Corte di Cassazione , Sez. II Civile, ordinanza 7 aprile 2025 n. 9153
PRINCIPIO DI DIRITTO
Non va assoggettata al rigoroso onere della c.d. probatio diabolica, l’azione di petizione ereditaria, proprio in considerazione della sua natura recuperatoria e della sua differenza rispetto all’azione di rivendicazione, come per la rivendicazione stessa, ove sia contestata l’appartenenza del bene all’asse relitto e non impone, dunque, di dimostrare i vari trasferimenti della proprietà, in capo al de cuius, sino alla copertura del tempo sufficiente ad usucapire, essendo sufficiente, all’uopo, dimostrare l’inclusione del bene nell’asse relitto, anche attraverso prove presuntive, come la dichiarazione di successione e le intestazioni catastali.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 533, 948 e 2697 cod. civ., nonché degli artt. 112 e 113 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito qualificato l’azione proposta dall’attore in termini di petizione ereditaria, ancorché non qualificata in siffatti termini da quest’ultimo, sostenendo che non ricorressero i presupposti dell’avere il predetto agito come erede nei confronti di colui che deteneva i beni allo stesso spettanti in virtù di successione testamentaria, senza considerare che, nella specie, non era in contestazione la qualità di erede dalla madre dell’attore, ma soltanto la proprietà del bene rivendicato, asseritamente stornato dalle disposizioni di ultima volontà da un atto di donazione e, comunque, usucapito, e che pertanto erano venute meno le ragioni di specificità della petizione ereditaria.
Pertanto, non essendo stata provata la proprietà, in uno con l’errata qualificazione della domanda come petitoria ereditaria e non come petitoria semplice, questa non avrebbe potuto essere accolta.
- Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 533 cod. civ. e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito dichiarato la fondatezza della domanda di rivendicazione proposta dall’attore, benché questi non avesse dimostrato, pur essendo non contestata la sua qualità di erede, l’appartenenza del bene alla madre, non essendo all’uopo sufficiente la denuncia di successione.
- I primi due motivi, da trattare congiuntamente in quanto afferenti al medesimo thema decidendum della qualificazione dell’azione proposta dall’originario attore, sono infondati.
È ben noto, invero, che il recupero, da parte dell’erede, dei beni ereditari di cui sia nel possesso un terzo, sia in qualità di erede, sia senza titolo, avviene con l’esercizio dell’azione di petizione ereditaria ex art. 533 cod. civ., la quale, oltre ad avere natura reale e non contrattuale, è fondata sull’allegazione della qualità di erede con la finalità di conseguire il rilascio dei beni compresi nell’asse ereditario al momento dell’apertura della successione da chi li possiede senza titolo o in base a titolo successorio che non gli compete, ma non quelli che, al momento dell’apertura della successione del de cuius, erano già fuoriusciti dal suo patrimonio e che, in ragione di ciò, non possono essere considerati quali beni ereditari (in tal senso, Cass., Sez. 2, 17/10/2024, n. 26951; Cass., Sez. 2, 4/4/2024, n. 8942).
Questa azione consente, peraltro, di chiedere sia la quota dell’asse ereditario, sia il suo valore, potendo così assumere tanto natura di azione di accertamento o funzione recuperatoria (Cass., Sez. 6-2, 24/9/2020, n. 20024), quanto di condanna al rilascio dei beni ereditari posseduti dal convenuto a titolo di erede (Cass., Sez. 2, 19/1/1980, n. 461).
In sostanza, la petitio hereditatis, la cui legittimazione spetta dal lato attivo e passivo soltanto, rispettivamente, a colui che adduce la sua qualità di erede e a colui che sia in possesso dei beni di cui il primo chiede la restituzione (nei sensi suddetti, tra le tante, Cass., Sez. 2, 1/4/2008 n. 8440; Cass., Sez. 2, 22/07/2004, n. 13785; Cass., Sez. 2, 15/3/2004 n. 5252; Cass., Sez. 2, 02/08/2001, n. 10557), si fonda pur sempre sull’allegazione di uno status, l’universum jus ereditario, ed ha per oggetto beni che vengono riguardati come elementi costitutivi dello universum jus o quota parte di esso (Cass., Sez. 2, 19/4/1979, n. 2211), presupponendo, perciò, l’accertamento della sola qualità ereditaria dell’attore o di diritti che a costui spettano iure hereditatis, qualora siano contestati dalla controparte, differenziandosi così dalla rei vindicatio, malgrado l’affinità del petitum.
