<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI – sentenza 23 luglio 2019 n. 19883</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>PRINCIPI DI DIRITTO</em></strong><em>: 1. Ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso ai sensi dell’art.4 della legge n.89/2001, nel testo modificato dall’art. 55 d.l. n. 83/2012, conv. nella l. n. 134/2012 risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n.88/2018, la fase di cognizione del processo che ha accertato il diritto all’indennizzo a carico dello Stato debitore va considerata unitariamente rispetto alla fase esecutiva eventualmente intrapresa nei confronti dello Stato, senza la necessità che essa venga iniziata nel termine di 6 mesi dalla definitività del giudizio di cognizione, decorrendo detto termine dalla definitività della fase esecutiva. 2. Ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo rilevante per la quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art.2 della l. n.89/2001 la fase esecutiva eventualmente intrapresa dal creditore nei confronti dello Stato-debitore inizia con la notifica dell’atto di pignoramento e termina allorché diventa definitiva la soddisfazione del credito indennitario. 3. Nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo, da considerare unitariamente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo ex art. 2 l. n. 89/2001, non va considerato come “</em>tempo del processo<em>” quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva, quest’ultimo invece potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell’esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. 4. Il termine di 120 giorni di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997, non produce alcun effetto ai fini della ragionevole durata del processo esecutivo. 5. Il giudizio di ottemperanza promosso all’esito della decisione di condanna dello Stato al pagamento dell’indennizzo di cui alla l. n.89/2001 deve considerarsi sul piano funzionale e strutturale pienamente equiparabile al procedimento esecutivo, dovendosi considerare unitariamente rispetto al giudizio che ha riconosciuto il diritto all’indennizzo..</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em> Alla luce di un assai articolato ordito motivazionale che ha ripercorso l’evoluzione della giurisprudenza interna e sovranazionale relativa ad alcuni aspetti della l.n.89/2001, prevalentemente calibrati sul tema del rapporto fra fase di cognizione e di esecuzione ai fini del riconoscimento dell’indennizzo, la seconda sezione, con l’ordinanza interlocutoria sopra ricordata, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle S.U., al fine di decidere la seguente questione: “</em>Dicano le S.U., alla luce da un lato della richiamata sentenza delle S.U. n. 27365 del 2009 e, dall’altro, della richiamata giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale, se la durata del processo esecutivo, promosso in ragione del ritardo dell’Amministrazione nel pagamento dell’indennizzo dovuto in forza del titolo esecutivo, costituito dal decreto di condanna pronunziato dalla Corte di Appello ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89 del 2001 ed azionato appunto nelle forme del processo esecutivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole del processo per equa riparazione e, più in generale, se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettiva di vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata ragionevole dello stesso processo presupposto<em>”.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Le vicende relative all’applicazione della l. n.89/2001 nell’ordinamento interno hanno fin dall’inizio posto la necessità di verificare la compatibilità delle previsioni interne, per come interpretate e applicate anche dalla Corte di Cassazione, con il diritto alla ragionevole durata del processo di matrice convenzionale, più volte sagomato da numerose pronunzie della Corte edu prima che l’ordinamento interno ponesse un rimedio volto ad indennizzare la parte di un processo protrattosi oltre la sua ragionevole durata. Sono seguite diverse pronunzie giurisprudenziali della Corte a Sezioni Unite e della Corte costituzionale in ordine a singole previsioni normative introdotte anche in epoca successiva rispetto a quelle che vengono in discussione nei giudizi rinviati all’esame delle Sezioni Unite, per le quali deve invece considerarsi la legge n.89/2001 nel testo emendato dall’art. 55 d.l. n. 83 del 2012, conv. nella l. n. 134/2012, entrata in vigore, in forza del comma 2 dell’art. 1 della legge anzidetta, il 12 agosto 2012, coincidente con il giorno successivo a quello della relativa pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale sul supplemento ordinario n. 171 dell’11 agosto 2012 n. 187. Non occorre qui ripercorrere ogni passaggio di questo processo di progressiva armonizzazione del sistema interno ai canoni convenzionali in tema di ragionevole durata del processo, essendo sufficiente rinviare ai principi espressi nelle sentenze delle Sezioni Unite civili nn.1338-1341/2004 e nella successiva pronuncia, sempre a Sezioni Unite, n. 28507/2005. Una valutazione diacronica di tali pronunzie – pur non incidenti sulla questione specifica al vaglio odierno delle S.U.- consente di affermare come le Sezioni Unite abbiano fin dall’inizio avuto come obiettivo la conformazione di un sistema di protezione del diritto alla ragionevole durata del processo destinato progressivamente ad armonizzarsi con la disciplina concretamente declinata dall’art.6 CEDU e dal diritto vivente della Corte edu, bastando a tal proposito ricordare l’affermazione ivi espressa secondo la quale «</em>la giurisprudenza della Corte di Strasburgo s’impone ai giudici italiani per quanto riguarda l’applicazione della legge n. 89/2001<em>». Ciò pur senza sottovalutare o considerare sempre subalterne e recessive le caratteristiche e peculiarità del rimedio interno, adottato nell’ambito del margine di apprezzamento riservato allo Stato che decida di approntare un rimedio di ordine generale volto all’eliminazione di una violazione convenzionale di natura strutturale – v., infatti, Cass., S.U., 9142/2016, p.VI della motivazione-. Margine di apprezzamento che, tuttavia, non può mai andare a detrimento dell’effettività del rimedio – cfr. Corte cost. n.30/2014 p.4.1 del cons. in diritto. Proprio l’introduzione, all’interno della l.n.89/2001, di un termine, previsto a pena di decadenza, di 6 mesi per la proposizione dell’azione “</em>Pinto<em>”, decorrente – secondo quanto previsto dall’art.4 -qui in rilievo nella formulazione modificata dall’art.55, comma 1, lett. d) del d.l. n.83/2012, conv. nella l. n.134/2012 pure oggetto di una pronunzia parzialmente caducatoria resa dalla Corte costituzionale (sent. n.88/2018) – dalla definitività della decisione che conclude il procedimento, ha imposto alla Corte di delineare i rapporti fra fase di cognizione e fase di esecuzione ai fini della ragionevole durata del processo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>II primo approdo fu quello raggiunto dalle sentenze nn.27365 e 27348 del 2009 delle Sezioni Unite, essendosi affermato che il processo di cognizione e quello di esecuzione regolati dal codice di procedura civile nonché quello cognitivo del giudice amministrativo e il processo di ottemperanza teso a far conformare la P.A. a quanto deciso in sede cognitoria devono considerarsi, sul piano funzionale (oltre che strutturale), tra loro autonomi in relazione alle situazioni soggettive differenti azionate in ciascuno di essi. Da ciò conseguiva che: a) in dipendenza di siffatta autonomia, le durate dei predetti giudizi non possono sommarsi fra loro per rilevarne una complessiva dei due processi (di cognizione, da un canto, e di esecuzione o di ottemperanza, dall’altro); b) dal momento delle decisioni definitive di ciascuno degli stessi era possibile, per ognuno di tali giudizi, domandare nel termine semestrale previsto dall’art. 4 della legge n. 89 del 2001 l’equa riparazione per violazione del citato art. 6 della CEDU, con conseguente