Corte di Cassazione, Sez. VI penale, 11 marzo 2025, n. 9906
PRINCIPIO DI DIRITTO
La posizione di garanzia del datore di lavoro, sostanziantesi nell’obbligo di protezione da fattori di rischio per la loro incolumità personale di dipendenti, ospiti e terzi comunque presenti sul luogo di lavoro, non può estendersi al di là della sfera funzionale e logistica connessa all’attività professionale svolta, sicché, nel caso di eventi lesivi determinati dal concretizzarsi di fattori di rischio riguardanti un’area esterna al luogo di lavoro ed estranei alla sfera di dominio del predetto, non può configurarsi una sua responsabilità per colpa per non aver previsto, nel documento di valutazione dei rischi di cui al d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, tali fattori e non aver conseguentemente adottato adeguate misure di prevenzione.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
- Premessa: ordine e metodo espositivo. La eccezionalità dell’evento e la (pacifica) ricostruzione causale della vicenda.
Per ragioni di comodità espositiva, saranno di seguito trattate anzitutto le posizioni dei funzionari o, comunque, dei soggetti che rivestivano ruoli di responsabilità all’interno degli enti territoriali (Regione, Provincia e Comune), per poi passare a quelle del titolare della struttura alberghiera e dei suoi ausiliari, e concludere con il Prefetto ed i suoi funzionari, seguendo essenzialmente l’ordine delle imputazioni mosse dal Pubblico ministero.
Cenni sulle categorie di parte generale, ove coinvolte, saranno intercalati nella misura strettamente necessaria allo sviluppo della motivazione.
In tale prospettiva, si avverte che, nel caso di specie, non merita particolari riflessioni il tema della c.d. descrizione dell’evento.
Ferme le difficoltà insite nella caratterizzazione, a livello interpretativo, dell’evento hic et nunc – che si colloca a metà strada tra quello concreto (definito nella letteratura epistemologica event-token), come tale irripetibile, e quello astratto, appartenente alla tipologia dell’evento concreto (event-type) -, e pur essendo presenti a questa Corte i margini di fisiologica indeterminatezza del concetto di “classe di eventi”, la specificità del caso in oggetto non risiede soltanto nel luogo in cui cadde la massa nevosa (se nell’area, piuttosto che nel sito; se su un versante della montagna, piuttosto che sull’altro), ma anche, e soprattutto, nelle sue dimensioni eccezionali: la valanga abbattutasi sul canalone di R verso le ore 17.00 del giorno 18 gennaio 2017 fu di forza tale da determinare addirittura il trascinamento a valle della struttura in cemento armato per più di 40 metri (con un’area, al momento del distacco, stimata in circa 40.000 m2, un’area di accumulo di circa a 55.000 m2 e un volume di accumulo totale prossimo a 200.000 m3).
È, dunque, soprattutto tale straordinarietà l’elemento caratterizzante l’evento di specie. Oscurare le caratteristiche affatto peculiari di “quella” valanga equivarrebbe a rarefare il giudizio di responsabilità penale in termini non compatibili con le istanze costituzionali.
Deve inoltre fugarsi, sin d’ora, in via generale – con riferimento alla posizione di tutti gli imputati – ogni dubbio sul decorso causale nella ricostruzione delle premesse concernenti lo svolgimento naturalistico della vicenda.
Che, infatti, la morte di ventinove persone e le lesioni di altre nove siano state (con-)causate dalla valanga di cui si è detto non richiede precisazioni.
Dell’accertamento causale risultano pacificamente integrate entrambe le fasi, e cioè: la verifica del momento “regolarista”, vale a dire della plausibilità scientifica dell’ipotesi, che si basa, nel diritto penale, sulla probabilità statistica dell’evento, anche bassa; la successiva verifica della probabilità logica dell’evento (Sez. U. n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese, Rv. 222139), che deve essere, invece, vicina alla certezza: l’eventuale concorso del sisma nella causazione della valanga, cui si avrà modo di accennare nel corso della motivazione, configurando, al limite, una concausa, inidonea, come tale, ad integrare un fattore causale alternativo.
L’indagine che segue si concentrerà, dunque, sugli altri elementi del delitto colposo, e cioè essenzialmente sulla posizione di garanzia (trattandosi oltretutto di profili di responsabilità omissiva: art. 40, secondo comma, cod. pen.) e sulla colpa.
- La posizione dei dirigenti e funzionari della Regione Abruzzo (capi 1 e 2 dell’imputazione)
- Ammissibilità del ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello di L’Aquila.
Prima, tuttavia, di indagare la posizione giuridica dei dirigenti e funzionari della Regione, assolti nei due gradi del giudizio di merito, occorre chiarire, in risposta alle osservazioni difensive contenute nelle relative memorie, che il ricorso del Procuratore generale presso la Corte d’Appello di L’Aquila è ammissibile.
1.1. Del tutto infondate sono, infatti, le deduzioni volte a denunciare l’illeggibilità della firma in calce al ricorso.
A proposito dell’illeggibilità della sottoscrizione, da parte del giudice, dell’ordinanza cautelare, questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che tale illeggibilità non è causa di nullità dell’atto, rilevando, a tali fini, ai sensi dell’art. 292, comma 2, lett. e), cod. proc. pen., la sola mancanza del segno grafico e non, invece, l’impossibilità di immediata identificazione del suo autore, peraltro agevolmente individuabile dai registri tenuti presso la cancelleria (Sez. 6, n. 21182 del 08/05/2019, Salamone, Rv. 275685).
Tale conclusione deve ritenersi vieppiù valida se riferita all’atto di impugnazione della Procura, dei cui requisiti nulla è detto nel codice di rito, la ragione del silenzio legislativo risiedendo evidentemente nel fatto che a rilevare non è la persona fisica, bensì l’ufficio del Pubblico Ministero che essa impersona e rappresenta.
1.2. L’ammissibilità del ricorso nemmeno incontra lo sbarramento dell’art. 608, comma 1 -bis, cod. proc. pen., il quale esclude che, in caso di sentenza in appello che conferma quella di proscioglimento, il pubblico ministero possa proporre ricorso per Cassazione per vizio di motivazione.
Nel caso di specie, infatti, è vero che il Procuratore Generale della Corte di appello di L’Aquila deduce l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione quanto alla posizione degli imputati del Servizio di protezione civile della Regione.
Tuttavia, accanto al vizio di motivazione, eccepisce violazione della legge penale sostanziale.
Anticipando che la sentenza impugnata è realmente affetta da tale vizio sotto plurimi profili, innanzitutto, va chiarito che non si è al cospetto di un’ipotesi di motivazione assente o meramente apparente (ipotesi equiparata dalla giurisprudenza di questa Corte alla violazione di legge. Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246, sebbene con riferimento alle misure di prevenzione).
Gli innegabili profili di illogicità o contraddittorietà della motivazione rappresentano, piuttosto, il riflesso di errori che i Giudici di merito hanno compiuto nella lettura di “norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell’applicazione di legge penale” (art. 606, comma 1, lett. b cod. proc. pen.) e/o il precipitato di una non corretta ricostruzione delle categorie di parte generale del diritto penale sostanziale (posizione di garanzia, colpa ecc.).
Tali categorie non si prestano, d’altronde, a un’applicazione nei termini di “tutto o nulla” (secondo gli assunti della teoria dichiarativa dell’interpretazione, particolarmente fallace ove si abbia a che fare con la “parte generale” del diritto penale), ma impongono argomentazioni e quindi motivazioni che, se non irreprensibilmente svolte – secondo canoni testuali, ma anche in conformità a più duttili principi giuridici e alle regole del discorso pratico gius-penalistico – si trasfondono in vizi nell’applicazione della legge penale.
Di talché, in definitiva, particolarmente in questi casi, la distinzione tra le ipotesi di cui alla lett. b) e alla lett. d) dell’art. 606 cod. proc. pen. tende ad assottigliarsi.
- Minimi cenni sulla logica operativa della Protezione civile. La distinzione tra “eventi con preavviso” ed “eventi imprevisti”.
2.1. Ai fini dell’individuazione dei vizi nell’applicazione della legge penale che inficiano la sentenza di secondo grado, si impongono preliminari, brevissimi cenni sul funzionamento del sistema della protezione civile, con riguardo al rischio valanghe concretamente inveratosi.
Innanzitutto, è utile, a monte, differenziare i concetti di “pericolo” e di “rischio”.
Tali termini sono infatti usati spesso in modo interscambiabile nel gergo penalistico, ma possiedono un senso diverso nel contesto della normativa sulla protezione civile e, ancor prima, in un’autorevole letteratura sociologica: dove il pericolo si riferisce all’evento naturale; il rischio ai riverberi che il pericolo è suscettibile di avere su persone (o cose).
Il rischio è insomma connesso a “decisioni” umane e, pertanto, tendenzialmente contenibile in misura maggiore del pericolo, che mantiene una prevalente dimensione naturalistica.
A ben guardare, d’altronde, la differenza riflette il superamento del concetto di “fatalità” e la propensione delle moderne organizzazioni prevenzionistiche, declinate secondo un’ottica di solidarietà (art. 2 Cost.), se non a scongiurare la verificazione dei disastri naturali, quantomeno, ove possibile, ad azzerarne o, diversamente, a contenerne gli effetti su (cose e) persone (nei testi legislativi più recenti, come nel D.Lgs. 2 gennaio 2018, n. 1, c.d. Codice della protezione civile, non a caso si parla, oltre che di “previsione” e di “prevenzione”, anche di “mitigazione” del rischio).
Altra precisazione fondamentale ai fini dello sviluppo del discorso è che l’azione di previsione e prevenzione civile ben può diversamente modularsi in base alle specificità degli eventi naturalistici in sé considerati, e calibrare le cautele da assumere su tali peculiarità.
In linea generale, infatti, il funzionamento del sistema è ispirato ad un principio di c.d. sussidiarietà, in base al quale la prima risposta all’emergenza va garantita a livello locale, e cioè dal Comune, che è l’istituzione più vicina al cittadino (c.d. ente di prossimità), mentre soltanto quando l’evento non sia fronteggiabile con i mezzi a disposizione dello stesso, si mobilitano gli Enti dei livelli via via superiori, sino ad arrivare a quello centrale-governativo.
Tale principio, che da sempre governa la protezione civile, potrebbe indurre -e di fatto ha indotto i Giudici di merito, nel caso di specie – a concentrare l’attenzione sulle condotte degli Enti locali prossimi al disastro, distraendola, invece, da quelli più distanti.
Tuttavia, a prescindere dal fatto che al principio di sussidiarietà si accosta il “principio di integrazione” e che il modello della protezione civile – pluri-livello e policentrico – è sovente, non per nulla, definito anche “a geometria variabile”, per quanto in questa sede più interessa, va sin d’ora avvertito che non tutti i sottosistemi di protezione civile sono identicamente strutturati.
La disciplina legislativa non è necessariamente la stessa per ogni tipologia di disastro naturalistico e tale diversità – l’affermazione tornerà più volte nello svolgimento dell’argomentazione – si riflette per forza di cose sulla ricostruzione della responsabilità penale dei singoli, incidendo sull’assetto che le categorie di parte generale assumono nel confronto con ciascun caso concreto.
In tal senso, la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 4, n. 16029 del 28/02/2019, Briguglio, Rv. 275651, sull’alluvione di Genova del 2009) ha già conosciuto la distinzione tra “eventi con preavviso” ed “eventi imprevisti”.
I primi afferiscono a disastri la cui verificazione è preannunciata da segnali e/o si protrae nel tempo secondo vari gradi di progressivo approfondimento; i secondi sono, invece, eventi a realizzazione “istantanea” o “immediata”, non sono preceduti da segnali, non hanno né un “prima” né un “dopo”.
In relazione a questi (e cioè per i c.d. eventi imprevisti), nella prospettiva di un’efficace azione preventiva in sede legislativa ed amministrativa, si deve giocoforza puntare soprattutto su cautele da assumere anche molto tempo prima della verificazione dell’evento stesso, poiché soltanto in tal modo – vale a dire, mediante “azioni anticipate” – diviene possibile neutralizzare o diminuire il rischio per persone (o cose).
Va da sé che tali cautele saranno le stesse valorizzagli, poi, in sede giudiziaria penale, al momento dell’indagine sulla colpa degli imputati.
Di conseguenza, quando si abbia a che fare con eventi predicibili in sé – nel senso che non residuano incertezze sulla loro produzione causale – ma di cui non siano definibili momento o forma di manifestazione, occorre guardarsi dalla tentazione di assecondare la logica, ex post, del “capro espiatorio”, naturalmente radicata nell’interprete e stimolata dalla dimensione emotiva di larga parte del diritto penale (come nel caso di specie), e guardare, invece, alle coordinate teoriche dell’organizzazione delle strutture complesse, per comprendere se, e in quale misura, esse possano aiutare a decodificare ed analizzare le singole posizioni processuali degli imputati-persone fisiche cui la legge oppure il “contatto sociale” attribuisca funzioni e poteri specifici.
2.2. Ciò detto, la valanga che, abbattendosi sull’Hotel (Omissis), cagionò la morte di ventinove persone e il ferimento di altre nove fu un evento del tipo “imprevisto” o “istantaneo”.
Ne discende che la prevenzione “regina” per l’incolumità individuale e collettiva avrebbe dovuto attuarsi: non a disastro naturalistico inverato; non nel corso; nemmeno nell’imminenza della sua verificazione.
A prescindere da quanto sarà rilevato immediatamente di seguito a proposito del sistema legislativo all’epoca vigente, già per necessità logica, la cautela principale avrebbe cioè dovuto precedere di molto l’evento, e consistere nell’identificazione di R come sito valanghivo, in quanto tale classificazione avrebbe comportato il divieto di accedervi oppure di utilizzare le strutture in esso presenti ovvero ancora ne avrebbe imposto un uso disciplinato (limitato, per esempio, alle stagioni non invernali).
Era tale conclusione possibile?
- La legge regionale n. 47 del 1992. Caratteristiche del sistema di previsione e prevenzione delle valanghe.
Tale conclusione era possibile e anche dovuta.
La imponeva il sistema prevenzionistico tracciato dalla legge regionale 18 giugno 1992, n. 47, rimasto, salvo le precisazioni che seguiranno, ad oggi nella sostanza invariato (del quale si riferirà, per tale ragione, coniugando i verbi al presente) e quindi vigente anche al tempo dei fatti.
La legge, che sin dal suo esordio dichiara evocativamente il proprio intento di fissare “le procedure per l’accertamento dei pericoli e dei rischi da valanga sul territorio della Regione Abruzzo e (…) le norme per la salvaguardia della pubblica e privata incolumità” (art. 1) – disciplina analiticamente i passaggi per raggiungere l’obiettivo.
Si estrapolano dal testo i seguenti articoli essenziali.
L’art. 2 fa carico (comma 1) all’Amministrazione regionale di provvedere all’elaborazione della Carta della localizzazione delle aree che presentano pericoli potenziali di caduta di valanghe sulla base dei parametri predeterminati dal Comitato tecnico regionale per lo studio della neve e delle valanghe (d’ora in poi, CO.RE.NE.VA), istituito ai sensi dell’art. 4 della medesima legge, aggiungendo (comma 2) che la Carta suddetta ed i relativi aggiornamenti periodici sono approvati dalla Giunta regionale e notificati a ciascun Comune interessato come atto avente natura di primo indirizzo e di indicazione minima dei pericoli più probabili.
Sempre l’art. 2 (comma 3) prevede che, dal momento dell’avvenuta notifica della Carta di localizzazione dei pericoli da valanga (di seguito, CLPV), si applicano le misure di salvaguardia di cui al Tit. V della legge regionale 12 aprile 1983, n. 18, e dispone che nelle aree considerate dalla Carta come soggette a pericolo di valanghe, in attesa degli adempimenti previsti dalla medesima legge e fino all’espletamento degli stessi, sia “sospesa, a titolo cautelativo, l’edificazione nonché la realizzazione di impianti e infrastrutture ai fini residenziali, produttivi e di carattere industriale, artigianale, commerciale, turistico e agricolo nonché ogni nuovo uso delle aree che comporti rischio per la pubblica e privata incolumità”.
Si tratta di una disposizione significativa perché – al di là delle precisazioni che saranno svolte immediatamente di seguito – “dichiara” la funzione cautelare, se non addirittura (comprensibilmente) precauzionale, della CLPV.
L’art. 3 chiarisce che “alla predisposizione della Carta di localizzazione dei pericoli da valanga provvede il Servizio per la Protezione Civile, che si avvale della collaborazione dell’Ispettorato regionale delle foreste, degli Ispettorati Dipartimentali Provinciali e delle Strutture Territoriali dello Stato nonché dei Servizi del Genio Civile e delle Comunità Montane, secondo criteri e metodi preventivamente concordati” (comma 1), e dispone che l’attività relativa alla predisposizione della CLPV sia coordinata dal Comitato tecnico regionale per lo studio della neve e delle valanghe (CO.RE.NE.VA.), cui spetta anche il compito di formulare il parere di congruità sugli elaborati definitivi da sottoporre all’approvazione della Giunta regionale.
Sin d’ora, quindi, è utile evidenziare come il compito di redigere la CLPV sia chiaramente attribuito al Servizio di protezione civile della Regione – deve presumersi, perché in grado di attuare il miglior coordinamento -, e che il ruolo del CO.RE.NE.VA è sì importante, per l’alta specializzazione dell’organismo, ma concerne la valutazione, appunto, di aspetti tecnici, prevalentemente attuativi, il Comitato essendo di supporto al Servizio ed operando con funzione essenzialmente consultiva. Fungendo, dunque, da suo strumento.
Quanto ai contenuti e alle funzioni della CLPV, ancora dalla citata legge regionale si evince che tale Carta rappresenta, nel disegno del sistema di previsione e prevenzione civile dei rischi valanghivi, condizione essenziale e tuttavia da sola non sufficiente, poiché contiene mere informazioni di carattere generale, che necessitano di essere, in seconda battuta, affinate, ritagliate sulle singole situazioni locali, attraverso la redazione di successive Carte dei rischi locali di valanga (d’ora in poi, CRLV), la cui emanazione spetta anch’essa alla Regione su parere del CO.RE.NE.VA., specificamente volte (le CRLV) a prevenire danni a persone o cose (secondo la differenza tra “pericolo” di evento naturale e “rischio” di lesioni a persone e cose, in precedenza evocata).
Nella specie, l’art. 5 della legge regionale n. 47 del 1992 cit. dispone che le aree ricomprese nella CLPV siano successivamente e singolarmente esaminate, con i criteri e le procedure di cui all’art. 3, in modo analitico, attraverso la verifica e l’approfondimento di tutti gli elementi conoscitivi disponibili (storici, orografici, climatici e tecnico-scientifici), allo scopo di definire la “Carta dei rischi locali di valanga” con la determinazione, per ciascun’area, del livello di pericolosità e dei rischi relativi (la disposizione prescrive inoltre che, a tal fine, la Giunta regionale, su conforme parere del CO.RE.NE.VA., stabilisca preventivamente, tra l’altro, le priorità nell’esame delle aree per le quali si ipotizza una condizione di rischio più elevato, anche a seguito di segnalazioni pervenute da Pubbliche Amministrazioni).
Per completare il quadro normativo già all’epoca vigente, si consideri, infine, quanto segue.
Ai sensi dell’art. 6 legge regionale n. 47 del 1992 cit., l’analisi delle singole aree a rischio ne comporta l’inserimento o nelle aree di prima categoria, che presentano un livello di rischio permanente e non eliminabile (per tali aree si conferma il divieto di realizzare le opere o di consentire l’uso delle strutture, a meno che, per le specifiche caratteristiche dei manufatti e per il sistema di realizzazione, possano essere ritenute idonee ad evitare “totalmente” il rischio da valanga) oppure nelle aree di seconda categoria, che presentano un livello di rischio che può essere sufficientemente ridotto o eliminato con adeguate opere o interventi di prevenzione.
Il successivo art. 7 ammette che, in presenza di esigenze contingenti di carattere locale e in attesa dell’inclusione delle singole aree nelle due categorie di rischio indicate nell’art. 6, le Amministrazioni locali interessate possano procedere autonomamente, assumendo i relativi oneri ed avvalendosi della collaborazione di tecnici specializzati nella materia, ad elaborare uno studio tecnico analitico delle condizioni di rischio di un’area inclusa nella Carta regionale, nel rispetto delle prescrizioni di cui al comma 2 del precedente art. 5 (aggiungendo che tale studio è realizzabile anche a cura di privati, le cui conclusioni devono essere poi sottoposte sempre al CO.RE.NE.VA. e, in seguito, approvate dalla Giunta regionale).
Come si desume dal testo della disposizione, le amministrazioni comunali possono però muoversi soltanto all’interno di aree già incluse nella CLPV.
Questa rappresenta, pertanto, l’indispensabile base conoscitiva per qualsiasi successivo approfondimento, lo strumento essenziale all’attivazione e al funzionamento dell’intera l’organizzazione volta a prevedere e prevenire il rischio in questa materia.
L’analisi della disciplina normativa conferma, quindi, il ruolo cruciale della CLPV, di cui presuppone l’avvenuta emanazione.
Infine, si noti che sempre alla Regione è dalla legge attribuito il compito di procedere periodicamente, e comunque “almeno ogni cinque anni”, ad una generale ricognizione delle condizioni di rischio presenti nelle singole aree già esaminate, al fine di accertare il mancato intervento di variazioni tali da far modificare l’inclusione delle aree stesse in una delle due ipotizzate categorie di rischio, ovvero tali da determinare la loro eventuale esclusione dalle stesse categorie (indagine motivatamente sollecitabile dalle Amministrazioni locali interessate) (art. 9 legge regionale n. 47 del 1992 cit.).
- Garante, poteri impeditivi e poteri sollecitatori.
4.1. Sulla base di questo rapido excursus della normativa regionale abruzzese, già emerge nelle sentenze di merito un primo profilo di violazione della legge penale sostanziale.
La posizione di garanzia è stata negata in primo grado e riconosciuta in secondo grado: ma solo formalmente (e con motivazione ambigua).
Nella sentenza d’appello ne è, infatti, ravvisata la sussistenza in capo ai funzionari del Servizio di Protezione civile della Regione. Allo stesso tempo, però, si è escluso che costoro disponessero di poteri sollecitatori verso il CO.RE.NE.VA, il citato organo ad alta specializzazione tecnica cui, secondo la lettura che della legge regionale n. 47 del 1992 cit. hanno dato i Giudici di merito, sarebbe spettato il compito di fissare le “priorità” nella redazione della CLPV.
Tale impostazione non è condivisibile, né in astratto, né in concreto.
4.2. Non è corretta in astratto, dal punto di vista della teoria del reato, poiché non è possibile scindere concettualmente la posizione di garanzia dalla disponibilità di poteri impeditivi dell’evento, dal momento che, diversamente, si incorrerebbe in un’antinomia.
I poteri impeditivi – giuridici e materiali – rappresentano, infatti, il presupposto concettuale della posizione di garanzia e vanno riferiti alla produzione dell’evento (in questo caso: morti e lesioni) essendo inimmaginabile – se non a costo della suddetta insuperabile contraddizione logica o di una finzione giuridicamente inammissibile – un garante sguarnito del potere non soltanto giuridico, ma ancor prima materiale, di incidere sul decorso fattuale che conduce alla produzione dell’evento lesivo.
II diritto non può obbligare qualcuno a fare qualcosa che non può fare.
Ciò precisato, è, però, altrettanto ovvio che, soprattutto nelle strutture complesse, ove il garante non sia nelle condizioni di esercitare egli stesso, in prima persona, un dominio diretto sulle sequenze causali produttive dell’evento, egli possa e, anzi, debba esplicare il suo potere fattuale in modo indiretto, vale a dire organizzando, coordinando, dirigendo e, se del caso, sollecitando gli organi a ciò preposti, nel rispetto della catena dei ruoli e delle responsabilità dell’ente.
Senza – si noti – che ciò implichi alcuna semplicistica identificazione tra potere (materiale) impeditivo del garante e potere sollecitatorio, posto che quest’ultimo rappresenta, come detto, una mera manifestazione, una possibile modalità di esercizio del primo: insomma, una forma (insieme con altre) di gestione del rischio, all’interno di realtà pluricentriche.
A tali realtà si riferisce la copiosa giurisprudenza di questa Corte, citata anche nel provvedimento impugnato, secondo cui, in materia di reati omissivi colposi, all’obbligo giuridico di impedire l’evento deve accompagnarsi l’esistenza, in capo al garante, di poteri fattuali che possono concretizzarsi anche in obblighi diversi (per es. di natura sollecitatoria) e di minore efficacia rispetto a quelli specificamente diretti ad impedire il verificarsi dell’evento, purché consentano all’agente di attivare meccanismi idonei a tal fine (per tutte, Sez. 4, n. 9167 del 01/02/2018, Verity James, Rv. 273258).
Principio di diritto che va, dunque, ribadito.
Sempre su un piano astratto, da ciò discende che è errato negare – come ha fatto la Corte d’Appello – che i funzionari del Servizio della protezione civile della Regione Abruzzo dispongano di poteri sollecitatori ed escludere, al tempo stesso, la configurabilità, in capo agli stessi, di una posizione di garanzia, la quale si ridurrebbe, pertanto, a mero simulacro.
4.3. Sul piano concreto, nel caso di specie, a spendere tale principio di diritto, d’altronde, nemmeno deve giungersi, essendo revocabili in dubbio le premesse del ragionamento svolto dai Giudici dell’appello.
Infatti, come si evince dalla citata legge regionale n. 47 del 1992 cit., i poteri in questione erano ben configurabili in capo agli imputati del Servizio della Protezione civile regionale.