Da ciò consegue, quanto all’onere probatorio, che, mentre l’attore in rei vindicatio deve dimostrare la proprietà dei beni attraverso una serie di regolari passaggi durante tutto il periodo di tempo necessario all’usucapione, nella hereditatis petitio può invece limitarsi a provare la propria qualità di erede (anche mediante atto notorio o certificazione rilasciata dall’Ufficiale dello Stato civile, cfr. Cass., Sez. 2, 15/03/2004, n. 5252; Cass., Sez. U, 22/03/1969, n. 921) ed il fatto che i beni, al tempo dell’apertura della successione, fossero compresi nell’asse ereditario (Cass., Sez. 2, 19/3/2021, n. 7871; Cass., Sez. 2, 16/01/2009, n. 1074 ; Cass., Sez. 2, 22/07/2004, n. 13785; Cass., Sez. 2, 15/03/2004, n. 5252; Cass., Sez. 2, 02/08/2001, n. 10557; Cass., Sez. 2, Sez. 2, 19/04/1979, n. 2211), se contestato.
Né vale a immutare la qualificazione dell’azione in azione di rivendicazione il fatto che il convenuto non contesti la qualità di erede dell’attore, come preteso dal ricorrente, sia in quanto, ai fini della configurabilità di detta azione, è sufficiente che sia contestato anche uno solo dei suoi necessari presupposti, ossia la qualità di erede dell’attore o la sussistenza di diritti che a lui spettano jure hereditario (Cass., Sez. 2, 19/04/1979, n. 2211), sia in quanto la mancata contestazione della qualità di erede non fa venire meno le finalità recuperatorie della petizione ereditaria (Cass., Sez. 2, 16/1/2009, n. 1074).
Da ciò consegue che, qualora il convenuto non contesti la qualità di erede dell’attore, ma si limiti a negare l’appartenenza del bene all’asse ereditario (come appunto nella fattispecie in esame), l’azione di petizione ereditaria non si trasforma in azione di rivendicazione, in quanto tale situazione non fa venire meno le finalità recuperatorie della petizione ereditaria, ma produce effetti solo sul piano probatorio, esonerando l’attore dalla prova della sua qualità, fermo restando l’onere – nei limiti relativi alla difesa della controparte – dell’appartenenza del bene all’asse ereditario al momento dell’apertura della successione (Cass., Sez. 2, 18/7/2012, n. 14732; Cass., 20/10/1984, n. 5304).
Proprio in considerazione della natura recuperatoria dell’azione di petizione ereditaria e della sua differenza rispetto all’azione di rivendicazione, l’appartenenza del bene all’asse relitto, ove contestata, non è soggetta al rigoroso onere della c.d. probatio diabolica, come per la rivendicazione, e non impone, dunque, di dimostrare i vari trasferimenti della proprietà, in capo al de cuius, sino alla copertura del tempo sufficiente ad usucapire, essendo sufficiente, all’uopo, dimostrare l’inclusione del bene nell’asse relitto, anche attraverso prove presuntive, come la dichiarazione di successione e le intestazioni catastali. Alla stregua di tali principi, deve allora ritenersi corretta la qualificazione dell’azione proposta da B.B. in termini di petizione ereditaria, come operata in entrambi i gradi del giudizio, atteso che quest’ultimo, proponendosi come erede testamentario della madre, aveva chiesto la condanna del convenuto al rilascio dell’appartamento oggetto del lascito, restando indifferente il fatto che il suo status fosse rimasto pacifico in causa, così come altrettanto correttamente è stata ritenuta provata l’appartenenza del bene al relictum, siccome arguita in fatto dai giudici di merito sulla base del testamento, della dichiarazione di successione e degli accertamenti compiuti dal c.t.u., che aveva verificato l’intestazione fin dall’origine dello stesso alla testatrice.
- Con il terzo motivo di ricorso, si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio con riferimento all’art. 244 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, con riferimento al pagamento del canone di affitto, avevano travisato la testimonianza resa dall’affittuario, il quale aveva affermato di avere pagato alla de cuius il canone, ancorché i relativi assegni, intestati alla predetta, venissero consegnati al ricorrente a causa della malattia invalidante che affliggeva la stessa.