inammissibilità delle relative istanze in caso di sua inosservanza. Per giungere a tale conclusione le S.U.: a) affermarono che il giudice comune è tenuto a conformarsi alla giurisprudenza della Corte edu rilevante, a meno che non si consideri la norma convenzionale come interpretata dal giudice europeo contrastante con la Costituzione; b) esclusero che la giurisprudenza CEDU avesse affermato il principio che nel concetto di giusto processo ai sensi dell’art.6, par. 1, CEDU potesse rientrare la fase cognitoria e quella di attuazione della posizione giuridica soggettiva reclamata dal titolare; c) ritennero, quindi, che la giurisprudenza di Strasburgo “[…] </em>non esprime un principio generale per il quale debba ritenersi, sempre ed in ogni vicenda processuale, unico il tempo del processo di cognizione e di quello eventuale del giudizio di esecuzione o di ottemperanza, ad ogni fine, in rapporto all’applicazione delle dette norme<em>”. Da qui la conclusione che solo dal momento delle decisioni definitive di ciascuna delle due fasi era possibile, per ognuno di tali giudizi, domandare, nel termine semestrale previsto dall’art. 4 della legge n. 89 del 2001, l’equa riparazione per violazione del citato art. 6 della CEDU, con conseguente inammissibilità delle relative istanze in caso di sua inosservanza.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’occasione per rimeditare l’indirizzo appena rammentato sorse in relazione all’applicazione della legge n.89/2001 al giudizio promosso al fine di ottenere l’indennizzo per irragionevole durata di un procedimento Pinto – c.d. giudizio “</em>Pinto su Pinto<em>”, o “</em>Pinto bis<em>”. Rispetto a tale contenzioso la giurisprudenza della seconda sezione civile della Corte si attestò prontamente nel senso di ritenere che il giudizio volto ad ottenere l’indennizzo per la irragionevole durata del processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, è un ordinario processo di cognizione che è soggetto, in quanto tale, all’esigenza di una definizione in tempi ragionevoli, la quale è tanto più pressante in quanto finalizzata all’accertamento della violazione di un diritto fondamentale nel giudizio presupposto, la cui lesione genera di per sé una condizione di sofferenza e un patema d’animo che sarebbe ingiustificato non riconoscere anche per i procedimenti di cui alla legge n. 89 del 2001 – Cass. n.5924/2012, conf., </em>ex plurimis<em>, Cass. n.8283/2012, Cass. n. da 17414 a n. 17419/2013 e, di recente, Cass. n.9695/2019. Fu dunque una rinnovata attenzione alla giurisprudenza della Corte edu a determinare il </em>revirement<em> delle Sezioni Unite, sollecitato dalla prima sezione civile della Corte ed espresso nelle sette sentenze (dalla n.6312 alla n.6318) del 2014. Le Sezioni Unite, chiamate ad occuparsi della ragionevole durata di un processo Pinto attivato per ottenere l’indennizzo prodotto dalla durata irragionevole di altro procedimento promosso ai sensi dell’art.2 l. n.89/2001, rimeditarono dunque le conclusioni espresse nelle due sentenze del 2009. Si affermò in quell’occasione che in un’ottica -costituzionale e convenzionale – protesa a realizzare l’interesse della parte alla concreta e piena soddisfazione del diritto riconosciuto giudizialmente, i due processi (di merito e di esecuzione) non potevano che considerarsi avvinti all’interno di un unico procedimento “[…] </em>che, cioè, ha inizio con l’accesso al giudice e fine con l’esecuzione della decisione, definitiva ed obbligatoria, dallo stesso pronunciata in favore del soggetto riconosciuto titolare della situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio fatta valere nel processo medesimo<em>.” In definitiva, secondo le sette sentenze sopra ricordate “[…] </em>allorquando, nel processo civile o amministrativo, sia stata fatta valere dinanzi al giudice una situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio e questa sia stata riconosciuta al suo titolare con decisione definitiva ed obbligatoria (“fase” processuale della cognizione) e, tuttavia, tale decisione non sia stata spontaneamente ottemperata dall’obbligato ed il titolare abbia scelto di promuovere l’esecuzione del titolo così ottenuto (“fase” processuale dell’esecuzione forzata o dell’ottemperanza) – la garanzia costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale e l’art. 6, par. 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, impongono di considerare tale articolato e complesso procedimento come un “unico processo” scandito, appunto, da “fasi consequenziali e complementari<em>”. II segmento del quale le decisioni delle S.U. rese nell’anno 2014 si sono occupate ha dunque riguardato specificamente la durata dei procedimenti “</em>Pinto<em>”, peraltro ponendo una netta linea di sbarramento fra le richieste di indennizzo fondate sulla durata di tali procedimenti da quelle concernenti il ritardo nell’adempimento delle somme liquidate in esito alla definizione di procedimenti Pinto, liquidabile quale autonoma e distinta fonte di lesione dell’art.6 par. 1 CEDU solo dalla Corte edu. Infatti, le sentenze del 2014 hanno ritenuto che in caso di ritardo della P.A. nel pagamento delle somme riconosciute in forza di decreto di condanna “</em>Pinto<em>” definitivo, pronunciato ai sensi dell’art. 3 della legge 24 marzo 2001 n. 89, l’interessato, ove il versamento delle somme spettanti non sia intervenuto entro il termine dilatorio di mesi 6 e giorni 5 dalla data in cui il provvedimento è divenuto esecutivo, ha diritto – sia che abbia esperito azione esecutiva per il conseguimento delle somme a lui spettanti, sia che si sia limitato ad attendere l’adempimento spontaneo della P.A. – ad un ulteriore indennizzo commisurato al ritardo nel soddisfacimento della propria pretesa eccedente al suddetto termine nonché, ove intrapresa, all’intervenuta promozione dell’azione esecutiva, che, tuttavia, può essere fatto valere esclusivamente con ricorso diretto alla CEDU (in relazione all’art. 41 della Convenzione EDU) e non con le forme e i termini dell’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, la cui portata non si estende alla tutela del diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La nuova presa di posizione delle Sezioni Unite sui rapporti fra le due fasi (di cognizione e di esecuzione) nel procedimento Pinto fu nuovamente sollecitata alle Sezioni Unite dall’ordinanza interlocutoria n. 1382/2015 della seconda sezione civile con la quale si prospettò la necessità di un intervento che potesse: a) coordinare il principio dell’unicità dei giudizi di cognizione ed esecuzione, al fine della individuazione del periodo da valutare per la liquidazione dell’indennizzo previsto dalla l. n. 89 del 2001 – come specificato dalle Sezioni Unite con le pronunzie del 2014 e più volte ribadita con analoghe sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo armonizzandolo con la previsione del termine di decadenza, giusta quanto stabilito dall’art. 4 della legge citata (nella formulazione anteriore alla riforma introdotta con il d.l. n. 83 del 2012, convertito nella l. n. 134 del 2012); b) identificare il concetto di “</em>decisione definitiva<em>” in caso di consecuzione al giudizio di cognizione, anche a distanza di notevole lasso di tempo, di una fase di esecuzione; c) esaminare la rilevanza, in caso di ribadito computo unitario della durata delle due “</em>fasi<em>”, del periodo intermedio tra le stesse, successivo dunque alla conclusione del processo di cognizione ed anteriore all’instaurazione del giudizio di esecuzione. Cass., S.U., n.9142/2016 ritenne quindi di temperare il principio dell’unitarietà delle fasi (di cognizione ed esecuzione) fissato nelle due sentenze dell’anno 2009, riconoscendolo unicamente nel caso in cui la parte di un processo civile concluso con il riconoscimento di un diritto avesse iniziato entro il termine di decadenza previsto dall’art. 4 l. n.89/2001 la fase esecutiva. In questo modo, collegando le due fasi, il termine per promuovere il giudizio Pinto poteva farsi coincidere con la definitività della fase