<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 13 giugno 2019 n. 15895</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>La questione posta all'esame delle Sezioni Unite si incentra sulla delimitazione dell'onere di allegazione gravante sull'istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l'eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l'azione di ripetizione di somme indebitamente pagate (nella specie, per interessi passivi e commissioni di massimo scoperto non dovuti, rispettivamente, perché pattuiti mediante clausole nulle, e perché non concordate), nel corso del rapporto di conto corrente che sia assistito da un apertura di credito. L'ordinanza interlocutoria evidenzia, in particolare, che la distinzione tra atti ripristinatori della provvista ed atti di pagamento, elaborata "</em>ad altri fini<em>" e valorizzata, dalla sentenza n. 24418 del 2010 delle Sezioni Unite "</em>per stabilire il momento da cui possa scaturire la pretesa restitutoria del correntista, ai fini della decorrenza della prescrizione<em>", ha generato incertezze applicative che si sono, poi, tradotte nei diversi orientamenti giurisprudenziali che essa riassume.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Muovendo dalla menzionata sentenza n. 24418 del 2.12.2010, questi, in sintesi, i relativi passaggi argomentativi, svolti in premessa generale ed in riferimento al rapporto tra correntista e Banca: - perché possa sorgere il diritto alla ripetizione di un pagamento indebitamente eseguito tale pagamento deve esistere ed essere ben individuabile. Per esistere, il pagamento deve essersi tradotto nell'esecuzione di una prestazione da parte di un soggetto (il </em>solvens<em>) con conseguente spostamento patrimoniale in favore di altro soggetto (l'</em>accipiens<em>). Esso può dirsi indebito quando difetti di una idonea causa giustificativa; -non può ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico definibile come pagamento, nel senso anzidetto, che l'attore affermi indebito. Tale situazione non muta quando la natura indebita sia la conseguenza dell'accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione del quale il pagamento è stato effettuato, diverse essendo la domanda volta alla declaratoria di nullità di un atto, che non si prescrive affatto, e quella volta ad ottenere la condanna alla restituzione di ciò che si è pagato, soggetta a prescrizione in dieci anni; -in base al disposto degli artt. 1842 e 1843 c.c., l'apertura di credito si attua mediante la messa a disposizione, da parte della banca, di una somma di denaro che il cliente può utilizzare anche in più riprese e della quale, per l'intera durata del rapporto, può ripristinare in tutto o in parte la disponibilità, eseguendo versamenti che gli consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite complessivo del credito accordatogli; -i versamenti effettuati dal correntista durante lo svolgimento del rapporto potranno esser considerati pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove indebiti), quando abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca, e cioè quando siano stati eseguiti su un conto in passivo (o "</em>scoperto<em>") cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accredita mento; -per converso, quando il passivo non ha superato il limite dell'affidamento concesso, i versamenti in conto fungono unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere, rispetto ai quali la prescrizione decennale decorre non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. La sentenza in esame è pervenuta a tali conclusioni, ritenendo che la distinzione tra rimessa con funzione solutoria (in entrambi i casi di conto non assistito da apertura di credito che presenti un saldo a debito del correntista, e di quello scoperto a seguito di sconfinamento del fido convenzionalmente accordatogli) ovvero semplicemente ripristinatoria della provvista, elaborata in giurisprudenza in tema di revocabilità delle rimesse sul conto corrente dell'imprenditore poi fallito, ex art.67 L. Fall. (nel testo antecedente la modifica apportata dal d.l. n. 35 del 2005), costituiva un parametro idoneo a stabilire, anche, la configurabilità di un pagamento, asseritamente indebito, idoneo ad ingenerare una pretesa restitutoria in favore del correntista. Peraltro, a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione di detta sentenza, è stato emanato il d.l. n. 225 del 2010, art. 2, co 61, convertito in I. n. 10 del 2011, secondo cui l'art. 2935 c.c. andava interpretato nel senso che "</em>la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione sul conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione<em>", norma che è stata, tuttavia, dichiarata illegittima con sentenza della Corte costituzionale n. 78 del 2012. Il menzionato arresto, costantemente applicato dalla giurisprudenza successiva, va qui riconfermato. Prima ancora che per la coerenza di sistema in riferimento alle note applicazioni giurisprudenziali in tema di revocatoria di rimesse bancarie ad opera di correntista poi fallito, l'approdo, nel comporre l'antinomia tra i contrapposti argomenti relativi al </em>dies a quo<em> del decorso prescrizionale dell'azione di ripetizione in ipotesi di domanda volta all'accertamento della nullità del titolo in forza del quale è il pagamento, in tesi indebito, è stato eseguito (dalla chiusura del conto o dall'annotazione di ciascun addebito in applicazione di clausola nulla), si connota per il suo rigore logico nell'individuazione dell'atto giuridico qualificabile come pagamento -e dunque ripetibile ove indebito- nell'ambito dello specifico rapporto di conto corrente bancario, in cui il saldo passivo non è immediatamente esigibile , salvo che non ecceda l'importo dell'affidamento concesso al correntista, o in ipotesi di conto corrente "</em>scoperto'<em>; non assistito da aperture di credito.