- Con il quarto motivo di ricorso, si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio con riferimento al mancato riconoscimento del danno, inteso come costi per i lavori di ristrutturazione dell’immobile, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., perché i giudici di merito avevano ritenuto non dimostrato che le opere realizzate sul bene conteso fossero state commissionate dal ricorrente, che le somme per essi corrisposte fossero state erogate da quest’ultimo e non dalla madre e che non fossero stati neppure individuati i lavori da questi svolti e tantomeno le singole quantità e prezzi.
I giudici non avevano però considerato che nell’atto d’appello erano stati specificamente indicati i lavori eseguiti (ossia quelli di rifinitura per un valore di Euro 40.000,00; il rifacimento della copertura con manto bituminoso e posa delle tegole; rifacimento e impermeabilizzazione di tutti i balconi; pavimentazione del cortile e posa del porfido) e che i testimoni avevano riferito che i lavori erano stati commissionati dal ricorrente e che questi aveva pagato il relativo prezzo.
- Il terzo e quarto motivo sono inammissibili. Entrambi sono stati, infatti, prospettati in termini di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e riferiti perciò all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., benché argomentati in termini di travisamento della prova. Si è, però, già detto che, nell’ipotesi di c.d. “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter, quinto comma, cod. proc. civ. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (nel testo riformulato dall’art. 54, comma 3, del D.L. n. 83 cit. ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (per tutte, Cass., Sez. 5, 18/12/2014, n. 26860; Cass., Sez. 5, 11/05/2018, n. 11439; Cass., sez. 1, 22/12/2016, n. 26774; Cass., sez. L., 06/08/2019, n. 20994), incombenze queste rimaste, per entrambe le censure, inadempiute.
7.1 Con il quinto motivo di ricorso, si lamenta, infine, la violazione degli artt. 1104, 1110, 1150 cod. civ., 116 cod. proc. civ., 2697 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., perché i giudici di merito non avevano riconosciuto al coerede il diritto alla liquidazione a titolo di risarcimento/o indennizzo di quanto speso per ristrutturare, completare e migliorare l’immobile in comunione ereditaria, mentre invece, a fronte delle dichiarazioni rese dai testi, che avevano specificato i lavori eseguiti e il fatto che questi fossero stati commissionati e pagati dal ricorrente, avrebbero dovuto motivare, sostenendo che il coerede, in quanto mandatario tacito o utile gestore, aveva diritto al rimborso delle spese sostenute per i miglioramenti e le addizioni della cosa comune, anche se non preventivamente autorizzate.
7.2 Il quinto motivo è parimenti inammissibile.
Occorre, innanzitutto, evidenziare come i giudici di merito, nel confermare la sentenza di primo grado, abbiano ritenuto che la pretesa di riconoscimento delle spese sostenute sui beni attribuiti all’appellato non potesse trovare accoglimento, atteso che l’appellante non aveva dimostrato né di avere commissionato lui le opere, né di averle pagate con proventi propri, non avendo i numerosi testi sentiti chiarito in modo certo e definitivo se vi avesse provveduto lui o la madre.
Al riguardo deve ribadirsi come la valutazione delle prove raccolte costituisca attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili con il ricorso per cassazione (Cass., Sez. 1, 3/7/2023, n. 18857; Cass. 19/07/2021, n. 20553; Cass. 29/10/2018, n. 27415).
Neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 n. 4, cod. proc. civ. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., Sez. 1, 26/9/2018, n. 23153 ; Cass., Sez. 3, 10/6/2016, n. 11892 ), sia perché la contestazione della persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie attiene alla sufficienza della motivazione, non più censurabile secondo il nuovo parametro di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., sia perché con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, contrapponendovi le proprie, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie concreta operate dai giudici del merito, trattandosi di accertamento di fatto, precluso in sede di legittimità (ex plurimis Cass., Sez. 1, 6/11/2023, n. 30844; Cass., Sez. 5, 15/5/2018, n. 11863, Cass., Sez. 6-5, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. 1, 2/8/2016, n. 16056).
In ragione di quanto detto, la censura è senz’altro inammissibile.
- In conclusione, dichiarata l’infondatezza dei primi due motivi e l’inammissibilitàdei restanti, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del ricorrente. Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.