<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 30 luglio 2019 n. 20504</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>PRINCIPIO DI DIRITTO</em></strong><em>: un diritto soggettivo perfetto e incondizionato all'autorefezione individuale, nell'orario della mensa e nei locali scolastici, non è configurabile e, quindi, non può costituire oggetto di accertamento da parte del giudice ordinario, in favore degli alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado, i quali possono esercitare diritti procedimentali, al fine di influire sulle scelte riguardanti le modalità di gestione del servizio mensa, rimesse all'autonomia organizzativa delle istituzioni scolastiche, in attuazione dei principi di buon andamento dell'amministrazione pubblica.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Le Sezioni Unite sono state investite dal Primo Presidente, a seguito di ordinanza della Prima Sezione civile dell'I 1 marzo 2019, della soluzione della seguente questione di massima di particolare importanza: se sia configurabile un diritto soggettivo perfetto dei genitori degli alunni delle scuole elementari e medie, eventualmente quale espressione di una libertà personale inviolabile, il cui accertamento sia suscettibile di ottemperanza, di scegliere per i propri figli tra la refezione scolastica e il pasto portato da casa o confezionato autonomamente e di consumarlo nei locali della scuola e comunque nell'orario destinato alla refezione scolastica, alla luce della normativa di settore e dei principi costituzionali, in tema di diritto all'istruzione, all'educazione dei figli e all'autodeterminazione individuale, in relazione alle scelte alimentari (artt. 2, 3, 30, comma 1, 32, 34, commi 1 e 2, Cost.); se possa essere interpretata in senso ricognitivo di un simile diritto la sentenza del Consiglio di Stato n. 5156 del 2018, confermativa di sentenza che ha annullato per eccesso di potere una delibera di un Comune che vietava, nei locali in cui si svolge il servizio di refezione scolastica, il consumo, da parte degli alunni, di cibi diversi da quelli forniti dalla ditta appaltatrice del servizio. Si premette che la questione di giurisdizione del giudice adito si è esaurita nei successivi gradi di giudizio, essendo stata introdotta dal MIUR nel giudizio di primo grado e implicitamente rigettata dal Tribunale che ha rigettato le domande attoree nel merito. Il MIUR ha riproposto l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario in sede di gravame, in via incidentale, e la Corte d'appello di Torino l'ha implicitamente rigettata con sentenza che ha deciso la causa nel merito, impugnata in sede di legittimità soltanto sul merito. Pertanto, essendo sulla questione di giurisdizione calato il giudicato, non si pone il tema della proponibilità dinanzi al GO, quale autonoma espressione del diritto di azione radicato nell'art. 24 Cost., dell'azione di mero accertamento della esistenza o inesistenza nel merito di un diritto che si assume fondamentale, seppure in relazione a materie di giurisdizione esclusiva.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il diritto azionato nel caso di specie non ha ad oggetto profili direttamente inerenti (all'eliminazione di ostacoli) all'accesso al servizio mensa offerto dall'istituzione scolastica, ovvero alle modalità in cui detto servizio è offerto a coloro che se ne avvalgono, in termini di pretesa di assoluta gratuità del servizio stesso (sul punto vd. infra, sub 10) o di rivendicazione del diritto di scegliere l'impresa appaltatrice e i cibi offerti, ma ha ad oggetto la diversa pretesa di usufruire, anziché del servizio mensa, del pasto domestico, come espressione di una incomprimibile volontà individuale o di un diritto incondizionato dell'alunno che intenda avvalersi delle attività formative pomeridiane previste per coloro che optano per il «</em>tempo pieno<em>» o «</em>prolungato<em>». Il diritto azionato in causa neppure ha ad oggetto