<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 21 maggio 2019 n. 13661</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La questione rimessa alla cognizione delle SSUU concerne l'identificazione dei presupposti legali soggettivi di operatività della sospensione necessaria del processo civile di risarcimento del danno derivante da reato promosso quando nel processo penale concernente il reato sia stata già pronunciata la sentenza di primo grado. Il problema da risolvere è determinato dalla circostanza onde, nel caso di specie, i danneggiati hanno proposto la domanda risarcitoria nei confronti non soltanto dell'imputato-danneggiante, ma anche di altra litisconsorte, ossia della società assicuratrice della responsabilità civile (e dunque del responsabile civile). Se non vi fosse il cumulo soggettivo, non vi sarebbe dubbio alcuno sull'applicabilità dell'art. 75, 3° co., c.p.p., secondo cui «</em>Se l'azione è proposta in sede civile nei confronti dell'imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado, il processo civile è sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previste dalla legge<em>». Il cumulo soggettivo invece, ha ritenuto la Corte, sia pure prevalentemente con riguardo all'ipotesi della proposizione dell'azione in sede civile nei confronti dell'imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale, non consente la sospensione; e ciò tanto se si abbia riguardo a un'ipotesi di litisconsorzio facoltativo, quanto se il cumulo scaturisca da litisconsorzio necessario, e indipendentemente dal fatto che alcuno o tutti fra i coobbligati siano stati citati nel processo penale come responsabili civili (Cass., ord. 26 gennaio 2009, n. 1862; 13 marzo 2009, n. 6185 e 18 luglio 2013, n. 17608). La sospensione non si giustifica, si è argomentato, con riguardo al responsabile civile, perché la proposizione successiva dell'azione risarcitoria in sede civile comporta la revoca tacita della costituzione di parte civile, con la conseguente inapplicabilità dell'art.651 c.p.p. e l'inutilità dell'attesa degli esiti del processo penale; né, si è aggiunto, essa si giustifica in relazione all'imputato: in caso di litisconsorzio necessario, perché la necessarietà del cumulo non consente la separazione delle domande; in ipotesi di litisconsorzio facoltativo, perché il 3° comma dell'art. 75 c.p.p. si riferisce alla causa tra singole parti, e non già al cumulo soggettivo. Al fondo di quest'interpretazione sta lo sfavore per la proliferazione dei casi di arresto del processo civile, del quale la sospensione è comunque vicenda anomala; sfavore, che ha ispirato anche la giurisprudenza che esclude spazio per una discrezionale e non sindacabile facoltà di sospensione del processo, esercitabile fuori dai casi tassativi di sospensione legale (Cass., sez. un., ord. 14- ottobre 2003, n. 14670; conf., tra varie, 27 novembre 2018, n. 30738). La sospensione necessaria prevista dall'art. 75, 3 0 co., c.p.p., si è concluso, sanziona la scelta compiuta dal danneggiato che abbia optato sin dall'inizio per la proposizione in seno al processo penale della propria domanda risarcitoria: in tal caso, anche se dismette la qualità di parte civile, egli dovrà sottostare all'accertamento dei fatti compiuto in sede penale. Analogamente, se il danneggiato abbia trascurato il processo penale, in seno al quale pure abbia avuto possibilità di costituirsi parte civile e neppure abbia agito in sede civile, dovrà subire la sospensione del processo civile che abbia iniziato dopo la sentenza di primo grado di condanna dell'imputato, per il disinteresse per l'azione civile da lui mostrato (Cass., ord. 24 aprile 2009, n. 9807).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Con l'ordinanza interlocutoria la terza sezione civile della Corte dubita che la soluzione restrittiva sui limiti della sospensione prevista dall'art. 75, 3° co., c.p.p. sia convincente. Le obiezioni poste con l'ordinanza muovono, in generale, dall'individuazione della ratio posta a sostegno della sospensione necessaria nell'esigenza di prevenire il rischio di un esito potenzialmente difforme del giudizio civile rispetto a quello del giudizio penale in relazione alla sussistenza di uno o più presupposti di fatto comuni e, in particolare, puntano sull'interesse dell'imputato di potersi valere dell'eventuale giudicato penale di assoluzione. Sicché, si osserva, l'esclusione della sospensione incrinerebbe l'equilibrio degli interessi in conflitto, ossia dell'interesse del danneggiato, volto a conseguire senza dilazione il ristoro del danno subìto, e di quello dell'imputato, indirizzato all'accertamento della