Cassazione di Cassazione, Sez. II Civile, ordinanza 10 aprile 2025, n. 9397
PRINCIPIO DI DIRITTO
Vanno sottratti all’applicazione dell’art. 485 cod. civ., che mira a tutelare la libertà testamentaria fino alla morte del disponente, i negozi nei quali l’evento morte non è causa dell’attribuzione, ma viene a incidere esclusivamente sull’efficacia dell’atto, il cui scopo non è di regolare la futura successione.
Quindi, l’atto mortis causa diverso dal testamento vietato è esclusivamente quello nel quale la morte incide non sul piano effettuale, ma sul piano causale, essendo diretto a regolare i rapporti che scaturiscono dalla morte del soggetto, senza produrre alcun effetto, neppure prodromico o preliminare fino a che il soggetto è in vita.
Cioè, l’atto mortis causa vietato investe rapporti e situazioni che si formano in via originaria con la morte del soggetto o che dall’evento morte traggono una loro autonoma qualificazione, mentre il negozio post mortem valido è destinato a regolare una situazione preesistente, in quanto l’attribuzione è attuale nella sua consistenza patrimoniale e non è limitata ai beni rimasti nel patrimonio del disponente al momento della morte (Cass. Sez. 2 2-9-2020 n. 18198 Rv. 659095-01, Cass. Sez. U 12-7-2019 n. 18831 Rv. 654590-01; cfr. altresì Cass. Sez. 2 13-12-2023 n. 34858 Rv. 669678-01).
TESTO RILEVANTE DELLE DECISIONE
Con il primo motivo A.A. deduce ex art. 360 co. 1 n.3 cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione dell’art. 458 cod. civ., lamentando che la sentenza impugnata abbia escluso che la scrittura del 12-8- 2009 integrasse patto successorio.
La ricorrente sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, l’obbligo assunto da A.A. rispondeva alla volontà della madre di “testare anticipatamente e convenzionalmente”, selezionando i beni da attribuire all’uno e all’altro figlio; aggiunge che i beni sono stati considerati nella loro consistenza con riferimento al futuro momento della morte della madre, che il riconoscimento di debito sottoscritto da A.A. comportava costituzione di diritti relativi a successione non ancora aperta e aveva fatto sorgere un vinculum iuris.
Sostiene che sia stata eseguita la divisione dei beni della successione della madre prima della sua morte e cioè si sia eseguita la disposizione di beni afferenti a una successione non ancora aperta, in quanto A.A. si è riconosciuta debitrice ed è stata condannata a pagare al fratello, al momento della morte della madre, il 50% di una somma inesistente al momento della morte, in ragione dei debiti della madre onorati dalla figlia, e non tenendo conto delle ultime volontà della madre, che con il testamento del 2014 aveva inteso istituire erede universale la figlia e non dividere il patrimonio tra i figli.
Il motivo è infondato. In primo luogo, non possono essere esaminate le deduzioni con le quali, nel corpo del motivo, la ricorrente sostiene che gli accordi intercorsi tra le parti abbiano un contenuto diverso da quello accertato dalla sentenza impugnata.
Infatti, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito e quindi, qualora il ricorrente per cassazione intenda censurare l’interpretazione del negozio data dal giudice di merito, deve fare valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ. con le modalità corrette enunciate nella giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. 1 9-4-2021 n. 9461 Rv. 661265-01, Cass. Sez. 3 28-11-2017 n. 28319 Rv. 646649-01).
Invece, la ricorrente neppure prospetta che la Corte d’Appello sia incorsa in errore nell’interpretazione dell’accordo di cui si discute, ma svolge le sue deduzioni sul presupposto che la volontà delle parti avesse contenuto diverso da quello accertato dalla sentenza impugnata.