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La distinzione tra rimesse solutorie e ripristinatorie della provvista non ha dato luogo a specifici problemi interpretativi in relazione all'onere di allegazione dovuto dal correntista nella proposizione dell'azione di ripetizione: la questione relativa alla necessità che l'attore, oltre all'indicazione del conto corrente, dell'eventuale apertura di credito, della durata del relativo rapporto dovesse indicare partitamente i versamenti effettuati, e specificarne la natura, o se, invece, fosse sufficiente l'allegazione di versamenti indebiti, con la richiesta di restituzione di una determinata somma, è stata risolta nel secondo senso in modo esplicito da Cass.n. 28819 del 2017, secondo cui non compete al correntista l'allegazione della mancata effettuazione di versamenti c.d. solutori, trattandosi di un fatto negativo estraneo alla fattispecie costitutiva del diritto azionato; conclusione che è data per assunta nelle sentenze n. 18581 del 2017; n. 4273 del 2018, n. 18144 del 2018, che richiamano, anche per tale aspetto, la giurisprudenza, formatasi in materia di revocatoria fallimentare ante L. n. 80 del 2005, ferma nel ritenere che non sia affetta da nullità per indeterminatezza dell'oggetto o della </em>causa petendi<em> la citazione contenente la domanda di revocatoria fallimentare di pagamenti costituiti da rimesse di conto corrente bancario, seppure in mancanza d'indicazione dei singoli versamenti solutori (cfr. in proposito, Cass. S.U. n. 8077 del 2012, che ha, tra l'altro, affermato che l'atto di citazione per la revoca di rimesse in conto corrente bancario non è affetto da nullità per vizio del petitum se l'attore ha identificato una somma minima o un importo complessivo ed ha chiesto la revoca di tutte le rimesse affluite, non essendo necessaria, per l'individuazione della domanda, l'indicazione di ciascuna singola rimessa revocabile).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Problemi interpretativi si sono invero registrati, proprio come registra l'ordinanza interlocutoria, sulla modalità di formulazione dell'eccezione di prescrizione da parte della banca, convenuta in ripetizione. Posto che, secondo la menzionata sentenza n. 24418 del 2010 delle Sezioni Unite, la prescrizione del diritto alla restituzione ha decorrenza diversa a seconda del tipo di versamento effettuato -solutorio o ripristinatorio- si è, infatti, posta la questione se, nel formulare l'eccezione di prescrizione, la banca debba necessariamente indicare il termine iniziale del decorso della prescrizione, e cioè l'esistenza di singoli versamenti solutori, a partire dai quali l'inerzia del titolare del diritto può venire in rilievo, o se possa limitarsi ad opporre tale inerzia, spettando poi al giudice verificarne effettività e durata, in base alla norma in concreto applicabile. Al quesito sono state date soluzioni differenti, che di seguito vengono riassunte, senza pretesa di completezza.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Hanno aderito alla prima soluzione: Cass. n. 4518 del 2014, secondo cui i versamenti eseguiti in conto corrente hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal </em>solvens<em> all'</em>accipiens<em>, rispondendo allo schema causale tipico del contratto, sicchè una diversa finalizzazione dei singoli versamenti (o di alcuni di essi) deve essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione da una data diversa e anteriore rispetto a quella della chiusura del conto (in quel caso, la banca non aveva mai dedotto né allegato tale diversa destinazione dei versamenti in deroga all'ordinaria utilizzazione dello strumento contrattuale); - Cass n. 20933 del 2017, secondo cui la natura ripristinatoria delle rimesse è presunta: spetta dunque alla banca che eccepisce la prescrizione di allegare e di provare quali sono le rimesse che hanno, invece, avuto natura solutoria, con la conseguenza che, a fronte della formulazione generica dell'eccezione, indistintamente riferita a tutti i versamenti intervenuti sul conto in data anteriore al decennio decorrente a ritroso dalla data di proposizione della domanda, il giudice non può supplire all'omesso assolvimento di tale onere, individuando d'ufficio i versamenti solutori; - Cass. n. 28819 del 2017 cit., secondo cui incombe sulla banca, quando eccepisce la prescrizione del credito, l'onere di far valere l'avvenuta effettuazione di rimesse solutorie in pendenza di rapporto, non essendo configurabile, in mancanza di tali versamenti, l'inerzia del creditore, che rappresenta il fatto costitutivo dell'eccezione; - Cass. n. 17998 del 2018, secondo cui il fatto costitutivo