<p style="text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 27 settembre 2019, n. 216</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Agrigento, sezione prima penale, in funzione di giudice dell’esecuzione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il rimettente argomenta la contrarietà all’art. 3, comma primo, Cost. della disposizione censurata essenzialmente sotto due profili: da un lato, l’asserita irragionevole disparità di trattamento tra i condannati per furto in abitazione e i condannati per una serie di altri delitti, tra cui in particolare la rapina; e, dall’altro, l’irragionevolezza di una «</em>presunzione aprioristica di pericolosità<em>» anche nei confronti di persone ritenute responsabili di fatti di reato di modesta gravità e condannate, pertanto, a pene detentive brevi. Sotto il primo profilo, il giudice a quo ritiene di trarre argomenti decisivi dalla sentenza n. 125 del 2016, con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione originariamente previsto dall’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. nei confronti dei condannati per furto con strappo. In tale occasione, la Corte ha ritenuto, in effetti, manifestamente irragionevole una disciplina che prevedeva un trattamento processuale deteriore per un delitto – il furto con strappo – certamente meno grave di quello – la rapina semplice, nella relativa forma “</em>propria<em>” (art. 628, primo comma, cod. pen.) o “</em>impropria<em>” (art. 628, secondo comma, cod. pen.) – nel quale è agevole ipotizzare che il primo delitto possa trasmodare, in relazione alla possibile, e statisticamente frequente, reazione della vittima. Una situazione simile non ricorre, però, rispetto al furto in abitazione, destinato a trasmodare non già nel delitto di rapina semplice, bensì in quello di rapina aggravata ai sensi dell’art. 628, terzo comma, n. 3-bis, cod. pen., per essere stato commesso il fatto nei medesimi luoghi indicati dall’art. 624-bis, primo comma, cod. pen.; ipotesi aggravata compresa nell’elenco dei delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), per i quali pure opera il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto per il (mero) furto in abitazione. Né può essere tacciato in termini di manifesta irragionevolezza il differente trattamento previsto per i condannati per furto in abitazione rispetto a chi si sia stato condannato per furto con strappo (dopo la menzionata sentenza n. 125 del 2016) ovvero per altre ipotesi di furto aggravato o pluriaggravato. Il divieto di sospensione dell’ordine dell’esecuzione trova infatti la propria ratio nella discrezionale, e non irragionevole, presunzione del legislatore relativa alla particolare gravità del fatto di chi, per commettere il furto, entri in un’abitazione altrui, ovvero in altro luogo di privata dimora o nelle relative pertinenze, e della speciale pericolosità soggettiva manifestata dall’autore di un simile reato. Neppure può, nella specie, essere ravvisato un irragionevole e «</em>aprioristico<em>» automatismo legislativo: il legislatore, infatti, ha, con valutazione immune da censure sul piano costituzionale, ritenuto che – indipendentemente dalla gravità della condotta posta in essere dal condannato, e dall’entità della pena irrogatagli – la pericolosità individuale evidenziata dalla violazione dell’altrui domicilio rappresenti ragione sufficiente per negare in via generale ai condannati per il delitto in esame il beneficio della sospensione dell’ordine di carcerazione, in attesa della valutazione caso per caso, da parte del tribunale di sorveglianza, della possibilità di concedere al singolo condannato i benefici compatibili con il relativo titolo di reato e la durata della sua condanna.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Quanto alla dedotta violazione del principio del necessario finalismo rieducativo della pena sancito dall’art. 27, comma terzo, Cost., che postulerebbe sempre – secondo il giudice a quo – una «</em>valutazione individualizzata del prevenuto<em>» in relazione alla possibilità di concedergli i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, conviene osservare che la disciplina in questa sede censurata non esclude affatto tale valutazione individualizzata. Essa resta infatti demandata al tribunale di sorveglianza in sede di esame dell’istanza di concessione dei benefici, che il condannato può comunque presentare una volta passata in giudicato la sentenza che lo riguarda.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Non possono essere tratti argomenti decisivi a sostegno della prospettazione del giudice a quo dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che concerne la situazione di sovraffollamento delle carceri italiane, giurisprudenza che il rimettente peraltro evoca meramente </em>ad abundantiam<em>, senza formulare alcuna specifica censura sul punto ex art. 117, primo comma, Cost. Se è, infatti, indubbio che il meccanismo di sospensione automatica dell’ordine di esecuzione di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. sia anche funzionale a evitare l’inutile ingresso nel sistema penitenziario – già afflitto da grave sovraffollamento – di condannati che potrebbero essere ammessi a misure alternative sin dall’inizio dell’esecuzione della pena, non può d’altra parte negarsi un margine di discrezionalità del legislatore, sempre entro i limiti segnati dalla non manifesta irragionevolezza, nella definizione delle categorie di detenuti che di tale meccanismo possono beneficiare.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La Corte ritiene comunque necessario segnalare al legislatore, per ogni relativa opportuna valutazione, l’incongruenza cui può dar luogo il difetto di coordinamento attualmente esistente tra la disciplina processuale e quella sostanziale relativa ai presupposti per accedere alle misure alternative alla detenzione, in relazione alla situazione dei condannati nei cui confronti non è prevista la sospensione dell’ordine di carcerazione ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., ai quali – tuttavia – la vigente disciplina sostanziale riconosce la possibilità di accedere a talune misure alternative sin dall’inizio dell’esecuzione della pena: come, per l’appunto, i condannati per i reati elencati dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., diversi da quelli di cui all’art. 4-bis ordin. penit. (per i quali l’accesso ai benefici penitenziari è invece subordinato a specifiche stringenti condizioni). Ciò, in particolare, in relazione al rischio – specialmente accentuato nel caso di pene detentive di breve durata, peraltro indicative di solito di una minore pericolosità sociale del condannato – che la decisione del tribunale di sorveglianza intervenga dopo che il soggetto abbia ormai interamente o quasi scontato la propria pena. Eventualità, quest’ultima, purtroppo non infrequente, stante il notorio sovraccarico di lavoro che affligge la magistratura di sorveglianza, nonché il tempo necessario per la predisposizione della relazione del servizio sociale in merito all’osservazione del condannato in carcere.</em></p>