<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 6 giugno 2019 n. 137 </strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Seppure è ben vero che la Corte ha, in più occasioni, reputato ammissibili le questioni vertenti su un intero testo di legge caratterizzato da normative omogenee (sentenza n. 247 del 2018, n. 261 del 2017 e n. 131 del 2016), è parimenti vero altresì che secondo una giurisprudenza costante «</em>è inammissibile l’impugnativa di una intera legge ove ciò comporti la genericità delle censure<em>» (sentenza n. 195 del 2015) o «</em>quando le censure adeguatamente motivate riguardino solo singole disposizioni, mentre quella indirizzata all’intero testo normativo sia del tutto generica<em>» (sentenza 64 del 2007), come avviene nel caso in esame.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il presupposto interpretativo da cui muove il ricorrente nel caso di specie non è corretto alla luce dei criteri ripetutamente enunciati dalla costante giurisprudenza della Corte onde, ai fini dell’individuazione della materia in cui si colloca la disposizione impugnata, si deve tener conto dell’oggetto, della ratio e della finalità della stessa, tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato (</em>ex plurimis<em> sentenze n. 116 del 2019, n. 108 del 2017, n. 175 del 2016, n. 245 e n. 140 del 2015, e n. 167 del 2014); in base a tali principi, non può essere assegnata una rilevanza decisiva, nel caso di specie, al titolo della legge impugnata – «</em>Disposizioni per l’esecuzione degli obblighi di vaccinazione degli operatori sanitari<em>» –, né al tenore della rubrica del suo primo articolo – «</em>Obbligo vaccinale<em>» –, che fanno entrambi riferimento all’obbligo di vaccinazione. Va invece dato risalto a un insieme di elementi che inducono a ritenere che le disposizioni in esame possono essere ricondotte all’ambito della organizzazione sanitaria, parte integrante della competenza legislativa regionale in materia della tutela della salute di cui al terzo comma del citato art. 117 Cost. (</em>ex plurimis<em> sentenze n. 54 del 2015 e n. 371 del 2008), che la Regione ha esercitato in modo non eccentrico rispetto alle previsioni contenute nella disciplina statale in materia di obblighi vaccinali, e in particolare rispetto al decreto-legge 7 giugno 2017, n. 73 (Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale) convertito, con modificazioni, in legge 31 luglio 2017, n. 119, nonché al Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente. Muovendo dal dato testuale, si deve rilevare, anzitutto, che l’art. 1, comma 1 della legge regionale in esame non si rivolge alla generalità dei cittadini, ma si indirizza specificamente agli operatori sanitari che svolgono la loro attività professionale nell’ambito delle strutture facenti capo al servizio sanitario nazionale, allo scopo di prevenire e proteggere la salute di chi frequenta i luoghi di cura: anzitutto quella dei pazienti, che spesso si trovano in condizione di fragilità e sono esposti a gravi pericoli di contagio, quella dei loro familiari, degli altri operatori e, solo di riflesso, della collettività. Tale finalità perseguita dal legislatore regionale è del resto oggetto di attenzione da parte delle società medico-scientifiche, che segnalano l’urgenza di mettere in atto prassi adeguate a prevenire le epidemie in ambito ospedaliero, sollecitando anzitutto un appropriato comportamento del personale sanitario, per garantire ai pazienti la sicurezza nelle cure; letto in questa prospettiva, l’intervento del legislatore regionale non ha per oggetto la regolazione degli obblighi vaccinali – che chiamerebbe in causa la competenza statale in tema di determinazione dei principi fondamentali della materia di tutela della salute (sentenza n. 5 del 2018) – ma l’accesso ai reparti degli istituti di cura; la relativa finalità è prevenire le epidemie in ambito nosocomiale, rimanendo così all’interno delle competenze regionali che in materia di vaccinazioni «</em>continuano a trovare spazi non indifferenti di espressione, ad esempio con riguardo all’organizzazione dei servizi sanitari e all’identificazione degli organi competenti a verificare e sanzionare le violazioni<em>», come la Corte ha di recente rilevato (sentenza n. 5 del 2018). Infatti, come si evince dall’esame dei lavori preparatori, la definitiva formulazione del disposto impugnato ha espunto dal disegno di legge originario ogni riferimento all’assolvimento di presunti obblighi vaccinali per i soggetti a rischio per esposizione professionale e al soddisfacimento dei medesimi come requisito di idoneità lavorativa. Nella relativa formulazione definitiva, la norma impugnata si limita a precisare che il rispetto delle indicazioni del PNPV costituisce un onere per l’accesso degli operatori sanitari ai reparti individuati con la delibera della Giunta, di cui all’art. 4 della legge regionale impugnata. Così prevedendo, la disposizione impugnata si muove nel solco del PNPV vigente, il quale