dell'eccezione di prescrizione (ossia la finalizzazione del versamento da parte del correntista a una funzione diversa da quella ripristinatoria della provvista) deve essere allegato e provato dalla Banca, e pertanto l'eccezione di prescrizione non può considerarsi validamente proposta, quando non sono stati allegati i fatti che ne costituiscono il fondamento, sicchè "</em>la prescrizione va fatta decorrere dalla chiusura del conto<em>" (in quel caso neppure verificatasi); - Cass. n. 18479 del 2018, che ha riaffermato il principio secondo cui la natura ripristinatoria delle rimesse deve presumersi, spettando, dunque, alla banca di indicare specificamente i versamenti solutori rispetto ai quali è intervenuta la prescrizione. In particolare, la sentenza ha aggiunto che il principio, secondo cui l'eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, ossia l'inerzia del titolare, senza che rilevi l'erronea individuazione del termine applicabile, ovvero del momento iniziale o finale di esso, trattandosi di questione di diritto sulla quale il giudice non è vincolato dalle allegazioni di parte, deve esser coniugato con quello secondo cui quando, come nella specie, si è in presenza di pluralità di rimesse affluite sul conto corrente, ognuna delle quali costituisce un distinto credito, è necessario che l'elemento costitutivo dell'eccezione sia specificato, dovendo il convenuto precisare, appunto, il momento iniziale dell'inerzia in relazione a ciascuno dei diritti azionati; - Cass. n. 33320 del 2018, che ha ribadito esser onere della banca, che ha eccepito la prescrizione, fornire la prova della decorrenza e quindi della natura solutoria delle rimesse.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Hanno aderito alla seconda soluzione: - Cass. n. 2308 del 2017, che ha ritenuto fondata, e così implicitamente ammissibile, l'eccezione di prescrizione formulata dall'istituto di credito, con riferimento alla richiesta di restituzione di tutte le rimesse, evidenziando che la Corte territoriale correttamente si è limitata ad accoglierla solo in parte, distinguendo, tramite l'ausilio del tecnico nominato, tra rimesse aventi funzione solutoria e rimesse aventi funzione ripristinatoria; - Cass. n. 18581 del 2017 cit., secondo cui, in un quadro processuale definito dalla presenza degli estratti conto, non compete alla banca convenuta fornire specifica indicazione delle rimesse solutorie cui è applicabile la prescrizione, essendo tale incombente estraneo alla disciplina positiva dell'eccezione, che è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l'inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene. La decisione ha ritenuto, in particolare, che un'allegazione nel senso indicato non cessa di esser tale ove la parte interessata correli quell'inerzia anche ad atti (</em>id est<em>, versamenti ripristinatori) che non spieghino incidenza sul diritto fatto valere dell'attore, evidenziando che, così come, ai fini della valida proposizione della domanda di ripetizione, non si richiede che il correntista specifichi una ad una le rimesse, da lui eseguite, che, in quanto solutorie, si siano tradotte in pagamenti indebiti a norma dell'art. 2033 c.c, non si vede, in conseguenza, perché debba essere la banca, che eccepisca la prescrizione, ad essere gravata dell'onere di indicare i detti versamenti solutori (su cui la prescrizione possa, poi, in concreto operare); - Cass. n. 4372 del 2018 cit., del medesimo tenore. Nel ribadire che l'eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l'inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene, specifica come la natura ripristinatoria o solutoria dei singoli versamenti emerga dagli estratti conto che il correntista, attore nell'azione di ripetizione, ha l'onere di produrre in giudizio. Riafferma che non sussistono ragioni per distinguere l'onere di allegazione del correntista da quello della banca, richiamando, al riguardo, la giurisprudenza di legittimità formatasi sull'azione revocatoria in tema di rimesse bancarie riferita alla disciplina anteriore alla riforma della legge fallimentare (di cui si è sopra dato conto al § 3.). La decisione conclude affermando che il carattere solutorio o ripristinatorio delle singole rimesse non incide sul contenuto dell'eccezione, che rimane lo stesso, indipendentemente dalla natura dei singoli versamenti: semplicemente, la distinzione concettuale esistente tra le diverse tipologie di versamento imporrà al giudice, anche con l'ausilio del consulente tecnico, di selezionare giuridicamente le rimesse che assumano concreta rilevanza ai fini della ripetizione dell'indebito e della prescrizione; - Cass. n. 5571 del 2018, che, nel cassare la decisione d'appello che aveva ritenuto inammissibile l'eccezione di prescrizione, afferma, che per principio consolidato, l'eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, ossia l'inerzia del titolare, senza che rilevi l'erronea individuazione del termine applicabile, ovvero del momento iniziale o finale di esso, trattandosi di questione di diritto sulla quale il giudice non è vincolato dalle allegazioni di parte; - Cass. n. 18144 del 2018, che ripercorre gli argomenti svolti dalle sentenze n. 18581 del 2017 e n. 4372 del 2018, rilevando che in un quadro processuale