esecutiva, decorrendo dalla piena soddisfazione del diritto stesso, purché tale fase fosse iniziata prima della scadenza del termine semestrale per promuovere l’azione Pinto in seguito alla definitività della sentenza che accerta l’esistenza del diritto. Secondo le S.U. del 2016, in mancanza di attivazione della fase esecutiva nel termine di decadenza previsto dall’art.4 non era quindi possibile sommare, ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo, il tempo occorso per la definizione della fase di cognizione, potendosi invece profilare un’irragionevole durata del processo unicamente per la durata della fase esecutiva. Da qui l’affermazione che «</em>ai fini dell’equa riparazione per irragionevole durata, il procedimento di cognizione e quello di esecuzione devono essere considerati unitariamente o separatamente in base alla condotta di parte, allo scopo di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitarne l’esercizio abusivo. Pertanto, ove si sia attivata per l’esecuzione nel termine di sei mesi dalla definizione del procedimento di cognizione, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 89 del 2001, la parte può esigere la valutazione unitaria dei procedimenti, finalisticamente considerati come unicum, mentre, ove abbia lasciato spirare quel termine, essa non può più far valere l’irragionevole durata del procedimento di cognizione, essendovi soluzione di continuità rispetto al successivo procedimento di esecuzione<em>». La base argomentativa del principio surricordato riposava dunque sulla necessità di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitare l’esercizio del credito indennitario in maniera abusiva, essendo tale contegno già stato in passato stigmatizzato dalla giurisprudenza della Corte edu. Nell’ottica condivisa dalle S.U. il punto di equilibrio fra i principi espressi dalla Corte edu sull’unitarietà </em>tout court<em> fra le fasi (di cognizione ed esecutiva) ed il canone della certezza delle situazioni giuridiche sotteso al termine decadenziale di cui all’art. 4 cit. era in definitiva rivolto a realizzare un corretto bilanciamento fra i diversi interessi in gioco, anche in relazione al carattere potenzialmente abusivo della condotta del soggetto che, ottenuto il riconoscimento del diritto potesse poi omettere di promuovere la fase esecutiva per poi far valere, all’atto dell’inizio di tale procedimento, magari a distanza di anni, il diritto all’indennizzo per irragionevole durata del processo, in modo da locupletare un vantaggio economico approfittando della propria stessa inerzia o della lentezza dei giudizi e delle fasi amministrative correlate alla mancata esecuzione dell’obbligo giudizialmente acclarato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>A volere cogliere il senso delle ordinanze interlocutorie della seconda sezione civile ed il fondo dei dubbi prospettati alle Sezioni Unite nel caso di specie, essi sono stati certamente condizionati dalla recente sentenza della Corte edu Bozza c. Italia, resa il 14 settembre 2017, al cui esame è necessario dedicare, sia pur sinteticamente, i successivi punti. Nella vicenda scrutinata dal giudice convenzionale un privato aveva reclamato gli interessi e la rivalutazione sugli arretrati della propria pensione innanzi al giudice di primo grado con ricorso. Tale decisione venne confermata in appello con sentenza pubblicata il 10 dicembre 2002, divenuta definitiva per decorso del termine di impugnazione, in assenza di notifica della sentenza, il 25.1.2004. Notificato atto di precetto il 14 giugno 2004 – non risultando dalla sentenza la data di notifica del pignoramento -, la parte vittoriosa aveva ottenuto in data 25.1.2005 dal giudice dell’esecuzione il pagamento di quanto dovuto. La parte vittoriosa iniziò quindi un giudizio “</em>Pinto<em>” il 25 maggio 2005 innanzi alla Corte di appello di Roma, rilevando che doveva ritenersi come “</em>decisione interna definitiva<em>” ai sensi dell’art. 4 L. n.89/2001 il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione gli aveva riconosciuto le somme allo stesso dovute, pertanto decorrendo da tale data il termine di decadenza ivi fissato. La Corte di appello dichiarò inammissibile il ricorso rilevandone la tardività, considerando quale decisione definitiva quella resa dal giudice di merito, passata in giudicato il 25.1.2004. Tale pronunzia venne confermata dalla Corte con ordinanza n.24146/2008, sul presupposto che “</em>la nozione di sentenza definitiva cui l’art. 4 l. n. 89/2001 correla il termine finale per la proposizione della domanda di equa riparazione, devesi riferire alla formazione del giudicato<em>”, identificandosi la nozione di definitività del processo in cui si assume violato il limite di ragionevolezza “</em>nel momento in cui il giudizio consegue il fine suo proprio, che in relazione al processo di cognizione è rappresentato dal passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce<em>”. Giova ricordare che nell’esaminare l’eccezione di tardività del ricorso proposta dal Governo italiano sul presupposto che la parte, promuovendo il giudizio Pinto al termine del giudizio esecutivo, avesse inteso eludere le norme relative alla decadenza della domanda di equa soddisfazione contenute nell’art. 4 L. ult. cit., la Corte edu respinse detta eccezione. Va ancora chiarito che il Governo italiano, rispondendo alla sollecitazione espressa nel rapporto comunicatogli dalla Corte edu, sostenne che i principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n.6312/2014 a proposito dell’unicità delle fasi (di cognizione ed esecutiva) non avrebbero potuto valere in termini generali, essendo stati espressi “</em>limitatamente al contenzioso disciplinato dalla legge Pinto, non potendo gli stessi applicarsi con riguardo ai procedimenti civili ordinari<em>”. Orbene, la sentenza Bozza ha ritenuto che “</em>la presente causa riguardi essenzialmente la questione di stabilire se, nell’ambito procedurale della via di ricorso «Pinto<em>», </em>la decisione del giudice dell’esecuzione del 25 gennaio 2005 possa essere considerata la «decisione interna definitiva» del procedimento principale ai sensi dell’articolo 35 della Convenzione<em>” poi precisando che, in caso affermativo, la stessa Corte sarebbe stata “</em>chiamata a decidere se il rigetto della domanda di equa soddisfazione da parte dei giudici «Pinto» abbia costituito una violazione del diritto della ricorrente a un processo entro un termine ragionevole ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione<em>” -§ 25 sent. Bozza, cit.-. II giudice di Strasburgo è, quindi, passato ad esaminare la violazione prospettata dal ricorrente ed ha ricordato la propria giurisprudenza in tema di rapporto fra sentenza che riconosce il diritto ed esecuzione quale parte integrante del «</em>processo<em>» ai sensi dell’articolo 6 CEDU affermando testualmente che “</em>Nella sua sentenza storica Hornsby (§§ 40 e segg.; si vedano anche Silva Pontes c. Portogallo, 23 marzo 1994, Di Pede e Zappia c. Italia, 26 settembre 1996), la Corte ha fissato il principio secondo il quale il diritto a un tribunale sarebbe illusorio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva e vincolante rimanesse inoperante a scapito di una delle parti. L’esecuzione di una sentenza, indipendentemente da quale giudice l’abbia pronunciata, deve essere dunque considerata come facente parte integrante del «processo» ai sensi dell’articolo 6 (si veda anche A Bourdov c. Russia (n. 2), ric. n. 33509/04, § 65, CEDU 2009<em>)” – cfr. § 42 sent. Bozza. Pertanto, secondo la Corte edu, esiste l’obbligo per gli Stati contraenti di assicurare che ciascun diritto rivendicato trovi la propria effettiva realizzazione, pur variando la portata di tale obbligo in funzione della qualità della parte debitrice. La Corte edu individua, infatti, una netta differenza tra debitore-privato e debitore-pubblica amministrazione. Nel primo caso quando il privato o la persona sono inadempienti, spetta agli Stati contraenti garantire l’assistenza necessaria affinché il diritto rivendicato trovi la propria effettiva realizzazione, potendo questi essere considerati responsabili per quanto riguarda l’esecuzione di una sentenza da parte di una persona di diritto privato soltanto se le autorità pubbliche implicate nelle procedure di esecuzione non danno prova della diligenza richiesta o se impediscono l’esecuzione. Nel secondo, quando viene pronunciata una sentenza contro lo Stato, il privato che ha ottenuto una sentenza contro quest’ultimo non deve di norma avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata (sent. Metaxas c. Greece, § 19).” -v.