<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 12 luglio 2019 n. 174</strong><strong> </strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, commi 28, 29 e 30, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 29 dicembre 2015, n. 33 (Legge collegata alla manovra di bilancio 2016-2018).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La Corte rimettente, per decidere la causa, dovrà applicare le disposizioni censurate e l’applicabilità della disposizione è sufficiente a radicare la rilevanza delle questioni proposte (sentenza n. 174 del 2016, punto 2.1. del Considerato in diritto). Anche nella prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità (sentenza n. 77 del 2018, punto 8. del Considerato in diritto) e di una più efficace garanzia della conformità della legislazione alla Carta fondamentale, il presupposto della rilevanza non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare (sentenza n. 20 del 2018, punto 2. del Considerato in diritto). Nell’ipotesi di accoglimento delle questioni, inoltre, il giudice a quo, dapprima chiamato a fare applicazione di una normativa che predetermina l’esito della lite, dovrà decidere secondo una diversa regola di giudizio, che attingerà da una ricostruzione sistematica della complessa disciplina di riferimento. La dichiarazione di illegittimità costituzionale, quand’anche non conduca a conclusioni diverse da quelle recepite dalle disposizioni censurate, influirebbe comunque sul percorso argomentativo che il rimettente dovrà intraprendere per dirimere la controversia. Anche da questo punto di vista trova dunque conferma la rilevanza del dubbio di costituzionalità prospettato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>A fronte di una formulazione letterale inequivocabile, l’interpretazione adeguatrice, genericamente accennata dalla Regione, non può che cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale e alla disamina del merito delle questioni proposte.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Per costante giurisprudenza della Corte, il divieto di retroattività della legge si erge a fondamentale valore di civiltà giuridica, soprattutto nella materia penale (art. 25 Cost). In altri àmbiti dell’ordinamento il legislatore è libero di emanare disposizioni retroattive, anche di interpretazione autentica, ma la retroattività deve trovare «</em>adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, al contempo potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata<em>» (sentenza n. 73 del 2017, punto 4.3.1. del Considerato in diritto). I limiti posti alle leggi con efficacia retroattiva si correlano alla salvaguardia dei princìpi costituzionali dell’eguaglianza e della ragionevolezza, alla tutela del legittimo affidamento, alla coerenza e alla certezza dell’ordinamento giuridico, al rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza n. 170 del 2013, punto 4.3. del Considerato in diritto). La Corte rimettente, in particolare, evoca a più riprese i princìpi della preminenza del diritto e dell’equo processo, attraverso il richiamo congiunto all’art. 111 Cost. e all’art. 6 CEDU, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost. Tali profili di censura si rivelano inscindibilmente connessi nel sindacato sulle leggi retroattive, data la «</em>corrispondenza tra principi costituzionali interni in materia di parità delle parti in giudizio e quelli convenzionali in punto di equo processo<em>» (sentenza n. 191 del 2014, punto 4. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 12 del 2018, punto 3.2. del Considerato in diritto). Nell’interpretare l’art. 6 CEDU, la Corte europea dei diritti dell’uomo (fra le molte, Corte EDU, sentenza 11 dicembre 2012, Anna De Rosa e altri contro Italia, paragrafo 47) afferma che, in linea di principio, non è vietato al legislatore introdurre nella materia civile disposizioni retroattive, che incidano su diritti attribuiti da leggi in vigore. Tuttavia, se non vi sono motivi imperativi di interesse generale, i princìpi di preminenza del diritto e la nozione di giusto processo precludono l’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, quando il fine evidente è quello di influenzare la soluzione di una controversia. La “</em>parità delle armi<em>” impone di assicurare a ogni parte la possibilità di presentare la propria causa senza trovarsi in una situazione di svantaggio rispetto alla controparte (Corte EDU, sentenza 9 dicembre 1994, Raffineries grecques Stran e Stratis Andreadis contro Grecia, paragrafo 46). Quanto ai motivi imperativi di interesse generale, che conducono a individuare «</em>un punto di equilibrio nella dialettica tra i valori in gioco<em>» (sentenza n. 127 del 2015, punto 6. del Considerato in diritto), spetta agli Stati contraenti il compito di identificarli (sentenza n. 303 del 2011, punto 4.2. del Considerato in diritto), alla luce di «</em>una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali<em>» (sentenza n. 311 del 2009, punto 9. del Considerato in diritto), rimessa al margine di apprezzamento dei singoli Stati. I motivi finanziari non bastano da soli a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso (Corte EDU, sentenza 11 aprile 2006, Cabourdin contro Francia, paragrafo 37). I diritti riconosciuti dalla Costituzione non possono non interagire con quelli previsti dalle fonti sovranazionali e internazionali, in un quadro di reciproca integrazione e quindi di bilanciamento. In tale ampia prospettiva la Corte elabora «</em>una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata<em>» (sentenza n. 264 del 2012, punto 5.4. del Considerato in diritto), in modo da assicurare la «</em>integrazione delle garanzie dell’ordinamento<em>» (sentenza n. 317 del 2009, punto 7. del Considerato in diritto).