizioni di accoglienza nello Stato designato come competente non soffrano di “carenze sistemiche” (art. 3, par. 2), sia, a prescindere dalla sussistenza di tali criticità generali, che il predetto trasferimento non comporti per il richiedente un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., nel qual caso è superata la presunzione (relativa) di sicurezza e pari rispetto dei diritti fondamentali negli Stati membri.
16.3. Le affermazioni dell’ordinanza n. 8044/2018 di queste Sezioni Unite sono tuttavia strettamente funzionali all’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario, legata alla natura dei diritti soggettivi che costituiscono oggetto della controversia sul trasferimento; esse mirano dunque a porre in risalto il collegamento funzionale e teleologico fra il procedimento di riconoscimento dello status di protezione internazionale, in senso ampio, e l’incidente di competenza volto a determinare lo Stato membro chiamato ad occuparsene.
16.4. È quindi in questo senso, strettamente e intimamente correlato alla qualificazione delle situazioni soggettive coinvolte, che le Sezioni Unite hanno inteso parlare di “fase, necessariamente preliminare, all’interno del procedimento di riconoscimento dello status di protezione internazionale” e di inserimento in un “procedimento unitario” attivato dalla manifestazione di volontà del cittadino straniero o apolide alle autorità competenti.
Sotto il profilo prettamente processuale, tuttavia, il procedimento di determinazione della competenza e l’impugnazione del provvedimento di trasferimento possiedono una loro autonomia rispetto al procedimento di cognizione relativo alla domanda di riconoscimento della protezione internazionale.
Quanto al diritto europeo, come si è dianzi ricordato, l’art. 27 del Regolamento n. 604 del 26.6.2013, in tema di “Mezzi di impugnazione”, afferma al par.1 che il richiedente o altra persona di cui all’articolo 18, paragrafo 1, lettera c) o d), ha diritto a un ricorso effettivo avverso una decisione di trasferimento, o a una revisione della medesima, in fatto e in diritto, dinanzi a un organo giurisdizionale.
Il nostro diritto nazionale con il D.L. 17.2.2017 n. 13, convertito con modifiche in
legge 13.4.2017 n. 46, all’art. 3, lettera e-bis, attribuisce alla competenza per materia delle sezioni specializzate la cognizione delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti adottati dall’autorità preposta alla determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale, in applicazione del Regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013.
Il comma 4-bis dello stesso articolo dispone che anche queste controversie sono decise dal Tribunale in composizione collegiale, con designazione per la trattazione della controversia di un componente del collegio.
L’art. 3 del D.Lgs. 28.1.2008 n. 25, e s.m.i., dispone che contro le decisioni di trasferimento adottate dall’autorità di cui al comma 3 è ammesso ricorso, proposto, a pena di inammissibilità, entro trenta giorni dalla notificazione della decisione di trasferimento, al Tribunale sede della sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea e che si applicano gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile, ove non diversamente disposto, e regolamenta il procedimento in questione, anche relativamente alla sospensione del provvedimento impugnato.
16.5. Pertanto, nonostante il collegamento funzionale che intercorre fra il procedimento di impugnazione del provvedimento di trasferimento e il più generale procedimento diretto ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale, nell’ambito del primo, di carattere preliminare e diretto alla determinazione della competenza, sussiste l’esigenza di una autonoma allegazione da parte del richiedente delle specifiche ragioni dell’impugnazione del provvedimento di trasferimento, in conformità al generale principio dispositivo.
Il richiedente ha l’onere di allegare in modo circostanziato i fatti costitutivi del suo diritto circa l’individualizzazione del rischio, atteso che l’attenuazione del principio dispositivo, in cui la cooperazione istruttoria consiste, si colloca non sul versante dell’allegazione, pur con le peculiarità della materia, ma esclusivamente su quello della prova.
- Le precedenti riflessioni impongono un raccordo con il tema degli elementi deducibili dal ricorrente in sede di impugnazione della decisione di trasferimento.
Nella sentenza del 7.6.2016, causa C-63/15, Ghezelbash, la Corte di Giustizia ha affermato che il regolamento n. 604 del 2013 ha segnato un cambio di passo rispetto al precedente: infatti il legislatore dell’Unione non si è limitato più a fissare regole organizzative che disciplinano unicamente i rapporti tra gli Stati membri ai fini di determinare lo Stato membro competente, ma ha deciso di coinvolgere nella procedura i richiedenti asilo, ha obbligato gli Stati membri a informarli dei criteri di competenza e a offrire loro l’opportunità di presentare le informazioni per la corretta applicazione di tali criteri, e ha garantito ai richiedenti il diritto di ricorso effettivo avverso la decisione di trasferimento eventualmente adottata in esito al procedimento (par. 51).
Con riferimento agli elementi deducibili dal ricorrente, superando i principi affermati nella sentenza del 10.12.2013, causa C-394/12, Abdullahi, con la citata sentenza Ghezelbash la Corte di Giustizia ha affermato che il ricorso previsto dall’art. 27 deve essere effettivo, deve vertere sia sulle questioni di diritto sia sulle questioni di fatto e non soffre alcun limite contenutistico circa gli argomenti che il richiedente asilo può dedurre nel contesto del suo ricorso.
Possono, pertanto, avere ingresso anche censure volte a dedurre violazioni dei suoi diritti diverse dal rischio di trattamenti inumani e degradanti che conseguano alle carenze sistemiche previste dall’articolo 3.2 del regolamento.