§ 45 sent. Bozza. Anzi, prosegue la Corte edu, è sufficiente che la sentenza sia regolarmente notificata all’autorità nazionale interessata (Akachev c. Russia, ric. n. 30616/05, § 21, 12 giugno 2008) o che siano espletati alcuni adempimenti processuali di natura formale (Corte edu, Chvedov c. Russia, ric. n. 69306/01, §§ 29-37, Corte edu, 20 ottobre 2005, e Corte edu, Kosmidis e Kosmidou c. Grecia, ric. n. 32141/04, § 24, 8 novembre 2007). La Corte edu è poi passata a valutare la durata del periodo di tempo intercorso durante la fase di esecuzione, ricordando di avere ammesso che un’amministrazione potesse avere bisogno di un certo lasso di tempo per procedere a un pagamento, fissandolo in 6 mesi a decorrere dalla data in cui la decisione di risarcimento è divenuta esecutiva (sent. Cocchiarella c. Italia, § 89). Calando tali principi nella vicenda concreta il giudice europeo ha ritenuto che una volta divenuta definitiva la decisione del tribunale di Napoli, in assenza di relativa notifica, a partire da tale data, l’autorità convenuta sapeva o era tenuta a sapere che doveva versare alla ricorrente la somma dovuta. Orbene, secondo la Corte edu la ricorrente non era tenuta a intentare una qualsiasi azione di esecuzione, poiché si trattava, nella fattispecie, di una sentenza ottenuta contro lo Stato. Senza dire che “</em>l’esecuzione di tale sentenza non comportava alcuna difficoltà particolare oltre al semplice versamento di una somma di denaro<em>” -p.50 sent. cit. -. Secondo la Corte, l’atto satisfattivo del credito, avvenuto il 25.1.2005 con il pignoramento presso terzi, “</em>costituiva<em> […] </em>nella presente causa, la «decisione interna definitiva» del procedimento principale<em>” – p.52 sent. -. La Corte edu, al fine di valutare il ricorso, ha quindi esaminato la sentenza delle Sezioni Unite n.9142 del 2016, osservando che era stato “</em>operato<em> […] </em>un capovolgimento giurisprudenziale in materia<em>[…]” E benché i fatti all’origine della sentenza n. 9142/2016 potessero ritenersi simili ai fatti esaminati dal giudice di Strasburgo, la Corte edu ha ritenuto che “</em>pur non essendo perfettamente allineata ai principi fissati nella sua giurisprudenza (paragrafo 48 supra), questa sentenza si presta a una lettura globale secondo la quale «é possibile considerare il procedimento come un tutt’uno, ai fini del calcolo della durata (del procedimento stesso)». <em>Tale conclusione non ha tuttavia consentito di escludere la violazione dell’art.6 CEDU, visto che all’epoca dei fatti controversi i tribunali nazionali avevano un’interpretazione opposta in materia, relativa alla separazione rigorosa tra il procedimento sul merito e quello di esecuzione, come risultava confermato dalle decisioni assunte nel processo Pinto intentato dalla Bozza. La Corte ha concluso ricordando “</em>di avere trattato più volte cause che sollevavano questioni analoghe in materia di durata del procedimento, nelle quali ha constatato l’inosservanza dell’esigenza del «termine ragionevole» alla luce dei criteri individuati dalla sua giurisprudenza consolidata in materia<em> […]”. Non vedendo alcun motivo per discostarsi dalle sue precedenti conclusioni, la Corte ritiene che la durata del procedimento sia stata eccessiva e non sia conforme all’esigenza del «</em>termine ragionevole<em>». In conclusione, la Corte ha rigettato l’eccezione del Governo relativa alla tardività del ricorso, ritenendo che vi sia stata violazione dell’articolo 6, § 1, della Convenzione in ragione della durata eccessiva del procedimento. Questi, dunque, i principi di valenza generale che possono trarsi dalla sentenza Bozza: a) la fase processuale di cognizione e quella di esecuzione hanno natura unitaria rispetto alla parte che abbia ottenuto il riconoscimento del diritto all’indennizzo nei confronti dello Stato per l’irragionevole durata del processo; b) il privato che abbia ottenuto il riconoscimento di un credito da una sentenza emessa contro lo Stato-debitore non ha alcun onere, di norma, di avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata; c) la tutela accordata dall’art.6, par.l, CEDU alla ragionevole durata del processo va riconosciuta in modo pieno ed integrale anche se la parte abbia attivato la domanda indennitaria considerando come epoca finale quella della decisione definitiva resa in sede esecutiva.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Di particolare rilievo ai fini della decisione delle questioni sollevate dalla Sezione remittente è, poi, la vicenda – sulla quale si sono soffermate anche nella discussione orale le parti di alcuni dei giudizi rimessi alle Sezioni Unite – definita con la decisione di cancellazione della causa dal ruolo della Corte edu ai sensi dell’art.37, par. 1, lett. c, CEDU, sul ricorso Di Blasi e altri c. Italia (ric. n. 42256/2012). La vicenda aveva riguardato alcuni privati che, dopo avere ottenuto dal Tar Lazio nei confronti del Ministero della giustizia il riconoscimento di interessi e rivalutazione monetaria per effetto dei definitivi inquadramenti nelle nuove qualifiche funzionali avevano promosso, nell’inerzia del debitore, un giudizio di ottemperanza a distanza di poco meno di tre anni dalla data della pubblicazione della decisione resa dal giudice amministrativo, quindi reclamando l’irragionevole durata del processo in considerazione del tempo intercorso da valutare unitariamente tanto con riferimento al merito che a quello successivo di esecuzione. Tale domanda era stata disattesa dalla Corte di appello di Roma che, stante l’autonomia fra giudizio di merito e giudizio di esecuzione affermata da Cass., S.U., n.27348 del 2009, ritenne abbondantemente decorso il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di merito, con conseguentemente inammissibilità delle richieste. Nel corso del successivo giudizio promosso dalle parti private innanzi alla Corte edu, unito ad altri otto procedimenti di analogo contenuto, il Governo italiano ha presentato dichiarazione unilaterale con la quale ha riconosciuto la violazione dell’art.6, par.l, CEDU ai sensi dell’art.62 A del Reg. della Corte – </em>Le Gouvernement italien reconnait que les requérants… ont subi la violation de l’article 6 § 1 della CEDU, selon les principes exprimés per la Cour EDH dans le affaires Di Pede c. Italie,…Hornsby c. Gréce.., Metaxas c. Grèce…et Burdov ri.2 c. Russie<em>”, offrendo una somma ai ricorrenti per il pregiudizio subito. In esito a tale dichiarazione la Corte edu, dopo avere valutato che il ricorso andava esaminato sotto il profilo della violazione dell’art.6, par.l, CEDU e che la giurisprudenza in materia di durata eccessiva del processo era “</em>claire et abondante<em>” – tenendo in considerazione, oltre alle decisioni Metaxas c. Grecia e Bourdov c. Russia, già richiamate nelle questioni sottoposte alle parti con la comunicazione del 20 gennaio 2017 e dal Governo nella dichiarazione unilaterale, anche la sentenza Bozza c. Italia, §§ 57 e 58 del 14 settembre 2017, già esaminata – con decisione pubblicata il 21 febbraio 2019 ha ritenuto che non fosse necessario l’esame nel merito della decisione, ai sensi dell’art.37, § 1, lett. c) CEDU e nel prendere atto della dichiarazione del Governo, ha disposto la cancellazione dal ruolo della causa ai sensi del ricordato art.37, § 1 lett.c), CEDU, ritenendo che non si giustificasse il proseguimento della procedura. Non è, in proposito, superfluo ricordare che la medesima Corte edu ha avuto modo di chiarire i criteri per determinare le modalità, i