definito dagli estratti conto non compete alla banca convenuta fornire specifica indicazione delle rimesse solutorie cui è applicabile la prescrizione, e che, una volta che la parte convenuta abbia formulato l'eccezione di prescrizione, compete al giudice verificare quali rimesse, per essere ripristinatorie, siano irrilevanti ai fini della decorrenza della prescrizione nel corso del rapporto, non potendosi considerare quali pagamenti; - Cass. n. 30885 del 2018, che, nel rigettare il motivo di ricorso del correntista, secondo cui la Corte del merito avrebbe eluso gli oneri delle parti attribuendo la ricerca ufficiosa del </em>thema decidendum<em> al CTU anzichè alla parte, che aveva genericamente eccepito la prescrizione decennale dei presunti pagamenti indebiti, ha ricondotto la questione nell'ambito della qualificazione dei fatti rilevati e riepilogati in chiave ricostruttiva dal CTU, affermando che l'accertamento della natura dei versamenti era dipeso dalla condivisione da parte del giudice dell'affermazione svolta dal CTU, circa la mancanza di un'apposita convenzione di affidamento di credito bancario e l'esclusione della natura ripristinatoria dei versamenti con applicazione della prescrizione, solo, con riferimento ai "</em>pagamenti<em>" effettuati nel decennio anteriore alla domanda giudiziale; - Cass. n. 2660 del 2019, che, nel ricostruire il modo in cui si atteggia l'onere della prova nei giudizi in esame, ha affermato che, nel formulare l'eccezione di prescrizione, l'istituto di credito ha l'onere di dedurre l'inerzia, il tempo del pagamento ed il tipo di prescrizione invocata, aggiungendo che l'eccezione è comunque validamente proposta, quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l'inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Si colloca in una posizione intermedia Cass. n. 12977 del 2018, che l'ordinanza di rimessione menziona tra quelle adesive alla prima soluzione. Tale sentenza condivide, in effetti, il presupposto da cui muovono quelle decisioni (che peraltro vengono richiamate), secondo cui, in costanza di rapporto, i versamenti eseguiti sul conto corrente hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal </em>solvens<em> all'</em>accipiens<em> sicchè una diversa finalizzazione dei versamenti deve essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione, quale fondamento del fatto estintivo della pretesa azionata in giudizio </em>ex adverso<em>. La decisione conclude affermando che grava sulla banca, a fronte di un rapporto di conto corrente con apertura di credito, l'onere di allegare, ai fini dell'ammissibilità dell'eccezione di prescrizione -e poi di provare, ai fini della fondatezza dell'eccezione- non solo il mero decorso del tempo, ma anche l'ulteriore circostanza dell'avvenuto superamento, ad opera del cliente, del limite dell'affidamento. Tale attività di allegazione, per quanto "</em>attenuata<em>" nella relativa deduzione e, cioè, senza la necessità di un'allegazione analitica delle rimesse ritenute solutorie, deve, però, recare un grado di specificità tale da consentire alla controparte un adeguato esercizio di difesa sul punto, e, in mancanza, la relativa eccezione deve essere respinta, in quanto genericamente formulata (prima che infondata), non potendo il giudice supplire all'omesso assolvimento di tali oneri, individuando d'ufficio i versamenti solutori. Diversamente, in caso di conto non "</em>affidato<em>", tutte le rimesse devono automaticamente reputarsi solutorie, con conseguente inesistenza di alcun onere in capo alla banca di individuarle specificamente.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Per la composizione del contrasto, il Collegio ritiene opportuno ricordare che, in generale, la nozione di allegazione "</em>in senso proprio<em>", che è quella che qui rileva, si identifica con l'affermazione dei fatti processualmente rilevanti, posti a base dell'azione o dell'eccezione: essa individua i fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi dei diritti fatti valere in giudizio, sinteticamente definiti come fatti principali (per distinguerli dai c.d. fatti secondari, dedotti in funzione di prova di quelli principali). E', poi, necessario precisare che non rientra nell'ambito dell'onere di allegazione la qualificazione dei fatti allegati, che costituisce, invece, attività riservata al giudice, che, nel provvedere al riguardo, non è vincolato da quella eventualmente offerta dalle parti.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L'art. 163 n. 4 c.p.c. impone all'attore l'allegazione dei fatti costituenti le ragioni della domanda, e ne sanziona con la nullità, ex art. 164, co 4, c.p.c., l'omessa esposizione. Secondo la giurisprudenza della Corte, la relativa indagine va compiuta caso per caso, tenuto conto che l'adempimento dell'onere di allegazione può mutare in relazione alle caratteristiche degli elementi costitutivi della domanda (cfr. SU n. 26242 del 2014 in tema di diritti autodeterminati ed eterodeterminati), e che l'incertezza dei fatti costitutivi della domanda deve essere vagliata in coerenza con la ragione ispiratrice della norma, che risiede, principalmente, nell'esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese, oltre che di offrire al giudice l'immediata contezza del </em>thema decidendum<em> (Cass. n. 11751 del 2013; n. 29241 del 2008). La giurisprudenza, sopra menzionata, in tema di allegazioni dovute dal correntista, che agisca in ripetizione di versamenti asseritamente indebiti, costituisce specifica applicazione di tale principio. L'onere di allegazione del convenuto va distinto a seconda che si sia in presenza di eccezioni in senso stretto, o eccezioni in senso lato: nel primo caso, i fatti estintivi, modificativi o impeditivi, possono esser introdotti nel processo solo dalla parte, mentre nel secondo sussiste il potere-dovere di rilievo da parte dell'Ufficio. Tale distinzione è stata posta in evidenza dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 1099 del 1998 (successivamente seguita dalla giurisprudenza di legittimità), che, nell'ambito della contestazione del convenuto, ha, appunto, differenziato il potere di allegazione da quello di rilevazione, nel senso che il primo compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile (soggiacendo, pertanto, alle relative preclusioni e decadenze), mentre il secondo compete alla parte (e soggiace perciò alle preclusioni previste per le attività di parte) solo nei casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l'iniziativa di parte, dovendosi, in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d'ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo e provati alla stregua della specifica disciplina processuale in concreto applicabile. E', quindi, necessario rimarcare che, pur nella loro indiscutibile connessione, l'onere di allegazione è concettualmente distinto dall'onere della prova, attenendo il primo alla delimitazione del </em>thema decidendum<em> mentre il secondo, attenendo alla verifica della fondatezza della domanda o dell'eccezione, costituisce per il giudice regola di definizione del processo. Non è ozioso, infatti, rilevare che l'aver assolto all'onere di allegazione non significa avere proposto una domanda o un'eccezione fondata, in quanto l'allegazione deve, poi, esser provata dalla parte cui, per legge, incombe il relativo onere, e le risultanze probatorie devono, infine, esser valutate, in fatto e in diritto, dal giudice.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nello specifico tema della prescrizione estintiva, oggetto della presente disamina, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 10955 del 2002 -anch'essa menzionata nell'ordinanza interlocutoria- hanno chiarito che il relativo elemento costitutivo è rappresentato dall'inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio, mentre la determinazione della durata di detta inerzia, necessaria per il verificarsi dell'effetto estintivo, si configura come una </em>quaestio iuris<em> concernente l'identificazione del diritto e del regime prescrizionale per esso previsto dalla legge. Ne consegue che la riserva alla parte del potere di sollevare l'eccezione -che, com'è noto, costituisce una tipica eccezione in senso stretto- implica che ad essa sia fatto onere soltanto di allegare il menzionato elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell'effetto, e non anche di indicare direttamente o indirettamente (cioè attraverso specifica menzione della durata dell'inerzia) le norme applicabili al caso di specie, l'identificazione delle quali spetta al giudice, che -previa attivazione del contraddittorio sulla relativa questione- potrà applicare una norma di previsione di un termine diverso. In particolare, analizzando la struttura nella fattispecie estintiva delineata dall'art. 2934 c.c. secondo cui "</em>ogni diritto si estingue quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge<em>", la sentenza n. 10955 in esame, chiamata a dirimere il contrasto esistente circa la necessità che la parte che formuli tale eccezione debba o meno specificare il lasso di tempo a ciò necessario, è pervenuta alla esposta conclusione, evidenziando che l'identificazione della fattispecie estintiva cui corrisponde l'eccezione di prescrizione, va correttamente compiuta alla stregua del "</em>fatto principale<em>" e che tale fatto va individuato nell'inerzia del titolare; laddove il tempo è configurato soltanto come la dimensione del fatto principale, una circostanza ad esso inerente, che non ha valore costitutivo di un corrispondente tipo di prescrizione. Si è, pertanto, precisato che non esistono tanti tipi di prescrizione in relazione al tempo del relativo maturarsi, e correlativamente, con l'indicazione di un termine o di un altro non si formula una nuova eccezione "</em>fermo restando, in ogni caso, che l'eccezione stessa è correttamente formulata anche quando la parte siasi limitata ad invocare l'effetto estintivo dell'inerzia del titolare, senza alcuna indicazione espressa della durata a tal fine sufficiente<em>".