Nelle pronunce successive la Corte di Giustizia ha precisato che il richiedente deve poter disporre di un mezzo di ricorso effettivo e rapido che gli consenta di far valere circostanze successive all’adozione della decisione di trasferimento, qualora la loro presa in considerazione sia determinante per la corretta applicazione del citato regolamento (sentenze del 25 ottobre 2017, Shiri, C-201/16, punto 44, e del 25 gennaio 2018, 12 Hasan, C-360/16, punto 31) e che l’art. 27, letto alla luce del considerando 19, e l’articolo 47 della Carta devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che prevede che il giudice investito di un ricorso di annullamento avverso una decisione di trasferimento non possa, nell’ambito dell’esame di tale ricorso, tener conto di circostanze successive all’adozione di tale decisione che siano determinanti ai fini della corretta applicazione di detto regolamento, salvo che la normativa stessa preveda un mezzo di ricorso specifico, implicante un esame ex nunc della situazione dell’interessato, i cui risultati siano vincolanti per le autorità competenti, che sia esperibile a seguito del verificarsi di siffatte circostanze e che, segnatamente, non sia subordinato alla privazione della libertà dell’interessato stesso né al fatto che l’esecuzione della decisione citata sia imminente (sentenza del 15 aprile 2021, causa C-194/19, H.A.).
Ciò premesso, in linea generale, e salvo riesaminare più oltre il caso concreto, occorre ora puntare il focus sui limiti del sindacato consentito al giudice ordinario sull’esercizio da parte degli Stati membri della clausola di discrezionalità dell’art. 17 del regolamento Dublino III, che riprende e accorpa le clausole di sovranità e umanitaria rispettivamente contemplate dagli articoli 3.2 e 15.1. del precedente Regolamento Dublino II.
18.1. L’art. 17, par. 1, del Reg. UE 604/2013 recita: “In deroga all’articolo 3, paragrafo 1, ciascuno Stato membro può decidere di esaminare una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel presente Regolamento”.
Il considerando 17 avverte che: “uno Stato membro dovrebbe poter derogare ai criteri di competenza, in particolare per motivi umanitari e caritatevoli, al fine di consentire il ricongiungimento di familiari, parenti o persone legate da altri vincoli di parentela ed esaminare una domanda di protezione internazionale presentata in quello o in un altro Stato membro, anche se tale esame non è di sua competenza secondo i criteri vincolanti stabiliti nel presente Regolamento”.
18.2. La disposizione non offre, sul piano letterale, immediati elementi che consentano di attribuire al giudice il potere di sindacare la legittimità della scelta di uno Stato membro di ricorrere o meno a tale clausola; è quindi necessario ricorrere a una lettura sistematica dell’istituto, volta a comprenderne le finalità e la funzione.
Da un punto di vista generale, il Regolamento “introduce un sistema di individuazione della competenza volto, da un lato, a impedire che ciascuno Stato appartenente all’Unione Europea possa dichiararsi incompetente ad esaminare la domanda, dall’altro a ostacolare movimenti interni dei richiedenti protezione, dando agli Stati e non alle persone la facoltà di decidere dove il richiedente abbia diritto di veder esaminata la domanda medesima, e in tale ambito prevede espressamente, al suo art. 3, che la domanda d’asilo sia esaminata da un solo Stato membro”(Sez. 1, n. 23724 del 28.10.2020).
Il sistema è dunque orientato a garantire che vi sia sempre, indefettibilmente, un solo Stato membro competente ad esaminare la richiesta di protezione.
I “considerando” n. 32 e 39 del Regolamento impongono di interpretarne le disposizioni conformemente alla giurisprudenza CEDU e alla Carta di Nizza.
Con specifico riguardo a quest’ultima, il “considerando” n. 39 sottolinea che “il presente Regolamento intende assicurare il pieno rispetto del diritto d’asilo garantito dall’articolo 18 della Carta, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della stessa”.
In origine, la Commissione europea (relazione alla proposta di Regolamento del Consiglio che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo, COM 2001, 447 def.) aveva proposto di inserire la clausola al fine di consentire a ciascuno Stato membro di decidere in piena sovranità, in base a considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico, di accettare l’esame di una domanda d’asilo, anche se detto Stato non sarebbe competente in applicazione dei criteri previsti dal Regolamento.
Tale finalità è stata recepita anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (CGUE, causa C-528/11, par. 37; id., causa C-56/17, par. 53).
Secondo questa concezione, l’esercizio o il mancato esercizio della clausola in questione “non è soggetto a condizioni particolari”, poiché risponde semplicemente a “considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico”.
18.3. Partendo da tali premesse (la sostanziale libertà nell’esercizio della clausola con l’unico limite dei diritti fondamentali), la Corte di Giustizia, sotto la vigenza del precedente Regolamento CE n. 343 del 2003 (cd. Dublino II), aveva affermato che “uno Stato membro che esercita tale potere discrezionale deve essere ritenuto attuare il diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 51, n. 1, della Carta (di Nizza)”.
Di conseguenza, “gli Stati membri, compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo “Stato membro competente” ai sensi del Regolamento n. 343/2003 quando non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi di tale disposizione”.
In questo caso, “l’impossibilità di trasferire un richiedente asilo verso un altro Stato membro dell’Unione europea che risulti essere lo Stato membro competente in base ai criteri enunciati nel capo III di detto Regolamento impone allo Stato membro che doveva effettuare tale trasferimento di proseguire l’esame dei criteri di cui al medesimo capo, per verificare se uno dei criteri ulteriori permetta di identificare un altro Stato membro come competente a esaminare la domanda di asilo”.
