<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 23 maggio 2019 n. 124 </strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nel disegno sistematico originario del codice di procedura penale del 1988, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in grado di appello era delineata dall’art. 603 in aderenza ai criteri direttivi della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale) – e, segnatamente, al criterio 94 enunciato dall’art. 2 –, e dunque come previsione di carattere residuale e riservata alla discrezionalità del giudice, in coerenza con la presunzione di completezza dell’accertamento probatorio svolto nel primo grado di giudizio; e come tale era stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 29 gennaio 2007, n. 16422; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 15 marzo 1996, n. 2780); nella versione originaria dell’art. 603 cod. proc. pen., la rinnovazione della istruzione dibattimentale con riguardo alle prove già acquisite nel giudizio di primo grado poteva infatti essere disposta su richiesta di parte soltanto se il giudice di appello ritenesse «</em>di non essere in grado di decidere allo stato degli atti<em>» (comma 1), ovvero d’ufficio, laddove il giudice la ritenesse «</em>assolutamente necessaria<em>» (comma 3). La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha, tuttavia, stimolato nella giurisprudenza italiana un incisivo ripensamento sui presupposti della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, con riferimento alle ipotesi in cui oggetto di impugnazione sia una sentenza assolutoria pronunciata in primo grado. Per quanto in alcune isolate occasioni la Corte EDU abbia escluso la violazione dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, allorché, pur in assenza di una nuova audizione dei testimoni, il giudice di appello sia pervenuto al convincimento della responsabilità dell’imputato motivando in maniera particolarmente approfondita la propria diversa conclusione rispetto a quella cui era pervenuto il giudice di primo grado (Corte EDU, sentenza 27 giugno 2017, Chiper contro Romania, paragrafo 68; sentenza 26 aprile 2016, Kashlev contro Estonia, paragrafo 51), la giurisprudenza assolutamente prevalente dalla Corte di Strasburgo ritiene incompatibile con la menzionata disposizione convenzionale un giudizio di appello che si concluda con la condanna dell’imputato già assolto in primo grado, senza che le prove dichiarative sulla cui base egli era stato assolto siano state nuovamente assunte davanti al giudice di appello (</em>ex plurimis<em>, Corte EDU, sentenza 28 febbraio 2017, Manoli contro Moldavia, paragrafo 32; sentenza 15 settembre 2015, Moinescu contro Romania, paragrafo 36; sentenza 4 giugno 2013, Hanu contro Romania, paragrafo 40; sentenza 9 aprile 2013, Manolachi contro Romania, paragrafo 50; sentenza 20 marzo 2012, Serrano Contreras contro Spagna, paragrafo 40; sentenza 5 luglio 2011, Dan contro Moldavia, paragrafi 30-33; sentenza 19 febbraio 1996, Botten contro Norvegia, paragrafo 39); e ciò anche nell’ipotesi in cui né l’imputato né il relativo difensore abbiano sollecitato una nuova escussione dei testimoni (Corte EDU, sentenza 9 aprile 2013, Flueraş contro Romania, paragrafo 60). </em><em>A supporto di tale conclusione, la Corte EDU muove dall’assunto che «</em>those who have the responsibility for deciding the guilt or innocence of an accused ought, in principle, to be able to hear witnesses in person and assess their trustworthiness<em>», dal momento che «[t]</em>he assessment of the trustworthiness of a witness is a complex task which usually cannot be achieved by a mere reading of his or her recorded words<em>» (Corte EDU, sentenza 22 luglio 2011, Dan contro Moldavia, paragrafo 33). </em><em>Tali principi sono stati recentemente enunciati anche nei confronti dell’Italia, in una sentenza nella quale è stato ritenuto violato il diritto del ricorrente a un processo equo, in conseguenza della condanna del ricorrente stesso pronunciata per la prima volta in appello in esito a una diversa valutazione di prove dichiarative acquisite nel giudizio di primo grado e non riesaminate direttamente in appello (Corte EDU, sentenza 29 giugno 2017, Lorefice contro Italia, paragrafo 45).