Quindi, al fine di verificare se sussista la violazione del divieto dei patti successori sostenuto dalla ricorrente, bisogna prendere in esame il contenuto dell’accordo come accertato dalla sentenza impugnata; cioè, considerando in primo luogo che il trasferimento nell’anno 2009 dell’importo di Euro 150.000,00 dal patrimonio della madre al patrimonio della figlia era stato effettivo ed immediato, oltre che eseguito con lo scopo specifico di consentire alla figlia di disporre di tale somma per l’acquisto di immobile.
Inoltre, considerando che la figlia si era a sua volta obbligata ad acquistare l’immobile individuato nella scrittura, a ospitare la madre nell’immobile acquistato e a prestarle assistenza morale e materiale, nonché a versare al fratello la metà della somma ricevuta dalla madre, pari a Euro 75.000,00 entro un anno dalla morte della stessa, mentre il fratello aveva prestato consenso all’accordo.
A fronte di questo contenuto dell’accordo, esattamente la sentenza impugnata ha escluso l’esistenza di patti successori vietati, evidenziando come il trasferimento dell’importo di Euro 150.000,00 sia stato finalizzato alla soddisfazione di interessi inter vivos, della figlia che ha potuto godere immediatamente della somma e della madre che ha perso la disponibilità della somma garantendosi il diritto all’assistenza da parte della figlia.
La sentenza ha altresì evidenziato che non risultava che tale somma fosse stata intesa quale entità del futuro asse ereditario, né che la disponente si fosse voluta vincolare con riguardo alle modalità della propria successione, né che l’obbligo assunto dalla figlia di versare la metà della somma al fratello rispondesse alla volontà della madre di testare convenzionalmente, selezionando i beni da attribuire all’uno e all’altro figlio, piuttosto che alla volontà della madre di effettuare un atto di disposizione in vita che non fosse discriminante per l’altro figlio.
Ha altresì considerato che i beni oggetto di trasferimento non erano stati considerati né nel loro valore riferito al momento della successione né con riguardo alla consistenza del patrimonio al momento del decesso e che non risultava neppure che la madre avesse inteso privarsi dello ius poenitendi, viste le successive disposizioni testamentarie.
La pronuncia si sottrae a tutte le critiche della ricorrente, in quanto costituisce corretta applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità secondo i quali, al fine della configurazione di un patto successorio vietato, è necessario accertare:
- se il vincolo giuridico abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi a una successione non ancora aperta;
- se la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità della futura successione e se siano, comunque, compresi nella successione;
- se il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte della propria successione, privandosi dello ius poenitendi;
- se l’acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione;
- se il programmato trasferimento, dal promittente al promissario, avrebbe dovuto avere luogo mortis causa, ossia a titolo di eredità o di legato (Cass. Sez. 2 24-5-2021 n. 14110 Rv. 661331-01, Cass. Sez. 2 16-2-1995 n. 1683 Rv. 490468-08, Cass. Sez. 2 22-7-1971 n. 2404 Rv. 353355-01).
L’art. 485 cod. civ. mira a tutelare la libertà testamentaria fino alla morte del disponente e, in considerazione della finalità del divieto, sono sottratti all’ambito applicativo della disposizione i negozi nei quali l’evento morte non è causa dell’attribuzione, ma viene a incidere esclusivamente sull’efficacia dell’atto, il cui scopo non è di regolare la futura successione.
Quindi, l’atto mortis causa diverso dal testamento vietato è esclusivamente quello nel quale la morte incide non sul piano effettuale (ben potendo il decesso di uno dei contraenti fungere da termine o da condizione), ma sul piano causale, essendo diretto a regolare i rapporti che scaturiscono dalla morte del soggetto, senza produrre alcun effetto, neppure prodromico o preliminare fino a che il soggetto è in vita.