contenuti e gli effetti della dichiarazione unilaterale sulla prosecuzione del giudizio. In particolare, Corte edu, 23 febbraio 2017, Grande Camera, ric., n.43395/09, De Tommaso c. Italia, ha rilevato che “[…]</em>in alcune circostanze può essere opportuno cancellare un ricorso dal ruolo ai sensi dell’articolo 37 § 1, lettera c) della Convenzione sulla base di una dichiarazione unilaterale da parte del Governo convenuto anche qualora il ricorrente desideri che l’esame della causa prosegua. Ha sottolineato al riguardo che tale procedura non è di per sé finalizzata a eludere l’opposizione del ricorrente a una composizione amichevole. Deve essere accertato sulla base delle particolari circostanze della causa se la dichiarazione unilaterale offra una base sufficiente per concludere che il rispetto dei diritti umani, come definito dalla Convenzione, non richieda che la Corte continui l’esame della causa<em>”, a tal fine rilevando la natura delle doglianze sollevate, la questione di sapere se le questioni sollevate siano simili a questioni già determinate dalla Corte in precedenti cause, la natura e la portata delle misure adottate dal Governo convenuto nell’esecuzione delle sentenze pronunciate dalla Corte in tali cause, nonché le conseguenze di queste misure sul caso in esame – cfr. § 135 sent. cit. Assume, poi, particolare rilievo il fatto che la dichiarazione unilaterale del Governo “[…] </em>debba, sulla base delle doglianze sollevate, contenere il riconoscimento della responsabilità in relazione alle asserite violazioni della Convenzione, o per lo meno qualche ammissione al riguardo<em>” – cfr. § 136, sent. ult. cit. Non può, in definitiva, porsi in dubbio la piena efficacia e vincolatività della decisione della Corte edu che abbia disposto la cancellazione della causa dal ruolo sulla base della dichiarazione di riconoscimento della violazione in relazione ad una vicenda nella quale era decorso un lasso di tempo di circa tre anni fra la definizione della fase di cognizione e l’inizio di quella esecutiva a carico dello Stato debitore; vincolatività sulla quale, del resto, non ha fin qui dubitato questa Corte – Cass. pen., n. 50919/2018, Frascati – in questa direzione del resto militando anche la l. 27 dicembre 2013, n. 147 che, con l’art. 1, comma 421, ha introdotto una norma di interpretazione autentica prevedendo che ai fini del diritto di rivalsa dello Stato per gli oneri finanziari sostenuti per la definizione delle controversie dinanzi alla Corte edu sono comprese anche quelle concluse con decisione di radiazione o cancellazione della causa dal ruolo ai sensi degli articoli 37 e 39 CEDU.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ritengono le Sezioni Unite che l’approdo al quale giunse la sentenza n.9142/2016 debba essere in parte rivisitato proprio alla luce dei principi espressi in modo consolidato dalla giurisprudenza della Corte edu in ordine alla non necessità di promuovere la fase esecutiva nei confronti del debitore quando questi coincida con lo Stato. Principi, questi ultimi, che assumono una valenza di cosa interpretata nell’ordinamento interno, risultando dalla sentenza Bozza c. Italia che assurge a vero e proprio caso paradigmatico in cui tali principi sono stati ribaditi ed autoqualificati dalla stessa Corte edu come “</em>consolidati<em>” – e senza che l’opinione espressa del Giudice Wojtyczek possa inficiare tale conclusione -. Se la funzione del giudice nazionale è, stando ai più recenti arresti della Corte a Sezioni Unite – Cass., S.U., n.33208/2018 e altri precedenti ivi richiamati – ed a quelli della Corte costituzionale -per citare solo le più recenti, sent. n.49/2015, n.24 e n.25 del 2019 -quella di cooperare attivamente, anche attraverso l’interpretazione convenzionalmente orientata, alla protezione dei diritti fondamentali, dialogando con la giurisprudenza delle Corti costituzionali e sovranazionali in modo da offrire un livello elevato di protezione dei diritti fondamentali, il definitivo assestamento della giurisprudenza della Corte edu in ordine alla non necessità dell’attivazione di un procedimento esecutivo nei confronti dello Stato debitore dal quale deriva l’unitarietà piena fra fase di cognizione e fase esecutiva quando il soggetto debitore è appunto lo Stato impone una parziale revisione, sul piano interpretativo, delle conclusioni a suo tempo espresse dalla sentenza n.9142/2016, proprio alla luce della giurisprudenza della Corte edu. Ne consegue che la necessità del raccordo fra fase di cognizione ed esecutiva introdotta in quell’occasione attraverso il meccanismo della proposizione dell’azione esecutiva entro il termine semestrale dalla definitività del giudizio di cognizione non può trovare oggi alcuna giustificazione se il soggetto debitore è lo Stato, essendo questi tenuto ad adempiere l’obbligazione pecuniaria senza che sia possibile individuare una condotta abusiva da parte del creditore che rimanga inerte, in attesa dell’adempimento spontaneo del debitore-Stato. Occorre quindi affermare che il concetto di “</em>decisione definitiva<em>” al quale si aggancia il termine di decadenza previsto dall’art. 4 L. n.89/2001 deve essere riferito alla definitività della decisione che conclude la fase di esecuzione eventualmente azionata dal creditore, senza che l’inerzia eventualmente protrattasi fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio di quella esecutiva possa ridondare in pregiudizio del creditore, impedendogli di ottenere l’indennizzo integrale per l’irragionevole durata anche del processo di merito a suo tempo definito. Tale conclusione risulta oggi doverosa e pienamente in linea con la giurisprudenza convenzionale che, come si è visto, è andata consolidandosi nel senso di ritenere che, nel contesto della procedura “</em>Pinto<em>”, non vi è alcun obbligo per il creditore di avviare un procedimento di esecuzione volto ad ottenere il pagamento dell’indennizzo concesso, non potendosi ipotizzare alcuna forma di cooperazione da parte del creditore che abbia già ottenuto il proprio credito nei confronti dello Stato al termine di un procedimento giudiziario – non venendo qui in alcuna considerazione la disciplina normativa esaminata da Corte cost.n.135/2018 (art.5 </em>sexies<em> l. n.89/2001, introdotto dall’art. 1, c.777, lett. I) l. n.208/2015). In questa direzione milita, del resto, proprio la ricordata sentenza Bozza, ancorché non relativa ad un processo “</em>Pinto su Pinto<em>” analogo a quelli per i quali oggi intervengono le S.U. Infatti, nel rapporto comunicato al Governo dalla Corte edu – risultante dal sito internet della Corte edu – fu menzionata la giurisprudenza delle S.U. del 2014 chiedendo alle parti se, alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il processo di cognizione ed esecuzione, introdotti dalla ricorrente possono essere considerati separatamente oppure come due fasi necessarie di un solo processo. Elemento, quest’ultimo, capace di dare la misura della piena rilevanza dei principi espressi dalla Corte edu rispetto ai casi in esame. Ed è appena il caso di rilevare che la lettura della sentenza delle Sezioni unite n.9142/2016 offerta dalla Corte edu nella sentenza Bozza è stata appunto nel senso che “</em>è possibile considerare il procedimento come un tutt’uno, ai fini del calcolo della durata (del procedimento stesso<em>)” – cfr. §55 sent. Bozza -, escludendo che la stessa, rispetto alla specificità del caso esaminato e della tempistica fra le fasi, avrebbe effettivamente potuto condurre al riconoscimento dell’unitarietà delle fasi, invece disconosciuto dal giudice nazionale sulla base dell’indirizzo espresso nelle due sentenze dell’anno 2009 delle S.U. Né può risultare priva di significato la circostanza che tali principi si siano al punto consolidati e stabilizzati dall’avere indotto il Governo italiano alla definizione delle liti con dichiarazione unilaterale ed ammissione della violazione, per come si è visto – caso De Paola e a. c. Italia, cit. – anche per quei giudizi nei quali si discuteva della durata dei processi nei confronti dello Stato protrattasi per un tempo irragionevole, considerando unitariamente le due fasi, ancorché iniziate a notevole distanza di tempo l’una dall’altra. Ne consegue che la cancellazione della causa dal ruolo ai sensi dell’art.37, § 1, lett. c), CEDU operata nel caso Di Blasi, cit., dalla Corte edu, all’esito di una delibazione sommaria del processo, non può rimanere priva di significato almeno al fine di ulteriormente confermare non soltanto il consolidamento dei principi giurisprudenziali anzidetti, ma la loro stessa piena ed immediata operatività per il Governo italiano proprio all’interno del contenzioso omogeneo a quello di cui qui si discute.