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Già in epoca anteriore alla sentenza Lorefice contro Italia, varie sentenze delle sezioni semplici della Corte di cassazione (</em>ex plurimis<em>, sezione seconda penale, sentenza 27 novembre 2012, n. 46065), nonché le Sezioni unite della stessa Corte, avevano nella sostanza recepito questa giurisprudenza della Corte EDU, attraverso una interpretazione conforme alla CEDU delle disposizioni del codice di procedura penale. Rilevato che i principi enunciati nella CEDU, come definiti nella giurisprudenza consolidata della Corte EDU, pur non traducendosi in norme direttamente applicabili nell’ordinamento nazionale, costituiscono criteri di interpretazione ai quali il giudice nazionale è tenuto a ispirarsi nell’applicazione delle norme interne, le Sezioni unite hanno infatti affermato che il giudice di secondo grado, ove intenda riformare una sentenza di proscioglimento sulla base di una diversa valutazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva dal primo giudice, debba procedere – anche d’ufficio – alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, disponendo l’esame dei soggetti che hanno reso le relative dichiarazioni. In caso di mancata rinnovazione, la sentenza di riforma del giudice di secondo grado risulterà affetta da vizio di motivazione, censurabile in Cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., non potendo ritenersi in tal caso che la prova sia stata raggiunta «</em>al di là di ogni ragionevole dubbio<em>», come prescrive l’art. 533 cod. proc. pen. (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 6 luglio 2016, n. 27620). In un </em>obiter dictum<em> di tale pronuncia (al punto 8.4. del Considerato in diritto), le Sezioni unite hanno altresì affermato che la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale deve ritenersi doverosa anche nei giudizi celebrati nelle forme del rito abbreviato, dovendosi anche in tal caso valorizzare il criterio, «</em>da ritenere di carattere generalissimo<em>», del convincimento al di là di ogni ragionevole dubbio. Quest’ultimo corollario non è stato però accolto da una sentenza successiva delle Sezione terza, la quale – sulla scorta di vari precedenti anteriori alla pronuncia delle stesse Sezioni unite (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 30 luglio 2014, n. 33690; sezione terza penale, sentenza 4 novembre 2014, n. 45456) – hanno ritenuto che la necessità della rinnovazione dibattimentale sussista soltanto nel caso di prova assunta oralmente dal primo giudice e non quando l’imputato, con la scelta del rito abbreviato, abbia rinunziato, già in primo grado, alle garanzie dell’oralità e del contraddittorio. Di talché, stante la necessità di mantenere un parallelismo istruttorio tra primo e secondo grado di giudizio, sarebbe ultroneo esigere l’oralità in appello qualora l’imputato fosse stato prosciolto </em>ex actis<em> all’esito del giudizio abbreviato di primo grado (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 13 ottobre 2016, n. 43242). Il contrasto giurisprudenziale così creatosi è stato, quindi, nuovamente sciolto dalle Sezioni unite, che – con una sentenza di pochi mesi successivi rispetto alla precedente – hanno ribadito che l’obbligatorietà della rinnovazione istruttoria opera anche nel caso di </em>overturning<em> da proscioglimento a condanna nell’ambito di giudizio abbreviato non condizionato (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 14 aprile 2017, n. 18620); osservano le Sezioni unite in questa seconda pronuncia che dal canone decisorio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio deriva che, «</em>in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello<em>» deve essere «</em>sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze od insufficienze della decisione assolutoria<em>». Per riformare l’assoluzione, pertanto, «</em>non basta una diversa valutazione di pari plausibilità rispetto alla lettura del primo giudice<em>», ma occorre una «</em>forza persuasiva superiore<em>», tale da far cadere ogni dubbio ragionevole. E tale forza persuasiva non deriva, </em>ex se<em>, dalla pronuncia del giudice d’appello, che non «</em>ha di per sé<em> […] </em>una “autorevolezza maggiore” di quello<em>» di primo grado, ma deriva – al contrario – dal metodo orale dell’accertamento, unica via in grado di qualificare la decisione in termini di «</em>certezza della colpevolezza<em>». In definitiva, a parere delle Sezioni unite, «[l]</em>’assoluzione pronunciata dal giudice di primo grado travalica ogni pretesa di simmetria. Essa, implicando l’esistenza di una base probatoria che induce quantomeno il dubbio sulla