infatti indica per gli operatori sanitari alcune specifiche vaccinazioni in forma di raccomandazione, sulla base della fondamentale considerazione che un adeguato intervento di immunizzazione degli operatori sanitari non solo protegge gli interessati, ma svolge un ruolo di «</em>garanzia nei confronti dei pazienti ai quali<em>», date le loro particolari condizioni di vulnerabilità, «</em>l’operatore potrebbe trasmettere l’infezione determinando gravi danni e persino casi mortali<em>» (PNPV 2017-2019, p. 67). Peraltro, sul punto, occorre rimarcare, come già affermato dalla sentenza n. 5 del 2018, che «</em>nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria la distanza tra raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici. In ambito medico, raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo (tanto che sul piano del diritto all’indennizzo le vaccinazioni raccomandate e quelle obbligatorie non subiscono differenze: si veda, da ultimo la sentenza n. 268 del 2017<em>)». Tutto ciò considerato, può ragionevolmente giungersi a un approdo esegetico che valorizza la genesi delle disposizioni impugnate, il loro dato testuale, il loro contenuto, la loro ratio oggettiva e la loro finalità come espressione della competenza della Regione in materia di organizzazione del servizio sanitario e, dunque, di tutela della salute ex art. 117, terzo comma, Cost. In definitiva, nell’attribuire alla Giunta regionale la facoltà di individuare i reparti in cui consentire l’accesso ai soli operatori sanitari che si siano attenuti alle indicazioni del PNPV vigente per i soggetti a rischio per esposizione professionale e nel prevedere le relative sanzioni amministrative per i trasgressori, gli impugnati art. 1, comma 1, e artt. 4 e 5 della legge reg. Puglia n. 27 del 2018 dettano esclusivamente una disciplina sull’organizzazione dei servizi sanitari della Regione, senza discostarsi dai principi fondamentali nella materia «</em>tutela della salute<em>» riservati alla legislazione statale ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., senza introdurre obblighi vaccinali di nuovo conio e, comunque, senza imporre obbligatoriamente ciò che a livello nazionale è solo suggerito o raccomandato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Neppure possono ritenersi violati gli altri parametri evocati dalla difesa statale e, segnatamente, gli artt. 3 e 32 della Costituzione, tenuto anche conto della possibilità di esenzione ammessa dall’art. 2 della legge reg. impugnata, in caso di accertato pericolo concreto per la salute dell’operatore sanitario in relazione a specificità cliniche; quanto alla asserita violazione del principio di eguaglianza, basti osservare che, così come sopra interpretate, le disposizioni impugnate non introducono alcun obbligo vaccinale ulteriore rispetto a quelli già indicati a livello statale e dunque non determinano alcuna asimmetria sul territorio nazionale; quanto alla riserva di legge di cui all’art. 32 Cost., la paventata violazione non sussiste, né per effetto dell’art. 1, comma 1, né ad opera dell’art. 4 (dal primo richiamato): una volta escluso, alla luce delle considerazioni appena esposte, che la legge in esame imponga agli operatori sanitari l’effettuazione di trattamenti vaccinali non previsti dalla legislazione statale, nessuna censura può muoversi alla determinazione del legislatore regionale di demandare a un atto amministrativo, ossia alla delibera della Giunta regionale menzionata dall’art. 4, il compito di «</em>dettagliare le modalità di attuazione<em>» di una legge che attiene all’organizzazione sanitaria regionale e che, comunque, non tocca l’ambito dei trattamenti sanitari obbligatori e non incide sulla libertà di auto-determinazione dell’individuo in materia di tutela della salute. Per le medesime ragioni nessun contrasto potrebbe ravvisarsi con l’art. 44 della legge della Regione Puglia 12 maggio 2004, n. 7 (Statuto della Regione Puglia), pure evocato dalla difesa statale, pur non costituendo parametro del presente giudizio, il quale riconosce alla Giunta la «</em>potestà regolamentare nella forma dei regolamenti esecutivi, di attuazione, l’integrazione nonché dei regolamenti delegati<em>».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Parimenti infondata è la censura promossa in riferimento all’art. 5 della legge impugnata, che prevede l’irrogazione di una sanzione amministrativa per il caso di mancato adempimento delle prescrizioni di cui all’articolo 1, comma 1. Una volta ricondotta la disposizione di cui al richiamato art. 1, comma 1, all’ambito dell’organizzazione del servizio sanitario regionale – che la Regione ha legittimamente disciplinato in forza della relativa competenza in materia di tutela della salute e nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dal legislatore statale – ne deriva che la previsione di sanzioni per le violazioni alle prescrizioni da esso stabilite non eccede dalle competenze regionali. In virtù del principio del parallelismo