propria estraneità o, comunque, dell'esclusione della propria colpevolezza rispetto al reato contestato. Il che si potrebbe tradurre nel </em>vulnus<em> degli artt. 3 e 24 Cost., poiché l'opponibilità del giudicato di assoluzione finirebbe col dipendere dalla scelta processuale del titolare della pretesa risarcitoria di agire in sede civile soltanto nei confronti dell'imputato oppure anche nei confronti degli altri coobbligati. In conclusione, prospetta la terza sezione civile, la tutela dell'interesse dell'imputato dovrebbe comportare la sospensione della sola domanda proposta nei relativi confronti, in caso di litisconsorzio facoltativo, e la sospensione di tutto il processo, al cospetto di litisconsorzio necessario.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La disposizione di cui si discute è frammento dell'ampia e articolata disciplina dei rapporti tra processo civile e processo penale, radicalmente rinnovata dalla riforma del codice di procedura penale, e va dunque interpretata alla luce del microsistema prefigurato dal legislatore per il raccordo tra i due giudizi. Il codice del 1988 ha ripudiato il principio di unità della giurisdizione e di prevalenza del giudizio penale, in favore di quello della parità e originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e dell'autonomia dei giudizi (tra varie, Cass., sez. un., 11 febbraio 1998, n. 1445 e sez. un., 26 gennaio 2011, n. 1768). Quel che prevale è l'esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all'interesse del soggetto danneggiato di esperire ivi la propria azione (Corte cost. 21 aprile 2006, n. 168 e 28 gennaio 2015, n. 23), sicché si è scoraggiata la proposizione dell'azione civile nel processo penale (in termini, Corte cost. 29 gennaio 2016, n. 12) e si è favorita la separazione dei giudizi. Per liberare il giudice penale dall'esame di questioni che non debbano essere accertate ai fini del giudizio sulla responsabilità penale dell'imputato, il comma 1 dell'art. 75 c.p.p., là dove stabilisce che «</em>L'azione civile proposta dinanzi al giudice civile può essere trasferita nel processo penale fino a quando in sede civile non sia stata pronunciata sentenza di merito anche non passata in giudicato. L'esercizio di tale facoltà comporta rinuncia agli atti del giudizio<em>», ha posto uno sbarramento al trasferimento dell'azione civile nel processo penale, e lo ha quindi disincentivato. Il danneggiato è incoraggiato a evitare la costituzione di parte civile e a promuovere la propria pretesa in sede civile, anche per poter sfuggire agli effetti del giudicato di assoluzione dell'imputato-danneggiante. Qualora, difatti, a norma del 2° comma dell'art. 75 c.p.p., «</em>L'azione civile prosegue in sede civile se non è trasferita nel processo penale o è stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile<em>», la sentenza dibattimentale irrevocabile di assoluzione dell'imputato-danneggiante (per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima) non sarà opponibile al danneggiato, in base all'ultimo nucleo normativo del 1° comma dell'art. 652 c.p.p. Anche nella relazione al testo definitivo del c.p.p. si legge significativamente che «</em>viene sancito espressamente che, in assenza della <em>translatio iudicii</em>, il processo non può essere sospeso e che, di conseguenza, non può trovare applicazione l'art. 652, comma 1<em>», e che la linea seguita della separazione del giudizio civile dal penale, se può essere criticata perché non aderente al principio dell'unità della giurisdizione (principio, peraltro, «</em>da considerarsi non di rilevanza costituzionale come la corte ha avuto occasione di statuire sin dalla sentenza n. 1 del 1970<em>»), ha «</em>il vantaggio di attuare la massima semplificazione dello svolgimento del processo, secondo la regola indicata nella direttiva 1 della legge delega<em>». E il vantaggio è amplificato dal fatto che il danneggiato potrà comunque fruire degli effetti derivanti dalla condanna dibattimentale dell'imputato-danneggiante, nonché di quelli della sentenza dibattimentale irrevocabile di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, agli esiti delle quali l'imputato danneggiante sarà pur sempre vincolato, a norma rispettivamente dell'art. 651 e dell'art. 651-bis c.p.p.: l'operatività delle disposizioni prescinde difatti dalla partecipazione, anche potenziale, del danneggiato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il 2° comma dell'art. 75 c.p.p. mostra che, di per sé, la pendenza del processo penale influente non condiziona lo svolgimento di quello civile; sicché la priorità logica del fatto di reato rispetto al risarcimento