Corte di Cassazione, Sez. V Penale, sentenza 21 marzo 2025, n. 11571
PRINCIPIO DI DIRITTO
La critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale e non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica.
Il reato può essere consumato anche propalando la verità, ed essendo sufficiente, ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo, la consapevolezza di formulare giudizi oggettivamente lesivi della reputazione della persona offesa.
L’incriminazione della diffamazione costituisce un’interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l’art. 10 CEDU, a meno che non sia “prescritta dalla legge”, non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10 par. 2 e non sia “necessaria in una società democratica”.
Al fine di correttamente applicare l’art. 10 CEDU va operata la distinzione tra diritto di critica e diritto di cronaca, distinguendo tra statement of facts (oggetto di prova) e value judgements (non suscettibili di dimostrazione), rilevando come nel secondo caso il potenziale offensivo della propalazione, nella quale è tollerabile – data la sua natura – ‘exaggeration or even provocation’, sia neutralizzato dal fatto che la stessa si basi su di un nucleo fattuale (veritiero e rigorosamente controllabile) sufficiente per poter trarre il giudizio di valore negativo; se il nucleo fattuale è insufficiente, il giudizio è ‘gratuito’ e pertanto ingiustificato e diffamatorio.
I limiti dell’esimente sono costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento e dalla correttezza di espressione sempre che sussista un rapporto di leale confronto tra l’opinione critica ed il fatto che la genera. Il limite immanente all’esercizio del diritto di critica è, pertanto, costituito in definitiva dal fatto che essa non sia avulsa da un nucleo di verità e non trascenda in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui.
Il termine “maledetto” (nel caso di specie declinato al plurale) ha progressivamente perduto nel linguaggio comune qualsiasi funzione di epiteto ingiurioso e, comunque, per la sensibilità generale qualsiasi carattere effettivamente offensivo, traducendosi in una mera espressione di rancore o di imprecazione alla quale rimane estranea la necessaria attribuzione di qualità sfavorevoli alla persona offesa in grado di gettare una luce negativa su quest’ultima.
Il termine “assassino” (anch’esso declinato, nel caso di specie, al plurale) se astrattamente considerato presenta invece un’effettiva attitudine lesiva dell’altrui reputazione, ma ciò non esime il giudice di valutarne l’utilizzo nel contesto in cui si inserisce e nel concreto significato che l’imputato ha inteso attribuirgli.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso è fondato.
- Invero infondato è il primo motivo. Il giudice dell’appello ha correttamente ritenuto che le offese fossero dirette nei confronti di soggetti determinati o comunque agevolmente identificabili, atteso che nello scritto di cui si tratta non solo viene formulato un espresso riferimento nominativo alla persona del sindaco B.B., ma altresì i giudizi critici – e conseguentemente anche le espressioni oggetto di contestazione – vengono indirizzati anche nei confronti dell’intera amministrazione guidata dal medesimo e collegati al mancato contrasto al degrado cittadino imputato all’eccessivo accesso di pullman al territorio comunale. È dunque evidente che l’imputato abbia inteso indirizzare la censura nei confronti di coloro che avevano il potere decisionale di arginare il fenomeno censurato, ossia e per l’appunto i componenti della giunta comunale, come correttamente sostenuto dai giudici del merito.
- Coglie invece nel segno il secondo motivo, al cui accoglimento consegue l’assorbimento del terzo. 3.1 La Corte territoriale ha riconosciuto come la prima parte dello scritto incriminato possa ritenersi riconducibile all’alveo del legittimo esercizio del diritto di critica politica, ma ha al contempo evidenziato come l’imputato abbia accompagnato il proprio giudizio critico con espressioni intrinsecamente lesive dell’onore e della reputazione delle persone offese, quali “assassini” e “maledetti”, ritenute del tutto gratuite in quanto non funzionali alla manifestazione del pensiero legittimamente espresso. 3.2 In proposito va anzitutto ricordato che con riguardo alla citata esimente la giurisprudenza di questa Corte si esprime ormai in termini consolidati nel senso per cui il rispetto del principio di verità si declina peculiarmente, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale e non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (Sez. 5, n.25518 del 26/09/2016, dep. 2017, Volpe, Rv. 270284, Sez. 5, n.7715 del 04/11/2014, dep. 2015, Caldarola). Nella delineata prospettiva, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero che si specifichi nell’esercizio del diritto di critica ovvero di asserzione di verità deve, comunque, essere contemperato con i principi costituzionali di cui agli artt. 2 e 3 Cost. In questo senso, anche l’errore sulla veridicità dei fatti o sulla correttezza dei giudizi oggetto della condotta incriminata non esclude, tuttavia, il dolo richiesto dalla norma perché non ricade sugli elementi costitutivi della fattispecie, potendo il reato essere consumato anche propalando la verità, ed essendo sufficiente, ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo, la consapevolezza di formulare giudizi oggettivamente lesivi della reputazione della persona offesa (Sez. 5, n.47973 del 07/10/2014, De Salvo, Rv. 261205). Conseguentemente anche la formulazione del pensiero critico non può ritenersi avulsa dalla necessaria continenza, non potendo il medesimo essere espresso mediante eccessive forme di biasimo e di riprovazione. 