plausibili profili discriminatori rispetto ad altre categorie di persone, non essendo neanche in astratto ipotizzabile una discriminazione tra coloro che partecipano alle attività formative pomeridiane, avendo aderito all'offerta formativa del «</em>tempo pieno<em>» e «</em>prolungato<em>», comprensivo del servizio mensa, e coloro che alla suddetta offerta formativa non hanno aderito per la loro libera scelta di rifiutare la mensa, preferendo il pasto domestico. Il riferimento ai principi di uguaglianza e non discriminazione, sui quali si tornerà più avanti, non è utile alla tesi delle parti private, non foss'altro perché la deduzione in giudizio della violazione dei suddetti principi implica necessariamente una valutazione comparativa, rimandando ad un concetto di relazione; per discriminazione si intende, infatti, non una generica differenza di trattamento, bensì un trattamento diverso e deteriore, basato su un fattore di discriminazione, rispetto a quello riservato ad altri appartenenti alla stessa classe di persone (Cass. 19 febbraio 2018, n. 3968). Ma è evidente che la classe di persone cui appartengono gli alunni che rifiutano il servizio mensa offerto dalla scuola è diversa dalla classe di coloro che, avendo scelto il «</em>tempo pieno<em>» o «</em>prolungato<em>», hanno accettato il servizio mensa che di quella scelta è parte essenziale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Le parti private hanno insistito nel considerare il cosiddetto «</em>tempo mensa<em>» compreso nel «</em>tempo scuola<em>», al fine di giustificare la denunciata compromissione del diritto all'istruzione, nel caso in cui non si consentisse agli alunni di pranzare a scuola con il cibo portato da casa, con la conseguenza di impedire ingiustamente agli alunni di partecipare alle attività formative pomeridiane. La premessa è corretta, ma la conclusione non è condivisibile. Contrariamente a quanto sostenuto dal Comune di Torino, il «</em>tempo mensa<em>» è compreso nel «</em>tempo scuola<em>», come risulta da diversi indici normativi. Nelle scuole (dell'infanzia, primarie e secondarie di primo grado) dove «</em>sono erogati<em> [...] </em>servizi di mensa, attivabili a richiesta degli interessati<em>» (D.Lgs. 13 aprile 2017, n. 63, art. 6), «</em>l'orario settimanale, ivi compreso il tempo-mensa,<em> [è] </em>stabilito in<em> [...]» (art. 130, comma 2, D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297, abrogato e poi richiamato in vigore dall'art. 1 D.L. 7 settembre 2007, n. 147, conv. in legge 25 ottobre 2007, n. 176); «</em>nel tempo prolungato il monte ore è determinato mediamente in<em> [...] </em>ore settimanali<em> [...] </em>comprensive delle ore destinate agli insegnamenti e alle attività e al tempo dedicato alla mensa<em>» (D.P.R. 20 marzo 2009, n. 89, art. 5, con riferimento alla scuola secondaria di primo grado); nella scuola primaria l'orario settimanale è «</em>comprensivo del tempo dedicato alla mensa<em>» (decreto interministeriale 6 luglio 2010, n. 55; D.M. 3 novembre 2011); «</em>i servizi di mensa<em> [sono] </em>necessari per garantire lo svolgimento delle attività educative e didattiche<em>» (circolare MIUR n. 29 del 2004). E tuttavia, se il servizio mensa è compreso - come rilevato dalla Corte di merito e dalle parti private - nel «</em>tempo scuola<em>», è perché esso condivide le finalità educative proprie del progetto formativo scolastico di cui esso è parte, come evidenziato dalla ulteriore funzione cui detto servizio assolve, di educazione all'alimentazione sana, come previsto dal D.L. 12 settembre 2013, n. 104, conv. in legge 8 novembre 2013, n. 128 (l'art. 4, comma 5 e seguenti, contiene norme per la sensibilizzazione delle istituzioni scolastiche a «</em>Tutela della salute nelle scuole<em>», prevedenti l'elaborazione di programmi di educazione alimentare da parte del Ministero della salute, d'intesa con il MIUR). Alla suddetta finalità educativa concorre quella