Questi avrebbero dovuto e, al tempo stesso, potuto elaborare la CLPV nonché la successiva CRLV: documenti, come si spiegherà anche successivamente, di innegabile rilievo – la seconda con carattere astrattamente predittivo del rischio (e della sua entità) – attraverso cui si sarebbe estrinsecato il potere impeditivo dell’evento.
All’uopo, salvo quanto dedotto da alcuni di essi (vd. di seguito), gli imputati erano normativamente dotati dei mezzi finanziari e di personale, ivi compreso il CO.RE.NE.VA che, in una prospettiva opposta a quella dedotta a livello difensivo ed erroneamente sposata dai Giudici di primo e secondo grado, era servile rispetto all’esercizio dei poteri/doveri della Regione (non viceversa).
La tesi secondo cui il Servizio di protezione civile regionale sarebbe stato succube del CO.RE.NE.VA è, infatti, contraddetta dal dato testuale della legge, che attribuisce all’organismo una funzione consultiva strumentale all’adempimento dei compiti che incombono sul primo.
Oltretutto, si dava parziale coincidenza nella composizione dei due organismi, dal momento che l’art. 4, comma 1, lett. a) e b) della legge regionale n. 47 del 1992 cit., nel disciplinare la composizione del CO.RE.NE.VA., dispone che ne facciano parte, tra gli altri, il dirigente del Servizio prevenzione dei rischi di protezione civile (o suo delegato), con funzioni di coordinamento del Comitato ed un rappresentante tecnico della Protezione civile regionale.
Il che priva in radice di fondamento l’affermazione della Corte di appello sulla mancanza di poteri sollecitatori in capo al Servizio di protezione regionale, essendo evidente che, se il Servizio di prevenzione dei rischi di protezione civile poteva coordinare, evidentemente poteva anche sollecitare il CO.RE.NE.VA di cui faceva oltretutto parte.
L’esito cui sono pervenuti i Giudici di merito sull’assenza di poteri sollecitatori in capo al Servizio della Protezione civile della Regione è, quindi, disceso da un’errata applicazione del testo della legge regionale – che è “altra norma giuridica, di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale”, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. -, oltre che da un’errata ricostruzione della figura della posizione di garanzia e, più in genere, da un controvertibile inquadramento giuridico del fatto nelle categorie del delitto colposo (vd. infra).
Dunque, come anticipato, da violazioni di legge.
- Servizio di protezione civile regionale e posizione di garanzia. Il titolare del dovere di diligenza.
5.1. Non c’è dubbio, infatti, alla luce di quanto riportato, che gli organi apicali del Servizio di Protezione civile della Regione Abruzzo rivestano una posizione di garanzia – specificamente, una posizione di protezione – la cui configurabilità è fondamentale in questa fase preliminare di valutazione sulla tipicità oggettiva dei reati contestati.
Quale che sia, infatti, la nozione di “posizione di garanzia” cui voglia adirsi, un ente – ogni ente – il quale svolga funzioni di protezione civile è, per eccellenza, “gestore del rischio” (Sez. U., n. 38343 del 18/09/2014, Espenhahn, Rv. 261106) su cui deve vigilare.
A tale conclusione si giunge ragionando: sulla base della (ormai, in sé, superata) teoria formale dell’obbligo giuridico (la fonte dell’obbligo essendo rinvenibile nei primi articoli della citata legge regionale); sulla base della concezione sostanziale (Garantenstellung), che individua su base fattuale i soggetti che si trovino rispetto ad altri in una posizione privilegiata, tale da materialmente consentire la tutela di beni che i loro titolari non possono difendere da soli (posizione di protezione) ovvero abbiano un rapporto qualificato con la fonte del rischio cui altri sia esposto (posizione di controllo); sulla base della teoria mista (per parte formale, per parte sostanziale), la quale cerca agganci normativi alla Garantenstellung, per mitigarne l’evanescenza applicativa, senza però snaturarne la ratio.
Ma a tale esito si giunge ricorrendo anche alle concezioni espressamente o implicitamente riconducibili alla c.d. teoria dei ruoli, tese a delimitare già a questo primo livello di indagine la tipicità del reato colposo, escludendo la responsabilità di coloro i cui compiti siano all’evidenza eccentrici rispetto alla tutela dei beni concretamente compromessi nel caso di specie.
5.2. All’interno di tale cornice teorica si colloca l’orientamento giurisprudenziale di legittimità ormai prevalente, che distingue tra “dovere di diligenza”, come situazione giuridica soggettiva che deve avere necessariamente una fonte giuridica (e che, quindi, si può chiosare, permette di individuare il soggetto attivo del reato), e “diligenza doverosa”, nozione invece riferita al contenuto della prima e che si sostanzia delle concrete modalità comportamentali – di fonte normativa giuridica o anche sociale – volte a soddisfare la prescrizione di astenersi da un agire imprudente o di agire in modo diligente (concetto che designa la colpa) (per tutte, Sez. 4, n. 32899 del 02/12/2020, dep. 2021, Castaldo, Rv. 281997, sul c.d. disastro di Viareggio; Sez. 4, n. 12478 del 19/11/2015, dep. 2016, Barberi, Rv. 267811, sul terremoto di L’Aquila).
È opportuno precisare che tale distinguo, da un lato, vuole dare compiuta attuazione al principio di personalità della responsabilità penale, invertendo definitivamente la tendenza, che prevaleva in passato, a desumere semplicisticamente la colpa dall’esistenza della posizione di garanzia.
Dall’altro lato e prima, nella misura in cui chiama il giudice ad operare una ricognizione del “dovere di diligenza” (diversa dalla ricognizione della “diligenza doverosa”), l’impostazione in esame sollecita “una accurata analisi delle diverse sfere di responsabilità gestionale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione”, allo scopo di operare la selezione dell’area del rimprovero penale già sul piano della tipicità oggettiva.
In tal senso, richiamando testualmente Sez. U. n. 38343 del 18/09/2014 cit. (e, già prima, Sez. 4, n. 49821 del 21/12/2012, Lovison, Rv. 254094), si esprime la già citata Sez. 4, n. 32899 del 02/12/2020, dep. 2021, Castaldo, cui si deve una preziosa “messa a punto” – sotto il profilo della collocazione nelle categorie della teoria del reato – dell’elaborazione giurisprudenziale pregressa (elaborazione che – osserva tale precedente – già valorizzava, per vero, le istanze tipizzanti, ma nell’ambito concettuale della causalità piuttosto che in quello, più pertinente, della posizione di garanzia).
Ciò premesso, l’individuazione del “titolare del dovere di protezione”, nel caso di specie, appare piana.
Si è già evidenziato come l’art. 3 legge regionale n. 47 del 1992 cit. statuisca: per un verso, che “alla predisposizione della Carta di localizzazione dei pericoli da valanga provvede il Servizio per la Protezione Civile” (comma 1); per altro verso, che la relativa attività “è coordinata dal Comitato tecnico regionale per lo studio della neve e delle valanghe CO.RE.NE.VA. disciplinato dal successivo art. 4, al quale compete anche il parere di congruità sugli elaborati definitivi da sottoporre alla approvazione della Giunta regionale” (comma 2).
Ora si aggiunge che l’art. 4, nel disegnare composizioni e funzioni -essenzialmente consultive – del CO.RE.NE.VA., al momento dei fatti, prevedeva che esso fosse istituito presso “la presidenza della Giunta regionale, Servizio per la Protezione civile” (oggi, a seguito, delle modifiche introdotte dall’art. 7, comma 1, legge regionale 30 novembre 2017, n. 57, “presso il Dipartimento regionale competente in materia di protezione civile”) e che del Servizio condividesse parte della sua composizione (è stato pure ricordato che del CO.RE.NE.VA facevano parte, tra gli altri, il dirigente del Servizio prevenzione dei rischi di protezione civile o un suo delegato, con funzioni di coordinamento del Comitato, e un rappresentante tecnico della protezione civile regionale).
Se, dunque, il CO.RE.NE.VA era (ed è) mero organo “di ausilio” della Regione (e non viceversa), peraltro istituito presso il Servizio per la protezione civile regionale (oggi, Dipartimento), trova avallo quanto già desumibile dal testo legislativo, e cioè che sul Servizio gravava l’obbligo di redigere la CLPV, da sottoporre alla successiva approvazione dell’organo politico (la Giunta regionale) la posizione dei cui rappresentanti pro tempore non risulta coinvolta nei giudizi di merito e che non verrà, quindi, in discussione in questa sede.
5.3. Un’ultima notazione, sollecitata dalle memorie degli imputati non ricorrenti del Servizio di protezione civile regionale, i quali propongono del dato legislativo una lettura volta ad escludere ogni competenza del Servizio stesso in favore della Giunta regionale, considerata titolare esclusivo del “dovere di diligenza” di cui si è detto.
Ribadita la necessità (non soltanto di distinguere tra posizione di garanzia e colpa, ma anche, e prima) di individuare le sfere di rischio in vista dell’incardinamento della posizione di garanzia e, per converso, pur nella consapevolezza dei margini di indeterminatezza della Garantestellung (come si dirà, tuttavia compensabili, in seconda battuta, attraverso un rigoroso accertamento della colpa), va d’altro canto contrastata la tentazione di definire in modo “atomizzante” il ruolo di ciascun garante.
Le stesse Sez. U. n. 38343 del 18/09/2014 cit. avvertono che occorre guardarsi dall'”idea ingenua, e foriera di fraintendimenti, che la sfera di responsabilità di ciascuno possa essere sempre definita e separata con una rigida linea di confine”.
Al di là delle difficoltà pratiche, selezionare tra le tante disposizioni legislative quelle funzionali a tale ruolo rischia: di rivelarsi un’operazione arbitraria, un cherry-picking; di trascurare l’ovvia considerazione che la specifica individuazione legislativa di compiti e poteri in capo a singoli soggetti può essere asservita a finalità diverse da quelle proprie del diritto penale (precipuamente teso alla protezione di beni giuridici) e non sempre ad esse riconducibili; di pretermettere come la scienza delle organizzazioni sempre più frequentemente parli della necessità che all’interno delle strutture si realizzino interazioni operative, evitando compartimentazioni stagnee, sulla base dell’assunto che “organizzazione” significa divisione dei compiti, ma anche coordinamento tra gli stessi (il concetto ha, cioè, un’inevitabile connotazione relazionale).
Sul tema si avrà modo di tornare.
Per ora si ribadisca che, al di là dell’impostazione che si reputi preferibile, non v’è dubbio che agli enti di protezione civile (intesi sia quali organi politici, sia quali articolazioni amministrative) spetti il compito di amministrare il rischio per l’incolumità personale e collettiva: in tal senso recitando la loro stessa denominazione; in ciò risiedendo la ratio della loro creazione, il loro scopo istituzionale; a ciò essendo funzionalizzati i poteri conferiti dalla legge, in un raro caso di tendenziale, immediata convergenza tra finalità amministrative e gius-penalistiche.
Ritenere il contrario, oltre a confliggere con il dato testuale, sarebbe, più a fondo, paradossale, in quanto negherebbe la ragione stessa dell’esistenza del sistema di previsione e prevenzione dei rischi a livello nazionale (legge 24 febbraio 1992, n. 225) e regionale (con specifico riferimento ai rischi da valanga e all’Abruzzo, legge regionale n. 47 del 1992 cit.).
Si conferma, dunque, che il richiamo ai citati sistemi normativi (all’epoca dei fatti non era ancora vigente il D.Lgs. n. 1 del 2018 cit.) è sufficiente ad incardinare sul piano anche formale, in capo agli imputati, l’obbligo giuridico di impedire l’evento (morte o lesioni), il cui fondamento resta però sostanziale, poiché attinge alla natura qualificata del rapporto che lega il titolare del bene giuridico esposto a rischio – in questo caso, vita ed incolumità personale, quanto all’omicidio e alle lesioni colpose, ed incolumità pubblica, quanto al disastro colposo – al soggetto messo nelle condizioni di meglio tutelarlo attraverso i poteri decisionali di intervento conferitigli dalla legge.
- Redazione della Carta di localizzazione del pericolo valanghe e colpa.
6.1. Venendo alla colpa, che rappresenta il secondo (e distinto) momento fondante la responsabilità penale, in astratto, essa sarebbe ovviamente ipotizzabile sia nella fase della prevenzione (competenze prevalentemente attribuite alla Regione), sia nella fase della gestione dell’emergenza (competenze prevalentemente attribuite al Comune, su cui infra).
Come anticipato, la selezione delle cautele rilevanti ai fini del giudizio penalistico colposo finisce, peraltro, con il dipendere dal tipo di disastro naturale che viene in considerazione e dalle sue concrete manifestazioni, dal momento che in rapporto ad alcune tipologie di pericolo, maggiore efficacia possono avere le precauzioni da assumere nell’imminenza o durante la verificazione dell’evento calamitoso, mentre per altre tipologie, maggiore se non esclusiva efficacia preventiva hanno invece cautele anticipate sul piano temporale.
Si comprende, allora, che, quando il pericolo riguardi la discesa di valanghe, gli organi decisionali della Regione, nonostante siano – ed anzi proprio perché sono – lontani dalle zone del territorio su cui può inverarsi tale evento naturale, possano essere fatti, dalla legge, destinatari privilegiati di obblighi di cautela afferenti ad una fase spiccatamente preventiva (invece, le competenze del Comune afferiscono soprattutto alla fase dell’emergenza, quando il pericolo stia per manifestarsi o si sia già manifestato, trattandosi di organismo che opera in loco e che quindi ha un contatto più diretto con la situazione calamitosa: v. infra).
Una cosa è, infatti, gestire l’emergenza in relazione a un evento naturale che si stia protraendo nel tempo (quando ci sono più ampi margini di manovra); altra cosa è gestirla in rapporto ad eventi naturali, per così dire, a consumazione istantanea (“eventi imprevisti”).
In tal caso, le cautele suscettibili di cogliere nel segno saranno solitamente quelle volte ad interdire l’emergenza stessa e si collocheranno, dunque, in una fase temporale “anticipata”.
Questa è appunto la logica preventiva cui si sono visti ispirare gli artt. 2 e 3 della legge regionale n. 47 del 1992 cit., là dove pongono l’obbligo di predisporre la CLPV: obbligo il cui adempimento rappresenta – nel caso di specie – il contenuto della regola cautelare violata rilevante ai fini dell’individuazione della colpa.
Se, infatti, nulla escludeva la possibilità di procedere per “stralci” (cioè, per priorità), muovendo da alcuni siti – percepiti come maggiormente esposti a rischio, anche per il loro grado di antropizzazione – piuttosto che da altri, la CLPV avrebbe dovuto pur sempre riguardare tutta l’area potenzialmente a rischio di valanghe: vale a dire l’intero territorio montuoso abruzzese (altro spazio interpretativo delle disposizioni in oggetto non dandosi, per le ragioni in precedenza indicate).
Una siffatta conclusione, nelle sentenze di merito, è stata però interdetta da un’erronea lettura della legge regionale n. 47 del 1992 cit., che ha subordinato l’attivazione della cautela doverosa all’iniziativa del CO.RE.NE.VA, ergendo quest’ultimo dalla sua posizione ancillare a dominus assoluto, soggetto giuridico cui si è ritenuto fosse stata demandata “l’ultima parola” sul “se”, oltre che sul “come” (la scelta delle priorità) procedere alla redazione della CLPV.
Ecco ricorrere, dunque, un ulteriore profilo di violazione di legge: anche qui, precisamente, di “norma giuridica di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale” (art. 606, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.).
6.2. Sul punto, una specificazione incidentale.
La Corte d’Appello, nell’escludere la responsabilità dei funzionari della Regione, ha argomentato dalla legge regionale 30 agosto 2017, n. 47 (Disposizioni in materia di Protezione Civile e modifiche alle LL.RR. 40/2004 e 42/2016), varata dopo la tragedia di R.
Ha ritenuto che tale provvedimento avesse modificato l’art. 2, comma 1, della legge regionale n. 47 del 1992 cit., il quale – come ricordato – prevedeva l’elaborazione della CLPV nelle aree che presentano pericoli potenziali di caduta di valanghe sulla base dei parametri predeterminati dal CO.RE.NE.VA.
In realtà, la legge regionale n. 47 del 2017 cit. non ha innovato la disciplina già vigente, rimasta tal quale era, ma si è limitata a dettare le “Disposizioni finanziarie per la realizzazione della Carta per la localizzazione dei pericoli da valanghe”, operando un (cospicuo) stanziamento di bilancio (1.300.000 euro) e precisando ciò che era già logicamente inferibile prima della sua approvazione, e cioè che la CLPV dovesse riguardare tutto il territorio regionale, purché -ovviamente – montano (“situato al di sopra dei 1.000 m. slm e con pendenza non inferiore a 25 gradi”).
Se la novella legislativa testimonia senz’altro una maggiore attenzione per il rischio-valanghe, come spesso accade a tragedie inveratesi, essa non modifica le linee essenziali del sistema né muta ovviamente il dato che, nel caso di specie, ai primi “stralci” non fecero seguito altri, in modo da coprire ogni area montuosa, come avrebbe dovuto essere.
Incidentalmente, neppure interessa che la decisione di procedere per “priorità” fosse, nei fatti, partita dal CO.RE.NE.VA: essa fu fatta propria dal Servizio di protezione civile (rispetto al quale il Comitato era in posizione funzionale) che era il decisore per legge e che, come più volte sottolineato, avrebbe dovuto dare attuazione al disposto legislativo anche con riferimento alle altre zone montuose, compresa R.
Il concetto di priorità è infatti relazionale e suppone, come un “prima”, così anche un “dopo” che – nel caso di specie – non ci fu.
6.3. Concludendo su questo punto, è nel non aver provveduto – non interessa se stralcio dopo stralcio o in modo contestuale – alla redazione della CLPV per l’intero territorio montuoso abruzzese che risiede la violazione della cautela.
Come sarà precisato, tale violazione integra il secondo grado della tipicità -questa volta, soggettiva – dei reati di omicidio, lesione e disastro colposi.
- Precisazione sui tempi di redazione della CLPV.
Ora, è vero che – come eccepito nelle memorie di molti imputati – già solo la redazione della CLPV (in disparte, cioè, quella degli strumenti successivi) avrebbe impegnato un lungo periodo di tempo (più di quattro anni).
È anche vero che la scelta dei bacini sciistici (Gran Sasso Aquilano; Gran Sasso Teramano; Rivisondoli/Monte Pratello; Scanno/Colle Rotondo; Ovindoli/Monte Magnolia; Campo di Giove/Monte Porrara; Aremogna) quali “priorità” per le quali procedere con il primo stralcio della CLPV non va necessariamente intesa in chiave “economico-opportunista”, e che soltanto una lettura aprioristicamente colpevolizzante porterebbe ad ascrivere la preferenza assegnata a certi siti alla loro ritenuta maggiore redditività per il turismo, tale scelta ben potendo spiegarsi alla luce del maggior grado di antropizzazione dei bacini sciistici.
Resta però il dato che l’inerzia della Regione si prolungò per un amplissimo lasso temporale, e cioè per ben venticinque anni: dal 1992 al momento della tragedia (la Regione cominciò a redigere la CLPV soltanto a disastro avvenuto, per concluderla nel 2021).
Di conseguenza, il protrarsi per tanto tempo di tale inerzia rende innegabile la violazione della cautela doverosa prevista dal legislatore in capo alla Regione.
- Precisazione sul ruolo e sull’importanza della CLPV.
Nemmeno può dubitarsi della prioritaria importanza della CLPV nella prospettiva della prevenzione dell’evento.
Al tema si è già in più punti accennato, ma vale la pena tornarvi per ragioni di chiarezza espositiva.
Come emerge dalla sentenza, la CLPV è elaborata alla Scala di 1:25.000; ogni stralcio copre circa 100 km2 di territorio.
Essa fornisce, dunque, un’informazione di carattere generale che va poi adeguatamente affinata sulle singole situazioni.
Di conseguenza, la CLPV non ha diretta efficacia predittiva dell’evento-valanga. All’uopo, si ribadisce come la legge regionale n. 47 del 1992 cit. preveda che sempre la Regione redigesse successive Carte di rischi locali di valanga (CRLV) atte a mappare con maggiore precisione il territorio e, queste sì, dotate di efficacia predittiva, sebbene astratta.
Si apprende, poi, dalle pronunce di merito che, nella prassi, la redazione della CRLV presuppone il Piano zone esposte a valanghe (di seguito, PZEV), strumento che consente una mappatura del pericolo, ricorrendo a sofisticati modelli matematici e statistici.
Tutto ciò precisato, né PZEV, né CRLV sono però realizzabili in assenza di CLPV.
Questa, essendo prodromica e funzionale all’adozione di tali altri strumenti di prevenzione (oltretutto rientranti nella competenza della stessa Regione), si conferma, dunque, il momento fondante ed essenziale della prevenzione in materia di valanghe.
Venendo al caso di specie, dunque, senza CLPV non si poterono attivare i meccanismi volti a neutralizzare o ridurre il rischio (sul punto, si richiama incidentalmente il vecchio insegnamento per cui se, talvolta, la regola cautelare è tesa a neutralizzare il rischio, nella massima parte dei casi, mira a contenerlo, l’azzeramento del rischio conseguendo con certezza al solo divieto assoluto di svolgere l’attività e raramente alla sua disciplina).
La mancata redazione della CLPV incise, quindi, precludendola, sull’attuazione e poi sull’attivazione dei successivi meccanismi di previsione e prevenzione del rischio, dal momento che bloccò la catena della protezione proprio nei suoi passaggi più significativi.
Di più, vale la pena di ribadire anche in questa sede come sia la stessa legge regionale, per il caso in cui la CLPV identifichi un grave rischio nell’ambito del territorio, a far discendere effetti addirittura immediati sulle cautele da attuare (attraverso la sospensione, a titolo cautelativo, dell’edificazione nonché della realizzazione di impianti e infrastrutture ai fini, tra gli altri, turistici, nonché di ogni nuovo uso delle aree che comporti rischio per la pubblica e privata incolumità: art. 2, comma 3): a prescindere, cioè, dalla realizzazione della CRLV.
Ed è il caso di notare che tale disposizione conferma, anche sotto questo profilo, l’assoluta centralità che il legislatore ha inteso assegnare allo strumento nel sistema della prevenzione dei danni da valanga.
- Mancata adozione della CLPV e colpa specifica.
9.1. Tirando le fila del discorso, il mancato rispetto della cautela positivizzata negli artt. 3 e 5 legge regionale n. 47 del 1992 cit., nel caso di specie, integra il giudizio sulla colpa specifica.
A parte ogni speculazione sui rapporti con la colpa generica, quella specifica storicamente nacque come forma di accertamento semplificato perché in essa il legislatore reputa, a monte, empiricamente verificata l’idoneità preventiva delle cautele.
La regola positivizzata che surroga la prevedibilità dell’evento da parte di un agente modello, tipica della colpa generica, rappresenta, cioè, il frutto di un giudizio fondato sulla sedimentazione per via di “ripetizione” sociale della cautela e/o di un giudizio condotto su base scientifica. Il che accade – come nel caso che qui interessa – negli ambiti in cui la predicibilità dell’evento sia decodificabile attraverso conoscenze appartenenti a domini specialistici e di cui l’uomo comune non dispone.
Ciò spiega perché, a fronte della crescente complessità tecnica e sociale della realtà e del graduale affinamento dei sistemi prevenzionistici in senso lato, si stia da tempo assistendo ad una progressiva espansione della disciplina normativa positivizzata, e la colpa specifica stia conseguentemente erodendo spazi un tempo occupati dalla colpa generica.
Il processo, con ogni probabilità inarrestabile, implica perdite in termini di personalizzazione del giudizio sulla responsabilità penale, a fronte, però, di un (quantomeno promesso) guadagno in chiave di maggior certezza.
E, d’altronde, il modello della colpa specifica mostra un’utilità particolare in contesti in cui non sia possibile confidare nella c.d. percepibilità del pericolo, situazione para-psicologica suscettibile di scattare in presenza di alert, perché l’evento naturale (qui, la valanga) ha caratteristiche che rendono difficile prevederne non tanto l’an, quanto il quando e il quomodo.
9.2. Ebbene, nella situazione di specie, ricorrono tutte le condizioni per un piano accertamento della colpa specifica. Anzi, quello presente sembra un caso addirittura scolastico.
In primo luogo, la cautela violata (l’attivazione degli strumenti per la rilevazione prima del pericolo e poi del rischio) aveva un’univoca finalizzazione preventiva, in quanto mirava specificamente – sebbene in via prodromica – ad evitare danni a (cose) e persone derivanti da eventi valanghivi.
In secondo luogo, la regola cautelare violata era modale, ovvero forniva indicazioni dettagliate, analitiche e procedimentalizzate volte a conseguire tale risultato (addirittura, con riferimento alla CRLV, l’art. 5 legge regionale n. 47/1992 cit. richiama la verifica e l’approfondimento di tutti gli elementi conoscitivi disponibili – storici, orografici, climatici e tecnico-scientifici -, imponendo la determinazione, per ciascun’area, del livello di pericolosità e dei rischi relativi), senza escludere la possibilità di ricorrere all’etero-specificazione del precetto (si pensi al richiamo alle delibere del CO.RE.NE.VA o alla redazione dei PZEV, sofisticati strumenti a base matematico-statistica, non disciplinati a livello legislativo e tuttavia diffusi nella prassi).
In terzo luogo, vi è stata concretizzazione del rischio (che, nella colpa specifica, sostituisce il giudizio sulla prevenibilità dell’evento tipico della colpa generica), dal momento che il danno inveratosi – morti e lesioni – fu proprio del tipo di quelli che la norma violata mirava a prevenire.