del danno e alle restituzioni conseguenti non implica necessariamente la priorità cronologica dei relativi accertamenti. Si apre per conseguenza alla possibilità di contraddizione - logica, non pratica, in considerazione della diversità di oggetto dei due processi- tra le due decisioni relative alla responsabilità dell'imputato-danneggiante (ne prende atto Cass. 17 febbraio 2010, n. 3820, richiamata, tra varie, da Cass. 22 giugno 2017, n. 15470). In questo microsistema, allora, il valore dell'uniformità dei giudicati su cui punta l'ordinanza interlocutoria diviene recessivo. Le SSUU hanno d'altronde già da tempo rimarcato, con riguardo giustappunto alla valenza dell'art. 75 c.p.p., che esso ha ceduto il passo a quello del giusto processo, in virtù del quale in tanto la sentenza è giusta in quanto l'applicazione della legge sia avvenuta nell'ambito di un procedimento nel quale sia stato pienamente assicurato il diritto di difesa (Cass., sez. un., ord. 5 novembre 2001, n. 13682). E che anche sul piano generale il valore dell'uniformità dei giudicati (o comunque delle decisioni) abbia perso d'importanza, si evince, oltre che dai riferimenti indicati nell'ordinanza n. 13682/01, altresì da indicatori di altri comparti. A titolo d'esempio, in tema di giudizio tributario, l'art. 20 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 stabilisce che: «</em>Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione<em>». Quanto al rapporto col processo penale del procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati, l'art. 54 della I. 31 dicembre 2012, n. 247, che detta la nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense, sancisce che: «</em>Il procedimento disciplinare si svolge ed è definito con procedura e con valutazioni autonome rispetto al processo penale avente per oggetto i medesimi fatti<em>» (1° co.) e che soltanto «</em>Se, agli effetti della decisione, è indispensabile acquisire atti e notizie appartenenti al processo penale, il procedimento disciplinare può essere a tale scopo sospeso a tempo determinato. La durata della sospensione non può superare complessivamente i due anni; durante il suo decorso è sospeso il termine di prescrizione<em>» (2° co.). Coerente è anche l'art. 55 -ter del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, relativo al giudizio disciplinare del lavoratore pubblico con rapporto contrattuale, secondo cui: «</em>Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l'autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale<em>». Sul punto, la giurisprudenza della Corte è ferma nel sostenere la mera facoltatività della sospensione del primo in attesa dell'esito del secondo (Cass. 5 aprile 2018, n. 8410). D'altronde, persino in seno al medesimo giudizio penale è possibile che vi sia difformità di decisioni: si consideri la possibilità riconosciuta dall'art. 576 c.p.p. alla parte civile d'impugnare, ai soli effetti della responsabilità civile, la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio (purché l'accertamento sia destinato a produrre gli effetti previsti dall'art. 652 c.p.p.: Cass., sez. un. pen., 29 settembre 2016, n. 46688, Schirru). In definitiva, il favore per la separazione dei giudizi comporta l'accettazione del rischio di difformità dei giudicati ai quali i giudizi separati conducano.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La chiave di volta della sospensione necessaria prevista dall'art. 75, 3° co., c.p.p. non si può, quindi, identificare con quella determinata dalla pregiudizialità, ossia appunto con l'esigenza di evitare il rischio di un conflitto fra giudicati (tra varie, a proposito di questo fondamento della sospensione necessaria per pregiudizialità, Cass., sez. un., 24 maggio 2013, n. 12901 e 16 marzo 2016, n. 5229). Del resto, anche la tecnica processuale per l'operatività della sospensione necessaria ex art. 75, 3° co., c.p.p. differisce da quella che opera al cospetto di sospensione necessaria per pregiudizialità. Nel primo caso, e in particolare nell'ipotesi in esame, è la pronuncia della sentenza di primo grado nel processo penale a determinare la sospensione del giudizio civile iniziato dopo. Nel secondo, quando il processo pregiudicante è stato definito con sentenza non passata in giudicato, il giudizio pregiudicato può essere sospeso -ex art. 337, 2° comma, c.p.c.- e non deve esserlo - ex art. 295 c.p.c. (Cass., sez. un., 19 giugno 2012, n. 10027; conf., in relazione al caso in cui la sentenza di primo grado, la cui autorità è invocata, sia stata emessa dal giudice amministrativo, sez. un., 30 novembre 2012, n. 21348, nonché, da ultimo, in termini, ord. 4 gennaio 2019, n. 80).