di socializzazione che è tipica della consumazione del pasto «</em>insieme<em>», cioè in comunità (a norma dell'art. 9 del D.Lgs. n. 59 del 2004, «</em>la scuola secondaria di primo grado è finalizzata<em> [...] </em>al rafforzamento delle attitudini all'interazione sociale<em>»), condividendo i cibi forniti dalla scuola, pur nel rispetto (garantito dal servizio pubblico) delle esigenze individuali determinate da ragioni di salute o di religione. Incoerente rispetto a queste finalità è l'invocazione di un diritto soggettivo perfetto o incondizionato all'autorefezione individuale, inteso come inerente al diritto costituzionale all'istruzione, che si assume - in tesi - compromesso se agli alunni che optano per il «</em>tempo pieno<em>» e «</em>prolungato<em>» fosse impedito di pranzare a scuola con cibi propri. Tuttavia, si può obiettare che il pasto non è un momento di incontro occasionale di consumatori di cibo, ma di socializzazione e condivisione (anche del cibo), in condizioni di uguaglianza, nell'ambito di un progetto formativo comune. E' questa la ragione per la quale il tempo della mensa fa parte del «</em>tempo scuola<em>». La tesi contraria è anche contraddittoria se si tiene conto che la Corte torinese ha accertato il diritto degli alunni di portare il cibo da casa e di consumarlo a scuola nell'orario della mensa ma non nei locali adibiti alla refezione scolastica (detta statuizione non è stata censurata dai privati controricorrenti, i quali vi hanno aderito, sebbene costoro avessero chiesto in causa di accertare, e nella memoria rivendichino ancora, il diritto di consumare cibi propri nei locali adibiti alla mensa scolastica). Ma non è agevole comprendere come il pasto solitario degli alunni con cibo proprio, in locali destinati nella scuola, possa realizzare gli obiettivi di socializzazione e condivisione che ineriscono all'invocato diritto di usufruire del cosiddetto «</em>tempo scuola<em>».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L'affermazione generalizzata di un diritto soggettivo perfetto e incondizionato all'autorefezione, durante l'orario della mensa, non trova conferma sul piano normativo neppure sotto il profilo, indirettamente e genericamente evocato, della violazione del principio di gratuità dell'istruzione inferiore di cui all'art. 34 Cost., sul presupposto che gli alunni che intendono aderire alle attività formative pomeridiane sarebbero costretti a sostenere la contribuzione prevista per il servizio mensa. Premesso che negli istituti scolastici dove è istituito, il servizio mensa è erogato «</em>senza nuovi o maggiori oneri per gli enti pubblici interessati<em>» e «</em>in forma gratuita ovvero con contribuzione delle famiglie a copertura dei costi<em>» (art. 3 e 6 D.Lgs. n. 63 del 2017), previa individuazione delle fasce di reddito sino al limite della gratuità in taluni casi (art. 3 D.Lgs. cit.), il principio di gratuità dell'istruzione scolastica non implica che si debba necessariamente assicurare la completa gratuità di tutte le ipotizzabili prestazioni che possano essere connesse all'esercizio del diritto allo studio, pur se collaterali, accessorie, di supporto, facoltative o di complemento, quand'anche rese necessarie da peculiari situazioni personali (Cass. 17 settembre 2013, n. 21166, con riferimento ai soggetti disabili). Nella giurisprudenza costituzionale si è precisato che «</em>la connessione tra l'obbligatorietà e la gratuità dell'istruzione va intesa con razionale valutazione dei due termini del binomio, che esclude ogni subordinazione del principio di obbligatorietà ad un concetto soverchiamente estensivo della gratuità<em>» (Corte cost. n. 106 del 1968 ha ritenuto non inerente essenzialmente al concetto di gratuità della scuola la fornitura obbligatoria da parte dello Stato dei mezzi di trasporto ad uso degli scolari); che il diritto all'istruzione non è «</em>svincolato dall'adempimento di corrispondenti doveri da parte dei