Infine, positivamente esperibile è il giudizio sulla c.d. causalità della colpa, sussistendo un’elevata probabilità logica che la condotta alternativa lecita (ovvero l’adozione della CLPV) avrebbe evitato l’evento. Infatti, dall’accertamento compiuto nei due giudizi di merito, le cui risultanze sono trasfuse nella sentenza impugnata, è emerso che, ove la CLPV fosse stata emanata, con ragionevole certezza, avrebbe compreso il sito di R, come dimostrato dal fatto che, quando fu infine redatta (nel 2021), la Carta effettivamente lo incluse.
Pertanto, ove la CLPV fosse stata redatta, sarebbe stata compilata e divulgata anche la successiva CRLV, il che implica che non sarebbero stati concessi i permessi a ristrutturare l’albergo (creando un centro congressi e una Spa), tra il 2006 e il 2007, o che si sarebbero comunque introdotte misure volte a scongiurare il rischio, come il divieto di utilizzazione della struttura nei mesi invernali, che sono quelli interessati dal pericolo di valanghe.
Ad ogni modo, l’identificazione di R tra i siti valanghivi avrebbe consentito, o almeno reso più agevole, anche per gli organi di protezione civile diversi dalla Regione, la percezione del pericolo in condizioni metereologiche avverse, spingendoli ad attivarsi e ad adottare le misure atte a contenere il rischio per le persone che si trovavano nell’albergo (si rinvia a quanto sarà osservato infra, con riferimento alla posizione del Sindaco).
- La cooperazione di persone nel reato colposo.
10.1. Ribadita la sicura configurabilità, nel caso di specie, della violazione della cautela doverosa da parte del Servizio di Protezione civile regionale, va precisato che, differentemente da ciò che sembra affermare il Procuratore Generale ricorrente, non per questo la responsabilità può essere indiscriminatamente ascritta a tutti i funzionari che ne fecero parte e per il sol fatto che ne fecero parte.
Il principio di personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.), già sul piano oggettivo (nella sua primordiale accezione di “divieto di responsabilità per fatto altrui”) e poi su quello soggettivo (inteso, cioè, come principio di colpevolezza), osta a tale conclusione, imponendo una cauta ed attenta verifica individualizzata, che eviti – mutuando il lessico di una dottrina – un’impropria idealizzazione dei poteri impeditivi, una traslazione di meta-competenze e macropoteri dall’organizzazione a colui che pro tempore vi ha svolto un ruolo e, in ultima analisi, l’automatica identificazione tra colpa di organizzazione (legislativamente riferita agli enti dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231) e colpa dell’organizzatore (individuo-persona fisica).
In altri termini, chiama l’interprete a vagliare con rigore le singole posizioni, entrando nel merito di ciascuna.
Il giudice deve, cioè, evitare scorciatoie argomentative, rifuggire le suggestioni del “tipo di autore colposo” e considerare se la condotta di ciascun funzionario imputato, in relazione, per esempio, al ruolo rivestito ed al tempo per il quale lo rivestì, nonché alla luce dei comportamenti concretamente tenuti, fosse inottemperante, e quindi suscettibile di integrare il rimprovero penale colposo, che consiste nella mancata eliminazione o riduzione di rischi fattuali.
Nessuna responsabilità va invece ascritta là dove la condotta conforme a dovere, sebbene perseguita, non potè essere realizzata per impedimenti esterni, non riconducibili alla volontà dell’individuo, né da questi ovviabili attraverso il rigoroso adempimento dei propri doveri (v. infra).
10.2. Ciò premesso, è opportuno rispondere alle osservazioni, ricorrenti nelle memorie difensive, sui tempi che sarebbero serviti per realizzare la CLPV: tempi che – si eccepisce – avrebbero trasceso il periodo in cui gli imputati lavorarono presso il Servizio di protezione civile regionale, con la conseguenza che – si sostiene – risulterebbe comunque insussistente il nesso causale tra l’evento e la condotta inottemperante.
Tale conclusione è preclusa dalla disciplina sulla cooperazione colposa che, per quanto possa apparire – e sia spesso denunciata in dottrina come – obsoleta nel confronto con le organizzazioni contemporanee, consente di pervenire a soluzioni equilibrate, bilanciando le esigenze di personalizzazione della responsabilità penale con quelle politico-criminali legate al non corretto operato di strutture policentriche, segnate da un’inevitabile frammentazione decisionale a livello sia sincronico sia diacronico.
Il testo dell’art. 113 cod. pen. richiede, infatti, che l’evento sia “stato cagionato dalla cooperazione di più persone”.
Dovendo rappresentare il prodotto causale dell’interazione di plurimi soggetti, basta dunque che questi pongano in essere anche solo “pezzi”, “parti”, “frammenti” – purché significativi nel senso precisato, e salvo quanto di seguito osservato sull’elemento soggettivo – dell’antecedente che ha condotto al risultato finale (la disposizione spiega, quindi, una funzione incriminatrice anche in rapporto a delitti colposi di evento in forma libera).
Specularmente, a differenza che nel c.d. concorso di cause colpose indipendenti, nella cooperazione colposa non occorre che l’evento sia riconducibile dal punto di vista causale ad ogni singola condotta; non si richiede cioè che, senza tale condotta, l’evento non si sarebbe verificato affatto, essendo piuttosto sufficiente che ciascun comportamento, seppure realizzato in momenti diversi rispetto ad altri, abbia avuto rilievo eziologico sulla produzione dell’evento concreto, nel senso che, senza di esso, questo avrebbe presentato caratteristiche (significativamente) diverse da quelle in effetti assunte.
Il che implica – sul piano della tipicità oggettiva – che condotta di partecipazione rilevante può essere anche quella che ha avuto valore condizionante in rapporto alla condotta di altro concorrente.
Tale soluzione si spiega alla luce dei principi generali e trova conforto, sul piano empirico, nella peculiarità del fenomeno interattivo colposo, in quanto “l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio giustifica la penale rilevanza di condotte che, come si è accennato, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano, si compenetrano con altre condotte tipiche” (Sez. U. n. 38343 del 24/04/2014, Espentoahn, cit.).
Passando quindi brevemente all’elemento soggettivo dell’art. 113 cod. pen., si ricorda come, ai fini della cooperazione colposa, la giurisprudenza di questa Corte reputi sufficiente la consapevolezza negli imputati di concorrere al fatto materiale altrui, quale discende appunto dal coinvolgimento integrato di più soggetti, imposto dalla legge e comunque dalle – più volte evocate, nel caso di specie – esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio (ex multis, oltre a Sez. U. n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, cit., v. Sez. 4, n. 22214 del 12/04/2019, Scidone, Rv. 276685, sull’alluvione di Genova nel 2011; l’insegnamento risale peraltro quantomeno a Sez. 4, n. 43083 del 03/10/2013, Redondi, Rv. 257197; Sez. 4, n. 36280 del 21/06/2012, Forlani, Rv. 253566; Sez. 4, n. 1786 del 02/12/2008, dep. 2009, Tomaccio, Rv. 242566). E si conclude notando, incidentalmente, che ad analoga conclusione si perverrebbe in base alla diversa e più rigorosa tesi, di matrice dottrinale, che esige la consapevolezza altresì del carattere colposo dell’altrui condotta, là dove, come emerge anche dalle memorie di alcuni imputati, risulti che costoro sapessero dell’inadempimento dei loro predecessori agli obblighi della legge regionale n. 47 del 1992 cit.
- La manifesta infondatezza della questione di legittimità della legge regionale n. 47 del 1992 per contrasto con gli artt. 118 e 81, comma 3, Cost.
La dedotta scarsezza di personale e di risorse e i profili di eventuale inesigibilità della condotta conforme a dovere.
11.1. Ulteriormente approfondendo il discorso, deve darsi atto del fatto che nelle memorie presentate dagli imputati della Regione è stato opposto anche lo stato di deprivazione in cui versava l’Ufficio della prevenzione civile regionale: privo di mezzi economici e sguarnito di personale; pertanto – si deduce -impossibilitato a redigere la CLPV, la cui compilazione avrebbe impiegato tempo e risorse (umane e materiali) inesistenti.
L’imputato B.B. – in subordine al mancato accoglimento della tesi secondo cui il compito di redigere la CLPV sarebbe gravato sulla Giunta Regionale e non sugli organi amministrativi (tesi, come visto, destituita di fondamento normativo, nella sua assolutezza) – ha pure chiesto a questa Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1, e 3, commi 2 e 4, legge regionale n. 47 del 1992 cit., per violazione sopravvenuta dell’art. 118 Cost., sul principio di adeguatezza dell’ente, e per violazione originaria dell’art. 81, comma 3, Cost., non essendo state nella legge regionale n. 47 del 1992 cit. stanziate le specifiche poste di bilancio necessarie allo svolgimento dei compiti assegnati dall’ufficio.
La questione è manifestamente infondata.
Vero è che l’obbligo di copertura finanziaria si estende alle Regioni, come da tempo stabilito dalla Corte costituzionale (sin da Corte cost. sentt. nn. 9 e 54 del 1958).
Tale obbligo risulta, però, rispettato nel caso di specie, in cui l’art. 22 della più volte citata legge regionale n. 47 del 1992 cit. (rubricata: Norma organizzativa) prevedeva: “Nell’ambito del Servizio Protezione Civile, è istituita la Unità Operativa “Neve e Valanghe” con il compito di curare gli adempimenti organizzativi, amministrativi e tecnici, concernenti le applicazioni della presente legge” (comma 1), ed aggiungeva (comma 3) che “per il suo funzionamento l’Unità Operativa “Neve e Valanghe” si avvale del personale già assegnato al Servizio Protezione Civile, nonché di altre dotazioni integrative (n. 1 Funzionario Ingegnere (FI) Vili qualifica funzionale; n. 1 Istruttore Direttivo Ingegnere (SI) VII qualifica funzionale; n. 1 Istruttore Geometra Topografi (IGT) VI qualifica funzionale”, mentre l’art. 23 (Norma finanziaria) prevedeva i fondi con cui far fronte agli oneri derivanti dal funzionamento del CO.RE.NE.VA e all’applicazione della legge.
11.2. Altro problema, di fatto e come tale non rientrante nella competenza di questa Corte, è se tale organizzazione di personale fosse stata attuata, nonché se essa come pure le somme stanziate fossero sufficienti a far fronte agli adempimenti doverosi.
Dal punto di vista della costruzione teorica, il Collegio è consapevole che il “paniere” penalistico delle opzioni è ampio (gli imputati hanno cercato di fare retroagire l’analisi addirittura al momento della verifica sulla tipicità oggettiva; sia in giurisprudenza, sia in dottrina, giudizi siffatti si trovano talvolta espressi a proposito della colpa) e che qualunque scelta interpretativa rappresenta il frutto di semplificazioni invariabilmente opinabili.
Tuttavia, ritiene che la soluzione vada preferibilmente cercata in chiave di esigibilità/inesigibilità.
La categoria dell’esigibilità, che denota la rimproverabilità ed integra, quindi, la colpevolezza (in senso normativo) del reo, quale ultimo momento del reato, si sta infatti gradualmente facendo strada nella giurisprudenza di questa Corte, perché ha il merito di esternare una crescente attenzione per i profili, costituzionalmente rilevanti, della personalità della responsabilità penale.
Soprattutto, la scelta per cui si è espressa preferenza consentirebbe di sequenziare i diversi passaggi del giudizio, attuando una partizione suscettibile di assicurare un tendenziale maggior rigore interpretativo, presupponendo sia stato positivamente esperito il giudizio (dapprima, sulla posizione di garanzia e sul “dovere di diligenza”, quindi) sulla colpa, come pacificamente accade nel caso di specie.
Ciò nondimeno, non ci si nasconde che la valutazione sull’esigibilità della condotta conforme a dovere, proprio in ragione dell’individualizzazione del rimprovero che comporta, è molto delicata perché comporta inevitabili margini di discrezionalità, e sollecita, dunque, i giudici di merito a svolgerla con un’attenzione affatto particolare.
Sia quindi consentito svolgere riflessioni aggiuntive.
Quand’anche i giudici del rinvio pervengano a ritenere che gli imputati non erano in grado di ottemperare alla condotta doverosa a causa delle circostanze di contesto fattuale, non potranno esimersi dal ricostruire i meccanismi che portano in concreto – e cioè a prescindere dalle previsioni sullo stanziamento in bilancio -ad attribuire alle articolazioni amministrative le dotazioni di organico e le somme necessarie per adempiere ai compiti istituzionali, essendo ragionevole supporre, salvo prova del contrario, che gli organi politici, al di là del perseguimento di scopi strategici, nella gestione delle attività legislativamente previste, agiscano su sollecitazione e in raccordo con le amministrazioni: le uniche ad avere il “polso della situazione” e, pertanto, le sole in grado di mettere a fuoco ed evidenziare, denunciandoli, deficit e lacune operative, anche sopravvenute, del sistema.
La valutazione andrebbe cioè svolta anche alla luce di quanto in precedenza accennato (e brevemente sviluppato infra, a proposito dei funzionari della Provincia) sull’interazione che in organizzazioni complesse – qual è la Protezione civile – è necessario si instaurino tra soggetti pur dotati di diversi ruoli ed operanti a vari livelli (nel caso di specie, politico ed amministrativo), le cui attività devono, però, comunque convergere verso la realizzazione di un interesse del pubblico (che rappresenta la ragion d’essere del Servizio).
Trattandosi di soggetti tenuti a raccordi e scambi informativi, i giudici di merito dovranno, in altre parole, ricostruire le iniziative interlocutorie degli imputati, avendo anche in questo caso riguardo ai ruoli, al tempo per cui tali ruoli furono rivestiti e alle condotte di ciascuno, per verificare ed eventualmente graduare il rimprovero conseguente all’eventuale inerzia di ciascuno.
Con riflessi anche sulla determinazione del trattamento sanzionatorio.
- Conclusioni.
Per le ragioni espresse, la sentenza va annullata in relazione ai capi 1) (disastro colposo) e 2) (omicidio e lesioni colpose), con rinvio ai giudici dell’appello per nuovo giudizio sulla posizione dei singoli imputati, da svolgere nel rispetto dei principi di diritto e secondo le coordinate sopra enunciate.
III. La posizione dei dirigenti della Provincia di P (capo 13 dell’imputazione).
- La posizione di garanzia dei ricorrenti.
1.1. Passando a considerare la posizione dei dirigenti della Provincia di P, va ricordato come il Giudice dell’udienza preliminare avesse operato un’ampia ricostruzione – recepita da quello d’appello – delle competenze residuate in capo alla Provincia, dopo la redistribuzione operata con la legge 7 aprile 2014, n. 56 (ed. Legge Delrio), che trovò attuazione nella legge regionale 20 ottobre 2015 n. 32, recante “Disposizioni per il riordino delle funzioni amministrative delle Province in attuazione della Legge 56/2014”.
Per quanto di interesse, si concluse che, a seguito di tali interventi normativi, la Provincia avesse cessato di essere ente di protezione civile (qual era, invece, in virtù della legge 24 febbraio 1982, n. 225, sull’istituzione del Servizio di protezione civile statale), e che rimase titolare soltanto di competenze in tema di viabilità con riferimento alle strade provinciali.
Tra tali strade provinciali rientra la SP (Omissis), che rappresentava l’unica via per accedere all’Hotel (Omissis) ed anche l’unica via per allontanarsi da esso.
1.2. Ciò premesso, è preliminare sciogliere un nodo teorico, in risposta alle puntuali deduzioni degli imputati S.S. e T.T., rispettivamente dirigente e responsabile del Servizio viabilità della Provincia di P.
Costoro eccepiscono che la veste di dirigenti/responsabili della viabilità provinciale non consentiva indebite assimilazioni alle competenze di protezione civile, e che implicava compiti inerenti alla sicurezza – dunque alla tutela dell’incolumità personale -, in relazione al solo percorso della strada provinciale, esulando, invece, da tale ruolo la gestione del rischio valanghivo.
Quindi, hanno revocato in dubbio la configurabilità di una posizione di garanzia.
1.3. Le premesse normative di tali deduzioni sono affatto condivisibili; non altrettanto le conclusioni.
Si potrebbe replicare che, come emerge dal quadro ricostruttivo operato nella sentenza impugnata, le Province sono tenute a cooperare con gli enti di protezione civile in determinate situazioni, sicché comunque potrebbero acquisire, in fatto e in presenza delle necessarie condizioni, obblighi di protezione rispetto al rischio valanghe. Ma non sarebbe questo il caso.
Non è, cioè, necessario supporre obblighi di protezione rispetto al rischio valanghe, essendo, per contro, sufficiente ipotizzare una posizione di controllo sul rischio inerente alla circolazione stradale, derivante dalle citate specifiche competenze residuate per legge.
Valga quanto in precedenza illustrato, a proposito delle Regioni, sui confini concettuali della categoria del garante.
Se, invero, in alcuni casi, l’evento risulta ictu oculi eccentrico rispetto all’area di rischio che l’agente dovrebbe gestire – ed allora è ovviamente doveroso escludere che sia garante chi non rivesta il ruolo preposto a tale gestione – , tali casi non esauriscono lo spettro concettuale delle situazioni possibili.
Si è già accennato alle ragioni per cui non si condivide la pretesa di scomporre in modo troppo meticoloso i ruoli di ciascuna figura di riferimento, sulla base di aree di rischio il cui inveramento è verificabile soltanto ex post.
Si aggiunga, ora, che soltanto la colpa – categoria per natura “relazionale” -è in grado di modellarsi sull’evento, e cioè di ritagliare la tipicità (soggettiva) del reato muovendo a ritroso dalle caratteristiche specifiche dello stesso: compito affidato, nella colpa generica, ai giudizi sulla prevedibilità e sulla prevenibilità dell’evento; nella colpa specifica, al giudizio sulla cosiddetta concretizzazione del rischio nell’evento.
Soltanto il giudizio sulla colpa, quindi, può e deve tener conto, in fase di delimitazione della tipicità (soggettiva), delle circostanze di contesto fattuale, inveratesi nel caso concreto.
Si tratta, infatti, di elementi ignoti fintantoché l’evento non si produca, che sfuggono, pertanto, al giudizio attraverso cui si individuano in prima battuta – ai fini della tipicità oggettiva – le aree di rischio rientranti nella doverosa gestione del garante, in forza di un giudizio a maglie, per tale ragione, inevitabilmente più larghe.
Assegnare un diverso e più impegnativo compito alla posizione di garanzia si rivelerebbe impresa talvolta impossibile, essendo ingenuo – come ammonito nel già citato passaggio delle Sez. U. c.d. Thyssenkrupp – tentare di scolpire con precisione le sfere di rischio.
Su un piano generale, anche là dove si abbia a che fare con strutture dotate di organigrammi ben definiti, è dubbio che l’allocazione della responsabilità penale si possa accontentare di ripartizioni formali di compiti, e non debba piuttosto, a partire da queste, penetrare a fondo i concreti assetti decisionali dell’organizzazione, cercando di decodificare le reti di relazioni, così da coglierne le reali logiche operative e la “catena di comandi e di controlli” cui effettivamente risponde.
L’impresa di definire con analitica precisione le competenze sarebbe, comunque, impropria e potenzialmente arbitraria: la posizione di garanzia, che vale ad incardinare la tipicità oggettiva la quale, a sua volta, rappresenta la base del giudizio di responsabilità penale, richiede all’interprete un mero vaglio teso a verificare se sussista un’asimmetria tra le condizioni in cui si trova il garante e quelle dei titolari del bene esposto a rischio, nonché i poteri giuridici e fattuali del primo. Prescinde, quindi, dalle circostanze di contesto e copre giocoforza uno spazio più ampio della colpa.
Si rivelerebbe inoltre, nella migliore delle ipotesi, inutile, perché duplicherebbe il giudizio colposo.
Ma l’impresa sarebbe in alcuni casi, addirittura controproducente, visto che l’attribuzione di ruoli da parte della legge extrapenale ben può dipendere da finalità diverse e non coincidenti con quelle gius-penalistiche, tutte invece convergenti verso la tutela di beni giuridici.
Delimitare tali ruoli con acribia, pensando di ritagliare con chirurgica precisione “sfere di rischio” di dubbia consistenza penalistica, equivarrebbe, dunque, a sacrificare la stessa elaborazione concettuale della posizione di garanzia sull’altare di visioni burocratizzanti e formalistiche.
Visioni che, peraltro, nemmeno trovano riscontro nei principi della moderna scienza aziendalistica, intenta ad evidenziare come, in tema di organizzazioni complesse, si sia passati da modelli verticali, caratterizzati da confini organizzativi ed accentramento decisionale, a strutture di tipo misto e più flessibile (come quella divisionale e a matrice), per giungere a strutture orizzontali, basate su team e processi (si pensi alla c.d. adhocrazia, opposta alla burocrazia e segnata da un elevato tasso di decentramento dei processi decisionali, dinamicità e capacità di adattamento alle mutevoli esigenze) ed infine alla c.d. organizzazione network, in cui gli individui pongono in essere azioni reciproche e di mutuo supporto, orientate al risultato (modelli cui, com’è evidente, non potrebbe attagliarsi una rigida distinzione di “ruoli”).
Si conferma, quindi, la necessità di ascrivere alla posizione di garanzia una duplice dimensione, formale ma anche sostanziale.
1.4. Tornando al caso concreto e alla Provincia di P, poi, nemmeno si condivide l’assunto difensivo secondo cui le competenze in tema di viabilità riguarderebbero la sola effettiva utenza delle strade, coprendo esclusivamente i rischi che si verificano a circolazione stradale intrapresa (con l’eccezione della caduta delle valanghe).
Al contrario, nulla esclude – anzi, deve ritenersi – che i garanti della viabilità siano tenuti ad assicurare anche la mera possibilità di percorrere in sicurezza le strade medesime, e che debbano, specularmente, neutralizzare/contenere i rischi discendenti dall’impossibilità materiale di usare tali strade, soprattutto ove tale utilizzo si riveli necessario. Che è poi la situazione inveratasi nel caso di specie.
Tirando le fila del discorso, le dimostrate competenze della Provincia in materia di viabilità stradale (quanto alle strade provinciali) sono più che sufficienti ad incardinare in capo ai funzionari di tale Ente una posizione di garanzia – nella specie, di controllo – rispetto alla tutela del bene vita ed incolumità degli utenti della strada, effettivi o potenziali che siano.
Ciò a prescindere dal fatto che l’evento “finale” si sia verificato per causa (concorrente) di una valanga, di un sisma, di una frana, di un incendio o di qualunque altro evento naturale.
D’altronde, è il caso di precisare che nulla obbliga a “descrivere” l’evento in modo identico per i diversi imputati in presenza, oltretutto, di ben distinti capi di imputazione.
Ribadito, quindi, che il rischio su cui la Provincia avrebbe dovuto esercitare il controllo riguardava l’isolamento della SP (Omissis) a causa della neve, ed anticipando che l’inveramento di tale rischio concorse causalmente alla produzione dell’evento lesivo, la configurabilità di una posizione di garanzia in capo ai responsabili del Servizio viabilità delle strade provinciali (qual è la SP (Omissis)) deve ritenersi, in conclusione sul punto, indubbia.
- La delega a T.T.
Sia soltanto il caso di precisare, in risposta al secondo motivo di ricorso presentato da T.T., che, alla luce di quanto esposto, appaiono infondate le deduzioni per cui, in mancanza di atto scritto e non essendo specificate le funzioni, la delega conferita da S.S. sarebbe stata di mera firma, e non avrebbe impegnato la responsabilità del ricorrente.
Le ragioni di tale infondatezza non risiedono nel fatto che la delega venne fatta per email (per iscritto, dunque, sebbene senza particolari formalità, essendo S.S., nei giorni dell’emergenza climatica, costretto a casa da una colica renale) e che fu espressa, univoca, certa e conferita a persona idonea e dotata dei poteri decisionali e tecnici per svolgere le funzioni di controllo e di vigilanza (nel rispetto, dunque, dei requisiti di cui all’art. 16 D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81).
Consistono invece nel fatto che, una volta identificata, a monte, la violazione nella mancata verifica della disponibilità di mezzi, anche eccezionali, per lo sgombero della neve, tali osservazioni perdono qualunque rilievo: ciò che conta essendo la qualità di responsabile del Servizio viabilità all’epoca ricoperta dal ricorrente.
- La colpa dei dirigenti della Provincia secondo le sentenze di primo e secondo grado.
Passando, dunque, a considerare gli eventuali profili di responsabilità colposa dei due imputati, va premesso che le contestazioni originariamente sollevate nel capo di imputazione erano plurime e consistevano: nella mancata attivazione nell’ambito della procedura del piano reperibilità della fase di attenzione e poi, a seguire, delle ulteriori fasi di pre-allarme ed infine di allarme; nel mancato efficace e tempestivo monitoraggio della percorribilità delle strade rientranti nel comparto della SP (Omissis); nella mancata attivazione della sala operativa di protezione civile; nella mancata ricognizione dei mezzi spazzaneve e sgombraneve in dotazione alla Provincia nonché nella mancata constatazione della inoperatività dell’autocarro sgombraneve a turbina Unimog dedicato alla strada per R; nella mancata chiusura al traffico veicolare del tratto di SP (Omissis) dal bivio M a R.
3.1. Il Giudice di primo grado aveva addebitato agli imputati S.S. e T.T. la responsabilità per i delitti di omicidio e lesioni colpose plurimi, soltanto in relazione al mancato sgombero dalla neve della SP (Omissis) dalla coltre nevosa, sulla base dell’assunto che tale sgombero avrebbe consentito ai clienti e ai dipendenti dell’albergo – i quali avevano manifestato l’intenzione di allontanarsi dopo le forti scosse di terremoto avvertite la mattina del giorno 18 gennaio – di abbandonare la struttura, sottraendosi alla valanga.