Tuttavia, se la procedura di determinazione dello Stato competente in via sussidiaria rischia di aggravare la violazione dei diritti fondamentali del richiedente a causa di una durata irragionevole, “detto Stato è tenuto a esaminare esso stesso la domanda” esercitando la clausola discrezionale.
Questa giurisprudenza della Corte di Giustizia è stata poi codificata all’interno dell’art. 3, par. 2, del Regolamento Dublino III, che ora recita che “Qualora sia impossibile trasferire un richiedente verso lo Stato membro inizialmente designato come competente in quanto si hanno fondati motivi di ritenere che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, lo Stato membro che ha avviato la procedura di determinazione dello Stato membro competente prosegue l’esame dei criteri di cui al capo III per verificare se un altro Stato membro possa essere designato come competente”.
18.4. Successivamente, come ricordato in premessa, la Corte di Giustizia ha affermato che l’art. 17, pur se squisitamente discrezionale, può essere utilizzato per consentire di non applicare automaticamente il Regolamento in tutti i casi in cui il Paese competente non sia affetto da gravi carenze sistemiche nel suo sistema di asilo e pur tuttavia il trasferimento verso tale Stato non garantisca una piena tutela dei diritti del richiedente protezione internazionale, sia pure solo in ragione della condizione personale di vulnerabilità del richiedente (CGUE 23.1.2019, C-661/17 e 16.2.2017, C-578/16), ovvero nel caso in cui il Paese si trovi in una situazione “problematica”, ancorché non strutturalmente carente, sotto il profilo delle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo o delle procedure di accesso alla protezione internazionale.
In particolare con la sentenza del 19.3.2019, C-163/17, Jawo / Bundesrepublik Deutschland, la Corte di Giustizia ha affermato che l’art. 17, pur se squisitamente discrezionale, può essere utilizzato per consentire di non applicare automaticamente il Regolamento in tutti i casi in cui il Paese competente non sia affetto da gravi carenze sistemiche nel suo sistema di asilo e pur tuttavia il trasferimento verso tale Stato non garantisca una piena tutela dei diritti del richiedente protezione internazionale, sia pure solo in ragione della condizione personale di vulnerabilità del richiedente ovvero nel caso in cui il Paese si trovi in una situazione “problematica”, ancorché non strutturalmente carente, sotto il profilo delle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo o delle procedure di accesso alla protezione internazionale.
Ciò perché l’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali deve essere interpretato nel senso che esso non osta a un trasferimento di un richiedente protezione internazionale, in applicazione dell’articolo 29 del Regolamento n. 604/2013, verso lo Stato membro che, conformemente a tale Regolamento, è di regola competente per l’esame della sua domanda di protezione internazionale, a meno che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di trasferimento non constati, sulla base di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati e in considerazione del livello di tutela dei diritti fondamentali garantito dal diritto dell’Unione, l’esistenza di un grave rischio di subire un trattamento inumano o degradante per il richiedente a causa del fatto che, in caso di trasferimento, quest’ultimo si verrebbe a trovare, indipendentemente dalla sua volontà e dalle sue scelte personali, in una situazione di estrema deprivazione materiale.
18.5. La Prima Sezione della Corte di Giustizia, con sentenza del 23.1.2019, causa C-661/17, M.A. si è soffermata sulle caratteristiche della clausola discrezionale, ha ribadito che essa possiede “natura facoltativa”, “non è soggetta a condizioni particolari” ed è volta a consentire a “ciascuno Stato membro di decidere in piena sovranità in base a considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico, di accettare l’esame di una domanda di protezione internazionale, anche se esso non è competente in applicazione dei suddetti criteri”(par. 58).
La Corte di Giustizia ha aggiunto che il Regolamento Dublino III “non contiene (…) alcuna disposizione che precisi quale autorità sia abilitata a prendere una decisione (…) ai sensi della clausola discrezionale prevista dall’articolo 17, paragrafo 1, del Regolamento” (par. 65).
La Corte, dopo aver ribadito che “il principio della tutela giurisdizionale effettiva costituisce un principio generale del diritto dell’Unione” (par. 77), ha precisato che l’art. 27, par. 3 del Regolamento Dublino III, deve essere interpretato nel senso che non impone di prevedere un ricorso avverso la decisione di non far uso della clausola discrezionale, “fermo restando che detta decisione potrà essere contestata in sede di ricorso avverso la decisione di trasferimento” (par. 78).
18.6. Con sentenza del 16.2.2023, causa C-745/21, L.G., la Decima Sezione della Corte di Giustizia ha affermato che l’art. 17, par. 1, del Regolamento Dublino III non osta a una normativa nazionale che impone alle autorità nazionali di esaminare una domanda di protezione presentata da una donna in stato di gravidanza, in ragione del superiore interesse del minore nascituro alla luce dell’interpretazione data a tale principio dall’ordinamento interno e, in particolare, da una disposizione del codice civile.
Con specifico riferimento alla questione relativa alla possibilità che l’esercizio della clausola discrezionale, puramente facoltativo nel sistema Dublino III, assuma caratteristiche diverse in ragione delle specificità del singolo ordinamento nazionale, la Corte ha affermato che spetta al giudice nazionale esaminare se le “autorità nazionali competenti abbiano violato il diritto nazionale respingendo la domanda di protezione internazionale presentata dalla ricorrente nel procedimento principale, benché quest’ultima fosse in stato di gravidanza al momento della presentazione di tale domanda” (par. 53).