Cioè, l’atto mortis causa vietato investe rapporti e situazioni che si formano in via originaria con la morte del soggetto o che dall’evento morte traggono una loro autonoma qualificazione, mentre il negozio post mortem valido è destinato a regolare una situazione preesistente, in quanto l’attribuzione è attuale nella sua consistenza patrimoniale e non è limitata ai beni rimasti nel patrimonio del disponente al momento della morte (Cass. Sez. 2 2-9-2020 n. 18198 Rv. 659095-01, Cass. Sez. U 12-7-2019 n. 18831 Rv. 654590-01; cfr. altresì Cass. Sez. 2 13-12-2023 n. 34858 Rv. 669678-01).
Nella fattispecie la Corte d’Appello ha accertato, in termini che resistono alle critiche della ricorrente, che il negozio era finalizzato a produrre e aveva effettivamente prodotto i suoi effetti in vita della madre, in quanto il trasferimento della somma di denaro era stato effettivo e destinato a soddisfare interessi attuali dei contraenti.
La somma di denaro era stata realmente e immediatamente trasferita dalla madre alla figlia, al fine di soddisfare sia l’interesse della madre ad avere in cambio dalla figlia l’assistenza per tutta la durata della sua esistenza, abitando con lei nella casa oggetto di acquisto, sia l’interesse della figlia ad avere la disponibilità necessaria a procedere all’acquisto della casa medesima, e perciò l’accordo aveva contenuto tale da escludere che la madre e i figli disponessero dei diritti di successione non ancora aperta.
In questo contesto, neppure l’assunzione dell’obbligazione da parte della figlia di trasferire al fratello la metà della somma ricevuta entro un anno dalla morte della madre comportava atto avente contenuto dispositivo dei diritti sulla successione futura; ciò perché non si trattava di previsione che avesse a oggetto beni ancora compresi nel patrimonio della madre al momento della sua morte e che trovasse causa nell’evento-morte, ma si trattava di previsione relativa a beni che erano effettivamente entrati nel patrimonio della figlia e che la stessa si obbligava a trasferire, in parte, al fratello dopo che era venuta meno l’esigenza di assistenza alla madre.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione ex art. 360 co. 1 n. 3 cod. proc. civ. dell’art. 682 cod. civ., per il “mancato annullamento” del riconoscimento di debito e della scrittura privata 12-9-2009 per incompatibilità con il testamento redatto da C.C. nel 2014.
Lamenta che la sentenza impugnata abbia dichiarato che C.C. non aveva revocato la disposizione del 2009 né con il testamento del 2014 né in altro modo, evidenziando che ai sensi dell’art. 682 cod. civ. il testamento posteriore che non revoca in modo espresso i precedenti annulla solo le disposizioni incompatibili.
Rileva che le disposizioni del testamento del 2014 sono incompatibili con la volontà di riconoscere il 50% della massa ereditaria a ciascuno dei figli così come era stato concordato nel 2009 e quindi sostiene che gli atti del 2009 debbano essere ritenuti nulli in quanto incompatibili con la volontà testamentaria di C.C.
Il motivo è infondato. L’art.682 cod. civ. dispone che il testamento posteriore che non revoca in modo espresso i precedenti annulla in questi soltanto le disposizioni che sono con esso incompatibili.
Però nella fattispecie non vi è stato testamento posteriore, in quanto l’unico testamento di C.C. è quello da lei redatto nel 2014 e quindi non sussiste il presupposto per porsi la questione dell’incompatibilità tra disposizioni testamentarie precedenti e successive.
Gli accordi conclusi tra la madre e i figli nel 2009, per le ragioni sopra esposte, hanno integrato valido negozio inter vivos, per cui non si può porre questione di compatibilità tra il contenuto di quegli accordi e del successivo testamento.
Del resto gli accordi del 2009, se avessero costituito disposizioni mortis causa, sarebbero stati nulli per violazione del divieto posto dall’art. 458 cod. civ. e per questa ragione non si sarebbe comunque posta questione dell’applicazione dell’art. 682 cod. civ. 3.
In conclusione il ricorso è integralmente rigettato.
Le spese seguono la soccombenza. In considerazione dell’esito del ricorso, ai sensi dell’art. 13 co. 1-quater D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.