3.2. A diversa conclusione è giunta la Corte d’Appello.
Essa ha ritenuto che lo sgombero non fosse possibile, essendo emerso dalle risultanze probatorie: che la Provincia aveva adempiuto ai propri compiti finché era stato possibile, e cioè fino al giorno prima della tragedia, quando la strada provinciale era ancora agibile (tanto che fu percorsa dal Sindaco che accompagnò presso la struttura alcuni ospiti); che nella notte tra il 17 e il 18 gennaio si verificò una nevicata eccezionale; che l’unica turbina nella disponibilità della Provincia si era rotta i primi del mese e che la sua riparazione avrebbe impiegato molto tempo; che l’eventuale richiesta di altra turbina all’ANAS non sarebbe stata accolta (a causa dell’incompetenza sul punto della Provincia e considerato il clima emergenziale generalizzato sull’intero territorio montuoso abruzzese); che, comunque, la lentezza con cui le turbine si muovevano non avrebbe consentito di affermare con elevata probabilità logica che sarebbero riuscite a raggiungere il sito di R in tempo utile a consentire lo sgombero dell’Hotel e, quindi, l’esodo delle persone in esso presenti (dalle risultanze probatorie era emerso che i dipendenti e gli ospiti dell’hotel, terrorizzati dalle scosse sismiche, si predisposero a fuggire dalla struttura, ma che non poterono abbandonarla perché la strada era bloccata dalla neve).
Ciò nondimeno, pur senza disporre formale assoluzione per le altre condotte contestate, la Corte d’Appello – in una prospettiva diametralmente opposta a quella del Giudice dell’udienza preliminare – ha focalizzato il rimprovero colposo unicamente sul “non aver chiuso la strada provinciale”, aggiungendo, in un punto della motivazione, che tale chiusura sarebbe stata un segnale di allarme che avrebbe indotto il Sindaco ad emanare una ordinanza urgente di sgombero dell’albergo.
- La cautela violata dai funzionari della Provincia.
4.1. Tale motivazione è manifestamente illogica oppure soltanto apparente e, come tale, inesistente. Comunque, viziata.
Infatti, delle due, l’una.
Si può interpretare l’addebito in senso stretto, ma allora – in disparte ogni deduzione difensiva sul compimento di atti illegittimi, se non penalmente rilevanti (il ricorrente S.S. si spinge ad ipotizzare la configurabilità di un sequestro di persona) – è evidente che la condotta alternativa lecita non avrebbe consentito di evitare l’evento. La formale chiusura della strada non avrebbe certo consentito agli ospiti e ai dipendenti che già si trovavano nell’albergo di abbandonarlo, la mattina del 18 gennaio, quando – come provato nel corso del giudizio – spaventati dalle scosse di terremoto, si disposero – con le autovetture in fila – a lasciarlo (il piazzale dell’albergo era stato liberato dalla neve), senza riuscirvi per l’inagibilità del tratto di strada provinciale reso inagibile dal consistente innevamento verificatosi durante la notte.
Oppure si può valorizzare il richiamato passaggio della sentenza secondo cui la scelta di chiudere la strada avrebbe indotto il Sindaco ad assumere una salvifica ordinanza di sgombero. In tal caso, però, il ragionamento diverrebbe troppo congetturale, e quindi evanescente, portando a concludere per il difetto di motivazione in quanto solo apparente.
4.2. Anche su questo punto ricorre peraltro il vizio logico che inficia in generale l’impianto motivazionale della sentenza.
I Giudici di merito si sono, infatti, inspiegabilmente concentrati sulle condotte tenute nell’imminenza della valanga, quando ogni cautela – ivi compresa la riparazione della turbina Unimog o la richiesta di altro mezzo, ma anche la chiusura della strada – era ormai tardiva perché inidonea allo scopo. Ed hanno, ancora una volta, trascurato come, a fronte di eventi naturali la cui entità ed il momento della cui verificazione non è definibile con esattezza, le cautele utili ad azzerare/contenere i rischi per persone (o cose) non sono quelle da assumere a ridosso dell’emergenza o in corso della stessa – cautele che, come nel caso di specie, potrebbero rivelarsi intempestive -, bensì quelle in precedenza definite “anticipate”, ovvero da attuare per debito tempo.
Né ciò determina uno snaturamento del giudizio di responsabilità penale. Le situazioni di rimprovero colposo fondate sulla (para-psicologica) “riconoscibilità del pericolo” meritano di essere massimamente valorizzate, in quanto performanti dal punto di vista della tassatività del precetto e della personalità della responsabilità penale, ma occorre essere consapevoli che sono pur sempre statisticamente recessive rispetto a quelle che integrano – e che sempre più integreranno, grazie al progressivo radicamento della “cultura della prevenzione” – il nucleo duro della colpa la quale, è opportuno ricordare, ha natura normativa, consistendo nell’omessa assunzione di cautele “doverose”.
4.3. Ebbene, dalla sentenza impugnata risulta: che al tratto M-R era assegnata una turbina Unimog (da usare nel caso di abbondanti nevicate, quando gli ordinari mezzi spazzaneve non si rivelassero all’uopo sufficienti); che tale turbina risultò fuori uso almeno a far data dal 6 gennaio (in pieno periodo invernale, quando il peggioramento delle condizioni metereologiche rappresenta evenienza tutt’altro che improbabile); che la Provincia non se ne avvide, con la conseguenza che non si premurò di assicurarne la pronta riparazione o la sostituzione.
È, dunque, su tale aspetto che, ad avviso di questa Corte, si sarebbe dovuto appuntare il rimprovero colposo, piuttosto che sui comportamenti realizzati, o non realizzati, nell’immediatezza del fatto (volti a “tamponare” una pregressa colposa disorganizzazione) e in relazione ai quali il ragionamento giudiziario è, in effetti, come denunciano i ricorsi, affetto da distorsioni cognitive (Yhindsight bias o bias del “senno del poi”) riverberatesi sulla logicità della motivazione.
In altri termini, è nel mancato previo monitoraggio – da realizzare per tempo debito – della disponibilità di mezzi atti ad assicurare la viabilità della SP (Omissis) e la sicurezza dei suoi fruitori, nell’eventualità, per nulla eccezionale, di ingombro delle strade a causa della neve, che risiede la cautela violata fondante la tipicità soggettiva colposa dei delitti di omicidio e lesioni contestati.
Le ragioni di tale omissione non emergono, tuttavia, dal tessuto motivazionale della sentenza impugnata e, invero, nemmeno da quello della pronuncia di primo grado.
Pur a fronte della contestazione originaria, comprensiva – come ricordato -del non aver effettuato la ricognizione dei mezzi spazzaneve e sgombraneve in dotazione alla Provincia e del non aver constatato l’inoperatività dell’autocarro sgombraneve a turbina Unimog dedicato alla strada per R, i Giudici di merito non hanno verificato tale aspetto; non hanno indagato se omissione ci sia stata e, in caso positivo, non ne hanno spiegato le ragioni.
D’altronde, a p. 114, la sentenza di appello ha dato atto di come nel corso dell’istruttoria di primo grado fosse emerso che la turbina Unimog era sostanzialmente e prevalentemente dedicata a gestire il tratto di strada F-R, della lunghezza di dieci chilometri, e che, quindi, per quel tratto la Provincia disponeva di un mezzo dedicato adatto a gestire situazioni particolarmente critiche, insuperabili con i classici mezzi “a spinta”.
Ma non ha chiarito dove esattamente avrebbe dovuto trovarsi il mezzo eccezionale e sulla base di quali criteri fosse stata determinata tale allocazione, né se, in rapporto al luogo in cui avrebbe dovuto trovarsi la turbina (funzionante) e stanti le condizioni climatiche, essa sarebbe riuscita a sgomberare il tratto di strada provinciale interessata, ricoperto dalla copiosa nevicata scesa nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 2017, in tempo utile a consentire la partenza degli ospiti e dei dipendenti della struttura che, come è emerso nel corso del giudizio e già più volte ricordato in questa sede, erano determinati e pronti ad abbandonarla la mattina del 18 gennaio.
4.4. In proposito, si conclude svolgendo alcune precisazioni.
Su un piano processuale, precisato che la Corte d’Appello non ha disposto formale assoluzione per le altre condotte contestate nel capo di imputazione, in tema di reati commissivi colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna, se l’affermazione di responsabilità per il reato si fonda su diverse possibili alternative condotte colpose, ciascuna delle quali dotata di efficienza causale in relazione all’evento, allorché l’imputato sia stato posto in condizione di esercitare i diritti di difesa in merito alle diverse ipotesi ricostruttive (Sez. 4, n. 19028 del 01/12/2016, dep. 2017, Casucci, Rv. 269601). Come accaduto nel caso di specie.
Sul piano sostanziale, è chiaro che l’assicurazione della viabilità delle strade – e quindi la tutela dell’incolumità delle persone – non può che passare attraverso la pronta disponibilità degli strumenti a ciò necessari, sicché, quand’anche la cautela della relativa previa ricognizione non risultasse positivizzata in fonti (vuoi anche secondarie) normative oppure in atti amministrativi, essa deriverebbe comunque da prassi sociali, integrando quindi una colpa generica, valutabile pianamente (senza forzature) alla stregua di un agente modello – non certo “super-modello” -, secondo standard di diligenza (misura oggettiva), peraltro suscettibili di innalzarsi ove l’agente concreto disponga di conoscenze aggiuntive (misura soggettiva).
Come avvisato, al contrario, rappresenta il frutto di una distorsione cognitiva concentrare l’attenzione sulle sole attività realizzate a ridosso della produzione dell’evento dannoso, soprattutto quando si tratti di giudicare della responsabilità di persone appartenenti a strutture complesse che, come tali, devono avvalersi di idonea organizzazione e, quindi, di procedure efficaci per la gestione delle situazioni ordinarie, oltre che delle urgenze.
Si ribadisce in tal senso che, se la SP (Omissis) fosse stata liberata dalla neve grazie alla presenza dei mezzi la cui disponibilità avrebbe dovuto, all’uopo, essere monitorata, la mattina del giorno 18 gennaio, quando è provato che gli ospiti e i dipendenti dell’Hotel (Omissis) tentarono invano di abbandonare l’albergo, gli eventi morte e lesioni non si sarebbero verificati.
E si aggiunge che, comunque, l’intervento dei soccorsi avrebbe potuto essere più veloce.
Risulterebbe, in altre parole, positivamente esperito il giudizio sulla causalità della colpa in termini di molto elevata probabilità logica.
- Conclusioni.
In base alle considerazioni svolte, è necessario procedere ad una più puntuale ricostruzione della vicenda fattuale alla cui luce esprimere, quindi, un giudizio in punto di colpa, secondo i principi in precedenza indicati.
I restanti motivi di ricorso degli imputati S.S. e T.T. risultando assorbiti, va pertanto disposto l’annullamento della sentenza impugnata, in relazione al capo 13), con rinvio al giudice dell’appello per nuovo giudizio sulla posizione dei funzionari della Provincia.
- Le posizioni degli imputati I.I. e J.J. (capi 3, 4, 5, 6 e 7 dell’imputazione).
Si tratta dell’allora Sindaco del Comune di F, nel cui territorio si trovava l’Hotel (Omissis) e del suo coadiutore J.J.
In premessa, è utile ricordare che al Sindaco I.I. è stato addebitato, in primo come in secondo grado, di non aver emanato l’ordinanza contingibile ed urgente di sgombero dell’Hotel (Omissis) “a far data almeno dal 15 gennaio”.
J.J. era stato invece assolto in primo grado, avendo il Giudice escluso che rivestisse una posizione di garanzia, e condannato in appello (alla stessa pena di I.I.), argomentandone il ruolo di garante su base fattuale, e cioè a partire dall’attività in concreto svolta all’interno del Comune.
- Il Comune come organo di protezione civile e, quindi, garante del rischio valanghe.
Come già illustrato, non c’è dubbio che il Comune sia organo di protezione civile e, quindi, garante o, per meglio dire, che lo siano il suo rappresentante e i suoi dipendenti dotati del potere di azzerare o ridurre il rischio connesso ad eventi calamitosi.
Sul punto non è necessario spendere altre parole, se non per aggiungere a quanto osservato a proposito della posizione dei funzionari della Regione, che il Comune è, peraltro, c.d. ente di prossimità, deputato in prima battuta ad assumere, appunto in ragione della vicinanza con l’evento naturale, le misure necessarie a fronteggiare i rischi per persone o cose (perché nelle migliori condizioni per farlo), salvo, in casi di impossibilità, la necessità di risalire agli Enti di livello più alto (principi di c.d. sussidiarietà e di integrazione).
Più a monte, inoltre, si è già rilevato che significativamente l’art. 7 della legge regionale n. 47 del 1992 cit. attribuisce ai Comuni poteri di iniziativa, prevedendo che, “in presenza di esigenze contingenti di carattere locale e in attesa dell’inclusione delle singole aree nelle due categorie di rischio” della Carta di localizzazione di rischi valanga, “le Amministrazioni locali interessate possono procedere autonomamente, assumendo i relativi oneri ed avvalendosi della collaborazione di tecnici specializzati nella materia, ad elaborare uno studio tecnico analitico delle condizioni di rischio di un’area inclusa nella Carta regionale”, da sottoporre al CO.RE.NE.VA. e, poi, all’approvazione della Regione.
Sempre per tale ragione, e a fortiori, l’art. 15 legge regionale n. 47 del 1992 cit. conferisce al Sindaco il potere di intervento nell’imminenza dell’evento.
Tale disposizione, infatti, recita che “il Sindaco, con propria ordinanza, dispone l’inagibilità e lo sgombero degli edifici esposti ad imminente pericolo di caduta di valanghe e per tutta la durata di esso”.
- Le sentenze di merito e i signa facta.
2.1. A fronte, anche in questo caso, di plurime contestazioni, va incidentalmente notato che le sentenze di merito hanno scelto di non valorizzare il disposto del richiamato art. 7 della legge regionale n. 47 del 1992 cit., forse anche perché tale disposizione fa riferimento ad una parentesi temporale all’interno del percorso che conduce progressivamente all’emanazione della CRLV la quale – come in precedenza più volte illustrato – presuppone il varo della CLPV: nel caso di specie, mai avvenuto (non vi era, dunque, spazio concettuale per applicare tale disposizione).
Pure in questo caso, i Giudici di merito si sono concentrati su una fase temporale successiva, “a ridosso” dell’inveramento del pericolo-valanga, rimproverando a I.I. la mancata realizzazione dell’altra condotta prevista dalla legge: vale a dire, condannandolo per non aver disposto, con ordinanza ex art. 15 legge regionale n. 47/1992 cit., lo sgombero dell’albergo “quantomeno a partire dal 15 gennaio”, sulla base del presupposto che tale condotta avrebbe sicuramente impedito la verificazione dell’evento.
Il percorso argomentativo seguito dalle due sentenze è stato, però, diverso.
Infatti, il Giudice di primo grado, più in linea con le indicazioni della perizia, aveva negato efficacia predittiva della valanga ad una serie di elementi pure indicati in sede accusatoria, tra cui la Carta storica delle valanghe, per valorizzare i soli bollettini Meteomont (con previsione di pericolo marcato forte e molto forte) – sui quali si tornerà -, ritenendoli da soli suscettibili di indiziare l’imminente pericolo di caduta della valanga.
La Corte d’Appello, per contro, oltre che ai suddetti bollettini Meteomont, ha attribuito rilievo ad altri “indici di prevedibilità”, quali l’avvenuta ricezione, nel 2014, della Carta storica delle valanghe, da cui si desumeva la verificazione di eventi pregressi nell’arco dei 56 anni precedenti. Ha richiamato la c.d. relazione J.J.J.J. del 1999. Ha poi valorizzato: l’assenza della CLPV; la mancata adozione del Piano di emergenza comunale (che individuava esclusivamente le tipologie di rischio idrogeologico, da incendio boschivo e sismico ma non quello di valanghe, e che dopo il 2014 non venne mai aggiornato); la mancata convocazione della Commissione comunale valanghe; la chiusura delle scuole disposta (dal Sindaco) il giorno 15 gennaio, a riprova della consapevolezza del pericolo.
Il focus del discorso si concentrerà, dunque, sull’analisi di tali elementi, allo scopo di determinare se, come dedotto in modo puntuale nel ricorso di I.I. e di J.J., i Giudici siano incorsi nel travisamento della perizia disposta in primo grado e – questione strettamente connessa – se gli elementi su cui insiste la pronuncia di appello (poc’anzi citati) rappresentassero davvero signa facti suscettibili di indiziare la concreta prevedibilità del pericolo-valanga, che integra il rimprovero soggettivo, a titolo di colpa, nei confronti dei due imputati.
2.2. Sul punto, si osserva sin d’ora che, sebbene sia stata formalmente addebitata ai ricorrenti la violazione dell’art. 15 della legge regionale n. 47 del 1992 cit. – sicché in apparenza parrebbe versarsi in un’ipotesi di colpa specifica -, in realtà, la formulazione di tale fattispecie è elastica, in quanto ricorre ad un elemento vago, qual è l'”imminente pericolo di caduta di valanghe”, di cui l’agente ovviamente deve o dovrebbe essere consapevole perché scatti il rimprovero penale (laddove, perché si tratti di colpa specifica, non devono residuare margini interpretativi sulla portata operativa della cautela da attuare).
La definizione del senso di tale elemento implica una necessaria contestualizzazione fattuale e rimanda ad un giudizio sulla prevedibilità dell’evento che si traduce, a sua volta, in un accertamento di colpa generica.
È, dunque, in termini di colpa generica che si dovrà ragionare ed è alle categorie della colpa generica che si farà, in seguito, riferimento.
- Chiusura delle scuole; mancata redazione della CLPV e mancata attivazione del Piano di emergenza comunale.
Procedendo per gradi, nessun rilievo è attribuibile alla decisione di chiudere le scuole per il maltempo – dato ricorrente nella trama argomentativa della sentenza impugnata -, dovendosi ritenere che tale decisione fosse mirata ad evitare disagi e danni nella circolazione stradale comunale o, al più, l’isolamento delle strutture, avvertito come particolarmente pericoloso per il coinvolgimento di bambini. Dalla disposta chiusura delle scuole non può inferirsi, quindi, con certezza e nemmeno con probabilità logica, la consapevolezza di un rischio valanghivo in capo agli imputati.
Del pari, la mancanza della CLPV e l’omessa adozione/aggiornamento del Piano di emergenza comunale non rappresentano indici di prevedibilità in concreto, ma, semmai, fattori che avrebbero dovuto accrescere il livello di alert, la soglia di attenzione nella decodificazione di signa facti indizianti l’imminente pericolo di caduta di valanghe.
In parole povere, il senso del richiamo compiuto a tali elementi in sentenza è che, a fronte dell’inadempimento della Regione, venuta meno al suo obbligo di redigere la CLPV, e del fatto che lo stesso Comune non avesse attivato il piano di emergenza, gli imputati avrebbero dovuto “ascoltare” con maggiore accuratezza i segnali di prossima caduta delle valanghe.
Tale assunto presuppone, però, che l’evento naturale valanghivo fosse in qualche modo prevedibile: ciò che, allo stato del discorso, è meramente supposto, e non dimostrato.
- La relazione I.I.I.I. e la relazione J.J.J.J..
I Giudici di secondo grado, nel passare in rassegna i red flags indicati dal Pubblico ministero appellante, hanno negato fondamento alla relazione del geologo I.I.I.I., consegnata all’ingegnere che, nel 1996, era stato incaricato di redigere il nuovo piano regolatore generale dal Comune di F. Su tale elemento non è quindi necessario soffermarsi.
Per contro, sebbene non vi sia espressamente attribuita valenza di indizio, ampio spazio è dedicato in sentenza alla relazione della guida alpina J.J.J.J. che, nel 1999, aveva rilevato il rischio di valanghe nel sito di R.
I ricorrenti deducono come, nel far ciò, la Corte d’Appello abbia trascurato l’opinione dei periti nominati nel primo grado del giudizio, i quali avevano evidenziato le contraddizioni in cui era incorso J.J.J.J., destituendone di fondamento la relazione e rilevando che essa riguardava un diverso versante della montagna, come anche confermato da T.T.T.T., anch’egli membro della Commissione comunale valanghe dal 1999 al 2005 e peraltro dotato di maggiore esperienza di J.J.J.J.. Aggiungono, inoltre, come siano state pretermesse le dichiarazioni del Comandante dei Carabinieri forestali K.K.K.K., del pari valorizzate nella perizia, e non sia stato attribuito peso alla circostanza che tanto poco era avvertito il pericolo di valanghe che nelle immediate vicinanze dell’albergo era stato addirittura istallato il “Campetto” per le rilevazioni Meteomont.
- La Carta storica delle valanghe.
Venendo agli elementi maggiormente valorizzati dalla Corte d’Appello, considerevole peso è attribuito alla notificazione da parte della Regione ai Comuni, nel 2014, della Carta storica delle valanghe, ritenendo che avesse introdotto elementi di novità conoscitiva.
Premesso che la Carta storica censì 793 valanghe verificatesi presso la Regione Abruzzo nel periodo di riferimento 1957-2013, viene cioè spiegato che essa, “seppur non documentante il verificarsi di fenomeni valanghivi nel vallone nel quale si trovava l’hotel”, indicò la discesa di “n. 4 valanghe originatesi dal Monte (Omissis) del Comune di F e ben 5 valanghe originatesi dal Monte (Omissis) nel limitrofo Comune di A (stessa montagna da cui si staccò la valanga che ha colpito l’Hotel (Omissis))”.
Insomma, censì “ben nove fenomeni valanghivi (rappresentanti oltre l’l% del totale registrato in cinquantasei anni) prossimi al luogo nel quale era stato aperto nel 2007 l’hotel”.
In proposito, è opportuno evidenziare come molta parte della contrapposizione tra tesi accusatoria e difensiva si sia giocata – nei due giudizi di merito ed ancora nel presente giudizio di legittimità – sulla possibilità o meno di assimilare le valanghe storicamente tracciate nell’area di R con quella che, nel 2017, ne interessò lo specifico sito.
Tale querelle non è facilmente risolvibile, visti i confini inevitabilmente fluidi della “classe di evento”, da ritagliare in sede interpretativa ai fini del giudizio.
Questa Corte ritiene, però, che la sua soluzione non sia dirimente nel caso di specie.
Sul peso dominante ripetutamente assegnato alla Carta storica dalla Corte d’Appello – che vede nella stessa un surrogato della CLPV – si innesta, infatti, un altro rilevante profilo di travisamento probatorio, anch’esso diffusamente eccepito in sede difensiva.
I ricorrenti hanno, infatti, dedotto che i periti nominati dal Giudice dell’udienza preliminare, in un lungo e documentato elaborato (cui, sul punto, il Giudice dell’udienza preliminare aveva aderito), avevano spiegato le ragioni per cui alla Carta storica delle valanghe non potesse essere attribuita alcuna capacità predittiva della discesa di valanghe.
Avevano illustrato come la Carta storica null’altro fosse se non un catasto delle valanghe.
Avevano chiarito come essa rappresentasse soltanto uno dei vari elementi -insieme all’utilizzo di tecniche di fotointerpretazione con la realizzazione di sopralluoghi in sito, alla raccolta di testimonianze orali e documentali – sulla cui base la Regione avrebbe dovuto redigere la mai realizzata CLPV, peraltro precisando – anche questo aspetto è già stato sottolineato – che neppure tale Carta possiede capacità predittiva in sé, dovendo fungere da base per la redazione, in virtù di complesse valutazioni matematiche e statistiche, della CRLV: unico strumento dotato di efficacia predittiva in relazione a danni a (cose e) persone.
Con parole diverse, posto che la discesa di valanghe su suolo montano durante la stagione invernale non può considerarsi un evento eccezionale (è, anzi, possibile nell’an), ciò non significa che per tale ragione ne diventi prevedibile il quando, l’ubi e il quomodo: ciò che è invece necessario ai fini dell’azzeramento o contenimento del rischio.
All’uopo, sarebbe stato indispensabile ricorrere a conoscenze evolute in quanto specialistiche e tecniche, che avrebbero dovuto essere veicolate attraverso l’elaborazione di altri strumenti, i quali presupponevano la mai redatta CLPV (cui, come ampiamente rilevato dagli imputati, i periti avevano per tale ragione riconosciuto un rilievo affatto prioritario).
Ora, non c’è dubbio che tali saperi non sarebbero riusciti a garantire una precisa calcolabilità del luogo, del tempo e dell’entità della valanga, ma – si anticipa – avrebbero almeno potuto orientare il decisore in situazioni di incertezza, come quella – si preciserà di seguito – inveratasi nel caso di specie.
Una simile conclusione è stata però frettolosamente elusa dai Giudici dell’appello in alcuni passaggi della lunga e spesso ondivaga motivazione, che si cercherà di isolare e mettere a fuoco successivamente.
Per ora si noti che, dopo aver ribadito il valore fondamentale della Carta storica delle valanghe – in quanto prius della CLPV e a questa surrogabile -, la sentenza impugnata ha valorizzato la DGR n. 19 del 13.1.2015, con cui la Regione Abruzzo approvò le “Linee Guida per i Piani comunali ed intercomunali di emergenza”, perché in essa si riconosceva l’elevato pericolo valanghivo nel (l’intero) Comune di F, ponendo a carico dei Comuni specifici obblighi.
Non ha però considerato – come, per contro, eccepito dai ricorrenti – che, secondo la perizia, tali obblighi erano difficilmente attivabili in mancanza della CRLV, unico strumento in grado di consentire l’astratta prevedibilità della valanga nella zona in cui si trovava l’albergo, e che la perizia si era spinta, anzi, ad ipotizzare un vero e proprio “ribaltamento” sui Comuni di incombenze proprie, invece, delle Regioni.