La Corte di Giustizia ha osservato che spetta allo Stato membro interessato, alla luce dell’ampiezza del potere discrezionale concesso da tale Regolamento, determinare le circostanze in cui intende avvalersi della facoltà conferita da tale articolo 17, paragrafo 1, e decidere di esaminare esso stesso una domanda di protezione internazionale per la quale non è competente in forza dei criteri definiti da detto Regolamento (par. 50).
Possono pertanto, ad avviso della Corte, verificarsi circostanze in cui specifiche disposizioni nazionali – di legge ordinaria, nel caso esaminato dalla Corte – impongano alle autorità dello Stato membro di avvalersi della facoltà offerta dalla clausola discrezionale prevista dal citato art. 17.
18.7. Con la già citata pronuncia “Ministero dell’Interno” del 30.11.2023, oggetto dell’attesa nelle more di questo procedimento,
la Seconda Sezione della Corte di Giustizia – decidendo sulle cause riunite C-228/21, C-254/21, C-297/21, C-315/21, C-328/21, in ordine alla clausola discrezionale:
– ha ribadito la natura facoltativa della clausola discrezionale e ha ripetuto che spetta allo Stato membro interessato determinare le circostanze in cui intende far uso della facoltà conferita;
– ha precisato che il giudice dello Stato membro non può obbligare lo Stato membro ad applicare la clausola discrezionale per il motivo che esisterebbe, nello Stato membro richiesto, un rischio di violazione del principio di non-refoulement;
– infine, ha chiarito che, se le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dovessero essere acclarate, la competenza dello Stato membro richiedente si fonderebbe sull’art. 2, par. 2 del Regolamento, cosicché non sarebbe necessario, per lo Stato membro richiedente, ricorrere all’art. 17, par. 1, del medesimo Regolamento (par. 151).
La sentenza “Ministero dell’Interno” esclude espressamente che il giudice dello Stato membro possa imporre al suo Stato l’impiego della clausola discrezionale per scongiurare il rischio di non-refoulement che a suo parere si delineerebbe nello Stato membro destinatario del trasferimento: e ciò perché siffatta decisione infrangerebbe il fondamentale principio di fiducia reciproca fra gli Stati membri.
La sentenza del 30.11.2023, tuttavia, non esclude, in linea generale, il potere dei giudici nazionali di sindacare la decisione di non avvalersi della clausola discrezionale per altre ragioni, nell’ambito del giudizio di impugnazione del provvedimento di trasferimento ex art. 27 Reg.604/2013 (principio questo già acquisito nei precedenti citati arresti della Corte europea).
E ciò perché la definizione dell’ambito di sindacabilità dell’esercizio – o, per converso, del mancato esercizio – della clausola discrezionale, resta affidata alla legislazione interna di ciascun Stato membro.
18.8. Merita di essere rammentata anche la recente sentenza della Seconda Sezione della Corte di Giustizia (18.4.2024, causa C-359/22, AHY).
La Corte ha affermato che l’art. 17, par. 1, non può “per sua natura, essere equiparata agli altri criteri di determinazione dello Stato membro competente per una domanda di protezione internazionale previsti da detto Regolamento” (par. 32), con la conseguenza che la decisione di esercitare o meno la clausola discrezionale è una decisione non basata sui criteri vincolanti ai quali lo Stato membro è tenuto a conformarsi.
Da tale premessa, ad avviso della Corte, discende che una decisione adottata ai sensi dell’art. 17, par. 1, del reg. Dublino III “non può essere equiparata a una decisione di trasferimento, ai sensi dell’art. 27, par. 1, di tale Regolamento, cosicché quest’ultima disposizione non impone agli Stati membri di prevedere un ricorso effettivo avverso una decisione discrezionale siffatta” (par. 43).
La Corte ha aggiunto che “poiché la Corte ha giudicato che l’articolo 27, paragrafo 1, del Regolamento Dublino III non esige che gli Stati membri prevedano un ricorso specifico avverso la decisione di diniego dell’esercizio del potere discrezionale previsto dall’articolo 17, paragrafo 1, di tale Regolamento, la possibilità di contestare tale decisione in occasione di un ricorso avverso la decisione di trasferimento non può che trovare fondamento nel diritto nazionale” (par. 46).
Di conseguenza, poiché uno Stato membro non può essere considerato obbligato a far uso della clausola discrezionale, il richiedente protezione internazionale non dispone di alcun diritto garantito dal diritto dell’Unione a che uno Stato membro faccia uso di tale clausola e l’art. 47 della Carta non osta a che uno Stato membro esegua una decisione di trasferimento prima di aver statuito su una domanda proposta ai sensi dell’art. 17, par. 1, o su un ricorso avverso la risposta fornita a una domanda siffatta.
In tal modo la Corte di Giustizia ha demandato al diritto nazionale non solo la definizione della portata del (possibile) controllo giurisdizionale, ma anche la fonte del controllo, precisando che è prerogativa del diritto nazionale concedere la possibilità di impugnare la decisione di non avvalersi della clausola discrezionale per tutta la durata del ricorso avverso la decisione di trasferimento.
18.9. Non appare rilevante ai fini della questione in trattazione la recentissima pronuncia “Ararat” della Corte di Giustizia del 17.10.2024 che riguarda i doveri delle autorità degli Stati membri in sede di decisioni di rimpatrio di stranieri e anzi ribadisce il vincolo per tutti gli Stati membri dettato dal principio di non respingimento.
- La giurisprudenza di questa Corte in ordine all’ammissibilità e alla portata del sindacato giurisdizionale sull’esercizio della clausola discrezionale ha manifestato nel tempo alcune oscillazioni.