3.3 Siffatta impostazione si pone inoltre in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui l’incriminazione della diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l’art. 10 CEDU, a meno che non sia “prescritta dalla legge”, non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10 par. 2 e non sia “necessaria in una società democratica”. In riferimento agli enunciati limiti, la Corte EDU ha, in varie pronunce, sviluppato il principio inerente alla ‘verità del fatto narrato’ per ritenere ‘giustificabile’ la divulgazione lesiva dell’onore e della reputazione: ed ha declinato l’argomento in una duplice prospettiva, distinguendo tra dichiarazioni relative a fatti e dichiarazioni che contengano un giudizio di valore, sottolineando come anche in quest’ultimo sia comunque sempre contenuto un nucleo fattuale che deve essere sia veritiero che oggettivamente sufficiente per permettere di trarvi il giudizio, versandosi, altrimenti, in affermazione offensiva ‘l’eccessiva’, non scriminabile perché assolutamente priva di fondamento o di concreti riferimenti fattuali. In tal senso, la Corte Europea si riferisce principalmente al diritto di critica, politica, etica o di costume e, in generale, a quel diritto strettamente contiguo, sempre correlato con il diritto alla libera espressione del pensiero, che è il diritto di opinione, indicando quali siano i limiti da non travalicare nel caso di critica politica. Nella delineata prospettiva si pone la sentenza CEDU Mengi vs. Turkey, del 27.2.2013, che costituisce ancora la più avanzata ricognizione della posizione della Corte in materia di art. 10 della Carta nella distinzione tra diritto di critica e diritto di cronaca, distinguendo tra statement of facts (oggetto di prova) e value judgements (non suscettibili di dimostrazione), rilevando come nel secondo caso il potenziale offensivo della propalazione, nella quale è tollerabile – data la sua natura – ‘exaggeration or even provocation’, sia neutralizzato dal fatto che la stessa si basi su di un nucleo fattuale (veritiero e rigorosamente controllabile) sufficiente per poter trarre il giudizio di valore negativo; se il nucleo fattuale è insufficiente, il giudizio è ‘gratuito’ e pertanto ingiustificato e diffamatorio. Nel quadro così sommariamente delineato, ove il giudice pervenga, attraverso l’esame globale del contesto espositivo, a qualificare quest’ultimo come prevalentemente valutativo, i limiti dell’esimente sono costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento e dalla correttezza di espressione (Sez. 5, n. 2247 del 02/07/2004, Rv. 231269; Sez. 1, n. 23805 del 10/06/2005, Rv. 231764), sempre che sussista un rapporto di leale confronto tra l’opinione critica ed il fatto che la genera. Il limite immanente all’esercizio del diritto di critica è, pertanto, costituito in definitiva dal fatto che essa non sia avulsa da un nucleo di verità e non trascenda in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui (ex multis Sez. 5, n. 31263 del 14/09/2020, Capozza, Rv. 279909). In tal senso si è però contestualmente precisato che se l’esimente in questione postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, ciò non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, abbiano anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (ex multis Sez. 5, n. 17243 del 19/02/2020, Lunghini, Rv. 279133).
- Alla luce delle rassegnate e condivise coordinate ermeneutiche deve ritenersi che i giudici del merito non abbiano fatto corretta applicazione dei principi illustrati. 4.1 Premesso che in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività della frase o dei singoli termini che si assumono lesivi della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva della condotta ritenuta diffamatoria (ex multis Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Fabi, Rv. 278145), va anzitutto osservato come il termine “maledetto” (nel caso di specie declinato al plurale) abbia progressivamente perduto nel linguaggio comune qualsiasi funzione di epiteto ingiurioso e, comunque, per la sensibilità generale qualsiasi carattere effettivamente offensivo, traducendosi in una mera espressione di rancore o di imprecazione alla quale rimane estranea la necessaria attribuzione di qualità sfavorevoli alla persona offesa in grado di gettare una luce negativa su quest’ultima. A maggior ragione quando, come nel caso di specie, lo stesso non assume la natura di aggettivo sostantivato. Dunque, sotto questo profilo, la condotta del A.A. deve ritenersi penalmente irrilevante. 4.2 Ciò detto, con riguardo all’altro termine sul quale si è accentrata l’attenzione della Corte territoriale (“assassini”), il quale, se astrattamente considerato, presenta invece un’effettiva attitudine lesiva dell’altrui reputazione, i giudici del merito sono venuti meno all’onere di valutarne l’utilizzo nel contesto in cui si inserisce e nel concreto significato che l’imputato ha inteso attribuirgli. È infatti evidenti che egli non abbia voluto accusare le persone offese di aver ucciso alcuno, né di avere intenzione di farlo. L’impiego in chiave iperbolica del termine ha dunque un evidente fine provocatorio e assume una funzione meramente rafforzativa della critica articolata nella prima parte del messaggio, al fine di sottolineare la ritenuta gravità dei fatti denunziati. In tal senso correttamente inteso deve allora escludersi che l’imputato abbia travalicato i limiti della continenza, posto che, soprattutto nell’ambito della manifestazione del pensiero su temi politici e della censura di coloro che ricoprono cariche pubbliche, per consolidato orientamento di questa Corte la critica può assumere forme anche aspre. 4.3 Pertanto deve ritenersi che il fatto non costituisca reato, avendo agito il A.A. nell’esercizio del diritto di critica politica. Conseguentemente la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio e deve altresì essere disposta la revoca delle statuizioni civili adottate nei diversi gradi del giudizio di merito.