- I bollettini Meteomont.
Rinviando alcune riflessioni sulla replica della Corte d’Appello a tali deduzioni, si osserva che un discorso non diverso vale in rapporto all’ultimo signum facti citato nella sentenza impugnata (il solo valorizzato in primo grado) che, sicuramente, tra gli altri, è almeno in apparenza il più evocativo: i bollettini Meteomont.
Tali bollettini Meteomont sono sia metereologici, sia specificamente calibrati sul rischio valanghe.
Tanto precisato, il bollettino Meteomont metereologico del giorno 15 (data “a partire” dalla quale, secondo la Corte d’Appello, il Sindaco avrebbe dovuto emanare l’ordinanza contingibile ed urgente) parlava di mere nevicate a bassa quota, in rapporto indistintamente alla fascia geografica appenninica del centro Italia.
L’aggravamento, con condizioni di nevicate molto forti e rischio bufere, fu previsto, sempre con riguardo alla suddetta ampia fascia geografica, soltanto il giorno 17 e per le successive 24-48 ore.
Quanto, invece, ai bollettini Meteomont valanghe, è utile riportare per esteso alcuni brani della sentenza di secondo grado, che illustrano le linee del sistema.
“Nell’allegato A della DGR n. 19/2015, si prevedeva che il sistema di allertamento valanghe venisse fornito tramite bollettini emessi quotidianamente dal servizio Meteomont dell’Arma dei Carabinieri (prima Corpo Forestale dello Stato).
Il bollettino individua cinque gradi di pericolo che fanno riferimento alla scala europea che si riporta di seguito:
– 1 debole;
– 2 moderato;
– 3 marcato;
– 4 forte;
– 5 molto forte.
La progressione di tale scala però non è lineare; infatti il grado 3, pur trovandosi al centro della scala, non rappresenta un pericolo medio, ma una situazione già critica.
Per quanto riguarda il sistema di allertamento, è possibile parlare di: fase di normalità: il rischio è debole (1) e non si segnalano criticità; fase di preallarme: il rischio è moderato (2); fase di allarme: il rischio è marcato (3), forte (4) o molto forte (5); fase di emergenza: caduta di una valanga all’interno del territorio comunale o dell’associazione dei Comuni.
Nell’Allegato A della D.G.R. venivano, altresì, stabilite le procedure che il Sindaco deve tenere nelle diverse fasi del sistema di allertamento, prevedendosi: 1. nella fase di normalità ovvero quando non vi sono criticità o viene segnalato nel bollettino Meteomont il rischio 1: – controlla quotidianamente on-line il bollettino meteo-nivologico di previsione neve-valanghe;
– provvede alla predisposizione ed aggiornamento del Piano per l’emergenza valanghe, con il supporto degli Enti competenti in materia di rischio neve/valanghe.
È dunque un compito del Sindaco controllare costantemente il bollettino Meteomont, che oltre ad essere divulgato tramite il sito internet http://www.meteomont.gov.it/infoMeteo, è anche riportato nella pagina web della Protezione Civile Abruzzo.
- Nella fase di pre-allarme ovvero in caso di bollettino Meteomont con rischio moderato (2):
– il Sindaco si tiene aggiornato sulle condizioni meteo e sulle previsioni. Verifica se è stato inviato dal Centro Funzionale d’Abruzzo un Avviso di condizioni metereologiche avverse con previsione di neve, che potrebbe portare a condizioni di instabilità del manto nevoso, decretando il passaggio alla fase successiva di allerta.
- Emissione del bollettino meteo nivologico con previsione di pericolo marcato (3), forte (4), molto forte (5)
Con questo bollettino Meteomont scatta la fase di allarme che prevede che il Sindaco:
- dispone con propria ordinanza eventuali limitazioni nelle aree di pubblica circolazione, sugli impianti e nelle piste sciabili aperte al pubblico, sentita la Commissione Comunale per il rischio valanghe;
- se necessario, attiva il C.O.C., provvede alla dichiarazione d’inagibilità e sgombero di edifici esposti all’imminente pericolo di caduta valanga, provvedendo anche all’allontanamento delle persone in esse presenti, ed alla loro sistemazione in zone sicure””.
Ciò premesso sul funzionamento del sistema Meteomont, si rileva quanto segue.
Innanzitutto, nella sentenza di primo grado, che in proposito richiama la perizia, si trova scritto che il giorno 15 il livello di pericolo valanghe era 2) (moderato) con tendenze in peggioramento nei due giorni successivi, per aumentare a 3) il giorno 16 e poi a 4) nei due giorni successivi (17 e 18 gennaio).
Invece, nella sentenza di secondo grado, in un passaggio si dice che il giorno 15 il pericolo era da 2) a 3), dunque, da moderato a marcato; in altri si parla semplicemente di “pericolo marcato”.
Invero, già questa discrasia non consentirebbe di ricostruire con esattezza il grado di pericolo valanghe conosciuto o conoscibile dal Sindaco.
Ma se ne prescinda pure, attribuendo rilievo a quanto riportato nella sentenza di primo grado, che faceva oltretutto riferimento ad un peggioramento nei giorni successivi anche al 16 e al 17 gennaio. D’altronde, in più punti la sentenza impugnata ha valorizzato il fatto che la zona di F era genericamente ritenuta valanghiva (la delibera della Giunta comunale n. 35 del 24.02.1999, istitutiva della Commissione comunale valanghe prevista dall’art. 17 della legge regionale n. 47 del 1992 cit., dava atto, in premessa, che “il territorio del Comune di F è qualificato in ordine al grado di pericolo valanghe come marcato 3-forte 4” ed analogo dato si inferiva dalla più volte citata delibera della Giunta regionale n. 19 del 13.1.2015, con cui la Regione Abruzzo approvò le “Linee Guida per i Piani comunali ed intercomunali di emergenza”).
Resterebbe comunque da sciogliere un nodo essenziale ai fini dell’indagine sulla responsabilità colposa degli imputati.
Tale nodo concerne la localizzazione della – pur in sé immaginabile – valanga nonché la previsione della sua entità.
Quanto a tale secondo aspetto, come ricordato sin dal principio di questa motivazione, si trattò infatti di una valanga di portata affatto notevole: dato che non può essere trascurato ai fini della descrizione dell’evento, posto che non ogni valanga concreta reca un rischio così elevato per l’incolumità personale di chi si trovi all’interno di una struttura di cemento armato.
Soprattutto – e passiamo al primo profilo, quello della localizzazione -, non è sufficiente sapere che l’intero territorio di F sia a rischio valanghivo per poter orientare adeguatamente l’azione preventiva.
Né allo stesso fine era utile confidare sul bollettino Meteomont.
Come rilevato dai ricorrenti, sempre la perizia specificava, infatti, che tale bollettino forniva informazioni alla scala sinottica (non meno di 100 mq e dunque con una risoluzione non superiore a 10 km) e presentava un quadro semplificato dell’innevamento e della stabilità del manto nevoso, escludendo quindi che esso consentisse di “pensare a una descrizione riferibile esattamente al singolo pendio o canale”.
I ricorrenti hanno, dunque, aggio nell’obiettare alla Corte d’Appello: che il compito di individuare le aree pericolose spettava alla Regione, la quale avrebbe dovuto redigere la CLPV; che sempre la Regione avrebbe dovuto provvedere ad analizzare le aree individuate come pericolose redigendo poi la CRLV; che entrambe le Carte avrebbero dovuto essere notificate ai Comuni, costituendo la base conoscitiva del territorio su cui lavorano le Commissioni comunali valanghe, cui spetta principalmente il compito, in presenza di bollettino di allerta valanghe 3-4, di effettuare le analisi metriche che consentono di verificare se al bollettino di scala sinottica facciano seguito anche condizioni di criticità locale.
I.I., replicando all’addebito di non essersi attivato per convocare la Commissione comunale valanghe (di seguito, CCV) privandosi, quindi, di uno strumento che gli avrebbe consentito di verificare se sussistevano le condizioni per emettere l’ordinanza, premette che i compiti delle CCV sono totalmente sovrapponibili al monitoraggio nivometeorologico compiuto ogni giorno dai Carabinieri forestali delle stazioni Meteomont.
Quindi, precisa che le ordinanze contingibili e urgenti devono fondarsi su prove empiriche e non su mere presunzioni, perché, in tal caso, sarebbero illegittime.
Ed aggiunge che, pure a seguire il ragionamento della Corte d’Appello, là dove il Sindaco avesse effettuato i rilevamenti in luogo della Regione, come preteso dai Giudici, il 16 gennaio 2017, con bollettino marcato 3), non era rilevabile attività valanghiva.
Sicché, la stessa Commissione valanghe avrebbe escluso che il Sindaco potesse disporre lo sgombero della zona.
Insomma, secondo la tesi difensiva, vuoi anche in presenza di bollettini valanghe indicanti un pericolo moderato/alto, in mancanza di CLPV e, quindi, di CRLV, il decisore non era nelle condizioni di identificare come rischioso – in virtù dei signa facti elencati in sentenza – il sito e nemmeno l’area in cui si trovava l’Hotel (Omissis) (mentre, a diversa conclusione si sarebbe giunti in presenza di tali strumenti che, come si è detto, avrebbero segnalato il rischio nell’area).
La diversa conclusione sposata dalla Corte d’Appello deriverebbe, pure sul punto, dal travisamento della perizia, la quale aveva chiaramente indicato le ragioni per cui, sul piano logico prim’ancora che giuridico, gli adempimenti delle Regioni dovessero ritenersi tecnicamente prioritari rispetto agli interventi emergenziali degli altri soggetti della protezione civile.
A tali deduzioni, già formulate in appello, la Corte d’Appello non ha fornito adeguata risposta (vd. infra).
Infine, travisamento è denunciato, sebbene da altri imputati, nella parte in cui i Giudici dell’appello hanno affermato che la perizia aveva escluso che la valanga potesse essere stata propiziata dalle scosse sismiche registrate la mattina del 18 gennaio 2017.
In realtà, i periti, pur non potendo ovviamente affermare secondo certezza la concreta incidenza (con-)causale delle scosse sismiche sul distacco della valanga, furono ben lungi dall’escluderla, e di qui a poco si chiarirà come anche tale elemento sarebbe suscettibile di incidere sulla ricostruzione della responsabilità degli imputati (sotto il profilo della colpa).
- Travisamento della perizia e rapporti tra scienza e giudizio penale.
7.1. Per ora, si consideri che, in risposta alle deduzioni difensive, i Giudici di secondo grado hanno riconosciuto che gli esperti esclusero la prevedibilità in concreto della valanga.
Nella sentenza impugnata si trova premesso come “l’assunto dei periti sul punto si sposi (come deve essere per soggetti portatori di specifiche competenze tecniche e scientifiche, quali essi sono a mente dell’art. 220 cod. proc. pen.) con il loro approccio tecnico-scientifico, fondato (….) sulla necessaria disponibilità delle mappe di rischio, in quanto restituenti le mappe di pericolo (inteso (…) come la possibilità del verificarsi di eventi valanghivi, in particolare a carattere estremo), atte a legare l’intensità di un fenomeno (valanghivo) alla relativa probabilità di accadimento (annua) ed al tempo/periodo di ritorno in anni. Ciò” – si prosegue -“in quanto, soprattutto “i PZEV” (Piani zone esposte a valanghe), tramite strumenti matematico/statistici, forniscono una previsione della possibilità di accadimenti futuri, definendone altresì la probabilità/pericolosità o, analogamente, il relativo periodo di ritorno. Diviene così nota la ricorrenza attesa di eventi con date dimensioni (estensioni, distanza percorsa, ecc.);
i PZEV forniscono altresì precise indicazioni sulla violenza dell’impatto (pressione dinamica) degli eventi ipotizzati, così da evidenziare, non solo la probabilità dell’accadimento, ma anche la relativa intensità dell’evento stesso e quindi gli effetti attesi; tale livello di conoscenza fornito va oltre il contenuto informativo relativo alle CLPV, poiché fornisce uno strumento previsionale, atto a definire eventi potenziali futuri ulteriori e spesso di superiore intensità rispetto a quelli mappati dalle CLPV (o catasti), in un’ottica di scenario cautelativo e sulla base di concetti statistico-matematici rigorosi, atti a consentire un utilizzo prescrittivo dello strumento su base scientifica””.
I Giudici dell’appello hanno, dunque, effettuato una esauriente ricostruzione delle premesse tecniche del discorso giuridico. Tuttavia, subito dopo, hanno affermato che “il giudice (di primo grado), nel richiamarsi integralmente a tali assunti, “ha omesso di adeguatamente considerare il dettato normativo di riferimento”, ritenendo che, “infatti, conformemente a quanto desumibile dal tenore delle sopra richiamate Linee Guida, la L.R. n. 47/1992 non individua una sola modalità di individuazione del rischio valanghivo, necessariamente postulante l’emanazione della CLPV e, poi, degli PZEV, prodromici alle carte dei rischi locali”.
In particolare, nella pronuncia impugnata si è spiegato che “il Giudice dell’udienza preliminare, tra gli altri quesiti, aveva chiesto ai periti se “alla luce di tutta la documentazione comunque disponibile e dello stato dei luoghi precedenti il distacco, (…) l’evento valanghivo fosse prevedibile in astratto ed in concreto, tenuto conto di eventuali pregressi analoghi eventi e a quali circostanze sia riconducibile tale prevedibilità e (che) questi ultimi, in ossequio alla loro formazione ed all’approccio meramente scientifico all’uopo adoperato, (avevano) evidenziato, a più riprese, come tale giudizio, a fronte dell’impossibilità di valutare la probabilità di accadimento della (valanga), vada associato al concetto di pericolosità, cioè a quello di possibilità di accadimento della (stessa) in funzione della velocità di accumulo della neve, a sua volta funzione della precipitazione nevosa, postulante la previa redazione di una CLPV e, successivamente, di un PZEV, solo il quale permette, “nota l’entità della “nevicata”, di “individuare gli elementi esposti””.
In sintesi, la Corte d’Appello ha riconosciuto che nella perizia “la “prevedibilità” dell’evento, nel senso appena definito, è strettamente connessa con l’utilizzo del PZEV, che rappresenta attualmente l’unico strumento disponibile per associare ad una certa precipitazione nevosa il pericolo che la valanga possa coinvolgere gli elementi esposti””, ma ha poi “disinnescato” il parere degli esperti richiamando considerazioni in precedenza svolte sul concetto di “prevedibilità”: categoria – si precisa – “di carattere meramente giuridico, nella duplice valenza rivestita ai fini della predeterminazione della regola cautelare e dell’ascrizione dell’evento sotto il profilo soggettivo” e che “postula, ai fini colposi, certamente un quid minus” rispetto a ciò che si richiede in sede scientifica.
In sintesi, la Corte d’Appello sembra reputare l’adesione del Giudice di primo grado alla perizia viziata da una prospettiva “inutilmente” scientifica, superflua e confliggente con quella giuridica che, a sua volta, viene sostanzialmente ridotta all’idea secondo cui prevedibile sarebbe un evento già verificatosi in passato, purché abbia la capacità – in termini di mera possibilità – di replicarsi.
7.2. Tale impostazione non è condivisibile.
Essa svilisce indebitamente i domini della scienza, il ricorso ai quali non è rinunciabile dal diritto contemporaneo ove si trovi a confrontarsi con fenomeni naturali, in quanto prescindere dalle nozioni scientifiche equivarrebbe ad autorizzare il regresso del diritto alla superstizione, interrogando una dimensione “magica” del giudizio penale.
Inoltre – ma si tratta del diverso lato della stessa medaglia -, assume una contrapposizione tra approcci scientifico e giuridico che, a ben guardare, non esiste.
La necessità di conformare la tipicità colposa al principio di tassatività penalistico, così come il già evocato carattere normativo della colpa presuppongono, infatti, che la regola cui l’agente deve uniformarsi preesista al suo agire. Che abbia, quindi, una sua percepibile consistenza, e che sia “doverosa”.
Queste caratteristiche sono rispettate soltanto se la regola è positivizzata (nella colpa specifica, dove deve presumersi che sia stato il legislatore ad attingere, a monte, a conoscenze scientifiche) ovvero se (nella colpa generica) l’agente può contare sulla sedimentazione del giudizio in ordine alla prevedibilità dell’evento. Ma tale sedimentazione ordinariamente presuppone la regolarità statistica di quest’ultimo, e cioè la conoscenza (o la conoscibilità) della sua probabilità su base appunto scientifico-statistica, perché è la ripetibilità sull’event-type ad innescare il dovere della previsione, e non certo la capacità di immaginazione individuale (peraltro variabile di persona in persona, a seconda delle esperienze/conoscenze di ciascuno, e della sua emotività).
In tal senso, la probabilità statistica, il cui rilievo, in sede di accertamento del nesso causale, fu ridimensionato dalle Sez. U. n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese, cit. a vantaggio della “probabilità logica”, si sta conquistando uno spazio irrinunciabile nell’area tematica della colpa.
Al contrario, la circostanza che un evento sia soltanto possibile (dal punto di vista materiale, naturalistico), in mancanza di indici oggettivi (alert, eventi-precursori, red flags, signa facta che dir si voglia) che consentano una parapsicologica riconoscibilità del pericolo (compensando il deficit di probabilità statistica) non può incardinare il rimprovero colposo, in quanto tale conclusione tradirebbe, oltre al già ricordato principio di tassatività, le esigenze costituzionali di personalità della responsabilità penale che trovano espressione nel principio di colpevolezza.
In definitiva, la prevedibilità, nel diritto penale, va intesa come un concetto “robusto”: non è riducibile a mera “possibilità materiale”, ma consiste in un “obbligo” di prevedere (non per nulla, la colpa è violazione di cautele “doverose”) e non può prescindere, quindi, da un’adeguata base giustificativa.
7.3. Si conferma, allora, come la conoscenza giuridica sia giocoforza debitrice di quella scientifica, che non può non orientare il giudizio dell’interprete e, prima, deve poter fungere da guida all’operato dell’agente.
Ciò, a condizione che – è opportuno precisare – di vero sapere scientifico si tratti o, per meglio dire, sempre che il metodo usato dagli esperti nell’enucleare tale conoscenza sia ritenuto valido, per aver superato il vaglio del giudice che, in base alla nota ed ancora attuale giurisprudenza di questa Corte, ne è “custode” (Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943. Più di recente, tra le altre, Sez. 4, n. 49884 del 16/10/2018, Pinelli, Rv. 274045, secondo cui, in tema di prova scientifica, la perizia rappresenta un indispensabile strumento euristico nei casi in cui l’accertamento dei termini di fatto della vicenda oggetto del giudizio imponga l’utilizzo di saperi extragiuridici e, in particolare, qualora si registrino difformi opinioni, espresse dai diversi consulenti tecnici di parte intervenuti nel processo, di talché al giudice è chiesto di effettuare una valutazione ponderata che involge la stessa validità dei diversi metodi scientifici in campo, della quale è chiamato a dar conto in motivazione, fornendo una razionale giustificazione dell’apprezzamento compiuto e delle ragioni per le quali ha opinato per la maggiore affidabilità di una determinata scuola di pensiero rispetto ad un’altra).
È d’altronde il caso di ricordare come Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, cit., avesse imbastito una sorta di tassonomia (in parte evocativa dell’allora molto discussa “sentenza Daubert” e valida anche al di là dello specifico sotto-capitolo della c.d. “battaglia degli esperti”) delle caratteristiche che una prova deve possedere perché possa ritenersi scientifica in sede giudiziaria, facendo riferimento: sia a criteri oggettivi (quali l'”ampiezza della ricerca”; la “rigorosità della ricerca”; l'”oggettività della ricerca”; il “grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi”; l'”intensità della discussione critica che ha accompagnato l’elaborazione dello studio”; l'”attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica”; il “consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica”); sia – e in più rispetto a quanto previsto nel citato leading case americano – a criteri soggettivi, indicativi dell’indipendenza ed autonomia dell’esperto (questa Corte chiamò il giudice ad indagare anche (‘”identità e autorità indiscussa del soggetto che gestisce la ricerca”; l'”indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca”; la “finalità per le quali si muove il soggetto che gestisce la ricerca”).
Ne discende la seguente alternativa.
0 il sapere scientifico è confutato nelle sue premesse dal giudice che, non a caso – è stato aggiunto – qualora si discosti dalle conclusioni del perito, è tenuto a motivare il proprio convincimento con criteri che rispondano ai principi scientifici oltreché logici (in particolare, sviluppandosi l’iter diagnostico dei periti attraverso due operazioni successive, connesse ed interdipendenti in relazione al risultato finale, ovverossia la percezione dei dati storici e il successivo giudizio diagnostico fondato sulla prima, è su tale percezione che il giudice deve portare la sua indagine, discostandosi dalle conclusioni raggiunte quando queste si basino su dati fattuali dimostratisi erronei che, viziando l’iter logico dei periti, rende inattendibili le loro conclusioni. Sez. 4, n. 37785 del 11/12/2020, T., Rv. 280165).
Oppure, se ritenuto valido, tale sapere non può essere dal giudice pretermesso cancellandolo con un tratto di penna, vale a dire senza adeguata e puntuale motivazione, come invece accaduto nel caso di specie.
8.1 giudizi sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento.
Tanto precisato sui rapporti tra sapere giuridico e sapere scientifico, ove ritenga motivatamente attendibile quanto riferito nella perizia, il giudice del rinvio dovrà poi indagare la responsabilità degli imputati seguendo le coordinate dell’elaborazione teorica in tema di colpa, per comodità di seguito brevemente riassunte.
Va, innanzitutto, ribadito che, nonostante il richiamo alla violazione dell’obbligo di emanare ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi dell’art. 15 della legge regionale n. 47 del 1992 cit., il richiamo che tale disposizione compie all'”imminente pericolo” di caduta delle valanghe rende imprescindibile il ricorso alle coordinate teoriche della colpa generica.
È poi il caso di avvertire che la colpa va valutata sempre e rigorosamente ex ante. Occorre cioè guardarsi dalle distorsioni (biases) che insidiano particolarmente il giudizio sulla colpa e che – come insegna una nota letteratura di psicologia cognitiva ormai penetrata nel discorso gius-penalistico anche giurisprudenziale (tra le altre, Sez. 4, n. 34383 del 13/06/2024, Barozzi, non mass.) – costituiscono il frutto (avvelenato) del sistema di conoscenza fondato su c.d. euristiche (tra cui le euristiche della rappresentatività e della disponibilità, in base alle quali, rispettivamente, tendiamo a ritenere probabile un evento perché produce un particolare impatto emotivo e/o perché serbiamo ricordo di eventi analoghi, quand’anche probabile in termini oggettivi non sia affatto). Sistema veloce ed intuitivo, ma foriero di errori.
Come avvisato anche nel precedente di legittimità da ultimo citato, il ragionamento ex post, d’altronde, “renderebbe colposo qualsiasi comportamento umano causativo di danno, poiché è (quasi) sempre possibile, dopo l’evento, ipotizzare un comportamento alternativo corretto e idoneo a impedirlo”, e vanificherebbe, quindi, le più volte evocate istanze costituzionali che impongono al giudice di rimproverare l’agente sulla base di una cautela doverosa invece preesistente alla sua condotta.
D’altra parte, la tendenza, affatto naturale, a giudicare sulla base di dati disponibili e rappresentativi (quindi, il post hoc, ergo propter hoc) è contrastabile, nel ragionamento giuridico, ricorrendo alla sedimentata teorizzazione sulla colpa, che tenta di irreggimentare il giudizio scandendolo in fasi distinte e che – come si noterà – trova una sponda nell’autorevole corrente di psicologia cognitiva cui si è fatto poc’anzi riferimento.
Dapprima (misura oggettiva della colpa), andrà infatti operata una generalizzazione “oggettivante” dei giudizi sulla prevedibilità dell’evento, da esprimere alla stregua dell’agente modello o, secondo più pregnante definizione, dell’homo eiusdem conditionis et professionis, nel rispetto del carattere normativo della colpa (come “doverosità”, piuttosto che come mera, materiale e “naturalistica” possibilità di prevedere).
Incidentalmente, si vuole qui difendere la figura dell’agente modello, posto che la sua alternativa, e cioè la valutazione svolta alla stregua dell’agente concreto, trascenderebbe in un pericoloso soggettivismo (prima, quello del destinatario del precetto; poi, quello dell’interprete), inconciliabile con le istanze gius-penalistiche. E che le sue criticità possono essere, d’altronde, emendate attraverso gli strumenti della razionalità classica, così da: per un verso, neutralizzare appunto l’insight bias ponendo mente alla consistenza scientifica dell’ipotesi o alla ricorrenza statistica dell’evento; per altro verso, ridurre il c.d. rumore della decisione, che deriva – qui rileva un ulteriore sviluppo del medesimo filone di psicologia cognitiva – dalla dispersione casuale delle informazioni, mediante semplici “tecniche di igiene decisionale” (quali il sequenziamento delle informazioni, sul presupposto che l’irruzione di una pletora di dati irrilevanti possa condurre ad intuizioni immature, oppure la selezione ed aggregazione delle stime indipendenti, essendo dimostrato che la media di più previsioni aumenta decisamente l’accuratezza del giudizio rispetto a quello del singolo).
Quindi, e soltanto in seconda battuta, occorrerà “correggere” la valutazione così espressa, tenendo conto – per quanto qui interessa – delle eventuali maggiori conoscenze (o capacità) dell’agente concreto, per il quale potrebbe essere prevedibile ciò che per l’homo eiusdem conditionis et professionis tale non è: con l’effetto di (sempre in via ipotetica) innalzare lo standard di diligenza da lui esigibile, come nel caso in cui disponga di informazioni aggiuntive o di nozioni specialistiche sull’area conoscitiva di interesse (misura soggettiva della colpa).