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Insufficiente a giustificare la sospensione necessaria ex art.75 c.p.p. è, peraltro, la finalità latamente sanzionatoria evidenziata dalla giurisprudenza della Corte. Una tale finalità è senz'altro ravvisabile anche in relazione all'ipotesi in esame. In tesi, nel caso di azione civile proposta dopo la pronuncia della sentenza penale di primo grado l'esercizio dell'azione risarcitoria non necessariamente è frutto di una scelta consapevole del danneggiato, di modo che la conseguente tardività si possa a lui ascrivere sin dall'inizio. È, tuttavia, riconoscibile comunque l'intento sanzionatorio del legislatore: il danneggiato-attore, se pure non sia rimasto volontariamente al di fuori del processo penale per verificarne l'esito, trascura di provvedere sollecitamente alla cura dei propri interessi nel torno di tempo necessario alla pronuncia della sentenza di primo grado nel processo penale; il che colora come attendista la proposizione dell'azione civile. E tale condotta devìa dal tracciato del legislatore, volto, si è visto, a incoraggiare la proposizione dell'azione civile in sede propria. Non è, tuttavia, questo intento a giustificare e a imporre la sospensione del processo civile instaurato dopo la pronuncia penale di primo grado (o anche dopo la costituzione di parte civile nel processo penale). Quel che rileva ai fini della sospensione del giudizio civile di danno ex art. 75, 3° co., c.p.p., fuori dal caso in cui i giudizi di danno possono proseguire davanti al giudice civile ai sensi del precedente 2° comma, è che la sentenza penale possa esplicare efficacia di giudicato nell'altro giudizio, ai sensi degli artt. 651, 651- bis, 652 e 654 c.p.p. Imporre al danneggiato-attore che si sia tardivamente rivolto al giudice civile di attendere l'esito del processo penale ha senso soltanto se e in quanto quest'esito, se definitivo, sia idoneo a produrre i propri effetti sul processo civile. Lo si evince, si è sottolineato con l'ord. n. 13682/11, dall'art. 211 disp. att. c.p.p., a norma del quale «</em>Salvo quanto disposto dall'articolo 75 comma 2 del codice, quando disposizioni di<em> </em>legge prevedono la sospensione necessaria del processo civile o amministrativo a causa della pendenza di un processo penale, il processo civile o amministrativo è sospeso fino alla definizione del processo penale se questo può dare luogo a una sentenza che abbia efficacia di giudicato nell'altro processo e se è già stata esercitata l'azione penale<em>». Ed è puntando su questa ratio che si è esclusa la sospensione del processo civile nei confronti delle -sole- parti diverse dall'imputato-danneggiante, alle quali siano ascritti fatti differenti da quelli oggetto di accertamento nel processo penale (Cass., ord. 1 luglio 2005, n. 14074; ord. 16 marzo 2017, n. 6834 e 11 luglio 2018, n. 18202). Quando, invece, i fatti siano i medesimi, il vincolo rispettivamente previsto dagli artt. 651 e 651-bis c.p.p. si potrebbe produrre nei confronti del responsabile civile soltanto qualora il processo risarcitorio sia promosso nei relativi confronti da un danneggiato diverso da colui che abbia proposto l'azione civile nel processo penale: solo in questo caso, e se il responsabile civile sia stato regolarmente citato o abbia spiegato intervento in sede penale, il giudicato di condanna del danneggiante-imputato o quello del relativo proscioglimento per particolare tenuità del fatto avranno effetto verso di lui nel giudizio di danno. Sulla pretesa del danneggiato costituitosi parte civile si può difatti decidere in sede civile soltanto se la parte civile sia uscita dal processo penale per revoca o estromissione; e poiché l'esodo della parte civile comporta che la citazione o l'intervento del responsabile civile perdono efficacia (a norma, rispettivamente, degli artt. 83, 6° co., e 85, 4° co., c.p.p.), viene meno la condizione pretesa dagli artt. 651 e 651-bis c.p.p. per la produzione degli effetti ivi previsti nei confronti del responsabile civile, ossia che il «</em>responsabile civile sia stato citato o sia intervenuto nel processo civile<em>». A maggior ragione il vincolo non si può produrre in un caso, come quello in esame, in cui non v'è coincidenza tra le parti civili nel processo penale e gli attori del processo civile, nel senso già specificato, e non vi sono stati citazione o intervento del responsabile civile nel processo penale. Il che esclude anche la possibilità che si potesse determinare il vincolo previsto dall'art. 652, 1° co., c.p.p.