19.1. Le Sezioni Unite, sin dal 2009, con ordinanza n. 19393 del 9.9.2009 hanno affermato “l’identità di natura giuridica del diritto alla protezione umanitaria, del diritto allo status di rifugiato e del diritto costituzionale di asilo”, in quanto “situazioni tutte riconducibili alla categoria dei diritti umani fondamentali, con la conseguenza che la garanzia apprestata dall’art. 2 Cost.” esclude che dette situazioni possano essere degradate a interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidato solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, poiché il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate sono riservate al legislatore.
Ancora prima, con sentenza n. 4674 del 26.5.1997, le Sezioni Unite avevano affermato che il diritto di asilo protetto dall’articolo 10, comma 3, della Costituzione ha natura di diritto soggettivo e che, in forza di tale natura, la relativa tutela compete alla giurisdizione del giudice ordinario.
Successivamente, con la già ricordata ordinanza n. 8044 del 30.3.2018, le Sezioni Unite hanno statuito sulla giurisdizione spettante in materia al giudice ordinario.
19.2. La Sezione Lavoro di questa Corte, con ordinanza n. 26603 del 23.11.2020,premesso che “l’operatività delle clausole discrezionali di cui all’art. 17 del Regolamento vede come destinatari gli Stati membri e non il giudice”, ha affermato che in capo a quest’ultimo residua, in sede di ricorso avverso il decreto di trasferimento emesso dall’Unità Dublino, un “sindacato di legalità, da svolgersi come giudice dell’atto e come non del rapporto, e che concerne i vizi quali i criteri di competenza e/o la violazione di legge procedimentale”.
La Sezione Lavoro n. 29447 del 23.12.2020 (non massimata) ha ribadito che l’esercizio della clausola discrezionale compete all’Unità Dublino e non al giudice, ma ha anche precisato che “il rifiuto illegittimo dell’amministrazione di farne uso, risolvendosi necessariamente nell’adozione di una decisione di trasferimento, potrà, eventualmente, essere oggetto di contestazione in sede di ricorso giurisdizionale, al pari della sua impropria utilizzazione” sicché sede di ricorso il giudice sarà chiamato a verificare se l’esercizio della clausola discrezionale sia eventualmente avvenuto in violazione dei diritti soggettivi riconosciuti al richiedente asilo dal Reg. CE 604/2013 e, più in generale, dall’impianto normativo del diritto dell’Unione o dalla CEDU.
19.3. In altre decisioni, traendo spunto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la Corte di Cassazione ha distinto fra il sindacato sull’esercizio del potere discrezionale, in sé e per sé considerato, dal sindacato che compete al giudice sul provvedimento di trasferimento a valle della decisione dell’Amministrazione.
È stato così affermato (Sez.1, ord. 23724 e 23727 del 28.10.2020) che “In materia di protezione internazionale, il ricorso alla “clausola discrezionale”, prevista dall’art. 17, par. 1, del Regolamento (UE) n. 604 del 2013 (cd. Regolamento Dublino III), di natura facoltativa, è demandato all’Amministrazione (e segnatamente all’Unità di Dublino operante presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno), in ragione delle considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico, che ne determinano l’esercizio, e non può essere operato direttamente dal giudice ordinario, fermo restando che la relativa scelta non rimane al di fuori di ogni controllo, sicché il rifiuto di esercitare tale facoltà, risolvendosi nella decisione di trasferire il cittadino straniero, può essere contestato in sede giurisdizionale, mediante l’impugnazione di tale decisione, al fine di verificare se l’Amministrazione abbia esercitato la propria discrezionalità in violazione dei diritti soggettivi riconosciuti al richiedente asilo dal Regolamento menzionato e, più in generale, dall’impianto normativo euro-unitario”.
19.4. La delimitazione specifica dell’oggetto del sindacato del giudice, in sede di ricorso avverso una decisione di trasferimento in un altro Stato membro, con particolare riferimento alla possibilità di esaminare la sola sussistenza delle condizioni e dei presupposti del trasferimento o anche la sussistenza di ragioni che giustificherebbero il riconoscimento della protezione nazionale non è stata ancora compiuta da questa Corte nonostante le ordinanze interlocutorie n. 23911 del 29.10.2020 (che ha trattato il primo aspetto appena indicato) e le sette ordinanze interlocutorie n. 11726, 11727, 11728, 11729, 11730, 11731 e n. 11732 del 5.5.2021 (che hanno ritenuto questioni di diritto di particolare importanza da rimettere alla pubblica udienza non solo la questione dei limiti di sindacabilità giudiziale della clausola discrezionale, ma anche la possibilità di invocare a sostegno di un motivo di impugnazione del provvedimento dell’Unità Dublino inerente alla domanda di protezione internazionale il diritto alla protezione umanitaria o altro istituto complementare di diritto nazionale): infatti, quei ricorsi sono stati dichiarati tutti inammissibili per difetto di valida procura.
- I due più recenti arresti della Corte di Giustizia del 30.11.2023 e del 18.4.2024, letti in connessione e in una prospettiva opportunamente armonizzata fra loro e con la precedente giurisprudenza europea, portano a ritenere che:
– la clausola di cui all’art. 17 del Reg. 604/2013 attribuisce agli Stati membri un potere discrezionale di avocare la competenza nei casi in cui in base agli altri criteri del Regolamento non spetterebbe loro;
– esistenza, natura e limiti del controllo giurisdizionale sull’esercizio di tale potere discrezionale non sono regolati dal diritto europeo (che si limita a vietare ai giudici degli Stati membri di servirsi del sindacato sulla clausola per eludere il mutual trust e di sovrapporre una propria delibazione sul rischio di respingimento indiretto a quella devoluta allo Stato membro competente);
– fa eccezione l’ipotesi (sentenza Jawo 19.3.2019) in cui il trasferimento verso il Paese competente, pur non affetto da gravi carenze sistemiche nel suo sistema di asilo, non garantisca una piena tutela dei diritti del richiedente protezione internazionale, o in ragione della condizione personale di vulnerabilità del richiedente o nel caso in cui il Paese si trovi in una situazione “problematica”, ancorché non strutturalmente carente, sotto il profilo delle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo o delle procedure di accesso alla protezione internazionale;
– esistenza, natura e limiti del predetto controllo giurisdizionale, al di fuori di queste ipotesi, sono devoluti al diritto nazionale, nel contesto della neutralità al riguardo manifestata dal diritto dell’Unione.