</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In linea con gli esposti principi in tema di onere di allegazione, in generale, e di onere di allegazione riferito alla specifica eccezione di prescrizione, la soluzione del contrasto nel caso di specie va risolta nel senso della non necessarietà dell'indicazione, da parte della banca, del </em>dies a quo<em> del decorso della prescrizione, secondo la pertinente giurisprudenza indicata </em>supra<em>. Deve, infatti, ribadirsi che l'elemento qualificante dell'eccezione di prescrizione è l'allegazione dell'inerzia del titolare del diritto, che costituisce, appunto, il fatto principale, nei sensi di cui si è detto, al quale la legge riconnette l'invocato effetto estintivo. Se ciò è vero, pare al Collegio che richiedere al convenuto, ai fini della valutazione di ammissibilità dell'eccezione, che tale inerzia sia "</em>particolarmente connotata<em>" in riferimento al termine iniziale della stessa (in tesi, individuando e specificando diverse rimesse solutorie) comporti l'introduzione, sia pur indiretta, di una nuova tipizzazione delle diverse forme di prescrizione, che le Sezioni Unite, nella condivisa pronuncia n. 10955 del 2002, hanno voluto espressamente escludere. Del resto, la giurisprudenza, che ha ritenuto necessaria l'indicazione delle rimesse solutorie, fa leva su di un argomento -e cioè la presunta natura ripristinatoria dei versamenti, secondo un andamento fisiologico del rapporto- che, riferendosi allo schema delle presunzioni, attiene al profilo probatorio (art. 2727 e segg. c.c.), che, come si è detto, va distinto dal profilo allegatorio, che è, appunto, quello rilevante ai fini dell'ammissibilità dell'eccezione. Merita, ancora, condivisione la considerazione che esalta la simmetria che, in base a tale ricostruzione, viene richiesta alle parti ai fini della validità della domanda di ripetizione e dell'ammissibilità dell'eccezione di prescrizione: il correntista potrà limitarsi ad indicare l'esistenza di versamenti indebiti e chiederne la restituzione in riferimento ad un dato conto e ad un tempo determinato, e la Banca, dal canto suo, potrà limitarsi ad allegare l'inerzia dell'attore in ripetizione, e dichiarare di volerne profittare. Resta da aggiungere che il problema della specifica indicazione delle rimesse solutorie non viene eliminato, ma semplicemente si sposta dal piano delle allegazioni a quello della prova, sicchè il giudice valuterà la fondatezza delle contrapposte tesi al lume del riparto dell'onere probatorio, se del caso avvalendosi di una consulenza tecnica a carattere percipiente.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>Va posto il seguente principio di diritto: l'onere di allegazione gravante sull'istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l'eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l'azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da un apertura di credito, è soddisfatto con l'affermazione dell'inerzia del titolare del diritto, e la dichiarazione di volerne profittare, senza che sia anche necessaria l'indicazione di specifiche rimesse solutorie.</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il tema dell'apprezzamento di un atto interruttivo della prescrizione è stato affrontato dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 15661 del 2005, che, richiamata la precedente pronuncia n. 1099 del 1998, hanno affermato il principio secondo cui l'eccezione di interruzione della prescrizione integra un'eccezione in senso lato e, pertanto, può essere rilevata d'ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti. Con la successiva ordinanza n. 10531 del 2013 è stato, inoltre, chiarito che il rilievo d'ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati </em>ex actis<em>, in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Secondo la giurisprudenza tradizionale e maggioritaria (tra le tante, Cass. 3912 del 2018; n. 10161 del 2016; n. 9934 del 2016; n. 4436 del 2014; n. 17558 del 2006; n. 4745 del 2005; n. 1581 del 2004; n. 11969 del 1992), nella ripetizione dell'indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., il debito dell'</em>accipiens<em>, che non sia in mala fede, produce interessi solo a seguito della proposizione dell'apposita domanda giudiziale, non essendo sufficiente un qualsiasi atto di costituzione in mora, e ciò in quanto all'indebito si ritiene applicabile la tutela prevista per il possessore in buona fede in senso soggettivo dell'art. 1148 c.c., a norma del quale questi è obbligato a restituire i frutti soltanto della domanda giudiziale, secondo il principio per il quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della proposizione della domanda. Si è anche posto in evidenza che, pur avendo ad oggetto una somma di danaro liquida ed esigibile, l'art. 2033 c.c. è, perciò, norma parzialmente derogatoria rispetto sia all'art. 1282 c.c. che all'art. 1224 c.c. Le Sezioni Unite hanno affrontato il tema della decorrenza degli interessi in ipotesi di ripetizione d'indebito, con la sentenza n. 7269 del 1994, in tema di domanda restitutoria di somme indebitamente versate per contributi assicurativi dal datore di lavoro all'I.N.P.S. Dopo aver ricordato lo stato della giurisprudenza di legittimità, nei sensi appena esposti, la decisione ha evidenziato che in materia previdenziale, in forza della specialità della normativa, la domanda giudiziale deve esser preceduta dalla domanda amministrativa (che costituisce una condizione di proponibilità della prima), ed ha concluso affermando che gli interessi decorrono non già dalla domanda giudiziale ma dalla precedente domanda amministrativa, che non può esser considerata come una mera richiesta di restituzione -avendo caratteristiche del tutto analoghe alla