genitori<em>» (Corte cost. n. 7 del 1967) e che i «</em>principi della scuola aperta a tutti e della gratuità dell'istruzione elementare e media<em> [...] </em>debbono essere adempiuti nel quadro degli obblighi dello Stato secondo una complessa disciplina legislativa e nell'osservanza dei limiti del bilancio<em>» (Corte cost. n. 125 del 1975). Si è anche rilevato che l'assistenza scolastica viene prestata nei limiti delle risorse disponibili e può, di conseguenza, essere legittimamente correlata alla disponibilità di mezzi finanziari degli studenti, quali risultano dagli importi da essi corrisposti per tasse di frequenza o per rette di fruizione dei servizi scolastici scelti (Corte cost. n. 36 del 1982); analogamente, l'intervento pubblico per il servizio mensa è previsto «</em>nei limiti delle effettive disponibilità finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente<em>», come altri interventi a sostegno del diritto allo studio (art. 2 D.Lgs. n. 63 del 2017). Si precisa che con i suddetti principi non è dissonante la sentenza che ha dichiarato incostituzionale la norma che escludeva dalla fornitura gratuita dei libri di testo gli alunni delle scuole elementari private, per il diverso profilo dell'ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli alunni delle scuole statali o abilitate a rilasciare titoli di studio aventi valore legale (Corte cost. n. 454 del 1994).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L'invocato diritto soggettivo perfetto o incondizionato all'autorefezione scolastica è stato rappresentato dai controricorrenti e in parte dalla sentenza impugnata anche quale espressione di una incomprimibile libertà personale (inteso come diritto di libertà) o del diritto all'autodeterminazione individuale o del diritto dei genitori di educare i propri figli in campo alimentare, con riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 30 Cost.; in via residuale è invocato il diritto dei genitori di non subire interferenze nell'adempimento dei loro doveri come lavoratori, a causa della necessità di accudire i figli durante l'orario della mensa (art. 35 Cost.). Questa rappresentazione, per come variamente articolata, non è convincente perché trascura il contesto nel quale i suddetti diritti dovrebbero essere esercitati, che è quello delle istituzioni scolastiche, le quali, nell'ambito dell'autonomia organizzativa oltre che didattica che è loro conferita dalla legge (15 marzo 1997, n. 59), possono istituire il servizio mensa che è un servizio pubblico a domanda individuale (D.M. 31 dicembre 1983, p. 10), prestato in favore degli alunni che hanno optato per il «</em>tempo pieno<em>» e «</em>prolungato<em>» e, quindi, accettato l'offerta formativa comprendente la mensa. Le famiglie in tal modo hanno esercitato una libertà di scelta educativa (art. 21 della legge n. 59 del 1997), dalla quale scaturisce il loro diritto di partecipazione al procedimento amministrativo per influire sulle modalità di gestione del servizio pubblico di mensa (ai fini dell'individuazione dell'impresa che lo gestisce e dei cibi offerti), ma non il diritto sostanziale di performarlo secondo le proprie esigenze individuali. Il diritto soggettivo perfetto che si chiede di accertare in via generalizzata e incondizionata, di consentire agli alunni che intendano partecipare alle attività formative pomeridiane di pranzare con cibo proprio nei locali scolastici (quelli adibiti a mensa o altri), implica l'esercizio di un potere delle famiglie che è privo di base normativa, il cui effetto sarebbe di imporre alle istituzioni scolastiche un obbligo conformativo del servizio pubblico di mensa di immediata attuazione. L'obiettivo è di modulare detto servizio pubblico in modo oggettivamente, seppur parzialmente, diverso da come è stato organizzato dall'istituzione scolastica che lo rende, all'esito del procedimento amministrativo previsto dalla legge con la partecipazione di tutte le componenti