A tale giudizio, bifasico, farà poi seguito la valutazione sull’evitabilità dell’evento, nessun rimprovero potendo essere mosso là dove l’evento, sebbene prevedibile, non fosse, in concreto, anche prevenibile dall’agente.
Infine, ove anche l’evento sia prevedibile ed evitabile, dovrà valutarsi la concreta esigibilità della condotta conforme a dovere, alla luce delle circostanze concrete di contesto in cui l’agente ha operato e secondo gli standard rigorosi evocati a proposito degli imputati della Regione.
- Precisazioni sul caso concreto.
La responsabilità del Sindaco e del tecnico J.J. andrà, quindi, valutata tenendo conto di quanto disposto nella perizia (la cui rilevanza non risulta, allo stato, confutata ma solo apoditticamente negata, con conseguente vizio motivazionale) e alla luce dei principi poc’anzi evocati, con riguardo al caso specifico dovendosi svolgere le seguenti precisazioni.
Come rilevato in alcuni ricorsi e memorie difensive, il richiamo compiuto dalla Corte d’Appello (tra le altre) a Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, Catalano, Rv. 247015, sull’alluvione di S, al di là di ogni valutazione sull’impostazione della sentenza (che nega formalmente cittadinanza al principio di precauzione nella teoria della colpa, ma desume di fatto quest’ultima dalla mera non impossibilità dell’evento), non appare pertinente, considerata la diversità dei contesti fattuali.
Infatti, nel caso che qui ci occupa: da un lato, a differenza di quanto spesso accade in materia alluvionale, nel sito di R non si diedero pregressi eventi-valanga (una deduzione ricorrente riguarda la presenza, quale c.d. “testimone muto”, di un faggeto secolare che circondava l’albergo, da cui si inferisce che quella zona non fosse stata in precedenza interessata da valanghe); dall’altro lato, anche a ricostruire la “classe di eventi” in termini più ampi (e cioè avendo riguardo non allo specifico sito bensì all’area), andrebbe considerato che il particolare evento-valanga che si inverò il 18 gennaio 2017 fu “improvviso” o “istantaneo” nel senso in precedenza specificato, mentre l’evento-alluvione è suscettibile di protrarsi, per sua natura, per un lasso di tempo più esteso.
Pertanto, non può restare privo di peso il fatto che il Sindaco ed il tecnico J.J. si mossero in un contesto di particolare incertezza, nel senso – appena precisato – di “rischio ignoto”.
L’opacità sarebbe stata, senza dubbio, minore ove il sito di R fosse stato dichiarato soggetto a rischio valanghivo, sulla base degli strumenti conoscitivi in precedenza indicati e non attuati a livello regionale e, dunque, nemmeno comunale, perché, in tal caso – ammettendo pure che l’albergo si fosse trovato comunque in quella zona e che avesse operato anche nei mesi invernali -ben altro senso avrebbe avuto il rischio valanghe segnalato dai bollettini Meteomont con riferimento a vasta ed indistinta zona montuosa; rischio, come ricordato, peraltro intensificatosi a ridosso della tragedia ma che, comunque, avrebbe con ogni probabilità portato all’attivazione della sala operativa comunale e, quindi, ad approfondimenti ulteriori.
Né, nella prospettiva di una rigorosa valutazione ex ante e alla luce delle avverse condizioni climatiche della zona, anche limitrofa, nonché considerata la difficoltà di immaginare un evento valanghivo della portata distruttiva di quello concretamente inveratosi (ciò che, come pure rilevato, maggiormente interessa), può escludersi che la struttura dell’Hotel (Omissis) fosse apparsa addirittura più sicura di altre.
Tale valutazione non è smentita (semmai, sarebbe confortata) dal fatto che, nel 2015, si era verificata una situazione di isolamento che venne però risolta in tempi brevi, grazie all’intervento delle autorità pubbliche le quali approvvigionarono gli ospiti dell’albergo mediante un elicottero. L’episodio è, invero, richiamato nella sentenza impugnata e ivi valorizzato in chiave negativa; tuttavia, nel contesto del giudizio colposo che in questa sede interessa, la morte e le lesioni dipesero dalla straordinarietà della valanga, che travolse l’edificio, non dal suo isolamento, non essendo la SP (Omissis) strada comunale e non potendosi dunque rimproverare agli imputati l’avvenuta preclusione dell’unica possibilità di fuga dall’hotel.
Stanti, quindi, le richiamate condizioni (valutazione ex ante e avversità metereologiche generali), non può escludersi che la decisione di sgombrare proprio l’Hotel (Omissis) – e non altri edifici o strutture dell’area montuosa del Comune di F – apparisse agli occhi del decisore, al contrario di quanto supposto nella sentenza impugnata – se non “estrema” – almeno molto impegnativa.
Con parole diverse, ci si dovrebbe chiedere se si desse proporzione tra il rischio conoscibile – sempre alla stregua del giudizio prognostico di cui si è detto – e gli effetti, in termini di danni/disagi, conseguenti alla decisione di chiudere e sgombrare la struttura.
Sul punto non si può trascurare che, ragionando come hanno fatto le sentenze di merito, in disparte le considerazioni svolte nel ricorso degli imputati sulla illegittimità del provvedimento amministrativo, il numero di sgomberi da disporre annualmente in presenza di condizioni climatiche come quella verificatasi nel caso di specie si innalzerebbe in modo considerevole, con conseguenti disagi, se non esposizione a (diverso) rischio della popolazione coinvolta.
Il che conforta quanto osservato da questa Corte (Sez. 4, n. 22214 del 14/04/2019, Scidone, cit.; sentenza peraltro citata anche dalla Corte d’Appello), la quale ha avuto già modo di precisare che, finché non si palesa un pericolo imminente, la valutazione dell’organo politico è discrezionale e non sindacabile in sede penale, in quanto fondata su un bilanciamento che deve contemplare anche i possibili effetti negativi della decisione.
In questa prospettiva, sarebbe opportuno anche interrogarsi sul comportamento tenuto da I.I. il quale accompagnò personalmente all’albergo alcuni ospiti soltanto il giorno prima della tragedia, esponendo, quindi, sé stesso a rischio, per verificare se da tale comportamento possa inferirsi – ed entro quali margini di ragionevolezza – una mancata percezione della situazione di pericolosità.
La stessa sentenza della Corte d’Appello, d’altronde, ha riconosciuto che, all’aggravarsi delle condizioni meteorologiche, I.I. si attivò, cercando ripetutamente di contattare – vi riuscì in due occasioni – la Sala operativa regionale (SOR), chiedendo mezzi spazzaneve e segnalando la condizione “catastrofica” in cui versava il Comune (seppure senza effettuare una segnalazione specifica per il canalone di R, di cui non aveva colto la peculiare esposizione a rischio).
Ancora, andrebbe considerato che una valanga delle dimensioni -straordinarie – di quella effettivamente caduta a R il 18 gennaio 2017 sarebbe stata prevedibile ove fosse stata per esempio preceduta, nei giorni precedenti, da eventi analoghi (c.d. eventi-precursori), sebbene di minor entità, perché, in tal caso, trattandosi di “tragedia annunciata”, il pericolo ben avrebbe potuto essere percepito come “imminente”.
Infine, dovrebbe porsi mente al fatto che – ferma l’impossibilità di ravvisare una causalità condizionalistica tra antecedente e susseguente sul piano scientifico, e sempre per ciò che riguarda il giudizio sulla colpa – la discesa di una valanga, al limite, avrebbe potuto essere forse predetta – qui, già in base all’esperienza dell’uomo medio, senza dover ricorrere a conoscenze specialistiche – a seguito delle scosse di terremoto sul territorio suscettibili di destabilizzare il manto nevoso (nelle sentenze di merito si legge che nella sola giornata del 18 gennaio, e a partire dalla mattinata, furono registrate dieci scosse di intensità superiore a 4 e quattro addirittura di magnitudo superiore a 5).
Ma che, a quel momento, lo sgombero dell’albergo non sarebbe stato comunque più possibile, quantomeno via terra – con riverberi sull'(in-)evitabilità dell’evento -, a causa della riferita ed accertata inagibilità della SP (Omissis), unica via di ingresso ed anche di uscita dall’Hotel (Omissis).
La sola possibilità di evacuare l’hotel sarebbe astrattamente consistita nel prelevarne, nei ristretti tempi a disposizione, gli ospiti e i dipendenti mediante elicotteri, ma la praticabilità, materiale e tecnica, di tale soluzione, anche alla luce delle condizioni climatiche del giorno 18 gennaio, non è stata indagata né in primo, né in secondo grado.
10.7/ ricorso della Procura Generale sulle posizioni in esame.
In conclusione del discorso sulle posizioni di I.I. e J.J., va ricordato che la Procura ricorrente deduce, tra le altre cose, che mai il Sindaco avrebbe dovuto consentire l’ampliamento e/o la ristrutturazione dell’albergo oppure il suo uso nei mesi invernali: così collocando la condotta inottemperante degli imputati anche in una fase che precede di molto la tragedia (secondo un’impostazione che, quantomeno in astratto, sarebbe stata più corretta per le ragioni varie volte ricordate).
A parte, tuttavia, la questione se tale addebito debba essere mosso al Sindaco oppure agli organi dell’ufficio tecnico del Comune di F, sul punto è preliminare osservare che il rimprovero non avrebbe ragion d’essere ove si acceda alla tesi dei periti secondo cui, in assenza di CLPV, il Sindaco non era nelle condizioni di realizzare interventi in un’ottica di prevenzione “anticipata”.
Resterebbero, infatti, oscure le ragioni per cui avrebbe dovuto negarsi il permesso a costruire o analogo titolo abilitativo, non essendo conosciuta (perché formalmente ri-conosciuta) quella zona come valanghiva.
- Conclusioni.
Per le ragioni espresse, si impone, anche in relazione alla condanna del Sindaco di F e del tecnico comunale J.J. per i reati di cui al capo 4) dell’imputazione, l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al giudice dell’appello affinché, valutata l’attendibilità della perizia la pretermissione/travisamento dei cui contenuti è stata dedotta dai ricorrenti, verifichi la configurabilità dell’elemento soggettivo colposo secondo i principi e i criteri in precedenza esposti, restando per il resto assorbiti gli altri motivi di ricorso.
- Le posizioni degli imputati K.K., U.U., L.L. e della “Gran Sasso Resort E Spa” Srl (capi 8, 9, 10, 11 e 12 dell’imputazione).
- Il ricorso dell’imputato K.K.
K.K. impugna la conferma della condanna per il falso ideologico per induzione di cui al capo 9) dell’imputazione, che egli avrebbe commesso in concorso con il proprio tecnico U.U., incaricandolo di redigere una relazione contenente un’attestazione dello stato dell’edificio in parte difforme dal vero ed ottenendo, mediante la produzione di tale atto all’ufficio tecnico del Comune di F, il permesso di costruire per alcuni interventi migliorativi dell’Hotel (Omissis), gestito dalla società di cui era legale rappresentante.
Entrambi i motivi del suo ricorso non possono essere ammessi.
1.1. Il primo, con cui si denuncia l’erronea interpretazione della disciplina regolatrice del procedimento per il rilascio dei permessi di costruire, sostenendosi che graverebbe comunque sugli uffici comunali l’obbligo di compiere le verifiche di quanto attestato dal privato richiedente, è manifestamente infondato.
A norma dello stesso art. 20, comma 1, d.RR. n. 380 del 2001, citato in ricorso a sostegno della deduzione, è il progettista incaricato dal richiedente che è tenuto ad attestare il reale stato dei luoghi (“La domanda per il rilascio del permesso di costruire, sottoscritta da uno dei soggetti legittimati ai sensi dell’articolo 11, va presentata allo sportello unico corredata da un’attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali richiesti e, quando ne ricorrano i presupposti, dagli altri documenti previsti dalla parte II.
La domanda è accompagnata da una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, alle norme relative all’efficienza energetica”).
L’ufficio tecnico comunale non ha alcun onere di verifica materiale, dovendo compiere un’istruttoria di tipo esclusivamente documentale, come si ricava senza possibilità d’equivoci dal successivo comma 5 della medesima disposizione, secondo cui tale ufficio può esclusivamente avanzare all’interessato una “motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente”.
1.2. Nella parte, poi, in cui deduce un vizio della motivazione in punto di dolo, la doglianza è inammissibile per genericità c.d. “estrinseca”, risolvendosi nella reiterazione di quanto già rassegnato ai giudici di appello, senza un efficace confronto critico con i relativi argomenti: consapevolezza, da parte dell’imputato, della falsa rappresentazione contenuta nella documentazione prodotta; consapevole attivazione di una procedura non consentita, in quanto possibile soltanto in assenza di preesistenti illeciti edilizi, invece presenti; notevole interesse economico sottostante; rischio di sanzioni remoto e, comunque, non tale da impedire la prosecuzione dell’attività (pag. 405, sent. appello).
1.3. Il secondo motivo, in tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, contiene censure di puro merito, non consentite in questa sede.
Deve premettersi che, ai fini dell’esclusione della punibilità per tale ragione, a norma dell’art. 131-bis, cod. pen., il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, stesso codice, delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590).
A tal fine, non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, ma è sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti, dovendo comunque il giudice motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, per valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, non potendo far ricorso a mere clausole di stile (così, fra altre: Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Milone, Rv. 274647; Sez. 6, n. 18180 del 20/12/2018, dep. 2019, Venezia, Rv. 275940).
Trattandosi, quindi, di una valutazione da compiersi sulla base dei criteri di cui all’art. 133, cod. pen., essa rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito e, di conseguenza, non può essere sindacata dalla Corte di legittimità, se non nei limiti della mancanza o dell’arbitrarietà delle ragioni postevi a sostegno.
Nello specifico, invece, la decisione impugnata ha fatto corretta applicazione di tali princìpi e la relativa motivazione non presenta vizi di ordine logico, ma anzi si rivela ampiamente plausibile, avendo escluso la particolare tenuità dell’offesa in ragione delle modalità articolate della falsa rappresentazione e dell’obiettiva consistenza dell’intervento edilizio compiuto, e quindi del significativo pregiudizio arrecato a beni, come quelli ambientali, ritenuti meritevoli dall’ordinamento di una protezione anche di tipo penale (pag. 406, sent.).
1.4. Va osservato, infine, in risposta alla richiesta avanzata dal ricorrente con la memoria integrativa depositata, che l’inammissibilità del ricorso per cassazione non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266).
1.5. L’inammissibilità del ricorso comporta obbligatoriamente – ai sensi dell’art. 616, cod. proc. pen. – la condanna del proponente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in tremila euro.
- Il ricorso dell’imputato U.U.
L’unico motivo del suo ricorso, con cui si lamenta della declaratoria d’inammissibilità del proprio atto d’appello, è eccentrico rispetto alla decisione impugnata e, dunque, inammissibile per manifesta infondatezza.
2.1. La sua difesa sostiene che i giudici d’appello avrebbero errato, perché, essendosi svolto il giudizio nelle forme del rito abbreviato ed avendo l’imputato rilasciato la relativa procura speciale al proprio difensore, egli avrebbe in questo modo partecipato al processo tramite tale suo rappresentante.
2.2. Una tale obiezione difensiva, tuttavia, potrebbe avere rilevanza se l’inammissibilità del gravame fosse stata dichiarata in applicazione dell’art. 581, comma 1 -quater, cod. proc. pen., per il difetto, cioè, di uno specifico mandato difensivo ad impugnare, rilasciato successivamente alla sentenza impugnata dall’imputato rimasto assente nel processo.
L’appello di U.U., invece, è stato dichiarato inammissibile ai sensi del comma 1-ter del medesimo art. 581, ovvero per la mancanza in atti di una dichiarazione od elezione del domicilio cui notificare il decreto di citazione a giudizio in appello.
Sul punto, sono di recente intervenute le Sezioni unite di questa Corte, con sentenza che, allo stato, non risulta ancora depositata, ma che – secondo la notizia di decisione diffusa dalla cancelleria – hanno affermato il principio per cui la previsione dell’art. 581, comma 1-ter, cod. proc. pen., dev’essere interpretata nel senso che è sufficiente che l’impugnazione contenga anche soltanto il richiamo espresso e specifico ad una precedente dichiarazione o elezione di domicilio ed alla sua collocazione nel fascicolo processuale, tale da consentire l’immediata ed inequivoca individuazione del luogo in cui eseguire la notificazione.
Nell’atto d’appello proposto da U.U. – consultato dal Collegio per la natura procedurale della questione devolutagli – una tale indicazione puntuale non si rinviene, non avendo ciò dedotto, in effetti, neppure il suo difensore con il ricorso per Cassazione.
2.3. Come già si osservato trattando della posizione del K.K., l’inammissibilità del ricorso preclude la possibilità di dichiarare la prescrizione del reato, maturata nelle more dell’impugnazione.
2.4. All’inammissibilità del ricorso segue la condanna al pagamento delle spese del procedimento e della stessa somma in favore della cassa delle ammende, anch’egli non potendo essere ritenuto esente da colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità.
- Il ricorso del Procuratore generale avverso l’assoluzione di K.K., L.L. e “Gran Sasso Resort E Spa” Srl dalle imputazioni di cui ai capi 11) e 12).
Con il terzo motivo del suo ricorso, il Procuratore generale distrettuale ha impugnato la sentenza d’appello nella parte in cui ha confermato l’assoluzione di tali imputati dai delitti di omicidio e lesioni colposi e di omissione colposa di cautele antinfortunistiche (capo 11), nonché della società Gran Sasso dal conseguente illecito amministrativo da reato (capo 12).
In estrema sintesi, secondo il ricorrente, anche la mancata previsione dei rischi da valanga e da isolamento nel documento di valutazione dei rischi (“d.v.r.”), imposto alla società dalla disciplina normativa antinfortunistica, avrebbe avuto un’efficienza concausale nella verificazione di quei tragici eventi, non avendo reso possibile la predisposizione di idonee contromisure preventive e la gestione adeguata dell’emergenza venutasi a creare a seguito della concretizzazione di quei rischi.
3.1. Diversamente da quanto dedotto dalle difese degli imputati con le rispettive memorie, il motivo di ricorso è ammissibile.
Esso, infatti, non è generico, perché si misura criticamente con gli argomenti della sentenza, contestando la minore estensione ivi delineata della posizione di garanzia del datore di lavoro; non rassegna, inoltre, censure di merito, poiché non discute del significato o della capacità dimostrativa di elementi di prova e, dunque, della ricostruzione dei fatti; né, infine, lamenta esclusivamente vizi della motivazione, bensì una violazione della legge penale, poiché revoca in dubbio la corretta applicazione dei princìpi regolatori della colpa alla condotta di quei soggetti, non incontrando, perciò, il limite dell’art. 608, comma 1 -bis, cod. proc. pen., che, in caso di conferma in appello di una sentenza di proscioglimento, limita la possibilità di ricorso per cassazione della parte pubblica alle sole ipotesi di violazioni di legge.
3.2. Benché ammissibile, il motivo di ricorso, comunque, nel suo complesso, non è fondato.
3.2.1. Non ha torto, in verità, il Procuratore generale, allorché censura il ragionamento della Corte d’Appello nella parte in cui ascrive la verificazione degli eventi lesivi esclusivamente alla concretizzazione del rischio di valanghe ed esclude quest’ultimo – parrebbe senza eccezioni – dal perimetro della posizione di garanzia del datore di lavoro rispetto all’incolumità individuale dei dipendenti e dei terzi presenti nell’area aziendale. Né, per altro verso, può reputarsi decisiva la circostanza – pure evidenziata da quei giudici – che la mancata previsione di detto rischio nel relativo documento di valutazione non abbia formato oggetto di rimprovero nemmeno da parte del Pubblico ministero, dato che non vi si opera alcun cenno nel capo d’imputazione, il quale limita la contestazione all’omessa previsione, in quel documento, del rischio di isolamento per ingombro neve sulla strada di accesso alla struttura e del connesso rischio d’infortunio o malore dei presenti in essa (pag. 411, sent.).
Quanto a questo secondo aspetto – neppure dalla sentenza impugnata particolarmente valorizzato – è sufficiente ribadire un principio costantemente affermato da questa Corte: vale a dire che, nei procedimenti per reati colposi, il giudizio di colpevolezza formulato sulla base di un diverso profilo di colpa rispetto a quello oggetto di contestazione non comporta un mutamento del fatto e non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l’imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell’addebito (tra le tante: Sez. 4, n. 6564 del 23/11/2022, dep. 2023, Spampinato, Rv. 284101; Sez. 4, n. 53455 del 15/11/2018, Castellano, Rv. 274500; Sez. 4, n. 18390 del 15/02/2018, Di Landa, Rv. 273265).
E, poiché non è discusso che gli imputati abbiano avuto modo di dispiegare compiutamente le loro difese anche in relazione all’incidenza del rischio valanghivo, la mancata indicazione di esso nel capo d’imputazione non potrebbe essere d’ostacolo ad un giudizio di colpevolezza, ove ne esistessero i presupposti.
Merita una più attenta riflessione critica, piuttosto, il primo di quegli argomenti dei giudici d’appello, secondo cui la causa degli eventi lesivi oggetto di giudizio va ravvisata esclusivamente nella valanga, dovendosi perciò aver riguardo, ai fini del giudizio di colpevolezza, soltanto alla prevenzione ed alla gestione del relativo rischio.
È essenzialmente indiscusso, in realtà, che i decessi e le lesioni verificatisi quel giorno a R, o per lo meno quelli degli ospiti dell’albergo, siano stati determinati dall’impossibilità materiale per costoro di allontanarsi, a causa dell’impraticabilità per eccessivo innevamento della strada provinciale che conduceva al paese di F.
Non può revocarsi in dubbio, allora, che anche l’isolamento della struttura abbia rappresentato una causa degli eventi delittuosi, concorrente con la valanga.
Il compito del giudice di merito, dunque, in relazione alla posizione del datore di lavoro, era quello di stabilire se tali due fattori causali dovessero essere da lui previsti in ragione di una specifica disposizione normativa; se, mancando quest’ultima, fossero comunque dallo stesso prevedibili, nelle forme in cui si sono concretamente verificati, secondo regole di scienza ed esperienza del settore; e, in caso affermativo, se egli fosse tenuto ad evitarne la verificazione ed avesse la possibilità, giuridica e materiale, di farlo. Solamente in presenza di tali condizioni, infatti, si sarebbe potuta configurare, a suo carico, una posizione di garanzia, sub specie di obbligo di protezione da quei fattori di rischio dell’incolumità di dipendenti, ospiti e terzi comunque presenti in struttura, con il conseguente obbligo – per lui e per il tecnico suo ausiliare – di predisporre le idonee misure preventive.
Ebbene, la motivazione rassegnata sul punto dalla Corte d’Appello (pagg. 409417) si rivela sostanzialmente adeguata, sottraendosi a censura.
3.2.2. Quanto al rischio di valanghe, infatti, in assenza di una classificazione di quel sito come esposto a tali fenomeni, contenuta nella CLPV o, comunque, in altro documento formale proveniente da fonte istituzionale, non è possibile ravvisare alcuna disposizione normativa che imponesse al datore di lavoro, ed agli ausiliari da lui incaricati delle relative incombenze tecniche, di farsene carico nella predisposizione del documento di valutazione dei rischi e delle relative misure di prevenzione; del resto, una prescrizione in tal senso non risulta essere stata imposta neppure nei numerosi atti amministrativi abilitativi agli interventi edilizi ed alle attività imprenditoriali, rilasciati negli anni ai titolari della struttura.
Non è possibile, dunque, rilevare alcun profilo di colpa specifica.
Ma lo stesso vale per quella generica.
A ragionar per ipotesi, infatti, pur in assenza di specifiche prescrizioni autoritative, qualora, sulla base delle conoscenze e delle esperienze che è ragionevole attendersi dal c.d. “agente modello”, e cioè, nello specifico, da colui che svolga una attività professionale di quel genere in zone di montagna, fosse stato possibile apprezzare la probabilità di manifestazione di fenomeni valanghivi in quelle specifiche condizioni di tempo e di luogo, il gestore della struttura sarebbe stato obbligato ad adottare le cautele necessarie a garantire l’incolumità delle persone in essa presenti, finanche, se non altrimenti possibile, tempestivamente impedendovi l’accesso o disponendone lo sgombero.
È evidente, però, che, ai fini di una tale valutazione, presenta rilevanza decisiva l’esistenza e la concludenza degli elementi predittivi della concretizzazione del rischio, e quindi del relativo pericolo.
E, sotto questo profilo, l’osservazione dei giudici d’appello, secondo cui tali non fossero quelli evidenziati dal Pubblico ministero e dei quali poteva disporre K.K., non presenta alcuna debolezza logica: le diverse allerte meteo emanate in quei giorni, difatti, non riguardavano i fenomeni valanghivi; ad essi faceva riferimento, invece, il bollettino “Meteomont”, che però era aspecifico, riferendosi a macroaree di tutto il territorio regionale; lo specifico sito ov’era ubicato l’albergo non risultava essere stato interessato da diversi anni da episodi valanghivi, e comunque si era trattato di fenomeni d’intensità nettamente inferiore a quello di cui si discorre; inconferente, infine, era l’episodio d’isolamento verificatosi nel 2015, in quanto dovuto ad eccessive precipitazioni nevose e non a valanghe.
3.2.3. Ad identiche conclusioni, ma per diversa strada, deve pervenirsi anche per quel che riguarda la mancata previsione nel d.v.r. del rischio da isolamento.
Nessuno contesta, anzitutto, che la struttura fosse provvista di derrate alimentari e di dispositivi di protezione e di sicurezza sufficienti a garantire per un congruo periodo di tempo la sicurezza dei presenti in caso di isolamento da eccessivo innevamento nonché lo sgombero della neve nell’area di pertinenza aziendale: all’anzidetta carenza del d.v.r. per tali profili, dunque, non può attribuirsi alcuna efficacia causale rispetto agli eventi lesivi come concretamente verificatisi.