domanda giudiziale sia per la certezza del </em>dies a quo<em> sia per l'idoneità a rendere consapevole l'</em>accipiens<em> dell'indebito nel quale versa- e tenuto conto che, un'interpretazione restrittiva del termine "</em>domanda<em>" nel senso tecnico-giuridico di domanda giudiziale determinerebbe conseguenze pregiudizievoli per i diritti del </em>solvens<em> e quindi dubbi di legittimità costituzionale della citata norma in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Con le successive sentenze n. 5624 del 2009 e n. 14886 del 2009, rese in ipotesi di condanna alla restituzione di somme di denaro versate in esecuzione di un accordo sull'indennità di espropriazione, divenuto inefficace in seguito all'interruzione del procedimento ablativo, le Sezioni Unite hanno ritenuto, con la prima, costituire </em>jus receptum<em>l'affermazione secondo cui il termine "</em>domanda<em>" contenuto nell'art. 2033 c.c. si riferisce alla domanda giudiziale, sicchè gli interessi (compensativi) decorrono "</em>dal momento della domanda giudiziale (e mai comunque da quello della messa in mora), salva la dimostrazione della mala fede dell'accipiens<em>"; e, con la seconda, si sono limitate a dare seguito all'orientamento sopra esposto, richiamandolo espressamente. Il fondamento dell'obbligo dell'</em>accipiens<em> in buona fede di corrispondere gli interessi, ricostruito in riferimento ai principi in tema di possesso, è stato sconfessato con la sentenza n. 7526 del 2011. Tale decisione ha posto in evidenza che la formula letterale dell'art. 2033 c.c. riconosce all'attore in ripetizione il diritto agli interessi dalla "</em>domanda<em>" senza alcuna connotazione e che la relativa qualificazione in termini di "</em>domanda giudiziale<em>" si basa su di un fondamento storico non più corrispondente all'attuale sistema del codice civile: il codice del 1865 includeva la restituzione dell'indebito (riprendendo l'art. 1377 del codice francese) nella sezione dei quasi contratti e disciplinava, all'art. 1147 c.c., il solo caso della ricezione in mala fede facendo decorrere gli interessi "</em>dal giorno del pagamento<em>", mentre, per l'ipotesi, in quel codice non prevista, della ricezione in buona fede, l'</em>accipiens<em> veniva considerato non già come debitore per la restituzione/ ma come possessore della somma altrui, con conseguente suo obbligo di restituzione dei frutti pervenutigli "</em>dopo la domanda giudiziale<em>" (art. 703 c.c. del 1865, corrispondente all'attuale art. 1148 c.c.). E ciò non perchè la domanda giudiziale faceva venir meno lo stato di buona fede (la mala fede sopravvenuta non nuoceva al possessore), ma in virtù del principio secondo cui la durata del processo non può danneggiare la parte vittoriosa. L'attuale disciplina codicistica, prosegue la decisione in esame, ha inserito l'istituto della ripetizione dell'indebito nel libro delle obbligazioni, sicchè l'incongruenza circa il fondamento legale della decorrenza degli interessi (la cui natura si afferma non chiaramente definita) va superata portando la materia per intero nel diritto delle obbligazioni, e cioè intendendo la "</em>domanda<em>" di cui all'art. 2033 come atto di costituzione in mora, anche stragiudiziale (art. 1219, co 1 c.c.). A tale principio, pure di sfuggita affermato con la sentenza n. 16657 del 2014, si è dichiaratamente riferita la sentenza n. 22852 del 2015, in tema di applicabilità dei principi dell'indebito in ipotesi di pagamento dell'indennità di espropriazione concordata, e della successiva revoca della dichiarazione di pubblica utilità per ragioni di pubblico interesse. Tale decisione, richiamate le menzionate sentenze Cass. S.U. n. 5624 e n. 14886 del 2009 (trattandosi della medesima questione), ha, infatti, ritenuto che, in tema di ripetizione d'indebito oggettivo, l'espressione "</em>domanda<em>" di cui all'art. 2033 c.c. non va intesa come riferita esclusivamente alla domanda giudiziale, ma comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell'art. 1219 c.c., dovendosi considerare l'</em>accipiens<em> (in buona fede) quale debitore e non come possessore, con conseguente applicazione dei principi generali in materia di obbligazioni e non di quelli relativi alla tutela del possesso ex art. 1148 c.c. Agli argomenti svolti nella precedente decisione n. 7526 del 2011, la sentenza ne ha aggiunto uno letterale, a dimostrazione della diversità della disciplina del possesso rispetto a quella delle obbligazioni, ed un altro desunto dalla comparazione giuridica con l'ordinamento tedesco.