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tanto impone una parziale rivisitazione dei principi espressi da Cass., S.U., n.9142/2016. Si tratta di una conclusione che si muove nell’ambito del perimetro dei poteri riservati alle Sezioni Unite alle quali doverosamente si è rivolta la seconda sezione civile in relazione al contenuto precettivo di cui all’art.374, c.2 c.p.c. A tale approdo non sembra peraltro possibile giungere ritenendo che, come prospettato dalle difese di alcuni dei ricorrenti, Cass., S.U., n.9142/2016, nel prevedere il raccordo fra le fasi, intese riferirsi unicamente ai giudizi ordinari in cui non era parte lo Stato. È infatti vero che Cass., S.U., n.9142/2016, nel rivisitare l’indirizzo espresso nell’anno 2009 a favore dell’autonomia fra le fasi, non prese espressamente in considerazione la posizione del creditore nei confronti dello Stato per l’adempimento di un’obbligazione pecuniaria riconosciuta in via definitiva ma, unicamente, quella del creditore privato beneficiario di un provvedimento di merito favorevole. Ora, benché nel caso esaminato dalle S.U. del 2016 la posizione vagliata fu quella di un privato che aveva contribuito con il proprio contegno alla mancata esecuzione della sentenza di merito emessa nei confronti di altro soggetto privato, non può disconoscersi che una lettura complessiva della motivazione di Cass., S.U., n.9142/2016 lascia intendere che le Sezioni Unite intesero offrire un assetto stabile dei rapporti fra le due fasi, qualunque fosse la natura del soggetto debitore. Questa fu, del resto, la lettura che della pronunzia espressa dalle Sezioni Unite venne svolta dalla seconda sezione civile della Corte, tabellarmente competente per la definizione dei processi Pinto, la quale mostrò di interpretare la pronunzia delle Sezioni Unite del 2016 come applicabile anche nei giudizi relativi alla ragionevole durata del processo in cui il soggetto inadempiente all’obbligo del pagamento dell’indennizzo era lo Stato – cfr., </em>ex plurimis<em>, Cass. n.229/2017. Tali considerazioni rendono quindi oggi necessaria una precisa presa di posizione sulle conclusioni a suo tempo espresse dalla S.U. al fine di verificare se il raccordo operato fra le fasi per il tramite della necessaria attivazione della fase esecutiva entro il termine semestrale decorrente dalla definitività della sentenza che ha riconosciuto il diritto debba o meno operare nei confronti dello Stato debitore. La necessità di questa ulteriore rinnovata riflessione sul rapporto fra le fasi processuali rilevanti ai fini della ragionevole durata di un processo nel quale è parte lo Stato debitore si richiede, piuttosto, in considerazione della già accennata impossibilità di ipotizzare una condotta abusiva da parte del creditore in relazione all’inerzia in forza di una giurisprudenza stratificata della Corte edu. In definitiva, due delle ragioni che avevano indotto la Corte a Sezioni Unite nel senso prospettato dalla sentenza n.6142/2016 devono essere rivisitate proprio alla luce della giurisprudenza convenzionale, la quale non ha nemmeno mancato di sottolineare, come si è già ricordato, la particolare semplicità dei giudizi Pinto quanto all’obbligo di pagamento dell’importo liquidato in favore del creditore, ancora una volta confermando l’impossibilità di profilare, almeno secondo l’</em>id quod plerumque accidit<em>, una possibile condotta abusiva del creditore. Le considerazioni qui svolte consentono dunque di meglio focalizzare il campo di applicazione dei principi espressi dalle Sezioni Unite dapprima nelle pronunzie del 2014 e, successivamente, nella sentenza n.9142/2016, nel senso che l’unitarietà incondizionata fra le fasi di cognizione e di esecuzione ai fini della individuazione dell’irragionevole durata del processo affermata nel 2014 – cfr. punto 3 delle sette sentenze già ricordate – va circoscritta ai soli casi nei quali il soggetto debitore coincide con lo Stato. Né è superfluo sottolineare e richiamare le esigenze di effettività della tutela giurisdizionale, di matrice costituzionale (Corte cost. nn.419/1995, Corte cost. n.312/1996, Corte cost. n. 198/2010) e convenzionale (fra le tante, Corte edu, Grande Camera, 29 marzo 2006, Scordino c. Italia § 195, Corte edu, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Cocchiarella c. Italia, § 40), già prese in considerazione nelle sette sentenze del 2014 – v. § 3 sent. citt. -proprio per giustificare il raccordo fra le due fasi. Ed è proprio la circostanza che il “</em>tempo processo<em>” vada considerato in modo unitario, a prescindere dalle fasi, a lasciare persuasi della piena plausibilità della soluzione qui espressa. In realtà, va detto che il plesso normativo introdotto dalla Legge Pinto ha una propria autonomia e specificità all’interno del sistema generale delle obbligazioni in cui è parte lo Stato, inserendosi in un contesto che nasce dalla necessità di rispetto dell’art.6, par. 1 CEDU sulla base della giurisprudenza della Corte edu. Si tratta, in definitiva, di un sistema che tende a riconoscere l’indennizzo a carico dello Stato responsabile per l’irragionevole durata del processo secondo regole che traggono linfa da piani tra loro diversi – quello convenzionale e quello normativo interno – i quali non possono divergere al punto da determinare effetti antitetici quali quelli che si verificherebbero nel mantenere fermi i principi espressi nel 2016 con riguardo alla posizione dello Stato-debitore di un indennizzo Pinto, essendo in definitiva questo l’oggetto dei quesiti posti dalla sezione seconda nelle ordinanze interlocutorie. La soluzione qui proposta, d’altra parte, si muove nell’ottica di depotenziare il contenzioso che potrebbe continuare a prodursi presso la Corte edu, ove il giudice nazionale ritenesse invece di proseguire l’indirizzo espresso nella sentenza del 2016 quando il debitore coincide con lo Stato, elidendo la possibilità di ottenere l’integrale ristoro del pregiudizio sofferto per l’irragionevole durata del processo unitariamente considerato. Non risultano, poi, persuasive le preoccupazioni espresse dal Ministero della giustizia circa il fatto che tale soluzione non sarebbe compatibile con l’autonomia procedurale riservata ai singoli Stati all’atto di introdurre un meccanismo di sistema volto ad eliminare gli effetti pregiudizievoli prodotti dalla non ragionevole durata del processo. La soluzione qui espressa non è in alcun modo idonea a minare la certezza e la stabilità delle situazioni giuridiche, né tende a giustificare eventuali abusi del diritto, tanto meno realizzando una tacita abrogazione delle norme sulla decadenza nell’ipotesi in cui debitore è lo Stato, invece coniugando in maniera armonica, attraverso il canone dell’interpretazione convenzionalmente orientata, i principi espressi a livello convenzionale con quelli interni (anche di matrice costituzionale), offrendo una nozione del concetto di “</em>definitività<em>” della decisione espresso nell’art. 4 l. n. 89/2001 pienamente coerente con l’art.6 CEDU, nella lettura che di esso ha offerto in modo consolidato la giurisprudenza della Corte edu ed in alcun modo contrastante con i parametri costituzionali interni. Né, ancora, può ritenersi che la soluzione qui espressa possa provocare un allungamento surrettizio dei tempi di soddisfazione del diritto e del processo – ferme, ovviamente le regole ordinarie in tema di prescrizione – da considerare