effettiva valenza delle prove dichiarative, pretende che si faccia ricorso al metodo di assunzione della prova epistemologicamente più affidabile; sicché la eventuale rinuncia al contraddittorio nel giudizio di primo grado non fa premio sulla esigenza di rispettare il valore obiettivo di tale metodo ai fini del ribaltamento della decisione assolutoria<em>». «</em>Perché, insomma, l’<em>overturning</em> si concretizzi davvero in una motivazione rafforzata, che raggiunga lo scopo del convincimento “<em>oltre ogni ragionevole dubbio</em>”, non si può fare a meno dell’oralità nella riassunzione delle prove rivelatesi decisive. La motivazione risulterebbe altrimenti affetta dal vizio di aporia logica derivante dal fatto che il ribaltamento della pronuncia assolutoria, operato sulla scorta di una valutazione cartolare del materiale probatorio a disposizione del primo giudice, contiene in sé l’implicito dubbio ragionevole determinato dall’avvenuta adozione di decisioni contrastanti<em>».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Introducendo nell’art. 603 cod. proc. pen. il nuovo comma 3-bis, odiernamente censurato, la legge n. 103 del 2017 ha recepito gli approdi cui è pervenuta la giurisprudenza delle Sezioni unite. La nuova disposizione prevede che «[n]</em>el caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale<em>». In tal modo, il legislatore ha dettato una disciplina speciale in materia di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, che deroga alle regole generali poste dai commi 1 e 3 dello stesso art. 603 cod. proc. pen. al dichiarato fine di «</em>armonizzare il ribaltamento della sentenza assolutoria in appello con le garanzie del giusto processo, secondo l’interpretazione ancora di recente offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza del 4 giugno 2013, Hanu c. Romania), circa la doverosità, in questo caso, di riapertura dell’istruttoria orale<em>» (Relazione introduttiva al disegno di legge n. 2798, presentato dal Ministero della Giustizia alla Camera dei Deputati il 23 dicembre 2014 [Riforma della prescrizione, delle pene per la corruzione, dell’udienza preliminare, del patteggiamento, del regime delle impugnazioni, e altro ancora], pagina 10). Il nuovo comma 3-bis dell’art. 603 cod. proc. pen. non chiarisce invero espressamente se l’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale valga anche nel caso in cui il giudizio di primo grado, conclusosi con l’assoluzione dell’imputato, sia stato celebrato con le forme del rito abbreviato. All’indomani della novella, peraltro, le Sezioni unite – risolvendo negativamente la questione se la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale si imponga anche nel caso, opposto, in cui il giudice d’appello intenda riformare la sentenza di condanna di primo grado – hanno affermato, in un ampio </em>obiter dictum<em>, che «[l]</em>’interpolazione operata dal legislatore sul testo normativo dell’art. 603 cod. proc. pen. non contempla eccezioni di sorta, ma consente l’applicabilità della regola posta dal nuovo comma 3-bis ad ogni tipo di giudizio, ivi compresi i procedimenti svoltisi in primo grado con il rito abbreviato<em>». Ciò in quanto «[l]</em>a decisione assolutoria del primo giudice è sempre tale da ingenerare la presenza di un dubbio sul reale fondamento dell’accusa. Dubbio che può ragionevolmente essere superato solo attraverso una concreta variazione della base cognitiva utilizzata dal giudice d’appello, unitamente ad una corrispondente “<em>forza persuasiva superiore</em>” della relativa motivazione, quando il meccanismo della rinnovazione debba essere attivato in relazione ad una prova dichiarativa ritenuta decisiva nella prospettiva dell’alternativa decisoria sopra indicata<em>». D’altronde, hanno proseguito le Sezioni unite, «[l]</em>a rinuncia al contraddittorio<em> […] </em>non può riflettersi negativamente sulla giustezza della decisione, né può incidere sulla prioritaria funzione cognitiva del processo, il cui eventuale esito di condanna esige, sia nel giudizio ordinario che in quello abbreviato, la prova della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio, poiché oggetto del consenso dell’imputato ai sensi dell’art. 111, quinto comma, Cost. è la rinuncia ad un metodo di accertamento, il contraddittorio nella formazione della prova, non all’accertamento della responsabilità nel rispetto del canone epistemologico attraverso cui si invera il principio stabilito dall’art. 27, secondo comma, Cost<em>.» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 3 aprile 2018, n. 14800, punto 7.3. del Considerato in diritto).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nessun contrasto può essere ravvisato tra la disposizione odiernamente impugnata - l’art.603, comma 3-bis, del codice di procedura penale - e il principio della ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost.; principio che il giudice </em>a quo<em> assume essere frustrato dalla necessità di un’attività istruttoria nel contesto di un rito che, perseguendo finalità acceleratorie dei tempi del contenzioso penale, prevede – con il consenso dell’imputato – una decisione resa «allo stato degli atti». La Corte ha, infatti, più volte affermato che il principio della ragionevole durata del processo va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali, sicché il relativo sacrificio non è sindacabile, ove sia frutto di scelte non prive di una valida </em>ratio<em> giustificativa (</em>ex plurimis<em>, sentenza n. 159 del 2014, ordinanze n. 332 e n. 318 del 2008). Da ciò deriva che al principio della ragionevole durata del processo «</em>possono arrecare un vulnus solamente norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza (sentenza n. 148 del 2005)»<em> (sentenza n. 23 del 2015; nello stesso senso, </em>ex multis<em>, sentenze n. 12 del 2016, n. 63 e n. 56 del 2009, n. 26 del 2007); ora, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale imposta dalla disposizione censurata, così come interpretata dal diritto vivente, determina sì una dilatazione dei tempi di trattazione del giudizio di appello, ma non può certo essere ritenuta sfornita di alcuna </em>ratio<em> giustificativa: come si è poc’anzi dettagliatamente riferito, la giurisprudenza del massimo organo di nomofilachia ha chiarito che la necessità di un contatto diretto del giudice con i testimoni – ritenuto il «</em>metodo di assunzione della prova epistemologicamente più affidabile<em>» – è imposta, anche nell’ambito di un giudizio che nasce come meramente “</em>cartolare<em>”, dall’esigenza di far cadere l’«</em>implicito dubbio ragionevole determinato dall’avvenuta adozione di decisioni contrastanti<em>» (Cass., sez. un., n. 18620 del 2017); dubbio che secondo le Sezioni unite è possibile superare soltanto attraverso la «</em>forza persuasiva superiore<em>» della motivazione del giudice d’appello, fondata per l’appunto sull’ascolto diretto delle testimonianze decisive (Cass., sez. un., n. 14800 del 2018). Tale puntuale motivazione, della quale la Corte – che non è chiamata a fornire una propria interpretazione della disposizione censurata, ma unicamente a verificare la compatibilità dell’interpretazione fornitane dal diritto vivente con le superiori norme costituzionali – non può che prendere atto, fornisce idonea ragione giustificativa della dilatazione dei tempi processuali determinata dalla disposizione medesima, ritenuta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione necessaria a una piena tutela dell’interesse primario dell’imputato a non essere ingiustamente condannato. Tale interesse è del resto – secondo la prospettiva interpretativa accolta dalle Sezioni unite – direttamente connesso tanto all’essenza del principio del “</em>giusto processo<em>” sotteso all’intero art. 111 Cost., quanto alla presunzione di innocenza proclamata dall’art. 27, secondo comma, Cost.; e, nella prospettiva dell’imputato, è certamente poziore rispetto al suo stesso diritto a una sollecita definizione della propria vicenda processuale, fondato per l’appunto sull’art. 111, secondo comma, ultima proposizione, Cost. e sull’art. 6, paragrafo 1, CEDU.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nessun contrasto sussiste tra la disposizione censurata - l’art.603, comma 3-bis, del codice di procedura penale - e l’art. 111, quinto comma, Cost., a tenore del quale «</em>la legge regola i casi in cui la formazione della prova non avviene in contraddittorio, per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita<em>». Assume il giudice </em>a quo<em> che la rinuncia a difendersi provando, espressa dall’imputato mediante la richiesta di essere giudicato nelle forme del rito abbreviato, non potrebbe ritenersi limitata al solo primo grado di giudizio, attesa l’ampiezza della formulazione della previsione costituzionale in parola; tale rinuncia – regolata dalla disciplina legislativa del giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 