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Le SSUU assumono di dover aderire alla seconda esegesi dell'art.2033 c.c. Oltre al superamento delle ragioni storiche sopra esposte (per la specifica previsione della spettanza degli interessi in ipotesi d'indebito oggettivo ricevuto in buona fede), idonee a dar conto della genesi della considerazione dell'</em>accipiens<em> come possessore piuttosto che come debitore, onde escludere la correttezza della tesi che sovrappone dette situazioni giuridiche milita, anzitutto, il dato normativo. L'art. 2033 c.c. stabilisce, infatti, che chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto agli interessi "</em>dal giorno della domanda<em>", laddove l'art. 1148 c.c. dispone che il possessore in buona fede fa suoi i frutti naturali separati e i frutti civili "</em>fino al giorno della domanda giudiziale<em>". La circostanza che la domanda -indicata quale </em>dies a quo<em> della decorrenza degli interessi dovuti dall'accipiens in buona fede- non sia ulteriormente connotata in termini di "</em>giudiziale<em>" non è fatto in sé neutro e consente, già in prima battuta, di affermare che, riferendosi alla "</em>domanda<em>", il legislatore non abbia voluto unicamente riferirsi alla notificazione dell'atto con cui si inizia un giudizio, come invece ha fatto, a proposito dell'interruzione della prescrizione, nel primo comma dell'art. 2943 (che al secondo menziona la "</em>domanda proposta nel corso di un giudizio<em>"). Del resto, con la sentenza n. 8491 del 2011, le Sezioni Unite, nell'affermare che il termine "</em>ricorso<em>" contenuto nell'art. 1137 c.c. (nel testo antecedente la modifica di cui all'art. 15 della L. n. 220 del 2012) non vale ad identificare la forma che deve assumere l'atto introduttivo dei giudizi d'impugnativa delle delibere condominiali, hanno già evidenziato che il riferimento a nozioni processuali che, come nella specie, sia inserito in un contesto normativo - il codice civile - destinato alla configurazione dei diritti e all'apprestamento delle relative azioni sotto il profilo sostanziale, può avere carattere generico. Da un punto di vista sistematico, va, poi, rilevato che il possessore, in virtù dell'apparenza di verità che è data al relativo titolo dalla buona fede (che si presume), non cessa di esser tale né diventa mero detentore per il solo fatto che un terzo rivendichi il bene, seppure con una richiesta formale, in tesi analoga a quella idonea alla costituzione in mora: gli effetti della sentenza retroagiscono, infatti, alla "</em>domanda giudiziale<em>", di cui parla l'art. 1148 c.c., non perché la relativa proposizione produca l'effetto della costituzione in mora, ma perché lo </em>status<em> di possessore in buona fede e la connessa tutela possono cessare solo con la sentenza che accolga la rivendica, mentre, com'è noto, i tempi del processo non possono gravare sulla parte rimasta vittoriosa. In caso d'indebito oggettivo, invece, il legislatore, come affermato da accorta dottrina, non si preoccupa di qualificare la situazione che lo determina, e non prende neppure posizione sul problema se il pagamento non dovuto trasferisca la proprietà della cosa pagata oppure ne trasferisca il solo possesso: si limita più semplicemente a prendere atto che manca un presupposto legale affinché la prestazione corrisposta possa esser mantenuta, e concede alla parte che ha effettuato il pagamento il diritto di riprendersi quanto pagato. Il principio ha avuto l'avallo delle Sezioni Unite (n. 14828 del 2012), che hanno affermato che qualora venga acclarata la mancanza di una </em>causa adquirendi<em>, ed in qualsiasi casoin cui venga meno il vincolo originariamente esistente, l'azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del titolo invalido è quella di ripetizione di indebito oggettivo. Il Collegio ritiene, pertanto, di dover superare la propria giurisprudenza, che, nelle decisioni del 2009, ha fatto proprio l'indirizzo tradizionale qualificandolo come </em>jus receptum<em>, ma senza alcuna specifica argomentazione, mentre con la decisione del 1994 ha mostrato un'apertura, sia pur settoriale e riferita al valore della domanda amministrativa nelle cause previdenziali, e di dover affermare che i principi che governano l'indebito devono individuarsi solo in quelli che regolano le obbligazioni, nel cui ambito l'istituto trova, appunto, la sua </em>sedes materiae<em>. Il che comporta che, in base ai principi generali, l'obbligo della corresponsione degli interessi da parte dell'</em>accipiens<em> in buona fede, quale debitore dell'indebito percepito, può decorrere da data antecedente a quella dell'instaurazione del giudizio, ove sia stata preceduta da uno specifico atto di costituzione in mora, dovendo il termine "</em>domanda<em>" di cui all'art. 2033 c.c. esser inteso come riferito non esclusivamente alla domanda giudiziale ma, anche, agli atti stragiudiziali di cui all'art. 1219 c.c. Il regime della disposizione in esame, che si riferisce, comunque, ad una domanda per il sorgere del debito per interessi consente, sotto altro profilo, di confermare che l'art. 2033 c.c. è norma parzialmente derogatoria rispetto all'art. 1282 c.c., costituendo eccezione -che la disposizione in esame, appunto, ammette- al principio secondo cui i crediti liquidi ed esigibili di una somma di danaro producono interessi (corrispettivi) di pieno diritto, e ciò in ragione del fatto che la legge considera legittima l'utilizzazione del denaro da parte dell'</em>accipiens<em> in buona fede prima della "</em>domanda<em>" nel senso qui specificato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>Va affermato il seguente principio di diritto: ai fini del decorso degli interessi in ipotesi di ripetizione d'indebito oggettivo, il termine "</em></strong><strong>domanda<em>", di cui all'art. 2033 c.c., non va inteso come riferito esclusivamente alla domanda giudiziale ma comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell'art. 1219 c.c.</em></strong></p>