- Occorre precisare che il Regolamento Dublino III delimita il suo ambito di applicazione alle domande di protezione internazionale, vale a dire a quelle relative al riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria e sono dunque escluse dall’ambito di applicazione del Regolamento le domande volte al riconoscimento di protezioni diverse, come quelle di tipo umanitario, disciplinate in base alla legislazione nazionale.
L’art. 2, lettera h), della Direttiva 2011/95/UE definisce la “domanda di protezione internazionale” come “una richiesta … per ottenere lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria, e che non sollecita esplicitamente un diverso tipo di protezione non contemplato nell’ambito di applicazione della presente direttiva e che possa essere richiesto con domanda separata”.
21.1. Ad integrazione del sistema unionale, per tutelare situazioni che, pur non rispondendo ai rigidi presupposti necessari per il riconoscimento della protezione internazionale, risultino comunque bisognose di tutela, alcuni Stati europei – tra cui l’Italia – hanno introdotto ulteriori forme di protezione complementari e volte ad integrare il sistema di asilo dettato dal diritto dell’Unione.
La stessa legislazione europea contempla esplicitamente tale possibilità; la direttiva 2008/115/CE del 16.12.2008, all’art. 6, par. 4, prevede che gli Stati membri possano rilasciare in qualsiasi momento, “per motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura”, un permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di una Paese terzo il cui soggiorno è irregolare.
La Corte di Giustizia (CGUE, Grande sezione, 9.11.2010, cause riunite C-57/09 e C-101/09) ha chiarito che gli Stati membri possono concedere forme di protezione umanitaria e caritatevole diverse e ulteriori rispetto a quelle riconosciute dalla normativa europea, purché non modifichino i presupposti e l’ambito di applicazione della disciplina derivata dell’Unione.
21.2. È pur vero che la protezione complementare nel nostro ordinamento rappresenta il “necessario completamento del diritto d’asilo costituzionale”.
Le Sezioni Unite hanno infatti affermato che “tutte le protezioni, compresa quella umanitaria, sono espressione del diritto di asilo costituzionale. (…) Il diritto di asilo scaturisce direttamente dal precetto costituzionale e si colloca, come ha osservato sin da epoca risalente autorevole dottrina, in seno all’apertura amplissima della Costituzione verso i diritti fondamentali dell’uomo.
Il diritto di asilo è quindi costruito come diritto della personalità, posto a presidio di interessi essenziali della persona e non può recedere al cospetto dello straniero bisognoso di aiuto, che, allegando motivi umanitari, invochi il diritto di solidarietà sociale: i diritti fondamentali dell’uomo spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani, sicché la condizione giuridica dello straniero non può essere considerata ragione di trattamenti diversificati e peggiorativi (Corte cost., 10 aprile 2001, n. 105; 8 luglio 2010, n. 249).
Le condizioni che possono essere definite per legge, necessariamente conformi alle altre norme costituzionali e internazionali, allora, sono quelle chiamate a regolare il soggiorno dell’esule, la definizione dei criteri di accertamento dei requisiti richiesti per l’asilo e le modalità del relativo procedimento di accertamento (…).
Quanto ai presupposti utili a ottenere la protezione umanitaria, non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano.
Gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali; sicché, ha puntualizzato questa Corte, l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (tra varie, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096).
Le basi normative non sono, allora, affatto fragili, ma a compasso largo: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione” (Sez.Un. 13.11.2019, n. 29459 e 29460, poi riprese da Sez.Un. 9.9.2021 n. 24413).
Ancora di recente queste Sezioni Unite, in sede di regolamento di giurisdizione, sono tornate in argomento per affermare che il diritto alla protezione umanitaria ha, al pari del diritto allo status di rifugiato e al diritto costituzionale di asilo, consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali, come tali dotati di un grado di tutela assoluta e non degradabili ad interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere rimesso solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica (Sez. Un. 12.4.2023, n. 9791).
Anche la giurisprudenza delle Sezioni semplici ha escluso l’applicazione diretta dell’art. 10, comma 3, della Costituzione proprio in ragione della sussistenza della protezione complementare di diritto interno (pur significativamente mutata nel tempo), affermando che il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario alla stregua delle vigenti norme sulla protezione (Sez. 6 – 1, n. 10686 del 26.6.2012; Sez. 6 – 1, n. 16362 del 4.8.2016; Sez. 2, n. 19176 del 15.9.2020).
21.3. In modo analogo si era pronunciata anche la Corte costituzionale, affermando che il diritto d’asilo “nell’ordinamento costituzionale italiano copre uno spettro più ampio rispetto al diritto dei rifugiati di cui alla Convenzione di Ginevra del 1951. Per la definizione del contenuto di tale materia, infatti, ci si deve riferire all’art. 10, terzo comma, Cost., che appunto riconosce il “diritto d’asilo nel territorio della Repubblica” come diritto fondamentale dello straniero “al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” (C. Cost., sent. 24.7.2019, n. 194).