111, quinto comma, Cost. – dovrebbe a relativo avviso necessariamente valere per l’intera vicenda processuale, anche a fronte del beneficio in termini sanzionatori connesso alla scelta del rito, che continua a essere assicurato all’imputato anche nei gradi successivi del giudizio. L’argomento non trova tuttavia alcun sostegno nel testo della norma costituzionale invocata, che si limita a permettere che la prova possa in casi eccezionali formarsi al di fuori del contraddittorio, in particolare allorché l’imputato vi consenta; ma non prescrive affatto, come invece assume il giudice </em>a quo<em>, che – una volta che l’imputato abbia prestato il proprio consenso a essere giudicato «</em>allo stato degli atti<em>» – una tale modalità di giudizio debba necessariamente valere per ogni fase del processo, compresa quella di appello. Piuttosto, la norma costituzionale in parola rinvia alla legge per la puntuale disciplina dei processi fondati sulla rinuncia dell’imputato all’assunzione della prova in contraddittorio, e lascia così che sia il legislatore a provvedere secondo il proprio discrezionale apprezzamento affinché il processo mantenga caratteristiche di complessiva equità, e sia comunque assicurato, in particolare, l’obiettivo ultimo della correttezza della decisione (sentenza n. 184 del 2009). Obiettivo, quest’ultimo, di cui la disposizione censurata – nel significato attribuitole dal diritto vivente – si fa, per l’appunto, carico. D’altra parte, la censura formulata dal giudice </em>a quo<em> pretenderebbe di dedurre, da quella che il legislatore costituzionale ha inequivocamente concepito come una garanzia per l’imputato (così, ancora, sentenza n. 184 del 2009; nello stesso senso, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 3 aprile 2018, n. 14800), una conseguenza pregiudizievole per l’imputato medesimo, derivante dall’eliminazione di una disciplina probatoria concepita anch’essa come garanzia in relativo favore contro condanne potenzialmente ingiuste; il che appare intrinsecamente contraddittorio.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Infondata appare la censura formulata con riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost., sotto il distinto profilo del </em>vulnus<em> che la disposizione in esame - l’art.603, comma 3-bis, del codice di procedura penale - arrecherebbe al principio della parità delle parti nel processo, alterando l’equilibrio simmetrico che connota il giudizio abbreviato, fondato sulla rinuncia al contraddittorio nella formazione della prova e sulla correlativa diminuzione di pena in caso di condanna. Invero – e a differenza di ciò che la Corte ha riscontrato nella sentenza n. 26 del 2007, concernente una disciplina che precludeva al pubblico ministero di impugnare le sentenze di proscioglimento pronunciate in primo grado – la disposizione ora censurata non introduce alcuno squilibrio tra i poteri processuali delle parti, dal momento che configura un adempimento doveroso a carico del giudice, sottratto al potere dispositivo delle parti, e da realizzare anche in assenza di richiesta delle parti medesime. Né la disposizione pone l’imputato in alcuna arbitraria posizione di vantaggio rispetto al pubblico ministero, tale da turbare la simmetria delle relative posizioni. Così come nel giudizio di primo grado celebrato con rito abbreviato le parti possono confrontarsi in condizioni di parità sul significato e sull’attendibilità delle prove raccolte durante le indagini preliminari, nel successivo giudizio di appello le parti saranno nuovamente in condizioni di completa parità in sede di audizione dei testimoni decisivi ai fini della conferma o della riforma della sentenza assolutoria pronunciata in primo grado. La disposizione censurata crea, semmai, un’asimmetria non già tra i poteri processuali delle parti (alle quali sole, peraltro, si riferisce il parametro costituzionale invocato), ma tra gli statuti probatori vigenti in caso di appello del pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione, e quelli che si applicano al caso, opposto, di appello dell’imputato contro la sentenza di condanna. E però, tale asimmetria, come hanno rilevato recentemente le Sezioni unite, deriva dalla stessa struttura del processo penale italiano, che «</em>non presenta affatto un’architettura simmetrica<em>», alla luce del principio posto dall’art. 27, secondo comma, Cost.: «[i]</em>l nostro ordinamento ha operato una ben precisa