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Non sarebbe poi possibile, com'è adombrato nell'ordinanza interlocutoria, disporre la sospensione del giudizio, in caso di litisconsorzio facoltativo, nei confronti del solo danneggiante- imputato, nei confronti del quale non sono richieste condizioni perché si produca il vincolo derivante dalla sentenza di condanna, ex art. 651 c.p.p., o dalla sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, a norma dell'art. 651-bis c.p.p. L'autore del fatto illecito costituente reato, riconosciuto come responsabile e perciò condannato, ha difatti sicuramente avuto la possibilità di partecipare al processo penale in qualità di imputato, sicché il relativo diritto di difesa ha ricevuto piena garanzia per l'intero corso del processo. A escludere tale possibilità sta la considerazione che le ipotesi di sospensione previste dal 3° comma dell'art. 75 c.p.p. rappresentano pur sempre una deroga rispetto alla regola generale, che è quella della separazione dei giudizi e dell'autonoma prosecuzione di ciascuno di essi. La natura derogatoria della disposizione ne impone interpretazioni restrittive; e, in virtù di quest'interpretazione restrittiva occorre che tra i due giudizi vi sia identità, oltre che di oggetto, anche di soggetti, alla stregua dei comuni canoni di identificazione delle azioni (Cass., sez. un., 18 marzo 2010, n. 6538). Estendere l'applicazione di un'ipotesi derogatoria a un caso, come quello in esame, in cui tutte le parti del giudizio civile non coincidano con tutte quelle del processo penale, sacrificherebbe in maniera ingiustificata l'interesse dei soggetti coinvolti alla rapida definizione della propria posizione, in aperta collisione con l'esigenza di assicurare la ragionevole durata del processo, presente nel nostro ordinamento ben prima dell'emanazione dell'art. 111, 2° comma, Cost., e comunque assurta a rango costituzionale per effetto di esso. In dottrina, al riguardo, si è sostenuto che la concentrazione in unica sede dei risvolti penalistici e di quelli civilistici del medesimo fatto sia un fattore di snellimento. Va, tuttavia, considerato che anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte Edu 1 luglio 1997, Torri c. Italia), nel verificare il rispetto del diritto della parte civile alla ragionevole durata del processo di danno, garantito dall'art. 6.1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ha ritenuto che debbano essere computate cumulativamente la durata del processo penale, dal momento della costituzione di parte civile, e quella del successivo processo civile per la liquidazione del danno. E queste valutazioni rilevano indipendentemente dalla natura del litisconsorzio che lega le parti, necessario o facoltativo. Fuori bersaglio sono, invece, le perplessità concernenti la tenuta sul piano costituzionale dell'opzione che, in un caso come quello in esame, esclude la sospensione, con riguardo alla posizione del danneggiante-imputato e al suo interesse a valersi dell'eventuale giudicato di assoluzione che riuscirà a conseguire. La separazione e l'autonomia dei giudizi comportano difatti che il giudizio civile sia disciplinato dalle sole regole sue proprie, che largamente si differenziano da quelle del processo penale, non soltanto sotto il profilo probatorio, ma anche, in via d'esempio, con riguardo alla ricostruzione del nesso di causalità, che risponde, nel processo penale, al canone della ragionevole certezza (Cass., sez. un. pen., 10 luglio 2002, n. 30328; sez. un. pen., 24 aprile 2014, n. 38343 e 4 maggio 2017, n. 33749) e, in quello civile, alla regola del "</em>più probabile che non<em>" (tra varie, Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576 e ord. 27 settembre 2018, n. 23197). Sicché non meritevole di tutela è in questi casi l'interesse del danneggiante di attendere gli esiti del processo nel quale egli sia imputato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va affermato il seguente principio di diritto: In tema di rapporto tra giudizio penale e giudizio civile, i casi di sospensione necessaria previsti dall'art. 75, 3° co., c.p.p., che rispondono a finalità diverse da quella di preservare l'uniformità dei giudicati, e richiedono che la sentenza che definisca il processo penale influente sia destinata a produrre in quello civile il vincolo rispettivamente previsto dagli artt. 651, 651 -bis, 652 e 654 c.p.p., vanno interpretati restrittivamente, di modo che la sospensione non si applica qualora il danneggiato proponga azione di danno nei confronti del danneggiante e dell'impresa assicuratrice della responsabilità civile dopo la pronuncia di primo grado nel processo penale nel quale il danneggiante sia imputato.</em></p>