dell'istituzione stessa. E a dimostrarlo è la tesi dei controricorrenti secondo cui il cosiddetto «</em>tempo mensa<em>» non coinciderebbe con il «</em>servizio mensa<em>» erogato dalla scuola, quanto piuttosto con il tempo dedicato alla ristorazione individuale mediante autorefezione: in tal caso, tuttavia, non si comprende per quale ragione il suddetto tempo dovrebbe essere ricompreso nel «</em>tempo scuola<em>» che è una nozione indicativa di un servizio d'istruzione da considerare unitariamente. Le parti private obiettano che gli alunni muniti del pasto domestico siedono nel refettorio nei posti loro assegnati e ivi consumano le pietanze portate da casa, vigilati dal personale docente che, in base al contratto nazionale di categoria, è tenuto a prestare l'assistenza educativa; analogamente, alla pulizia dei locali scolastici provvedono contrattualmente le imprese esterne che gestiscono il servizio ovvero il personale ATA, senza oneri per l'amministrazione scolastica. Sono obiezioni che, tuttavia, non smentiscono e, anzi, dimostrano quella che sarebbe una impropria ingerenza dei privati nella gestione di un servizio che, per come organizzato dall'amministrazione scolastica, non prevede da parte del personale docente la vigilanza degli alunni che pranzano con il pasto domestico: il livello di attenzione dovuto dagli insegnanti verso gli alunni che usufruiscono della mensa (ove il cibo è controllato e calibrato secondo le esigenze individuali di salute, religiose ecc.) è diverso da quello che sarebbe richiesto in presenza di alunni ammessi al pasto domestico, anche per la possibilità di scambio di alimenti tra gli alunni. Quando poi alcuni alunni siano ammessi a consumare il proprio cibo in locali destinati allo scopo, l'amministrazione dovrebbe prevedere per la vigilanza un docente diverso da quello che presta la vigilanza nei locali adibiti a mensa; inoltre, occorre una diversa modulazione delle condizioni contrattuali per imporre al gestore del servizio la pulizia dei locali utilizzati dagli alunni che utilizzano il cibo domestico. Né si può trascurare l'esigenza che l'istituzione scolastica sia messa in condizione di controllare le fonti generatrici della responsabilità, contrattuale o da contatto sociale, cui è essa esposta per i danni subiti dagli alunni (Cass. 28 aprile 2017, n. 10516), provvedendo all'organizzazione del servizio pubblico di istruzione reso al pubblico.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nella vicenda in esame, la conformazione del diritto in questione in termini di diritto di libertà, quasi ad evocare la nozione ottocentesca di libertà negativa («</em>libertà da<em>»), postula in realtà non già l'astensione ma l'intervento del terzo (pubblico potere), in quanto indispensabile per il soddisfacimento dell'interesse azionato. Ed in effetti non di libertà (personale) si tratta, ma di un diritto sociale (all'istruzione), evidentemente condizionato e dipendente dalle scelte organizzative rimesse alle singole istituzioni scolastiche, sulle quali i beneficiari del servizio pubblico possono influire nell'ambito del procedimento amministrativo, in attuazione dei principi di buon andamento dell'amministrazione pubblica, di cui all'art. 97 Cost., e con i consueti strumenti a tutela della legittimità dell'azione amministrativa. Il detto procedimento è la sede nella quale effettuare le opportune valutazioni, anche di natura tecnica, nella ricerca del più corretto bilanciamento degli interessi individuali di coloro che chiedono di consumare il cibo portato da casa con gli interessi pubblici potenzialmente confliggenti, tenuto conto delle risorse a disposizione dell'amministrazione. Non è pertinente il rilievo che agli alunni è invece consentito il consumo di merende portate da casa durante il tempo della ricreazione, il quale non interferisce con il servizio pubblico della refezione scolastica. Ed allora, la tesi (espressa dal Consiglio di Stato nella sentenza