21.4. In sintesi, la protezione complementare (così come la protezione internazionale) vale a tutelare “situazioni di vulnerabilità attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un’esigenza concernente la salvaguardia di diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale” (Sez. 1, 12.11.2018, n. 28996).
- L’ordinanza di rimessione ipotizza che, in presenza di condizioni di vulnerabilità soggettiva o di diritti che giustificherebbero il riconoscimento della protezione complementare nazionale, in attuazione del diritto di asilo costituzionale, nei casi in cui il diritto europeo non offrirebbe corrispondente tutela (“essendo insufficiente al riguardo il solo sistema di protezione internazionale euro-unitario …”), una deroga ai criteri di determinazione dello Stato competente possa essere giustificata alla luce delle peculiarità del sistema giuridico italiano di protezione nazionale.
In tali casi, il giudice di merito potrebbe sindacare il mancato esercizio della clausola discrezionale, anche manifestato implicitamente, che condurrebbe a una decisione di trasferimento pur in presenza di specifiche situazioni soggettive tutelate dal nostro sistema di protezione nazionale rappresentate dal ricorrente per opporsi alla decisione di trasferimento.
22.1. In sostanza si prospetta che il complesso sistema di protezione nazionale interno, fondato sulla necessità di portare a compimento l’attuazione del diritto d’asilo costituzionale, nell’insufficienza a tal fine del sistema di protezione internazionale euro-unitario, potrebbe imporre allo Stato italiano, attraverso la competente autorità designata, di attivare l’esercizio della clausola discrezionale, nei casi in cui l’interessato abbia rappresentato significative circostanze a sostegno del proprio diritto soggettivo ad ottenere siffatto titolo di protezione e in cui il diritto europeo non offrirebbe corrispondente tutela da parte del giudice dello Stato membro di trasferimento.
In quei casi la decisione di trasferimento da parte dell’autorità statale, che ha la facoltà di applicare la clausola di sovranità e concreti un rifiuto tacito di avvalersene, potrebbe essere sindacata dal giudice ordinario in sede di impugnazione del provvedimento di trasferimento da parte dell’interessato.
Ciò, beninteso, sulla base di una valutazione specifica del caso concreto, tenuto conto della riconducibilità della vulnerabilità giuridicamente qualificata, cui si esporrebbe il richiedente in caso di rimpatrio coattivo verso il paese terzo, nell’ambito delle ipotesi tutelate dal nostro sistema di protezione nazionale.
22.2. Questa situazione, poi, si potrebbe verificare sia nel caso in cui il ricorrente abbia prospettato all’Autorità Dublino di avere motivi ostativi al trasferimento collegati al proprio diritto ad ottenere la protezione complementare di diritto nazionale, ipotesi in cui appare agevole ravvisare un diniego implicito all’attivazione della clausola discrezionale; sia nel caso in cui il ricorrente abbia prospettato tali circostanze solo nel ricorso o comunque nell’ambito del procedimento volto a impugnare il provvedimento di trasferimento, ipotesi nella quale l’Amministrazione, parte del procedimento, è stata pur sempre posta nel contraddittorio in condizione di esercitare la clausola, sia pur solo nel contesto del procedimento giurisdizionale.
22.3. Con diversi accenti sia il Ministero ricorrente, specie in sede di discussione orale, sia, più sfumatamente il Procuratore Generale, nell’angolo visuale della mancata dimostrazione del come e del perché il diritto europeo si porrebbe in violazione del diritto italiano (dovendosi invece presumere che il diritto di asilo sia adeguatamente tutelato in tutti gli Stati membri), pongono in discussione l’assunto che il diritto dell’Unione lasci scoperti margini di tutela rispetto a quella offerta dalla legge italiana con l’asilo costituzionale e la protezione complementare che ne costituisce attuazione.
22.4. È opportuno precisare che nell’impostazione dell’ordinanza interlocutoria non si tratterebbe di attivare i “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea in sede di verifica della loro compatibilità costituzionale (cioè della conformità ai principi irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale), prerogativa questa spettante alla sola Corte costituzionale, con esclusione di qualsiasi altro giudice (da ultimo, Corte Cost., 22.10.2014, n. 238).
In tesi, infatti, sarebbe lo stesso diritto europeo a prevedere e consentire la deroga alle regole in tema di competenza in conseguenza di una scelta discrezionale dello Stato di concedere una più ampia tutela allo straniero.
- Partendo da queste premesse, il Collegio ritiene che i quesiti proposti dall’ordinanza interlocutoria, così come le argomentazioni del controricorrente, manchino di attinenza al caso concreto oggetto della causa e prospettino una questione giuridica astratta, del tutto disancorata dalla vicenda personale e processuale da regolare.
23.1. Si è già detto che il motivo di ricorso deve essere accolto e che la Corte deve cassare il provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale per l’esame delle ulteriori ragioni di impugnazione rimaste assorbite.
Si è detto altresì che il diritto dell’Unione consente al richiedente di impugnare il disposto trasferimento per le più svariate ragioni, tra le quali potrebbe annoverarsi anche la dedotta violazione del proprio diritto al riconoscimento della protezione complementare di diritto nazionale.
23.2. Ciò tuttavia non è avvenuto nel caso di specie.
Né, come in precedenza illustrato, tale ragione di opposizione potrebbe essere scrutinata d’ufficio dal giudice del procedimento di impugnazione del trasferimento per il solo fatto che nel nostro ordinamento le autorità amministrative e giurisdizionali chiamate ad esaminare una domanda di protezione internazionale debbono valutare residualmente la riconoscibilità di un titolo di protezione complementare sulla base delle allegazioni del richiedente.