L’isolamento dell’albergo, concausa degli eventi, è stato determinato, infatti, esclusivamente dall’impraticabilità della strada provinciale, e quindi di un sito estraneo alla sfera di dominio dell’imprenditore-datore di lavoro: si è trattato, cioè, della conseguenza di una situazione di fatto che altri soggetti avrebbero dovuto prevenire e, all’occorrenza, controllare, risultando perciò garanti verso i terzi della protezione da quel rischio.
Non trova fondamento giuridico, infatti, come invece vorrebbe il Procuratore ricorrente, l’estensione della posizione di garanzia di un soggetto anche al di là della sfera funzionale e logistica connessa al ruolo da esso svolto, in assenza di un’eventuale assunzione di fatto su di sé, consapevole e volontaria, del relativo rischio. È agevole rilevare, infatti, che, lungo tale crinale, la responsabilità colposa declinerebbe facilmente verso quella oggettiva e di posizione, il cui àmbito, peraltro, sarebbe condizionato dal concreto manifestarsi degli eventi, e quindi da giudizi ex post e non prognostici, cioè di prevedibilità ex ante, come invece la sua natura impone.
In questo senso, pertinente si presenta l’osservazione dei giudici distrettuali per cui l’obbligo di diligenza imposto al gestore dell’albergo a protezione del rischio da isolamento non potesse spingersi fino a chiedergli di munirsi preventivamente di un “gatto delle nevi”.
In mancanza di una specifica disposizione in tal senso (dal che consegue l’indiscutibile esclusione di una colpa specifica), tale cautela viene considerata necessaria e doverosa dal Procuratore generale soltanto alla luce delle concrete modalità di verificazione degli eventi lesivi. Ma, ragionando in tal modo, e quindi calibrando il comportamento doveroso su quello astrattamente e teoricamente possibile secondo una valutazione ex post, qualora neanche un tale veicolo fosse stato in condizione di garantire ai presenti di allontanarsi dalla struttura, neppure la dotazione di esso sarebbe stata sufficiente ad escludere una responsabilità del titolare della struttura, esistendo strumenti ulteriori attraverso i quali, in teoria, quel risultato si sarebbe potuto ottenere e dei quali, perciò, il datore di lavoro si sarebbe dovuto premunire (un elicottero, per esempio).
3.3. È quello del Procuratore generale, allora, un argomentare sfornito di base giuridica e la sua doglianza dev’essere perciò respinta.
Ovviamente, essendo la loro responsabilità fondata sui medesimi presupposti di quella del datore di lavoro, se non altro secondo l’impostazione del ricorso, le considerazioni appena rassegnate sulla posizione di costui si riverberano tal quali su quella del suo ausiliario tecnico L.L. e della società “Gran Sasso Resort E Spa”, dovendo perciò l’impugnazione essere rigettata anche nei loro confronti.
- I reati contestati ai Prefetto e ai dirigenti e funzionari della Prefettura (capi 14, 15, 16 e A dell’imputazione).
- Gli omicidi e le lesioni colposi (capo 16 dell’imputazione).
Con il quarto motivo del suo ricorso, al terzo punto, il Procuratore generale distrettuale insiste nel chiedere l’affermazione di responsabilità degli imputati M.M., N.N. e O.O. per gli omicidi e le lesioni verificatisi a R, da esso ritenuti conseguenza – anche – del rifiuto di atti d’ufficio e dei falsi ideologici di cui ai paragrafi precedenti, sostenendo che la sentenza d’appello – che ha confermato per tale capo quella di primo grado – sia affetta per questa parte da violazione di legge e da vizi della motivazione.
La tesi del ricorrente, in estrema sintesi, è che la tempestiva attivazione del CCS e della SOP avrebbe consentito alla Prefettura di avere “in tempo reale” un quadro complessivo della situazione emergenziale e, conseguentemente, di adottare i provvedimenti opportuni per far fronte al rischio valanghivo e da isolamento, anche facendo ricorso ai poteri sostitutivi riconosciutile dalla normativa di protezione civile in caso d’inerzia od inefficienza operativa di Provincia e Comune.
1.1. Come più volte si è avuto modo di osservare – da ultimo trattando dell’analogo motivo di ricorso proposto dallo stesso Procuratore generale avverso la conferma dell’assoluzione dell’imputato K.K. dagli stessi addebiti – la causa dei tragici eventi oggetto di giudizio, o comunque della maggior parte di essi, non va individuata esclusivamente nella valanga, ma anche nell’isolamento della struttura per effetto dell’impraticabilità della strada provinciale.
Deve, dunque, convenirsi con il Procuratore distrettuale quando censura la diversa opinione della Corte d’Appello, dovendo perciò valutarsi in relazione ad entrambi i relativi rischi, e non solo a quello da valanga, la correttezza o meno del comportamento tenuto dagli imputati e la causalità concorrente dello stesso, qualora censurabile, nella verificazione degli eventi.
E così, pure, l’opinione del ricorrente va condivisa nella parte in cui sostiene che, dovendo la correttezza della condotta degli imputati valutarsi in relazione al rischio, e quindi al previsto o prevedibile manifestarsi di un fenomeno produttivo di una situazione di pericolo per i beni da tutelare, non possa darsi rilievo – come invece fa la sentenza impugnata – alla circostanza per cui, fino alla sera precedente, una tale situazione non si fosse manifestata, essendo rimasta la strada provinciale comunque percorribile. Correttamente, quindi, il ricorso censura la sentenza là dove parrebbe individuare il presupposto per l’adozione della condotta doverosa del Prefetto e dei suoi collaboratori nella ricezione della notizia della impercorribilità della strada, dovendo esso individuarsi, piuttosto, nella conoscenza o conoscibilità delle condizioni di criticità meteorologica e del conseguente rischio di detta impraticabilità, resisi manifesti già dal giorno 16.
La fondatezza del ricorso del Pubblico ministero, però, si ferma qui.
1.2. Con riferimento al rischio di verificazione di valanghe, infatti, esclusa la violazione di qualsiasi disposizione puntuale (e quindi la configurabilità di una colpa specifica), dovrebbe verificarsi se il Prefetto ed i suoi dirigenti disponessero di informazioni tali da poter prevedere, con l’uso della dovuta diligenza e della competenza connessa al loro ruolo istituzionale, il probabile manifestarsi di un tale fenomeno naturale.
La risposta – analogamente a quanto più sopra rilevato per il gestore dell’albergo – dev’essere negativa, in ragione della mancata classificazione di quel sito, in qualsiasi documento istituzionale, come esposto a tale specifico rischio, nonché della scarsa predittività degli elementi a tal fine valorizzati dall’accusa, ovvero: le allerte meteo, che però non riguardavano i fenomeni valanghivi; i bollettini “Meteomont” dei Carabinieri forestali, tuttavia aspecifici, in quanto riferiti a macroaree dell’intero territorio regionale; e l’isolamento verificatosi nel 2015, non conferente perché dovuto ad eccessive precipitazioni nevose e non al distacco di valanghe.
Se a questo si aggiunge che il sito in cui sorgeva l’hotel non risultava essere interessato da diversi anni da episodi valanghivi, e che questi ultimi erano stati d’intensità ampiamente inferiore a quello poi verificatosi, del tutto ragionevole si presenta la conclusione dei giudici d’appello nel senso dell’imprevedibilità, da parte del Prefetto e dei suoi dirigenti, di tale evento distruttivo e, quindi, della non rimproverabilità degli stessi per la mancata l’adozione, astrattamente pur possibile, di cautele idonee ad evitarlo (interdizione dell’accesso alla struttura o evacuazione della stessa).
1.3. Diversa è la ragione, ma uguale è l’esito, del giudizio sul comportamento tenuto dagli imputati, laddove valutato in relazione al concorrente rischio da isolamento.
Perché potesse ravvisarsi una loro responsabilità, sarebbe stato necessario dimostrare che, qualora il CCS e la SOP fossero stati tempestivamente allestiti sin dalla sera del 16 gennaio, la Prefettura sarebbe stata in grado di predisporre una gestione coordinata dell’emergenza, che le avrebbe consentito, all’occorrenza, anche avvalendosi dei propri poteri di sostituzione di altre amministrazioni inadempienti o prive di strumenti giuridici o materiali adeguati, di adottare i provvedimenti necessari per garantire, a chi avesse inteso farlo, la possibilità di allontanarsi dall’area investita dalla valanga.
Ciò significa – calando tale affermazione di principio nel concreto manifestarsi degli accadimenti – che sarebbe stato necessario comprovare che, se la Prefettura avesse organizzato il servizio nelle forme previste dalla legge, avrebbe potuto conoscere per tempo l’indisponibilità, da parte della Provincia, della turbina specificamente destinata allo sgombero della neve da quel tratto di strada, adottando i provvedimenti consequenziali per evitare l’eventuale isolamento di ospiti e dipendenti del resort.
Ebbene, questa dimostrazione non può dirsi raggiunta, e la sentenza impugnata perviene a tale conclusione con una motivazione razionale, logicamente coerente e fondata su dati probatori indiscussi, dando rilievo al comportamento tenuto dal competente funzionario della Provincia di P, ovvero l’imputato T.T., anche quando il CCS, la mattina del 18 gennaio, fu finalmente attivato: anche in tale sede, infatti, pur essendo venuto a conoscenza dell’indisponibilità di quel mezzo, egli tacque al Prefetto questa circostanza, come pure l’eccessivo innevamento di quel tratto di strada.
Al di là, allora, dei possibili profili di colpa del T.T. (per i quali si rinvia a quanto già esposto al precedente capitolo III), per quel che riguarda la posizione del Prefetto e dei suoi collaboratori, risulta del tutto ragionevole concludere – come fanno i giudici d’appello (pag. 546, sent.) – che, quand’anche il CCS fosse stato allestito sin dal precedente giorno 16, T.T., destinato a prendervi parte in rappresentanza della Provincia, in quanto responsabile del servizio viabilità di tale ente, avrebbe tenuto il medesimo comportamento, tanto più che, a quella data, le condizioni meteorologiche erano meno critiche rispetto al giorno 18.
Manca, dunque, la dimostrazione dell’utilità del comportamento alternativo doveroso, la prova, cioè, che, se esso fosse stato tenuto dagli imputati, sarebbe stato in grado di impedire il verificarsi degli eventi delittuosi: la prova, in altri termini, della c.d. “causalità della colpa”.
Il ricorso, sul punto, non va oltre una generica manifestazione di dissenso, limitandosi a ribadire ciò che il Prefetto avrebbe potuto fare in sede di CCS e rassegnando, così, una censura puramente astratta, che non si misura con il concreto svolgersi dei fatti, invece tenuto in considerazione dai giudici d’appello.
1.4. Il ricorso del Procuratore distrettuale è, per questa parte, sicuramente infondato e, come tale, dev’essere respinto.
- Il rifiuto di atti d’ufficio (capo 14).
La relativa contestazione, riguardante l’omessa attivazione della sala operativa e del centro di coordinamento dei soccorsi, previsti dalla normativa in materia di protezione civile, è stata elevata all’allora Prefetto di P, M.M., al suo capo di gabinetto, N.N., ed alla dirigente della Prefettura O.O.
In primo grado, essi sono stati tutti assolti, avendo il giudice ritenuto insussistente il reato.
In accoglimento di gravame del Pubblico ministero, la Corte d’Appello ha dichiarato colpevole del delitto di rifiuto di atti d’ufficio il Prefetto, confermando, invece, l’assoluzione degli altri due imputati, per non aver commesso il fatto anziché per l’insussistenza di esso.
Impugnano tale capo della decisione sia la Procura generale distrettuale che l’imputato M.M.
2.1. La parte pubblica tratta di tale imputazione al primo ed al secondo punto del quarto motivo del suo ricorso, deducendo che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici d’appello, N.N. e O.O., in ragione del loro ruolo organico di diretta collaborazione con il Prefetto, avessero anch’essi concorso nel reato: l’uno, sostanzialmente condividendo e sostenendo la condotta omissiva del Prefetto; l’altra, in quanto dirigente del settore specificamente competente in materia di protezione civile, omettendo di esercitare la propria competenza funzionale concorrente con quella del Prefetto.
La doglianza non è ammissibile.
Essa si presenta sostanzialmente reiterativa dei motivi d’appello, secondo cui la collaborazione prestata nel frangente al Prefetto da quei funzionari, nell’esercizio dei compiti istituzionali loro spettanti in ragione del ruolo ricoperto, abbia finito per integrare un coinvolgimento nelle decisioni di quell’autorità: deduzione, questa, alla quale, tuttavia, la sentenza impugnata risponde specificamente, rilevando come manchi qualsiasi evidenza della riferibilità – anche – a N.N. e O.O. della scelta di non attivare il centro di coordinamento dei soccorsi (CCS e la sala operativa di protezione civile (SOP) o, comunque, di un loro contributo, pur soltanto di tipo morale, alla decisione in tal senso del Prefetto (pagg. 525-529).
2.2. Il Prefetto M.M., invece, contesta il giudizio di colpevolezza formulato nei suoi confronti, avanzando cinque obiezioni: a) l’inesistenza dell’obbligo di attivazione di CCS e SOP in assenza di uno stato di allarme; b) la non configurabilità del rifiuto penalmente rilevante in relazione ad attività d’ufficio discrezionale, e comunque, nello specifico caso, l’assenza di arbitrarietà nell’esercizio della discrezionalità riconosciutagli dalla normativa di settore; c) la sua non consapevolezza della chiusura da tempo della SOP allestita presso la Prefettura; d) l’equivalenza funzionale del dispositivo da lui attivato, ovvero il Comitato operativo per la viabilità integrato da rappresentanti di altre amministrazioni (c.d. COV allargato), rispetto a quelli previsti dalla normativa; e) il difetto di dolo, in ragione della complessità della disciplina di settore, con conseguente errore su legge extra-penale.
Si tratta di rilievi già formulati con memoria scritta depositata nel giudizio d’appello e disattesi dalla sentenza impugnata con motivazione convincente (pagg. 510-525).
2.2.1. Corretta si presenta, anzitutto, l’osservazione della Corte distrettuale riguardo alla non equivalenza, anche soltanto di fatto, del “c.o.v. allargato” rispetto a CCS e SOP, ai fini della gestione dell’emergenza.
Al di là delle modalità operative, che prevedono solo per questi ultimi, e non per il primo, un’attività permanente nell’arco dell’intera giornata durante la situazione emergenziale, il dato significativo è rappresentato dalla diversa composizione dei due organismi e dall’assenza nel COV, pur come esteso dal M.M. ai rappresentanti di altri enti, di numerose funzioni invece presenti nel CCS (vds. pagg. 500 s., sent.).
Se si considera, dunque, che la funzione essenziale di tali organismi è quella di garantire il massimo flusso informativo tra le diverse amministrazioni pubbliche munite di competenze in materia di protezione civile, onde consentire una gestione razionale e coordinata dell’emergenza e degli interventi necessari per farvi fronte, è indiscutibile che la più o meno estesa composizione degli stessi possa avere delle ricadute sull’efficacia della relativa azione, bastando questo, dunque, per escludere che l’uno valga l’altro.
Peraltro, di tanto dà conferma proprio quanto accaduto nella vicenda in esame, essendo rimasto assente dal c.o.v. “allargato” il rappresentante della Provincia di P che avrebbe potuto e dovuto conoscere dell’indisponibilità della turbina necessaria per sgomberare dalla neve la strada provinciale per R (tale non essendo il funzionario ivi presente in rappresentanza di quell’ente: sul punto, vds. pag. 514, sent. appello).
D’altronde, è del tutto ragionevole ritenere – come fa la Corte d’Appello – che della sostanziale diversità di CCS e SOP dal COV, benché esteso, fosse ben consapevole lo stesso Prefetto M.M., giacché la prima disposizione da lui impartita ai suoi dirigenti, la sera del 15 di gennaio, era stata quella di istituire il CCS e non il COV; inoltre, con le note del 16 e 17 gennaio inviate a Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministro degli interni e Regione, egli ed i suoi uffici avevano comunicato l’istituzione di CCS, SOP, ma anche del COV (pag. 530, sent. appello), con un’indicazione, quest’ultima, evidentemente superflua, se effettivamente si fosse trattato del medesimo dispositivo.
Peraltro, la sentenza offre una spiegazione razionale di tale comportamento non lineare dell’imputato, che viene rinvenuta nella consapevolezza, da parte sua, della risalente inattività della SOP della Prefettura, colpevolmente tenuta in condizione di non essere immediatamente attivata, come invece sarebbe stato necessario. L’assunto difensivo, secondo cui tale sua consapevolezza non vi fosse, rimane, infatti, una semplice allegazione, non confortata da evidenze probatorie né da argomentazioni logiche.
Ovviamente, la circostanza per cui la non immediata operatività della SOP fosse verosimilmente ascrivibile a negligenze o deficienze operative, e non ad una deliberata scelta del Prefetto, non permette di conferire all’omissione della relativa attivazione una natura solamente colposa, e perciò tale da non integrare un rifiuto penalmente rilevante a norma dell’art. 328, cod. pen. Non si devono confondere, infatti, le ragioni di tale omissione con la volontà della stessa: quel che rileva, infatti, ai fini della configurabilità del reato e del relativo dolo, non sono i motivi che hanno indotto l’imputato a non attivare CCS e SOP, ma la circostanza che, dovendo farlo, e non essendovi impossibilitato per caso fortuito, forza maggiore o per la ricorrenza di situazioni scriminanti, egli abbia consapevolmente e volontariamente deciso di non farlo.
2.2.2. Non può essere assentita neppure l’obiezione difensiva riguardante l’insussistenza di un obbligo, per il Prefetto, di attivazione di quei dispositivi, in assenza della dichiarazione di uno stato di “allarme” e nella mancata dimostrazione della ricorrenza dei relativi presupposti.
Ha ragione la difesa, quando rileva che – secondo il “Piano provinciale di protezione civile” della Prefettura di P del 1993, come pure in base al “Protocollo d’intesa Regione Abruzzo-Prefetture” del 2013 – l’istituzione di CCS e SOP sarebbe stata obbligatoria soltanto in caso di dichiarazione dello stato di “allarme”, la quale, però, al 16 di gennaio, non era ancora intervenuta.
È agevole replicare, tuttavia, che detta dichiarazione, con riferimento al territorio provinciale, spettava proprio al Prefetto. Tanto era stato stabilito dalla delibera di Giunta regionale n. 793 del 4 novembre 2013, che, diversamente da quanto dedotto dalla difesa, vincolava anche il Prefetto, trattandosi di disposizione emessa in attuazione del disposto dell’art. 3-bis, comma 3, legge statale n. 225 del 24 febbraio 1992, istitutiva del Servizio di protezione civile (secondo cui, “sulla base dei livelli di rischio, anche previsti, di cui al comma 1, ogni regione provvede a determinare le procedure e le modalità di allertamento del proprio sistema di protezione civile ai diversi livelli di competenza territoriale”); ma, ancor prima, era stato previsto dal “Piano provinciale di protezione civile” della Prefettura di P del 1993, richiamato dalla stessa difesa, a tenore del quale, in presenza di eventi non agevolmente fronteggiabili se non con mezzi e poteri straordinari, “il Prefetto disporrà che venga dichiarato lo stato di allarme (…) verrà disposta la convocazione del Centro Coordinamento Soccorsi (…) verrà immediatamente attivata la Sala Operativa di Protezione Civile” e, “allorché (…) viene dichiarato lo stato di allarme, verrà costituito immediatamente in Prefettura presso la Sala Operativa Soccorsi il CCS”.
La circostanza per cui il 16 gennaio non fosse stato formalmente dichiarato lo “stato di allarme”, dunque, non può valere di per sé ad escludere il carattere doveroso dell’attivazione di quei dispositivi, costituendo detta dichiarazione il relativo presupposto formale e rientrando anch’essa nel potere-dovere dello stesso Prefetto.
Il tema rilevante finisce per essere, allora, quello dell’esistenza o meno di una situazione di fatto tale da rendere necessaria e non differibile, già da quella data, detta dichiarazione o, comunque, l’istituzione di CCS e SOP, potendo il Prefetto disporre in tal senso anche nella fase di “pre-allarme” (nella quale un evento con criticità elevata è soltanto previsto, mentre, in quella di “allarme”, è in atto).
Ebbene, non v’è dubbio che la disciplina di riferimento fosse disorganica, poiché frammentata tra una pluralità di fonti normative di diverso livello, che andavano dalla legge statale e regionale ai protocolli d’intesa tra la Prefettura ed i vari enti territoriali, passando per le direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri, le indicazioni operative del Dipartimento della protezione civile presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e le delibere di Giunta regionale, con il paradossale esito di complicare un quadro normativo che ognuno di quegli interventi si proponeva di razionalizzare. Ciò non di meno, la motivazione attraverso la quale la sentenza impugnata è giunta a concludere che l’attivazione di quei dispositivi dovesse essere compiuta dal Prefetto senza ritardo – così come richiede l’art. 328, primo comma, cod. pen. – si presenta logica e persuasiva, sottraendosi perciò a censura in questa sede.
I giudici d’appello, infatti, hanno valorizzato il contributo tecnico offerto dai periti, secondo i quali, nelle condizioni date, con la diramazione, cioè, di un’allerta “arancione” dalle ore 14.00 del giorno 16, l’istituzione del CCS e l’apertura della SOP “avrebbero dovuto essere un fatto pressoché automatico, secondo le comuni prassi della pianificazione provinciale di emergenza”, trattandosi di situazione tale da dover “attivare lo stato di “preallarme” e, verosimilmente, quello di “allarme”” (pag. 510, sent.). Vero è che quelle dei periti sono valutazioni puramente tecniche e non prescrizioni giuridiche, ma, quando – come nel caso specifico – il concetto giuridico è immediatamente e necessariamente legato all’esistenza o meno di una situazione di fatto suscettibile di definizione e di accertamento in base a conoscenze tecniche, l’apporto della prova scientifica riveste indiscutibilmente una valenza primaria ai fini dell’accertamento del “fatto giuridico”.
La sentenza, tuttavia, non si è fermata al recepimento delle valutazioni dei periti, avendo rinvenuto la conferma della doverosità dell’apprestamento di quei dispositivi nel comportamento tenuto dallo stesso Prefetto. In effetti, la circostanza che questi avesse dato disposizione, sin dalla sera del 15 gennaio, di istituire il CCS e, nei giorni seguenti, avesse comunicato alle autorità centrali e regionali del sistema della protezione civile, diversamente dal vero, di aver allestito CCS e SOP non trova altra ragionevole spiegazione logica, se non quella per cui egli stesso fosse perfettamente consapevole della sussistenza delle relative condizioni di fatto e della conseguente necessità di dar seguito senza ritardo a tali adempimenti.
Peraltro, proprio tale comportamento del Prefetto, semmai non fossero sufficienti la specifica esperienza e competenza connesse al suo ruolo, conduce logicamente ad escludere le ipotesi alternative dell’errore su legge extra-penale e della buona fede, formulate dalla sua difesa senza, peraltro, il sostegno di alcun dato istruttorio eloquente in tal senso.
Non risulta, infatti, non allegandolo neppure il ricorso, che l’imputato avesse deliberatamente optato per la convocazione del COV allargato anziché del CCS, esplicitamente motivando tale sua determinazione sulla base di sue valutazioni tecnico-giuridiche, ancorché in ipotesi errate, in fatto o in diritto.
Inoltre, se egli avesse agito in buona fede, nella convinzione, cioè, della sufficienza e dell’adeguatezza della predisposizione del “COV allargato”, non avrebbe avuto alcun motivo di comunicare – falsamente – alle altre autorità, come invece ha fatto, di aver allestito anche CCS e SOP.
2.2.3. Se così stanno le cose, deve coerentemente concludersi, infine, per l’irrilevanza della questione, pure introdotta dal ricorso, della configurabilità del delitto di rifiuto di atti d’ufficio in relazione ad attività istituzionale discrezionale, non avendo il Prefetto M.M. optato per un dato comportamento in ragione della discrezionalità riconosciutagli dalla disciplina normativa, ma per ragioni da lui mai rese manifeste e dai giudici d’appello plausibilmente individuate per via deduttiva nella non confessabile disorganizzazione del suo ufficio e nell’inefficienza dei suoi funzionari: delle quali, del resto, egli stesso avrà modo di lagnarsi in alcune sue conversazioni telefoniche intercettate successivamente all’accaduto, ma alle quali sarebbe spettato a lui porre rimedio, in quanto vertice organizzativo dell’ufficio.
2.2.4. Il ricorso dell’imputato M.M., pertanto, in relazione al capo della decisione relativo al delitto di rifiuto di atti d’ufficio contestato al capo 14) dell’imputazione, dev’essere respinto.
- I falsi ideologici (capo 15 dell’imputazione).
Impugnano la sentenza d’appello, per il relativo capo, entrambi gli imputati condannati, ovvero M.M., in relazione alla nota del 17 gennaio 2017, e N.N., relativamente a quella del giorno precedente, da essi rispettivamente sottoscritte (e più volte già citate nelle pagine precedenti).
3.1. M.M. respinge l’addebito, deducendo una carenza della motivazione della sentenza in merito, per un verso, alla innocuità delle false attestazioni da lui rese in quel documento, trattandosi di atto con funzione puramente informativa; e, per l’altro, al difetto di dolo, sostanzialmente per le stesse ragioni addotte a confutazione dell’affermazione di responsabilità per il rifiuto di atti d’ufficio, oltre che per l’assenza di un suo interesse ad attestare il falso.