della Sez. V, n. 5156 del 2018) secondo cui la «</em>scelta alimentare<em>» costituisce oggetto di «</em>una naturale facoltà dell'individuo - afferente alla sua libertà personale - e, se minore, della famiglia mediante i genitori<em>», «</em>per sua natura e in principio libera,<em> [che] </em>si esplica vuoi all'interno delle mura domestiche vuoi al loro esterno: in luoghi altrui, in luoghi aperti al pubblico, in luoghi pubblici<em>» ed anche nelle scuole e a prescindere dalle determinazioni delle autorità scolastiche, non può assurgere a fondamento di un diritto perfetto o incondizionato degli alunni all'autorefezione nei locali scolastici. Deve darsi, quindi, risposta negativa al quesito posto dall'ordinanza di rimessione, se la citata sentenza del Consiglio di Stato - che ha annullato per eccesso di potere l'impugnata delibera del Comune di Benevento che vietava la permanenza nei locali scolastici agli alunni delle scuole materne ed elementari che intendevano consumare cibi portati da casa o acquistati autonomamente (cui ha fatto seguito l'ordinanza cautelare del Consiglio di Stato, sez. V, 27 marzo 2019, n. 1623, che ha sospeso la determinazione di un dirigente scolastico che vietava agli alunni autorizzati a fruire del pasto domestico di consumarlo nei locali adibiti a refettorio) - debba intendersi come ricognitiva di un diritto soggettivo perfetto o incondizionato, suscettibile in quanto tale di accertamento in giudizio e di ottemperanza ad istanza degli interessati.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La Corte ha avuto occasione di rilevare che l'autonomia delle istituzioni scolastiche si manifesta analogamente rispetto alle scelte didattiche, inerendo alle funzione delle stesse istituzioni le «</em>scelte di programmi e di metodi<em> [...] </em>potenzialmente idonei ad interferire ed anche eventualmente a contrastare con gli indirizzi educativi adottati dalla famiglia e con le impostazioni culturali e le visioni politiche esistenti nel suo ambito<em>», ben potendo «</em>verificarsi che sia legittimamente impartita nella scuola una istruzione non pienamente corrispondente alla mentalità ed alle convinzioni dei genitori, senza che alle opzioni didattiche così assunte sia opponibile un diritto di veto dei singoli genitori<em>» (Cass. SU 5 febbraio 2008, n. 2656, ha escluso la configurabilità di un diritto delle famiglie, azionabile dinanzi al giudice ordinario, di vietare alla scuola di esercitare il potere di impartire lezioni di educazione sessuale agli alunni). Ed in effetti, l'istituzione scolastica non è un luogo dove si esercitano liberamente i diritti individuali degli alunni, né il rapporto con l'utenza è connotato in termini meramente negoziali, ma piuttosto è un luogo dove lo sviluppo della personalità dei singoli alunni e la valorizzazione delle diversità individuali (cfr. l'art. 5 D.Lgs. n. 59 del 2004) devono realizzarsi nei limiti di compatibilità con gli interessi degli altri alunni e della comunità, come interpretati dall'istituzione scolastica mediante regole di comportamento cogenti, tenendo conto dell'adempimento dei doveri cui gli alunni sono tenuti, di reciproco rispetto, di condivisione e tolleranza. Per altro verso, i genitori sono tenuti anch'essi, nei confronti dei genitori degli alunni portatori di interessi contrapposti, all'adempimento dei doveri di solidarietà sociale, oltre che economica, richiesti per l'attuazione anche dei diritti inviolabili dell'uomo, a norma dell'art. 2 della Costituzione. Non comparabile con la pretesa azionata nel presente giudizio è quella dell'alunno di non avvalersi dell'insegnamento di religione, la quale rappresenta una esigenza imperiosa, anche sul piano costituzionale, implicante il diritto di svolgere le attività alternative organizzate dall'istituzione scolastica, tanto più che detta esigenza è stata riconosciuta espressamente dalla legge (artt. 310 e 311 della legge 16 aprile 1994, n. 297). </em></p>