tra il potere di determinazione della fattispecie da sanzionare e il potere di individuare la sanzione, costantemente affermato dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 5 del 2018, n. 94 del 2011 e n. 253 del 2006), la Regione ha legittimamente corredato la disciplina di cui all’art. 1, comma 1, con la previsione delle sanzioni amministrative pecuniarie, di cui all’art. 5. Naturalmente la condotta sanzionata non può che coincidere con l’accesso, da parte di operatori sanitari che non si siano attenuti alle indicazioni del PNPV, ai reparti individuati con la deliberazione della Giunta, più volte richiamata; mentre deve escludersi che possa essere sanzionato l’eventuale rifiuto opposto dai medesimi operatori sanitari di sottoporsi ai trattamenti vaccinali raccomandati dal PNPV per i soggetti a rischio per esposizione professionale; il che ovviamente non incide sugli ordinari obblighi ricadenti sul datore di lavoro in tema di sicurezza che restano, appunto, quelli delineati dalla disciplina statale sul punto, dettata in primo luogo dalla clausola generale di cui all’art. 2087 del codice civile e dalle previsioni contenute nel decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) e, nell’ambito di queste, in particolare per quanto qui interessa, dall’art. 279 in combinato disposto con gli artt. 17, 18 e 41.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Fondato è il motivo di impugnazione fatto valere nei confronti all’art. 1, comma 2, della legge reg. Puglia n. 27 del 2018 in riferimento agli artt. 3, 32, 117, terzo comma, Cost., disposizione che stabilisce che, «</em>in particolari condizioni epidemiologiche o ambientali, le direzioni sanitarie ospedaliere o territoriali, sentito il medico competente, valutano l’opportunità di prescrivere vaccinazioni normalmente non raccomandate per la generalità degli operatori<em>». L’inequivocità dell’ordito normativo, incentrato sul verbo «</em>prescrivere<em>» –che in ambito medico rimanda al concetto di ordinare una terapia – e avente a oggetto «</em>vaccinazioni normalmente non raccomandate<em>», non consente di percorrere sentieri interpretativi diversi da quello fatto proprio dalla difesa statale, che censura tale disposizione perché nella sostanza attribuisce alle direzioni sanitarie il potere di imporre trattamenti vaccinali non previsti, né come obbligatori né come raccomandati, dalla legislazione nazionale. In effetti, la disposizione in esame conferisce alle direzioni sanitarie un potere molto ampio e indefinito, consentendo loro di rendere obbligatorie anche vaccinazioni neppure menzionate a livello statale, senza nemmeno operare alcun rinvio al PNPV. Né vale a delimitare tale potere la previsione che le direzioni sanitarie possono attivarsi solo «</em>in particolari condizioni epidemiologiche o ambientali<em>», giacché in tal modo verrebbe comunque configurato un potere di emissione di ordinanze contingibili e urgenti, che nell’ordinario schema ordinamentale appartengono alla competenza di altra autorità – indicata in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale dall’art. 50, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) – e comunque necessitano di una previsione statale – come disposto dall’art. 93, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001), secondo cui le Regioni, «</em>nei casi di riconosciuta necessità e sulla base della situazione epidemiologica locale<em>», possono «</em>disporre l’esecuzione della vaccinazione antitifica in specifiche categorie professionali<em>». Per le ragioni sopra esposte sono riscontrabili nel caso di specie tutte le violazioni costituzionali denunciate dal ricorrente: infatti, l’intervento regionale invade un ambito riservato al legislatore statale, sia in quanto inerente ai principi fondamentali concernenti il diritto alla salute, come disposto dall’art. 117, terzo comma, Cost., che riserva allo Stato «</em>il compito di qualificare come obbligatorio un determinato trattamento sanitario, sulla base dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili<em>» (sentenza n. 5 del 2018; analogamente sentenza n. 169 del 2017), sia perché attinente alla riserva di legge statale in materia di trattamenti sanitari di cui all’art. 32 Cost., riserva che, a propria volta, è connessa al principio di eguaglianza previsto dall’art. 3 Cost.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge della Regione Puglia 21 giugno 2014, n. 27 (Disposizioni per l’esecuzione degli obblighi di vaccinazione degli operatori sanitari); vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’intera legge reg. Puglia n. 27 del 2017 promosse, in riferimento agli artt. 3, 32, 117, commi secondo, lettera q) e terzo Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri; vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, 4 e 5 della legge reg. Puglia n. 27 del 2017 promosse, in riferimento agli artt. 3, 32, 117, commi secondo, lettera q) e terzo, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri.</em></p>