Si tratta di obiezioni prive di qualsiasi fondamento.
3.1.1. Quanto alla prima, va premesso che, nel falso ideologico, il cosiddetto “falso innocuo” ricorre soltanto nei casi in cui l’infedele attestazione sia del tutto irrilevante ai fini del significato dell’atto e non esplichi effetti sulla sua funzione documentale, riguardando, cioè, un atto assolutamente privo di valenza probatoria (tra molte altre: Sez. 5, n. 5896 del 29/10/2020, dep. 2021, Brisciano, Rv. 280453; Sez. 5, n. 28599 del 07/04/2017, Bautista, Rv. 270245; Sez. 5, n. 47601 del 26/05/2014, Lamberti, Rv. 261812).
Non è questo, dunque, con ogni evidenza, il caso della nota di cui si discute, che il Prefetto era obbligato ad inviare alle relative autorità centrali e regionali già in base all’art. 14, comma 2, della legge n. 225 del 1992, istitutiva del “Servizio nazionale di protezione civile”, ma anche per espressa previsione del “piano provinciale di protezione civile” varato dalla stessa Prefettura di P nel 1993, in coerenza, del resto, con la necessità di un flusso informativo completo e tempestivo tra le diverse autorità competenti, che rappresenta il comune denominatore dei numerosi interventi normativi susseguitisi negli anni, ai vari livelli, in questa materia.
Peraltro, dal complesso di tali disposizioni, compiutamente illustrato in sentenza (pagg. 484-497), risulta inconfutabilmente che le autorità governative centrali rappresentano il vertice del sistema di protezione civile e che le Regioni ne costituiscono la principale articolazione a livello territoriale, per quanto riguarda sia la pianificazione che l’operatività, perciò rivelandosi una pura e semplice asserzione quella difensiva per cui detta comunicazione fosse puramente informativa, e quindi – si vorrebbe adombrare – sostanzialmente inutile.
3.1.2. Quanto, invece, al difetto di dolo, valgano le considerazioni già espresse trattando del delitto di cui all’art. 328, cod. pen.
S’è già detto dianzi, infatti, delle ragioni che portano ad escludere la semplice negligenza o l’inesattezza commessa in buona fede. Deve qui aggiungersi che, a differenza di quanto prospettato in ricorso, il Prefetto aveva un interesse più che concreto ad attestare falsamente l’attivazione del CCS e della SOP, ovvero quello di tenere celata agli organi di governo centrali e regionali l’inefficienza del proprio ufficio e, quindi, un deficit di organizzazione a lui, in ultima analisi, ascrivibile.
La motivazione in questo senso rassegnata dalla decisione d’appello (pagg. 531 s.) si presenta, allora, immune da vizi logici, mentre il ricorso si limita sostanzialmente alla riproposizione della doglianza, peraltro fondata semplicemente su una diversa ricostruzione in fatto, che non compete al giudice di legittimità. Il relativo motivo d’impugnazione, dunque, finisce per risultare addirittura inammissibile.
3.2. Non ha fondamento neppure il motivo di ricorso proposto, in punto di colpevolezza, dall’imputato N.N., costruito essenzialmente sulla sua estraneità all’articolazione organizzativa della Prefettura competente in materia di protezione civile e, dunque, sull’assenza, da parte sua, tanto delle cognizioni tecniche necessarie per rilevare la difformità dal vero della situazione descritta nella nota da lui firmata, ma materialmente redatta da un funzionario tecnico, quanto di ogni responsabilità per le scelte operative compiute dal Prefetto, con la conseguente assenza di un suo interesse ad attestare il falso.
In realtà, l’attestazione contenuta nella nota sottoscritta dall’imputato, più che dati di fatto di natura tecnica, riguardava assetti organizzativi, dei quali deve ritenersi che egli avesse precisa conoscenza: per il suo ruolo di capo di gabinetto del Prefetto, e quindi di stretto collaboratore dello stesso nella generalità dei relativi compiti nonché di vertice dell’apparato burocratico della Prefettura; per le competenze personali connesse alla sua qualifica di Vice-prefetto; nonché per la rilevanza, ai fini dell’organizzazione e dell’attività della Prefettura, della vicenda cui si riferiva la nota.
E quanto, poi, all’interesse alla falsa attestazione, è del tutto ragionevole ritenere che egli lo condividesse con il Prefetto, essendo il capo di quell’apparato burocratico rivelatosi inadeguato.
Il ragionamento in questo senso evincibile dalla motivazione della sentenza impugnata (pagg. 532 s.) può ritenersi, allora, logicamente consequenziale e, perciò, da questa Corte non censurabile.
3.3. Merita di essere accolto, invece, il secondo motivo del ricorso proposto da N.N., con il quale si contesta il riconoscimento dell’aggravante prevista dall’art. 61, n. 2), cod. pen.
In effetti, la sua ritenuta estraneità al rifiuto di atti d’ufficio esclude che il falso possa essere stato da lui commesso per eseguire quel diverso reato (c.d. “connessione teleologica”); in ogni caso, su tale specifico punto, la motivazione della sentenza è puramente assertiva (pag. 535). Dalla ricostruzione complessiva dei fatti emerge, piuttosto, un nesso c.d. “consequenziale” tra quei reati, essendo il falso ideologico strumentale all’occultamento del rifiuto: ma – come correttamente rilevato dalla difesa ricorrente – la circostanza aggravante, sotto questo specifico profilo, non è stata contestata, non potendo perciò essere ritenuta.
Essa, dunque, dev’essere esclusa e, di conseguenza, dev’essere eliminato il relativo aumento di pena, determinato dalla Corte d’Appello in un mese e dieci giorni di reclusione (ovvero due mesi, ridotti di un terzo per il rito), così riducendosi la pena finale, da un anno e quattro mesi, ad un anno, due mesi e venti giorni di reclusione.
3.4. Analoga statuizione non può essere adottata per l’imputato M.M., il quale ha impugnato anch’egli, con il terzo motivo del suo ricorso, le disposizioni della sentenza d’appello in punto di pena, compresa quella relativa al riconoscimento della predetta aggravante, ma lo ha fatto per ragioni diverse da quella fondatamente dedotta dall’imputato N.N.
L’impugnazione proposta da quest’ultimo, quindi, non può giovargli, a norma dell’art. 587, comma 1, cod. proc. pen., non essendo essi concorrenti nel medesimo reato, ma colpevoli di due distinti delitti di falso, relativi a due documenti diversi tra loro.
Per il resto, le doglianze rassegnate da M.M. riguardo al trattamento sanzionatorio sono inammissibili, costituendo censure di puro fatto, con cui si contesta il merito delle relative statuizioni, che tuttavia non spetta al giudice di legittimità valutare.
Tanto dicasi per il diniego delle circostanze attenuanti generiche, la cui motivazione è insindacabile, purché non sia contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133, cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (tra moltissime altre conformi: Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 3, n. 6877 del 26/10/2016, S., Rv. 269196; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244).
Ed altrettanto vale per la determinazione della pena, che può essere censurata da questa Corte solamente nei limiti del mero arbitrio, del ragionamento del tutto illogico o dell’assenza di un’effettiva motivazione: il cui onere, tuttavia, può ritenersi adeguatamente assolto con il richiamo alla gravità del reato od alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (tra le tantissime: Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288; Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243; Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Ferrario, Rv. 259142).
Nello specifico, invece, essa è stata contenuta in misura ampiamente inferiore al medio edittale e, anzi, più vicina al minimo (pag. 536, sent.).
- Il depistaggio (capo A dell’imputazione).
4.1. La decisione di assoluzione dal relativo addebito, pronunciata in primo grado nei confronti di tutti gli imputati, con la formula perché il fatto non sussiste, è stata confermata in appello.
Hanno impugnato tale statuizione sia il Pubblico ministero che il Ministro della giustizia, quale parte civile.
Entrambi i ricorsi debbono essere respinti.
4.2. Diversamente da quanto dedotto dalle difese degli imputati nelle loro memorie, i ricorsi sono ammissibili, non operando il limite del già ricordato comma 1 -bis dell’art. 608, cod. proc. pen., che, in caso di conferma in appello di una sentenza di proscioglimento, consente di ricorrere per cassazione solamente nelle ipotesi di violazioni di legge.
Entrambi i ricorrenti, infatti, hanno dedotto giustappunto una violazione della legge penale, vale a dire l’errata interpretazione della norma incriminatrice, nella parte in cui la Corte d’Appello ha ritenuto che il depistaggio c.d. “dichiarativo”, previsto dall’art. 375, primo comma, lett. b), cod. pen., possa configurarsi solo nel caso di risposte reticenti o mendaci a domande specifiche.
Per la parte civile, poi, tale limite all’impugnazione comunque non avrebbe potuto operare, riferendosi quella disposizione di legge soltanto al ricorso del Pubblico ministero.
4.3. Prima di esaminare le censure proposte con i ricorsi, sono opportune alcune precisazioni, che servono a delimitare l’àmbito del devoluto a questa Corte.
4.3.1. La prima riguarda la contestazione del delitto di depistaggio anche nella forma c.d. “materiale”, che – secondo l’accusa – sarebbe stato realizzato con lo strappo e la soppressione del foglio su cui era stata appuntata la telefonata pervenuta in Prefettura dall’Hotel (Omissis) alle ore 11.38, ad opera di un dipendente della struttura, con la segnalazione della condizione di isolamento e la richiesta di soccorsi.
Relativamente a tale specifica condotta, nessuno dei ricorrenti ha avanzato una mirata censura, talché l’assoluzione pronunciata in primo grado, e confermata in appello, è coperta dal giudicato. Peraltro, va detto incidentalmente che la sentenza, sul punto, si presenta senza dubbio convincente, avendo compiutamente motivato insuperabili incertezze sulla soppressione dell’appunto, sulla malafede della lacerazione della relativa porzione di foglio e, comunque, sull’autore di una tale condotta (pagg. 578-580).
4.3.2. La seconda puntualizzazione riguarda gli imputati W.W. e V.V., Vice-prefetti distaccati presso la Prefettura di P nei giorni successivi ai tragici eventi, nei cui confronti la pronuncia assolutoria di primo grado era stata appellata soltanto dall’Avvocatura dello Stato nell’interesse della parte civile Ministro della giustizia, non anche dal Pubblico ministero.
Poiché entrambe queste parti, nei rispettivi ricorsi per cassazione, non hanno impugnato la sentenza d’appello anche nei confronti di tali imputati, per loro la decisione assolutoria ha già acquisito autorità di giudicato.
4.4. Passando, dunque, alla disamina dei ricorsi, va detto che il motivo comune, con cui si contesta l’affermazione della necessità di domande specifiche per la configurabilità del depistaggio “dichiarativo”, è fondato, in fatto e in diritto.
4.4.1. È indiscusso, difatti, trattandosi di documento riversato in atti, che, nella nota del 26 gennaio 2017, inviata in Prefettura dalla Squadra mobile della Questura di P, era stata richiesta anche la “documentazione relativa all’attività svolta dal CCS e dalla (…) sala operativa nella giornata del 18 gennaio 2017, con particolare riferimento ad eventuali brogliacci, anche in forma elettronica, di attestazione delle segnalazioni e delle richieste d’intervento ricevute e gestite da dette strutture operative”. È incontestabile, allora, già sotto il profilo testuale, oltre che ovvio sul piano logico, che l’interesse degli investigatori, e quindi l’oggetto specifico della richiesta, fosse quello di conoscere se fossero pervenute in Prefettura “segnalazioni e…richieste d’intervento”, in particolare, ovviamente, da R.
Visto qual era il dichiarato tema d’indagine, infatti, non v’era necessità di particolare intuito per capirlo e, dunque, non vi poteva essere possibilità di fraintendimento, se non sulla rilevanza, quanto meno sulla pertinenza della telefonata delle 11.38 rispetto alla richiesta d’informazioni ricevuta e, dunque, sul dovere di riferirne agli inquirenti.
4.4.2. Ma l’assunto dei giudici d’appello è errato anche in diritto.
Mettendo da parte l’empirico tentativo dei ricorrenti e dei difensori degli imputati di definire, differentemente ed in ragione del rispettivo interesse, l’ampiezza semantica dei termini usati dal legislatore (“tacere”, “richiesta” d’informazioni, “fatti sui quali si viene sentiti”), la lettura della disposizione in chiave teleologica e sistematica dissolve ogni dubbio interpretativo.
La norma incriminatrice in esame, infatti, è frutto di un’integrazione più recente (disposta con la legge 11 luglio 2016, n. 133) di un complesso di fattispecie poste a presidio del dovere di lealtà di coloro che siano chiamati a collaborare con l’autorità giudiziaria, dovere che ne rappresenta anche il minimo comune denominatore: false informazioni al Pubblico ministero, falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione, frode processuale, false attestazioni in documenti da produrre in giudizio e – collegato a queste, quale possibile prodromo – intralcio alla giustizia (artt. 371-bis, 372, 373, 374, 374-bis e 377, cod. pen.).
Il maggiore e peculiare disvalore del depistaggio rispetto ad esse – che ne giustifica la pena sensibilmente più elevata di quelle previste per tali altri reati, oltre alla ricomprensione, in esso, di condotte altrimenti prive di sanzione penale, quali le false informazioni rese alla polizia giudiziaria – è costituito dalla combinazione di tre elementi: a) il riferirsi esclusivamente ad un’indagine od un processo di natura penale, nei quali, dunque, sono coinvolti anche beni di primario rilievo, non solo di tipo patrimoniale; b) il dolo specifico, dovendo trattarsi di una condotta tenuta “al fine di impedire, ostacolare o sviare” un tale procedimento; c) la qualifica dell’agente, trattandosi di reato proprio del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio.
Poiché, però, sul piano oggettivo, la portata offensiva di tutte quelle condotte infedeli, a prescindere dai diversi interessi in conflitto nei diversi tipi di processo, è sostanzialmente la stessa, ovvero il potenziale ostacolo all’efficacia dell’attività giurisdizionale, e poiché, inoltre, tutti coloro che ne sono autori, nei loro diversi ruoli, agiscono comunque con l’intento, se non di sviare l’accertamento giudiziario della realtà dei fatti, quanto meno di non dare ad esso il loro contributo, l’elemento veramente caratterizzante del delitto di depistaggio, sul piano della gravità della condotta, finisce per essere rappresentato, allora, proprio dalla qualifica soggettiva pubblica dell’agente.
E tutto ciò trova una sua giustificazione razionale sul piano assiologico: non soltanto per il più stringente dovere di conformare la propria condotta alla disciplina normativa, imposto a chi esercita funzioni pubbliche già dalla Costituzione (art. 54, secondo comma); ma anche perché si tratta di soggetti qualificati e, in quanto tali, più di altri in grado di comprendere la possibile rilevanza ai fini investigativi o processuali delle informazioni in loro possesso e di offrire un più pregnante contributo all’attività giudiziaria. Questa Corte, infatti, escludendo un’interpretazione astrattamente consentita dal testo della disposizione ma irragionevole, poiché determinante un deteriore trattamento degli agenti pubblici per il sol fatto di tale loro qualità formale, ha già avuto modo di precisare che il delitto di depistaggio postula, sul piano oggettivo, l’esistenza di un nesso funzionale tra il fatto realizzato dal soggetto agente ed il pubblico ufficio o servizio di cui lo stesso è investito (Sez. 6, n. 34271 del 27/04/2022, Paccione, Rv. 283727).
Ebbene, se a tutto questo si aggiunge che, in relazione al depistaggio “dichiarativo”, il testo del citato art. 375 – con formula pressoché sovrapponibile, del resto, a quella del precedente art. 372 in tema di testimonianza – si esprime in termini volutamente ampi ed aspecifici, poiché estende il dovere di verità e di completezza del dichiarante a tutto quanto egli “sa intorno ai fatti sui quali viene sentito”, deve necessariamente concludersi che, con riferimento ai temi indicati dall’autorità che interroga, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio è tenuto a riferire ogni circostanza che a lui si presenti d’interesse, anche soltanto eventuale, per l’indagine od il processo in cui è chiamato a deporre.
Diversamente, e come correttamente rilevato dai ricorrenti, la norma finirebbe per offrire una protezione più blanda e meno efficace al bene giuridico da essa tutelato – quello, cioè, dell’efficacia dell’attività giudiziaria, cui si riferisce il capo I del titolo III del libro II del codice penale, nel quale è collocata – proprio quando esso ne avrebbe più bisogno, nella fase iniziale, cioè, dei procedimenti penali, in cui fisiologicamente l’autorità inquirente dispone di minori informazioni e, pertanto, lo spettro investigativo risulta più ampio e meno definito.
Semplicemente eccentrica, dunque, si presenta l’obiezione rassegnata dalla difesa degli imputati P.P. ed R.R. nella memoria, secondo la quale, così facendo, si finirebbe per privare il Pubblico ministero e la polizia giudiziaria del potere d’indirizzo delle indagini, affidato loro dal codice di rito: è sufficiente osservare, in proposito, che compete pur sempre a tali autorità la selezione dei temi d’indagine; a chi è interrogato, invece, spetta soltanto di dichiarare, entro l’àmbito così delimitato, tutto quello che sa.
In conclusione, quindi, poiché ai qualificati funzionari della Prefettura di P non poteva sfuggire l’obiettiva rilevanza che, ai fini dell’indagine per l’accertamento di eventuali responsabilità penali per la tragedia consumatasi pochi giorni prima a R, rivestiva una telefonata con la quale era stata avanzata un’espressa richiesta di soccorso alcune ore prima del verificarsi degli eventi, è di solare evidenza che l’omessa indicazione di essa agli inquirenti sarebbe astrattamente sufficiente ad integrare il reato di depistaggio.
4.5. In realtà, però, la sentenza impugnata è pervenuta alla conferma del giudizio assolutorio non soltanto per l’erronea ragione sin qui esaminata, ma altresì sulla base di una serie di circostanze ulteriori, reputate dimostrative, se non altro, dell’assenza di dolo da parte degli imputati.
Si legge in sentenza, infatti (amplius, pagg. 565-587):
– che la ragione per la quale gli imputati P.P. e Q.Q. chiesero al maresciallo dei carabinieri N.N.N.N. di accertare l’effettiva provenienza della telefonata non era legata alla possibile rilevanza che questa avrebbe potuto avere sull’eventuale tempestività dei soccorsi;
– che non risulta se l’accertamento compiuto da N.N.N.N. fu comunicato a P.P., Q.Q., O.O. e R.R., e comunque quando ciò sia avvenuto; anzi, per queste ultime due imputate, vi sarebbe piuttosto la prova che l’una non ne abbia mai saputo nulla e che l’altra avesse solamente captato un discorso tra terze persone, nel quale si operava un generico riferimento ad una richiesta, da qualcuno rivolta alla Provincia, di sgomberare dalla neve la strada per R;
– che la richiesta d’informazioni della Questura non era stata rivolta direttamente a quei quattro funzionari, ma era stata filtrata dall’ordine rivolto loro dai Vice-prefetti W.W. e V.V., avendo perciò gli imputati inteso di dover esclusivamente relazionare su quanto da ciascuno fatto in SOP il 18 gennaio, cosi come del resto avevano fatto, ad esempio, i carabinieri ivi presenti, i quali, pur essendo a conoscenza della telefonata, non ne avevano riferito e, ciò nonostante, non sono stati attinti da analoga contestazione da parte del Pubblico ministero;
– che, nella relazione redatta ad evasione della richiesta della Questura, l’imputata O.O. ha riferito di una richiesta di sgombero della strada avanzata da “ospiti del resort” e pervenuta tramite e-mail alla sala operativa il 18 gennaio, in tal modo comunque rendendo nota agli inquirenti l’esistenza di una richiesta di soccorsi proveniente dall’albergo e non potendo attribuirsi valenza deviante al solo fatto che ella non avesse indicato l’identità di chi l’aveva inviata;
– che tale comportamento della O.O., come pure la scelta di far redigere a ciascun funzionario una relazione personale e non, invece, di predisporre una nota cumulativa, collidono logicamente con la comune volontà di mendacio degli imputati, imprescindibile per poterne configurare l’ipotizzato concorso tra loro;
– che, se avessero avuto consapevolezza della provenienza dall’Hotel (Omissis) della telefonata delle ore 11.38 del 18 gennaio, ricevuta dalla Q.Q. e da questa comunicata a P.P., questi funzionari non si sarebbero rivolti ai carabinieri per farne accertare l’utente, ma l’avrebbero taciuta ed avrebbero così evitato qualsiasi indagine, ben sapendo che i carabinieri, una volta che essi li avessero investiti della relativa attività investigativa, ne avrebbero comunicato gli esiti all’autorità giudiziaria;
– che non vi è stata alcuna omessa consegna di brogliacci, semplicemente perché questi non esistevano, essendo stati utilizzati in sala operativa soltanto appunti su “fogli volanti”, che tali non possono essere considerati; e proprio le contrastanti dichiarazioni degli imputati sul punto sono sintomatiche dell’assenza di qualsiasi concerto tra loro, e quindi della impossibilità di ritenerne un concorso nel reato;
– che, se vi fosse stata una concordata volontà di occultamento, i fogli con lo strappo non sarebbero stati consegnati, come invece è avvenuto, neppure a seguito dell’ulteriore richiesta di esibizione, avanzata dagli inquirenti a novembre del 2018;
– che, infine, la richiesta telefonica di soccorsi effettuata alle ore 11.38 del 18 gennaio dal dipendente dell’hotel M.M.M., quand’anche tempestivamente valutata, non avrebbe potuto impedire gli eventi, sicché gli imputati non avevano alcun interesse a tacerne;
Per quel che riguarda, poi, l’imputato M.M., rilevano i giudici d’appello:
– che egli non firmò la nota di trasmissione alla Questura non per scaricare su altri eventuali responsabilità, ma solo perché così consigliato dal Questore, in quanto soggetto potenzialmente interessato dall’indagine in ragione del suo ruolo;
– che le dichiarazioni del maresciallo N.N.N.N., il quale ha riferito di un colloquio avvenuto il 26 gennaio tra lui, M.M. ed i due suoi vice W.W. ed V.V., avente per oggetto detta telefonata, suscitano delle riserve, per non averne egli fatto cenno nel proprio brogliaccio di servizio, né in occasione delle sue prime dichiarazioni alla polizia giudiziaria, ma anche per alcune discrasie rispetto ad altre risultanze probatorie (ad es. sulla collocazione della sala in cui il dialogo sarebbe avvenuto o sulla contestuale presenza in ufficio, quel giorno, sua e del Prefetto: più ampiamente, pag. 582, sent.);
– che il Prefetto fu avvisato della telefonata per tutt’altro motivo, vale a dire per la verifica del numero dei presenti presso la struttura al momento della valanga e, quindi, per l’eventuale conclusione delle ricerche;
– che la preoccupazione del Prefetto per la mancata istituzione dei brogliacci ed il disappunto da lui manifestato per l’impreparazione e la disorganizzazione dei suoi uffici non sono sufficienti a desumerne l’intento di sviare le indagini e, quindi, il dolo specifico necessario per la configurabilità del depistaggio.
Si tratta di passaggi argomentativi rispetto ai quali tanto il Procuratore distrettuale, quanto l’Avvocatura dello Stato, omettono nei rispettivi ricorsi qualsiasi rilievo critico. E, se tale assenza è inevitabile per il primo, per l’ostacolo postogli dal legislatore con il più volte citato art. 608, comma 1 -bis, cod. proc. pen., e con la conseguente impossibilità di ricorrere per cassazione per far valere eventuali vizi della motivazione, non lo è per la seconda, non operando per la parte civile tale limite al diritto d’impugnazione.
Tuttavia, quali che siano le ragioni di tale lacuna, il dato qui decisivo è quello che, non misurandosi criticamente con argomenti rilevanti per la decisione impugnata e – a prescindere dalla loro fondatezza o meno – comunque non superati e neutralizzati dalla violazione di legge pur correttamente individuata, entrambi tali ricorsi risultano viziati da genericità, non potendo perciò essere accolti.
- Conclusioni.
Sulla scorta di quanto sin qui illustrato, in relazione ai reati oggetto del presente capitolo della motivazione, deve giungersi alle seguenti conclusioni:
– il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di L’Aquila in parte qua, nonché quelli della parte civile Ministro della giustizia e dell’imputato M.M., debbono essere respinti;
– per l’imputato N.N., la sentenza impugnata dev’essere annullata senza rinvio, limitatamente al riconoscimento dell’aggravante del nesso teleologico per il falso ideologico di cui al capo 15) dell’imputazione a lui addebitabile, con conseguente eliminazione della relativa porzione di pena irrogatagli in appello; per il resto, anche il suo ricorso dev’essere rigettato;
– in quanto integralmente soccombenti, l’imputato M.M. e la parte civile Ministro della giustizia, a norma dell’art. 616, cod. proc. pen., debbono essere condannati al pagamento delle spese di giudizio; in particolare, per quel che attiene al Ministero, va osservato: che “l’unitarietà dello Stato non è d’ostacolo a versamenti tra distinte Amministrazioni e talora finanche all’interno di ognuna di esse (e) il carico delle spese del procedimento, da parte dell’Amministrazione (…)
non trova una specifica regolamentazione ma segue il principio di causalità e soccombenza” (così, in motivazione, Sez. U, n. 34559 del 26/06/2002, De Benedictis, Rv. 222263); ed altresì che, in tema di condanna alle spese nei giudizi di impugnazione, il giudice ha l’obbligo di condannare la parte civile al pagamento delle spese del processo, nel caso in cui l’impugnazione da questa proposta contro la sentenza di assoluzione dell’imputato non sia stata accolta, anche quando -come nel caso in esame – sia stata proposta e disattesa analoga impugnazione del Pubblico ministero (Sez. U, n. 41476 del 25/10/2005, Misiano, Rv. 232165).