rispetto al momento in cui viene promosso il giudizio volto ad ottenere l’indennizzo ex legge Pinto, invece pur sempre collegandosi alla sola durata del processo, da intendersi unitariamente per la durata delle fasi che lo caratterizzano secondo la giurisprudenza di Strasburgo, al fine di realizzare in maniera efficace ed effettiva l’interesse del creditore. La soluzione qui raggiunta, idonea a perseguire l’idea della piena compatibilità tra la struttura del procedimento Pinto con i principi di derivazione convenzionale in merito alla qualificazione funzionale della nozione di “</em>decisione definitiva<em>”, deve ritenersi preferibile a quella prospettata dal P.G. che, nel riconoscere un’estensione del termine concesso alla parte creditrice nell’iniziare il processo esecutivo, attraverso la somma al termine di sei mesi decorrente dalla definitività della decisione di merito quello di sei mesi e cinque giorni riconosciuto allo Stato quale </em>spatium adimplendi<em> muove dalla qui condivisa necessità di “</em>allentare<em>” la forza dei principi espressi dalla sentenza del 2016, introducendo tuttavia un meccanismo che non si concilia perfettamente con due elementi ritenuti decisivi dalle Sezioni Unite. Per un verso, infatti, ai fini della ragionevole durata del processo, il soggetto-creditore nei confronti dello Stato non deve ritenersi gravato dall’onere di promuovere un giudizio volto ad ottenere l’esecuzione del l’obbligo di pagamento nei confronti dello Stato, permanendo in capo allo Stato stesso, senza alcuna soluzione di continuità, l’obbligo di adempiere il pagamento dell’indennizzo Pinto anche oltre il termine che la giurisprudenza convenzionale individua come ragionevole per tale esecuzione. La condivisione della tesi prospettata dal P.G. lascerebbe, per altro verso, prive di tutela le posizioni dei soggetti che siano rimasti inerti oltre il termine nella misura ampliata e che, per le considerazioni appena espresse, non hanno alcun obbligo di attivarsi in via esecutiva per pretendere il pagamento dell’indennizzo Pinto. In definitiva, con specifico riferimento ai giudizi rimessi all’esame delle Sezioni Unite, il creditore dell’indennizzo Pinto che abbia promosso un’azione esecutiva nei confronti dello Stato per ottenere la soddisfazione del proprio credito potrà pretendere il riconoscimento del diritto alla ragionevole durata del processo unitariamente considerato fino a quando non sarà divenuto definitivo il provvedimento giurisdizionale che ha pienamente realizzato l’interesse del creditore. In modo corrispondente va poi ribadito che i principi in ordine alla necessità dell’inizio della fase esecutiva entro il termine di decadenza previsto dalla definitività della fase di cognizione per consentire la valutazione unitaria del ritardo già affermati nella sentenza n.9142/2016 continuano ad avere efficacia nei soli casi in cui il soggetto debitore di un obbligo accertato giudizialmente non coincide con lo Stato. Tale conclusione risulta in linea con uno degli interrogativi di sostanza posti dalla sezione seconda nelle diverse ordinanze interlocutorie, nemmeno ponendo alcun problema in termini di discriminazione rispetto alla diversa posizione del soggetto privato creditore di un diritto giudizialmente riconosciuto a carico di una parte diversa dallo Stato, proprio per le ragioni esplicitate dal giudice convenzionale – e riportate in alcuni dei paragrafi della sentenza Bozza sopra ricordati – a sostegno del peculiare obbligo dello Stato debitore di garantire la piena realizzazione di un debito al medesimo imputabile. Si viene in tal modo a realizzare quella confluenza fra gli orientamenti delle giurisdizioni nazionali e sovranazionali che proprio la Corte costituzionale ha di recente auspicato quando vengono in gioco valori fondamentali che traggono linfa da plurime fonti normative – cfr. Corte cost. n.25/2019, cit., p.8 dei cons. in diritto. Ciò in un’ottica di pieno contemperamento e bilanciamento degli interessi in gioco e degli obblighi gravanti su ciascuna delle parti, non potendosi ipotizzare alcun effetto preclusivo in danno del creditore finché non vi sia stata piena soddisfazione del diritto da parte dello Stato-debitore. Occorre a questo punto precisare che la ricondotta unità fra le due fasi nel caso dello Stato-debitore dell’indennizzo Pinto non comprende, ai fini del riconoscimento del tempo processo, anche il tempo relativo all’inerzia che il creditore ha mantenuto fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio del procedimento esecutivo. Si tratta, come già ampiamente chiarito dalle Sezioni Unite nelle sette sentenze del 2014, di un autonomo pregiudizio che, pur risultando protetto dall’art.6, par.l CEDU, riguarda il ritardo nell’esecuzione della decisione favorevole eccedente lo </em>spatium adimplendi<em> di mesi sei e giorni 5 e che è estraneo alla tutela approntata dal rimedio interno introdotto dalla legge c.d. Pinto, indirizzata inequivocabilmente a riconoscere un indennizzo per i tempi del processo, siano essi collegati al protrarsi irragionevole della fase di cognizione che di quella esecutiva, ma non idoneo, in assenza di un apposito rimedio interno, ad offrire tutela per il diverso ed autonomo pregiudizio sofferto con riguardo al ritardo nell’esecuzione della decisione favorevole – cfr. p.B) delle più volte ricordate sette sentenze del 2014 delle S.U.-. Sull’esistenza e sulla risarcibilità di tale pregiudizio si è, del resto, stratificata la giurisprudenza convenzionale, come risulta dalla sentenza Gaglione e a. c. Italia – Corte dir. uomo, 21 dicembre 2010 – che ne ha riconosciuto la ricorribilità immediata innanzi alla Corte di Strasburgo, senza dovere proporre un autonomo giudizio in ambito interno (cfr. anche sent. Simaldone c. Italia, p. 44) per ottenere il relativo indennizzo, riconoscendolo peraltro in modo forfetario e predeterminato nella misura di euro 200,00, così dimostrando la diversa natura rispetto a quella relativa al pregiudizio connesso alla non ragionevole durata del processo. Né è superfluo sottolineare che la diversa natura dei due pregiudizi viene in rilievo anche innanzi alla Corte edu che ha proceduto a liquidare entrambi i pregiudizi solo quando la parte aveva contestualmente richiesto l’indennizzo sia per la non ragionevole durata del processo che per il ritardo nell’esecuzione – cfr. Corte dir. uomo, 21.12.2010, Belperio c. Italia, § 41: “</em>7 s’ensuit que, lorsqu’un requérant se plaint de la durée de la phase judiciaire d’uri recours «Pinto», ainsi que d’un retard dans le paiement de l’indemnisation, le temps s’écoulant entre la date de la décision exécutoire de la cour d’appel «Pinto» et le paiement effectif de la somme accordée doit ètre pris en considération pour évaluer la durée de la procédure, et ce indépendamment de la mise en oeuvre d’une procédure d’exécution par le requérant<em>” -. Con ciò ancora una volta confermando l’autonomia delle singole voci di danno. Del resto, che tale lasso di tempo non possa risultare rilevante ai fini della ragionevole durata del processo si evince indiscutibilmente dalla circostanza che il pregiudizio correlato alla tutela apprestata dalla legge n.89/2001 è quello relativo al processo svolto davanti ad un giudice, non quello che attiene ad un ritardo attribuibile allo Stato amministrazione, come si è detto autonomamente risarcibile. In questa direzione le Sezioni Unite si sono già espresse – Cass., S.U., n.4429/2014 -, pur con riferimento ad un procedimento amministrativo precedente all’instaurazione del processo, ma seguendo una </em>ratio decidendi<em> pienamente coerente ed in linea con quanto qui esposto. Coerenza che, d’altra parte, viene ulteriormente confermata dalla previsione di cui all’art. 2 quater della l. n.89/2001, che esclude dalla somma delle due fasi (come già affermato dalle sentenze delle S.U. del 2014) i periodi intermedi. Va a questo punto osservato che l’assenza di un rimedio interno previsto per riconoscere al creditore di tale voce di danno, ormai stabilizzatasi nella relativa quantificazione – ancorché