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tra gli elementi sintomatici di un uso distorto della funzione legislativa, la Corte, in armonia con le enunciazioni di principio della Corte EDU, ha conferito rilievo al metodo e alla tempistica dell’intervento legislativo, che vede lo Stato o l’amministrazione pubblica parti di un processo già radicato e si colloca a notevole distanza dall’entrata in vigore delle disposizioni oggetto di interpretazione autentica (sentenza n. 12 del 2018, punto 3.2. del Considerato in diritto). È alla luce di tali princìpi che occorre sindacare la legittimità costituzionale della legge regionale censurata. In primo luogo, viene in evidenza il lungo tempo che è intercorso tra le norme oggetto di interpretazione, adottate nel 1981 e rimaste inalterate nei loro tratti salienti, e la norma di interpretazione autentica, introdotta soltanto nel 2015. A segnare la discontinuità tra le due discipline concorre, oltre al dato temporale, la diversità del contesto normativo in cui esse si collocano. A tale riguardo, si deve rilevare che la legge friulana del 1981 non contempla il conferimento di incarichi dirigenziali, secondo le peculiarità definite soltanto dalla normativa posteriore e, in particolare, dall’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dalla legislazione regionale di riferimento (art. 12 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 17 febbraio 2004, n. 4, recante «</em>Riforma dell’ordinamento della dirigenza e della struttura operativa della Regione Friuli-Venezia Giulia. Modifiche alla legge regionale 1° marzo 1988, n. 7 e alla legge regionale 27 marzo 1996, n. 18. Norme concernenti le gestioni liquidatorie degli enti del Servizio sanitario regionale e il commissario straordinario dell’ERSA<em>»). La censurata legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 33 del 2015, nell’apprestare un regime restrittivo della determinazione dell’indennità di buonuscita, mira in realtà a conferire efficacia retroattiva alle previsioni della disciplina riguardante i trattamenti di fine servizio. La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, parte della controversia instaurata da alcuni dirigenti dell’amministrazione, ha approvato le previsioni censurate in pendenza di giudizio. Solo in concomitanza con l’iniziativa giudiziaria avviata da alcuni dirigenti, la Regione ha presentato gli emendamenti che racchiudono le disposizioni censurate, nel corso della discussione di una legge dal contenuto eterogeneo, collegata alla manovra finanziaria. Dal dibattito consiliare emerge la consapevolezza del contenzioso pendente, occasione immediata e, al tempo stesso, esclusiva giustificazione dell’intervento retroattivo del legislatore regionale. Le previsioni sulla determinazione dell’indennità di buonuscita, presentate come enunciazione di una regola astratta, si rivolgono in realtà a una platea circoscritta di destinatari e sono inequivocabilmente preordinate a definire l’esito di uno specifico giudizio. L’intento di vincolare la decisione di cause già pendenti, che coinvolgono un numero esiguo e agevolmente individuabile di parti, contrasta con la nozione stessa di motivi imperativi di interesse generale, orientati piuttosto a finalità di ampio respiro (sentenze n. 127 del 2015 e n. 1 del 2011). Quanto alla tutela dell’equilibrio del bilancio della Regione, appaiono del tutto generici i riferimenti dei lavori preparatori ai risparmi di spesa, che il legislatore friulano si ripromette di conseguire con l’introduzione della disciplina sottoposta all’odierno scrutinio. Neppure si ravvisa l’esigenza, in altre occasioni valorizzata dalla Corte, di porre rimedio alle imperfezioni tecniche del testo normativo originario (sentenza n. 24 del 2018), ai profili di illegittimità costituzionale insiti nella disciplina anteriore (sentenza n. 149 del 2017) o – in funzione “</em>riparatrice<em>” e nel rispetto del principio di affidamento – alle manifeste sperequazioni determinate da istituti </em>extra ordinem<em> di eccezionale favore (sentenza n. 108 del 2019, punto 8. del Considerato in diritto).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Le considerazioni svolte conducono a ritenere le questioni fondate, in riferimento agli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU. Si deve dichiarare, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, commi 28, 29 e 30, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 33 del 2015, in quanto disposizione essenzialmente volta a regolare fattispecie pregresse con efficacia retroattiva. Restano assorbite le ulteriori censure formulate dal rimettente. Il giudice </em>a quo<em> dovrà peraltro valutare attentamente la fondatezza della pretesa di conseguire l’indennità di buonuscita anche per il periodo di servizio prestato in virtù di contratti a tempo determinato, alla luce della normativa statale di riferimento (d.P.C.m. 20 dicembre 1999) e dell’evoluzione della disciplina regionale. Ristabilite le regole del giusto processo e della “</em>parità delle armi<em>”, su tale aspetto controverso può riprendere corpo una dialettica interpretativa che l’intervento del legislatore, parte del giudizio, non deve – soprattutto in pendenza della lite – alterare a proprio vantaggio.</em></p>