Ciò infatti condurrebbe inevitabilmente il nostro sistema in linea di collisione frontale con il diritto dell’Unione, imponendo sempre e comunque di derogare agli ordinari criteri di competenza e non dar mai corso ai trasferimenti, in flagrante contrasto con la stessa natura eccezionale della deroga rappresentata dalla clausola discrezionale.
Inoltre il giudice, quand’anche in siffatta situazione si risolvesse contra legem a sindacare il mancato esercizio della clausola discrezionale, nel silenzio della parte non disporrebbe di alcun elemento fattuale sulla cui base esprimere la valutazione circa la probabile spettanza della protezione complementare.
Queste considerazioni appaiono di per sé dirimenti.
23.3. Per altro verso, le conclusioni sulla non pertinenza delle questioni proposte con l’ordinanza interlocutoria non mutano, anche disattendendo la ricostruzione proposta dal Ministero ricorrente e, più sfumatamente, dal Procuratore Generale, e riconoscendo che possano ricorrere delle ipotesi in cui il diritto costituzionale di asilo riconosciuto dall’art. 10, comma 3, della Costituzione, nelle sue varie declinazioni attuative in termini di protezione complementare (peraltro varie volte modificate nel tempo, da ultimo nel 2018, poi nel 2020 e ancora nel 2023) garantisca un surplus, o, se si preferisce, un extra-margine di tutela rispetto a quella offerta dal diritto dell’Unione Europea e quindi dagli ordinamenti di tutti gli Stati membri.
Si è già detto che nel regime di fiducia reciproca gli Stati membri dell’Unione sono tenuti non solo a rispettare il sistema europeo di asilo attraverso il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, ma anche a prestare le garanzie fondamentali assicurate, tra l’altro, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalla Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951.
23.4. Infatti il concreto apprezzamento circa la sussistenza di una tale ipotesi, peraltro marginale, in cui il diritto europeo non offrirebbe una tutela da parte del giudice dello Stato membro di trasferimento corrispondente a quella garantita dalla protezione complementare italiana, non potrebbe prescindere dall’esame di un caso concreto e dal necessario raffronto con riferimento alla specifica situazione prospettata e allegata dal richiedente che ha impugnato il trasferimento tra il diverso – e in ipotesi maggiore – livello di protezione offerto dal sistema italiano e quello standard europeo.
Operazione assolutamente impraticabile nel caso in esame in cui queste ipotetiche ragioni non sono mai state allegate e quindi neppure potrebbero essere soppesate nella prospettiva delineata.
Neppure è sufficiente a tali fini il mero dato del passaggio del tempo, disancorato com’è dalla deduzione di qualsiasi elemento relativo alla vicenda personale del richiedente asilo.
- La Corte di Cassazione sollecitata all’interpretazione del diritto positivo anche nella sua massima espressione nomofilattica è pur sempre giudice di un caso concreto a cui il risultato interpretativo deve essere applicato.
Al di fuori dell’istituto di nuovo conio del rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.c., evidentemente estraneo alla fattispecie, la pronuncia nell’interesse della legge può essere richiesta dal Procuratore Generale per esprimere un principio di diritto a cui il giudice del merito avrebbe dovuto attenersi (e quindi astrattamente idoneo a regolare la fattispecie concreta) quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile.
Il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d’ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti (o anche solo uno specifico motivo: Sez. Un. 16601 del 17.5.2017) è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza.
Si è precisato, sia pur con riferimento al caso della richiesta da parte del Procuratore Generale ex art. 363, comma 1, c.p.c., che il procedimento per l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge, richiede la ricorrenza dei seguenti presupposti processuali:
l’avvenuta pronuncia di uno specifico provvedimento giurisdizionale non impugnato o non impugnabile né ricorribile per cassazione;
l’illegittimità del provvedimento stesso, quale indefettibile momento di collegamento ad una controversia concreta;
- c) un interesse della legge, quale interesse generale o trascendente quello delle parti, all’affermazione di un principio di diritto per l’importanza di una sua formulazione espressa.(Sez. Un. , 22.3.2023, n. 8268).
Nella fattispecie il ricorso per cassazione viene accolto e il giudice del merito non ha affrontato i temi proposti dall’ordinanza interlocutoria, tantomeno per esprimersi in contrasto con le tesi ivi svolte.
- Per i motivi esposti il decreto impugnato deve essere cassato con rinvio della causa al Tribunale di Firenze in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese processuali del giudizio di legittimità, che si atterrà al seguente principio di diritto: “Nel procedimento di impugnazione delle decisioni di trasferimento dei richiedenti asilo ex art. 27 del Regolamento UE n. 604 del 26.6.2013, nonché ex art. 3del D.Lgs. 28.1.2008 n. 25, e s.m.i. e ex art. 3, lettera e-bis del D.L. 17.2.2017 n. 13, convertito con modifiche in legge 13.4.2017 n. 46, il giudice adito non può esaminare se sussista un rischio, nello Stato membro richiesto, di una violazione del principio di non-refoulement al quale il richiedente protezione internazionale sarebbe esposto a seguito del suo trasferimento verso tale Stato membro, o in conseguenza di questo, sulla base di divergenze di opinioni in relazione all’interpretazione dei presupposti sostanziali della protezione internazionale, a meno che non constati l’esistenza, nello Stato membro richiesto, di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale.”
Occorre infine disporre che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.