operata a livello di Corte edu -, sul quale pure la sezione remittente ha invitato queste Sezioni Unite a riflettere non giustifica, allo stato e valutato il contesto dei giudizi rimessi alle S.U. ove si discute unicamente dell’indennizzo relativo alla durata ragionevole del processo, l’adozione di opzioni di segno diverso da quelle espresse dalle Sezioni Unite del 2014 che pure le parti ricorrenti non hanno mancato di ipotizzare, richiamando quanto espresso da Cass. n. 15658/2012 ben prima dei principi espressi in funzione nomofilattica dalle Sezioni Unite con riguardo a tale voce di indennizzo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em> Restano da affrontare due ulteriori questioni, ancillari rispetto a quella qui esaminata ed anch’esse prospettate dalla sezione rimettente, la prima delle quali attiene alla rilevanza del termine di 120 giorni di cui art’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997, ai fini della durata ragionevole del processo. Sul punto, in relazione alla soluzione offerta al quesito principale posto dalla sezione seconda, è sufficiente rilevare che detto termine, pur ponendosi in una prospettiva diversa rispetto alla specificità della procedura liquidatoria degli indennizzi per equa riparazione della non ragionevole durata del processo rispetto alle procedure di pagamento degli altri debiti della p.a. (Corte cost. n.135/2018) laddove impedisce prima del relativo decorso l’azione esecutiva, potrà eventualmente rilevare come ritardo nell’esecuzione, dando luogo all’indennizzo autonomamente richiedibile innanzi alla Corte edu, non potendo in alcun modo produrre un effetto incidente sul tema della ragionevole durata del processo successivamente promosso né sullo</em> spatium adimplendi<em> che la giurisprudenza nazionale, in modo coerente con quella della Corte edu, ha riconosciuto allo Stato per l’esecuzione del pagamento dell’indennizzo. Quanto alla questione dell’inizio del procedimento esecutivo, è ancora una volta utile affermare che a tal fine non può che rilevare la data della notifica del pignoramento ai sensi dell’art.491 c.p.c., come del resto già riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte – Cass. n.12690/2017 – non potendo certo riconoscersi alcun valore alla data di notifica del titolo esecutivo e/o del precetto, proprio in relazione alla natura neutra di tali atti rispetto all’inizio della fase esecutiva che va invece collegata alla disposizione processuale presente nel codice di procedura civile appena richiamata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ulteriore quesito posto dalla sezione seconda civile nelle ordinanze di rimessione attiene alla piena equiparabilità del giudizio di ottemperanza al procedimento esecutivo, che assume rilievo proprio in relazione alla soluzione del quesito principale relativo all’unitarietà fra le fasi del processo volte al pieno soddisfacimento del diritto del creditore dell’indennizzo Pinto nei confronti dello Stato-debitore. Orbene, ritengono le S.U. che, in sintonia con quanto puntualmente ed efficacemente espresso dal Procuratore Generale, debba darsi risposta positiva al quesito anzidetto. In termini generali, può affermarsi che nel vigore della l. n.89/2001 – come novellata nell’anno 2012 – la pronunzia adottata in tema di indennizzo Pinto, pur non avendo la forma di sentenza, ha pienamente e sostanzialmente il contenuto di un provvedimento decisorio in materia di diritti soggettivi, idoneo ad assumere valore ed efficacia dì giudicato, ai fini della ammissibilità del ricorso per ottemperanza (v. Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2013, n. 5182; Cons. Stato, 23 agosto 2010 n.5915; Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1484; Cons. Stato, sez. IV, 4 aprile 2012, n. 2001). La giurisprudenza del giudice amministrativo è poi ferma nel ritenere che il giudizio di ottemperanza nella materia di cui qui si discute è esperibile per l’esecuzione di una condanna al pagamento di somme di danaro, alternativamente o congiuntamente rispetto al rimedio del processo di esecuzione dinanzi al giudice civile, con il solo limite della impossibilità di conseguire due volte la medesima somma – cfr., Cons. Stato, 29 dicembre 2010, 9541; Cons. Stato, 16 marzo 2012, n.1484. Quanto all’equiparabilità del giudizio di ottemperanza a quello esecutivo militano le affermazioni espresse già da queste Sezioni Unite – cfr. Cass., S.U., nn.27365 e 27364 del 2009 -.Tali pronunzie, infatti, pur ritenendo la piena autonomia fra fase di cognizione e fase esecutiva non mancarono di considerare in modo unitario il processo di esecuzione ed il giudizio di ottemperanza, in quanto volti a dare – entrambi – attuazione alla decisione di merito, per rendere effettiva la tutela del diritto. Affermazioni di principio mai modificate dalle successive pronunzie già sopra ricordate di queste Sezioni Unite, come osservato dal P.G. Va aggiunto che non sembra utile, in questa sede, addentrarsi sulla poliedrica natura assunta dal giudizio di ottemperanza a seconda del contenuto della sentenza da ottemperare, se non per evidenziare che in caso di ottemperanza successiva al </em>dictum<em> contenuto nella pronunzia passata in giudicato del giudice ordinario, il giudice dell’ottemperanza svolge generalmente una mera attività esecutiva. Ciò che vale vieppiù per i decreti emessi in materia di Legge Pinto nei quali, vertendosi pacificamente in tema di diritti soggettivi, la decisione in sede di ottemperanza è unicamente rivolta a porre in esecuzione la condanna al pagamento dell’indennizzo fissato. Va ancora aggiunto che non incide sulla unitarietà fra fase di merito svolta innanzi alla Corte di appello e giudizio di ottemperanza la circostanza che il primo si sia svolto innanzi ad un plesso giurisdizionale diverso da quello al quale spetta funzionalmente la cognizione del giudizio di ottemperanza, rilevando soltanto il tempo processuale resosi necessario per dare soddisfazione al diritto del creditore all’indennizzo ex Legge Pinto nei confronti dello Stato-debitore. Risulta quindi del tutto inconferente la diversità fra gli organi giurisdizionali che hanno reso possibile la piena soddisfazione della pretesa, ciò non essendo in grado di determinare una scissione fra le “</em>fasi<em>” processuali volte alla soddisfazione del diritto.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Sulla base delle superiori argomentazioni vanno affermati i seguenti principi di diritto: 1. Ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso ai sensi dell’art.4 della legge n.89/2001, nel testo modificato dall’art. 55 d.l. n. 83/2012, conv. nella l. n. 134/2012 risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n.88/2018, la fase di cognizione del processo che ha accertato il diritto all’indennizzo a carico dello Stato debitore va considerata unitariamente rispetto alla fase esecutiva eventualmente intrapresa nei confronti dello Stato, senza la necessità che essa venga iniziata nel termine di sei mesi dalla definitività del giudizio di cognizione, decorrendo detto termine dalla definitività della fase esecutiva. 2. Ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo rilevante per la quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art.2 della l. n.89/2001 la fase esecutiva eventualmente intrapresa dal creditore nei confronti dello Stato-debitore inizia con la notifica dell’atto di pignoramento e termina allorché diventa definitiva la soddisfazione del credito indennitario. 3. Nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo, da considerare unitariamente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo ex art. 2 l. n. 89/2001, non va considerato come “</em>tempo del processo<em>” quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva, quest’ultimo invece potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell’esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. 4. Il termine di 120 giorni di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997, non produce alcun effetto ai fini della ragionevole durata del pro</em></p>