scelta di sistema, delineando il processo penale come strumento di accertamento della colpevolezza e non dell’innocenza<em>». Il che è coerente con la previsione normativa di «</em>protocolli logici del tutto diversi in tema di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive in ordine alla fondatezza del tema d’accusa: la certezza della colpevolezza per la pronuncia di condanna, il dubbio originato dalla mera plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l’assoluzione<em>». In tale irriducibile diversità dei protocolli logici si iscrive appunto la disposizione impugnata, nell’interpretazione offertane dal giudice di legittimità: «[l]</em>’applicazione della regola dell’immediatezza nell’assunzione di prove dichiarative decisive si impone univocamente in caso di sovvertimento della sentenza assolutoria, poiché è solo tale esito decisorio che conferma la presunzione di innocenza e rafforza il peso del ragionevole dubbio – operante solo pro reo e non per le altre parti del processo – sulla valenza delle prove dichiarative<em>» (Cass., sez. un., n. 14800 del 2018). Qualora, poi, il senso della censura formulata dal rimettente fosse quello di denunciare non tanto il </em>vulnus<em> alla parità delle parti nel processo, quanto piuttosto lo squilibrio sopravvenuto nel sinallagma sotteso alla richiesta di rito abbreviato – identificato nella rinuncia dell’imputato al contraddittorio nella formazione della prova in cambio degli sconti di pena previsti in suo favore dall’art. 442 cod. proc. pen. –, il parametro invocato risulterebbe di nuovo del tutto inconferente, una tale censura alludendo semmai a una supposta intrinseca irragionevolezza della disciplina, in ipotesi rilevante ai sensi dell’art. 3 Cost.: parametro, quest’ultimo, che non è stato però invocato dall’ordinanza di rimessione, e che pertanto non può formare oggetto di esame in questa sede.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Non è fondata la censura investente l’art.603, comma 3-bis, del codice di procedura penale e formulata con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 20 della direttiva 2012/29/UE, che prescrive che il numero delle audizioni della vittima sia limitato al minimo. Ad avviso del rimettente, l’imposizione di un’ulteriore audizione della vittima nel corso del giudizio di appello concreterebbe proprio l’esito pregiudizievole per la vittima medesima, che la direttiva vuole evitare affermando il divieto di audizioni superflue. L’assunto non può, tuttavia, essere condiviso. L’art. 20 della direttiva citata dispone: «[f]</em>atti salvi i diritti della difesa e nel rispetto della discrezionalità giudiziale, gli Stati membri provvedono a che durante le indagini penali: […] b) il numero delle audizioni della vittima sia limitato al minimo e le audizioni abbiano luogo solo se strettamente necessarie ai fini dell’indagine penale<em>». Come emerge evidente dal dato letterale della disposizione, da un lato il divieto della rinnovazione superflua dell’audizione della vittima sancito dall’art. 20 riguarda la sola fase delle «</em>indagini penali<em>», corrispondenti – nel contesto del diritto processuale penale italiano – alle indagini preliminari, e non si estende dunque alla fase del processo (fase che la stessa direttiva definisce, all’art. 23, come «</em>procedimento giudiziario<em>», in contrapposizione a quella precedente delle «</em>indagini penali<em>»), nella quale è pacifico che la persona offesa debba poter essere sentita – eventualmente con modalità protette, ove si tratti di vittima vulnerabile – nel contraddittorio tra le parti. Dall’altro lato tale divieto fa comunque salvi – in conformità a quanto previsto in generale nel considerando n. 58 – i «</em>diritti della difesa<em>», tra i quali si iscrive, in posizione eminente, il diritto al contraddittorio nella formazione della prova.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 603, comma 3-bis, del codice di procedura penale, introdotto dall’art. 1, comma 58, della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), sollevate, in riferimento agli artt. 111, secondo e quarto comma, e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 20 della direttiva 2012/29/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI, dalla Corte d’appello di Trento .</em></p> <table> <tbody> <tr> <td></td> <td><span style="font-weight: 500;">Reply</span><span style="font-weight: 500;">Forward</span></td> </tr> </tbody> </table>